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Raffaello Uboldi – Vigliacchi perché li uccidete? 1°Parte
Firenze 22 Marzo 1944 Campo di Marte
Raffaello Uboldi
Vigliacchi perché li uccidete?
1°Parte
Uccisioni, vendette, processi; e qualche assoluzione. La vita dell’Italia occupata, nella primavera del 1944, è di continuo sconvolta da notizie, e avvenimenti, che per lo più si colorano di sangue, e dei quali non è sempre facile scoprire il filo logico.
Il 24 maggio, alla periferia di Parma, vengono fucilati i due ammiragli Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, dopo un processo che è durato appena un giorno, quello del 22, in una sala della Corte d’Appello pavesata di bandiere tricolori. Sull’ingresso è stato affisso un cartello: « Tribunale Speciale per la difesa dello Stato ». Nella sentenza di condanna non vengono tacciati di tradimento, quanto piuttosto di aver leso gli interessi del Paese, cosa che del resto evita loro soltanto la fucilazione nella schiena. e non la morte.
Tra le cose che non si capiscono bene, è perché i due ammiragli siano stati accoppiati davanti ai giudici, visto che Campioni e Mascherpa, nell’ Egeo, si sono comportati in modo diverso l’uno dall’altro. Ma la chiave per comprendere il destino dei due ammiragli è politica; così come un particolare significato politico ha avuto un altro fatto che ha colpito la coscienza pubblica poco più di un mese avanti, il 15 aprile, ovvero l’uccisione, ad opera dei GAP fiorentini, di Giovanni Gentile, presidente della ricostituita Accademia d’ Italia, e uno dei massimi teorici del fascismo italiano ed europeo. Quanto all’altro processo di quei giorni a Parma, contro l’ultimo segretario del partito nazionale fascista, Carlo Scorza, con la sentenza assolutoria che ne è uscita, è del tutto anomalo rispetto alla ferocia del tempo: per capirlo bisogna forse tener conto dell’interesse di Mussolini a che si faccia silenzio su alcune verità che lo riguardano.
Parma è la cornice dei due processi; Firenze quella della morte di Gentile. 1 gappisti studiano accuratamente gli orari del filosofo, e il 15 aprile, alle 13,30, aspettano che arrivi da Firenze in automobile, a Villa Montaldo, presso il Salviatino, dove egli dimora con la famiglia. L’auto si ferma. Mentre il guardiano apre il cancello, quattro gappisti (tre, secondo altre fonti), tra cui Bruno Fanciullacci e Antonio Ignesti, si avvicinano tenendo dei libri sotto il braccio, come studenti. Gentile, pensando che vogliano salutarlo, apre il finestrino, e quelli gli sparano addosso, eclissandosi poi in bicicletta. L’autista volta subito la macchina, e si dirige a tutta velocità all’ospedale di Careggi. Ma ogni tentativo di salvare Gentile si rivela inutile, le pallottole lo hanno colpito in pieno petto, e una al cuore. Tra i primi a vedere il filosofo in quello stato è Gaetano, uno dei figli, che presta servizio in ospedale, nel reparto chirurgico, con Valdoni. Accorre anche Benedetto, un altro figlio, che dirige la casa editrice Sansoni. Fuori dal cancello della villa rimangono dei vetri infranti per terra, e dei bossoli di pistola.
Non si saprà mai con esattezza chi erano gli altri uomini (o l’altro uomo) che stavano con
Fanciullacci e con Ignesti. E del resto la responsabilità di aver esploso i colpi che hanno raggiunto Gentile verrà attribuita al solo Fanciullacci, che arrestato una prima volta dai fascisti, liberato con un colpo di mano l’8 maggio, di nuovo arrestato il 15 luglio, e torturato, si getta ammanettato dalla finestra della « villa Triste » di via Bolognese, e muore dopo un giorno di agonia, per un colpo che gli è stato sparato contro, e per la frattura alla base cranica riportata nella caduta. Segnala a Mussolini uno dei notiziari riservati della Guardia Nazionale Repubblicana: « I funerali di Giovanni Gentile si sono svolti in una atmosfera di raccoglimento. La popolazione vi ha partecipato in massa, mantenendo però un atteggiamento del tutto riservato ». Un successivo bollettino smentisce il primo: « Ai funerali di Gentile scarso concorso di cittadinanza. Forze di servizio 720 ».
