Dal Falterona al Pratomagno a Badia Monte Scalari
DAL FALTERONA AL PRATOMAGNO A BADIA MONTE SCALARI
Nella tarda serata del 31 marzo Pevere, nostra staffetta, tornato da Firenze, portò l’ordine perentorio di spostarci immediatamente sul Monte Falterona.
Berto domandò: “Ti avranno detto il motivo, la località precisa ed entro quanto tempo?”
Pevere rispose che gli avevano soltanto detto: “Spostarsi immediatamente sul Monte Falterona.”
Gambero sempre allegro disse: “Sentite, io vado subito a dormire,
così non faccio commenti, domani sveglia alle cinque per iniziare lo spostamento.”
Guardammo e studiammo un po’ la carta topografica, poi ricordandoci che Ricciolo in località Foresta a 946 m di altezza aveva degli amici e parenti, lo mandammo a chiamare, e ci confermò ciò che ci ricordavamo, anzi ci propose di farci da guida, cosa che fece.
La massima altezza del Falterona è di 1564 m, ma nessuno ci aveva ordinato di andare in cima.
Insieme all’ordine che ci fu riferito da Pevere questi ci portò un nuovo compagno: Isaia Torricini, che tutti vollero soprannominare “Nonno”.
Nonno era un uomo di cinquantatré anni che il fascismo aveva perseguitato perché comunista, facendogli scontare quattordici anni di carcere e sei di confino. Nonno con la sua bronchite cronica diventò un babbo e un nonno per tutti.
La mattina del 1° aprile, con dispiacere lasciammo il nostro campo di Gattaiola per andare sul Falterona.
Procedevamo con grande lentezza, carichi come eravamo di tutto quanto necessita per organizzare un nuovo campo; oltre il peso delle armi, dei proiettili, delle bombe, degli esplosivi e delle marmitte c’era la difficoltà del terreno, i fianchi del Falterona erano rivestiti di una fitta coperta
vegetale di bosco ceduo, sovrastata da molli dossi erbosi, sul suolo soffice e ricco di giacimenti d’acqua.
Faceva un gran freddo ma noi eravamo madidi di sudore.
Grande fu il contributo dei tre muli carichi delle mitragliatrici e delle cassette di proiettili. Cecco li guidò con grande maestria.
Arrivati a Foresta ci togliemmo i pesi che avevamo addosso e ci sdraiammo supini per cinque minuti.
A tarda sera il nuovo campo era sistemato. In ventiquattr’ore avevamo realizzato l’ordine che era giunto da Firenze. Così mandammo Pevere a Firenze per informare il Comando dove avevamo stabilito il nostro campo.
Coscienti che da questa nuova sistemazione eravamo lontani dalle nostre basi di rifornimento, che da tempo avevamo organizzato, risultò evidente che dovevamo subito rifornirci nella nuova zona, anche se era più povera di quella che avevamo lasciato.
Il 4 aprile, con due squadre comandate da Bastiano, Ricciolo, Lella e da me, andammo nella frazione di S. Stefano a Petroio, nel comune di Londa, per requisire olio e agnelli. Bloccata la frazione, che già conoscevamo per precedenti perquisizioni, requisimmo circa quindici quintali di
olio e venticinque tra pecore e agnelli; distribuimmo ai contadini e agli sfollati il 70% dell’olio, poi con il 30% dell’olio e con tutti gli agnelli, caricati su tregge, facemmo ritorno al campo. Nella staccionata che avevamo fatto vicino al nostro comando mettemmo quegli agnelli che, insieme agli
altri che avevamo requisito il giorno 2 assommavano a cento.
Il giorno 4 aprile all’alba, dal campo di Foresta partì, per andare nella zona di Pomino a fare requisizioni di ovini, la seconda squadra chiamata “la squadra delle signorine” poiché, ad eccezione di pochi suoi componenti, non avevano mai partecipato ad azioni di fuoco; la comandavano Bastiano e Gigi. La seconda squadra era rafforzata dalla squadra del Distaccamento Storai, comandata da Gianni, mio omonimo, e da Boddra e Bardazzi; in questa squadra c’erano i sei polacchi. Alla stessa ora un’altra squadra, comandata da Berto e da me, rafforzata anche questa da una squadra del Distaccamento Storai, comandata da Mario e Biancone, si diresse nella zona di Dicomano, per requisire vitelli, agnelli e olio e distribuirne parte alla popolazione.