C’è molta cautela nel compianto fascista attorno a quella morte. La radio del 15 tace la notizia, se ne danno rapidi cenni l’indomani. Tace, o quasi, la Nuova Antologia, la rivista di cui Gentile aveva assunto la direzione; sì che i suoi amici all’Accademia d’Italia (Ardengo Soffici, Enrico Sacchetti, e così via) dovranno ricorrere a un’altra rivista, Italia e civiltà, per sfogarsi. Per conoscere il cordoglio di Mussolini bisognerà attendere l’uscita della Corrispondenza repubblicana. Si associa al cordoglio mussoliniano il rettore dell’ Università Cattolica, padre Agostino Gemelli.
Può darsi che i fascisti temano l’effetto terroristico di quella morte, la paura che ne deriverà agli incerti; ma c’è anche chi avanza l’ipotesi che il filosofo sia stato ucciso dagli sgherri del maggiore Carità, il torturatore fascista che imperversa a Firenze con tali atrocità che Gentile, sdegnato, ha
minacciato di denunciarlo a Mussolini.
Quanto agli antifascisti, appaiono divisi sul giudizio da darsi di quella esecuzione. « Bella impresa uccidere un povero vecchio », dice Ottone Rosai, il pittore, nella cui casa Fanciullacci trova rifugio. C’è una deplorazione di Benedetto Croce. Prima Tristano Codignola, e poi il partito d’Azione fiorentino, condannano la morte di Giovanni Gentile.
Codignola il 30 aprile, sul giornale clandestino del partito, La Libertà, scrive un articolo in cui, dopo aver ricordato « le responsabilità pesanti e inescusabili del filosofo per avere avallato, con I’ autorità della sua solida personalità di uomo di cultura, la triste collana di violenze, di persecuzioni, di inettitudine che recarono alla rovina l’Italia », ne deduce tuttavia che « non può sfuggire a nessuno l’odiosità o simile attentato contro una personalità alla quale il Paese intero avrebbe dovuto chiedere conto del suo operato, nella forma più alta e solenne », ovvero di fronte ad un regolare Tribunale
Sulla scia di Codignola il partito d’Azione fiorentino aggiunge, con un suo documento:
« D’altra parte Giovanni Gentile non aveva commesso quei delitti per cui sono venire emesse condanne popolari che sicuramente colpiscono giusto. Non era una né un delatore. Ha sempre tentato di aiutare individualmente quanti antifascisti ha potuto di qualsiasi partito essi fossero. »
I comunisti, pur precisando che l’uccisione Gentile non è stata decisa dal partito, reagiscono rivendicando la responsabilità di quel gesto difendendo l’operato dei GAP. « Se noi », rispondono a Codignola con un articolo su Azione Comunista dell’11 maggio « non avessimo conosciuto Gentile, vi assicuriamo che sarebbe bastata la lettura dei vostro articolo per approvare incondizionatamente l’azione giustiziera compiuta dai patrioti fiorentini ».
Anche Antonio Banfi approva quella morte; e così Franco Venturi, a nome degli azionisti piemontesi. In pratica, sono due opposte mentalità che si rivelano. Gli uni guardano alle qualità intellettuali di Gentile, e ai suoi interventi spiccioli per salvare questo o quell’antifascista; gli altri. vedono in lui l’uomo che ha posto la propria cultura al servizio di una dubbia ideologia, prima quella fascista nazionale e adesso quella fascista repubblicana, e che lancia ambigui appelli alla pacificazione fra -italiani attorno alla figura di Mussolini proprio nel momento in cui la rabbia avversaria si abbatte con maggiore rigore sul Paese.
Firenze, pochi giorni prima, il 22 marzo, al Campo di Marte, ha visto lo spettacolo orribile della fucilazione pubblica di cinque giovani, Attilio Raddi, Guido Targetti, Ottorino Quiti, Adriano Santoni e Leandro Corona, colpevoli soltanto di non essersi presentati alla chiamata di leva della repubblica di Salò. I cinque sono stati uccisi davanti alle reclute, e ad altri giovani in attesa di processo, per creare sgomento in chiunque dubitasse della possibilità di ripresa del fascismo.
Il Targetti, il Raddi e il Santoni sono morti subito, dopo la prima raffica. Non così il Quiti e il Corona che hanno continuato a dimenarsi, chiamando: « Mamma, mamma! ». Allora si è avvicinato il comandante del plotone d’esecuzione, capitano Ceccaroni, che ha scaricato loro addosso sei colpi di rivoltella. Ma il Quiti non è morto ancora, ed ha continuato a gridare, buttando sangue. E a questo punto è stato il maggiore Carità ad intervenire, e a dare il colpo di grazia.
Alcune reclute sono svenute. Si è udita anche una voce: « Vigliacchi, perché li uccidete? ». La scena sembra invece aver soddisfatto gli esponenti del fascismo fiorentino. La sera il maggiore Guido Loranti ha chiesto ai suoi soldati: « Beh, ragazzi, vi è piaciuto il cinematografo di stamattina? ». Di fronte a tanto cinismo, i GAP fiorentini si rifiuteranno di distinguere, nella rappresaglia, tra il fascista qualsiasi e il fascista di cultura.
Fine 1 Parte
Tratto da Storia Illustrata
La repubblica di Salò
Arnoldo Mondadori Editore
N° 200 del luglio 1974
Raffaello Uboldi – Vigliacchi perché li uccidete? 2 Parte
Raffaello Uboldi
Vigliacchi perché li uccidete?
2° Parte
Il processo a Scorza si tiene, come si è detto, a Parma quello stesso mese di aprile. Come segretario del partito nazionale fascista Carlo Scorza, il 25 luglio, assieme a Galbiati, comandante della milizia, ricopriva una carica tale da renderlo il vero difensore del regime. Ma per quanto abbia votato contro l’ordine del giorno Grandi, e abbia incitato Mussolini a un gesto di forza contro i suoi avversari, personalmente non ha fatto altro per salvare il fascismo e il suo capo anzi è il responsabile primo dell’ordine di non muoversi inviato ai federali. Sennonché Galbiati non viene nemmeno arrestato, anche se, nonostante i suoi tentativi di autodifesa dopo il Settembre 1943, in memoriali inviati a Mussolini non riceverà più incarichi nella nuova repubblica.
Quanto a Scorza viene arrestato e processato ma in questo caso è il duce che intervien personalmente, come testimonia Rahn, perché sial assolto. Secondo Rahn Mussolini è « favorevole a Scorza », e lo stima « è onesto ».
E chiaro continua Rahn, in un rapporto a Berlino, Mussolini « ha voluto l’assoluzione di Scorza l’ha anche influenzata. Per attendere la fine la del processo, e il verdetto il capo dei fascismo giunge fino al punto di rinviare un suo incontro con Hitler, che doveva servire a un esame delle esperienze dei primi mesi di governo. Non è che le ragioni dell’atteggiamento di Mussolini verso Scorza siano del tutto chiare; specie da parte dell’uomo che per altro verso non ha esitato a gettare la testa di Ciano allo squadrismo e nella storia. Ma forse non è errato supporre che Scorza, nelle ore successive alla riunione del Gran Consiglio, sia stato incaricato di una qualche ingegnosa soluzione da parte di Mussolini, magari di mendicare l’aiuto della monarchia. Meglio lasciar perdere, dunque, non rivangare troppo il passato…
Il processo agli ammiragli avrà tutt’altra dimensione, e conclusione. Inigo Campioni, governatore del Dodecaneso, è I’ uomo che l’8 settembre 1943 ha ceduto l’isola di Rodi, con una guarnigione italiana di ben 34.000 uomini, agli appena 7000 tedeschi della divisione « Rhodos », di cui molti austriaci della territoriale: un fatto davvero incredibile.
Agli inizi Campioni ha cercato di resistere, seppure in modo disorganico, senza troppa convinzione. Poi, la mattina dell’11 settembre, il comandante delle forze tedesche dell’isola, Kleeman, gli lancia un ultimatum: se entro un’ora gli italiani non si arrenderanno senza condizioni, gli Stukas, già pronti, partiranno da Creta per effettuare un bombardamento indiscriminato su Rodi. Si saprà più avanti che si tratta di un bluff. Ma Campioni cade nel tranello, i nervi gli cedono; e firma la resa, mentre i suoi soldati lo circondano tra insulti e fischi, chiamandolo « traditore », « fascista » e « filo-tedesco ». Il capitano d’artiglieria Carlo Ragni, che si è appena guadagnato una medaglia d’argento per aver distrutto una batteria nemica, allorché vede i parlamentari italiani ritornare dal comando tedesco inalberando bandiera bianca sul cofano delle automobili, estrae la pistola e spara contro la macchina dell’ammiraglio.
Caduta Rodi, la lotta continua nelle isole vicine, sotto la guida dell’ ammiraglio Luigi Mascherpa, comandante militare dell’isola di Lero. Quando gli è stato comunicato che la guarnigione di Rodi aveva deciso di arrendersi, Mascherpa ha avuto una smorfia di dubbio, e ci sono voluti parecchi telegrammi cifrati, mandatigli dal direttore delle poste di Rodi, Dante Zarli, per convincerlo della realtà. Allora il dubbio ha lasciato il posto alla preoccupazione. Mascherpa si è subito reso conto che i tedeschi, neutralizzata I’ isola maggiore, potranno spostare tutto il peso dell’attacco contro le isole minori dell’Egeo. La sola speranza di tenere Lero, ha concluso Mascherpa, sta in un massiccio intervento alleato.