Arrivati presto sul posto, bloccammo la frazione, requisimmo tutto quanto era destinato agli ammassi, distribuimmo tutto l’olio ai contadini, sfollati e popolazione tutta e caricammo sulle tregge tre vitelli e venti agnelli per il fabbisogno della formazione; ma non tornammo al campo.
Avevamo ancora una missione da compiere, pertanto lì rimanemmo in dodici; mandammo via perché tornassero al campo con le tregge il resto degli uomini.
Ci avevano detto che nella zona di Dicomano esisteva una “organizzazione spionistica”, che faceva arrestare renitenti alla “Leva militare fascista” e presunti partigiani o collaboratori della Resistenza.
Il servizio informazioni ci aveva dato tutti i dati per poterli arrestare, giudicare e fucilare.
Giungemmo alla prima villetta che dovevamo perquisire. Dopo poco che avevamo suonato il campanello, un uomo cercò di scavalcare la finestra e darsela a gambe ma lì avevamo messo il partigiano Carcuzzi, che col suo Sten gli fece cambiare idea e così lo catturammo.
Era questi un vero irriducibile fascista, marcia su Roma, sciarpa littorio, moschettiere del duce, ufficiale della milizia, iscritto al partito fascista repubblichino, tenente delle SS con compiti riservati.
Gli altri quattro li catturammo tutti insieme in un’altra villetta, erano parenti fra di loro. Dalla perquisizione fatta nella villetta del vecchio fascista trovammo un moschetto, due pistole e documenti compromettenti, che emettevano giudizi accusatori su elementi antifascisti di Dicomano, “presunti collaboratori – diceva il documento – dei partigiani”.
Nella villetta dei quattro fu trovata una pistola e diverse fotografie.
In alcune foto di gruppo le teste di alcune persone erano circondate da un cerchietto, con un numero accanto: dietro alla foto, a quel numero corrispondeva il cognome e il nome del fotografato, con le caratteristiche di antifascista, collaboratore dei partigiani e cose del genere. Ci confessarono
che quelle foto servivano per fare l’ingrandimento della faccia, per procedere alla ricerca e cattura.
Facemmo portare il vecchio fascista catturato nella villetta di questi quattro, poi, in una stanza–studio, li interrogammo isolatamente uno alla volta; a interrogare eravamo Berto, io, Armido, Timo, mentre Carcuzzi funzionava da usciere, introducendo il prigioniero. Praticamente la loro iscrizione al partito fascista repubblichino non la poterono smentire, avendo trovato nella perquisizione le tessere, che avevano il numero progressivo bassissimo, prova questa che dimostrava che erano stati fra i primi a iscriversi al partito fascista repubblichino. Caddero in tutta una serie di contraddizioni per poi ammettere che questa attività di ricerca di antifascisti schedati l’avevano svolta in buona fede, pensando così di servire l’Italia.
Proseguimmo ancora per un po’, poi vedendo che era difficile tenere
lontano le donne di casa, che volevano difendere i propri uomini, senza argomenti
probatori, ma adducendo soltanto che erano buoni e che avevano
sempre fatto del bene, decidemmo di proseguire l’interrogatorio fuori all’aperto;
ci mettemmo perciò in marcia con i nostri cinque che procedevano
in mezzo. Giunti a una certa distanza dalla casa, sopra un cocuzzolo ci
mettemmo in cerchio con i prigionieri al centro e continuammo l’interrogatorio
per circa un’ora. Poi, vista la grande gravità dei loro atti contro il
paese in guerra contro la Germania nazista, ritenuto che la loro collaborazione
con il nemico invasore era stata provata, in virtù dei poteri che ci
consentiva la legge, chiedemmo la condanna a morte che fu da tutti accettata
e così in quello stesso luogo vennero fucilati.