Gli Alleati tuttavia, impegnati duramente su altri fronti di guerra, non potranno inviare a Lero altro che un`modesto contingente di truppe britanniche, al comando del generale di brigata Tilney. La resistenza in queste condizioni diventa un punto d’onore, senza una vera speranza di successo. E Mascherpa, per ciò che lo riguarda, difende Lero fino al 16 novembre del 1943. Il 15 i tedeschi, che sono sbarcati in forze nell’isola, con paracadutisti e guastatori, gli inviano come parlamentare un ufficiale italiano fatto prigioniero, il capitano di fanteria Chiggìni, promettendogli salva la vita se si arrende prima degli inglesi. L’ammiraglio italiano rifiuta. Si arrenderà soltanto il giorno dopo, allorché le forze di Tilney sono state sopraffatte per prime.
Anche Mascherpa durante la prigionia mostra sintomi di esitazione, dà a vedere di essere eventualmente disposto a mettersi al servizio dei tedeschi. Rimane comunque il fatto che Lero ha dato prova di polso e di coraggio; e in questa chiave ha davvero nociuto ai tedeschi, e di conseguenza al fascismo, laddove Campioni, semmai, potrebbe venire accusato del contrario, o al massimo, anche dal punto di vista di Mussolini, di colpe più lievi. E allora non si capirebbe la decisione dì portarli assieme davanti ai giudici, se non si tenesse conto che come là morte di Ciano è stata la vendetta regalata al partito, il processo ai due ammiragli è la vendetta riservata a quella parte degli ufficiali dell’esercito che si sono schierati con la repubblica e Mussolini.
Anche per questo si sono scelti due ufficiali di marina, l’arma « non fascista », quella che ha svolto nei confronti del regime una sua opposizione, che in più di una occasione si è attirata addosso l’odio del partito, e che l’8 settembre, a stragrande maggioranza, ha compiuto il proprio dovere, obbedendo agli ordini, e consegnando le navi agli Alleati.
Il dibattito al Tribunale di Parma corre via di fretta, imputati e avvocati difensori parlano tra I’ evidente disinteresse dei giudici che nemmeno si curano, come sarebbe loro dovere, di richiamare all’ordine la folla che rumoreggia, o che si abbandona a chiacchiere che disturbano l’andamento del processo. D’ altra parte tutti si rendono conto, imputati compresi, che la sentenza è già firmata, che per i due ammiragli non c’è speranza di salvezza. E la sentenza conferma, il pomeriggio stesso dei 22, le previsioni: Campioni e Mascherpa vengono condannati a morte, due vittime di più sulla strada del fascismo di Salò.
Un minimo di formalità – in ogni caso – va rispettato fino in fondo; due ammiragli presentano la domanda di grazia; trascorrendo nell’attesa la notte dei 22 e la giornata del 23.
La sera del 23 il primo a essere avvisato che domanda è stata respinta è il cappellano delle carceri di Parma, don Paolo De Vincentiis, di propria autorità decide di lasciarli riposare pace ancora qualche ora Alle 2,30 va a svegliar e i due, appena lo vedo no, capiscono subito di cosa si tratta. « Dunque ci siamo », dice calmo Mascherpa. Gli ammira gli domandano a don Paolo se possono indossare la divisa. Questi passa la richiesta al direttore delle carceri. ” la risposta è negativa dovranno vestirsi in abiti borghesi. Mascherpa chiede di poter almeno vedere un’ultima volta h moglie, che si trova in un albergo della città. E anche questa domanda si scontra con un no. La sola cosa che i due ottengono è che non si mettano loro le manette. Le ultime ore le trascorrono scrivendo lettere a parenti. Poco prima delle 5 vengono chiamati, E fatti salire su un automezzo che con una scorta di carabinieri, percorrendo le vie di una città ancora immersa nel sonno, si dirige verso il luogo dell’esecuzione. Mascherpa continua a rammaricarsi che non gli abbiano fatto vedere la moglie. Campioni tace, le sguardo fisso nel vuoto. Al poligono di tiro sono pronte per loro due sedie. Ma gli ammiragli rifiutano, preferiscono restare in piedi. La scarica li coglie al petto, freddandoli all’istante. Toccherà ancora a don Paolo di comporli in due modeste casse, che vengono subito portate a cimitero.
Raffaello Uboldi
Tratto da
Storia Illustrata
Arnoldo Mondadori Editore
Luglio 1974