A sera, quando giungemmo al campo del Falterona c’era una grande
confusione, stavano festeggiando la grande vittoria, che la “squadra delle
signorine”, comandata da Bastiano e Gigi, insieme alla squadra del Distaccamento
Storai, comandata da Gianni e Boddra e Bardazzi, avevano riportato
alla Madonna dei Fossi. Tutte e due le squadre assommavano a circa
trenta uomini ed erano armate di moschetti e di sette o otto Sten e Gigi,
che fin dalla nascita del Distaccamento era responsabile del campo, ovvero
della cucina e del pane, anche se poi il pane lo faceva Timo aiutato da
alcuni partigiani, volle andare per forza a quell’azione, rammaricandosi
che i suoi incarichi troppo spesso gli avevano impedito di andare con i
compagni.
Partiti alle tre di notte da Foresta, le due squadre scesero verso Pomino,
dove trovarono un contadino il quale li avvertì che in quel giorno e nel
precedente c’era stata una fugacissima ricognizione di fascisti, che volevano
sapere dove erano i partigiani. Gridavano come ossessi che i partigiani
erano dei vigliacchi perché si nascondevano dietro le sottane delle donne.
“La gente è molto impaurita?”, domandò Bastiano.
“È terrorizzata, perché se non gli apri le porte le sfondano, vogliono
il vin santo e si pigliano confidenze con le donne.”
Bastiano e Gigi si guardarono in volto dicendo:
“A questo punto non possiamo andare a requisire il vino e l’olio, ma
bisogna andare a dare una lezione a quegli stronzi.”
Così domandarono al contadino: “Dove saranno ora quei signori?”
“Parlavano di fare una sosta alla Madonna dei Fossi, ma ragazzi non
andate, sono tanti, cinquanta volte più di voi, hanno mitragliatrici, mortai e
hanno delle facce da far paura.”
“Meglio”, disse Bastiano, “così non potranno dire che sono stati sopraffatti
dal numero e dalle armi dei partigiani.”
La strada che insegnò a loro il contadino raggiungeva la Chiesa di S.
Maria del Carmine ai Fossi entro una stretta gola dei due monti.
Fu costruita dall’architetto Padre Franci nel 1924 ed è un’opera molto
bella e desta ammirazione in tutti gli intenditori d’arte.
La ricchezza di sorgenti e rigagnoli esistenti nella zona, fa sì che
quasi tutto il territorio di questa parrocchia sia ricoperto di una vegetazione
lussureggiante di selve, di castagni e cerri; il nome di questo borghetto
deriva da questa abbondanza d’acqua.
I fascisti stavano dalla chiesa in giù, quindi fuori dalla vista dei partigiani.
Un ufficiale stava nel mezzo della strada a gambe divaricate, proprio
nella parte scoperta sotto la linea di fuoco dei partigiani, impettito, con un
ramoscello si batteva sugli stivaloni rigidi e gridava come un ossesso:
“Veniamo noi a prendervi e vi arrostiremo in forno stasera, porci sudicioni,
voi e quelle troie delle vostre mamme!”
Qualcuno andò ad orinare sul muro della Chiesa, sghignazzando e
gridando: “Si nascondono sotto le tonache dei preti questi figli di puttana!
Venite avanti se avete coraggio.”
Un tenente andò ad orinare sulle frasche che nascondevano i partigiani
e Cecco bagnato da quell’orina, arrabbiato com’era, sembrava una
belva in gabbia.
Ora gli ufficiali andavano in su e giù su quel pezzo di strada per radunare
le proprie compagnie.
Franz il polacco che sapeva bene l’italiano, domandò piano a Bastiano
e Lella:
“Ma perché gridano tanto così?”
“Mah”, rispose Bastiano scuotendo la testa, “sarà perché hanno paura.”
“Sì”, rispose Lella, “faranno così per darsi coraggio…”
Dopo un po’ tutte le compagnie erano pronte per rimettersi in marcia,
muovendosi si fecero tutti più seri, forse capivano che i partigiani ci
potevano essere davvero.
Già marciavano, e la I Compagnia era davanti ai partigiani che aspettavano
di aprire il fuoco quando fosse in vista anche la II compagnia,
quando all’improvviso l’ufficiale in testa alla colonna gridò, indicando
con il braccio:
“Pampaloni, guardate là, i ribel…”, ma non finì neppure l’ultima parola,
un colpo secco e cadde fulminato. Il partigiano Guastatore lo aveva
freddato con un colpo di moschetto.
Dopo il primo colpo i mitra confusero la loro voce di morte, facendo
eco con una scarica improvvisa.
I fascisti della GNR cadevano colpiti uno sull’altro ancora in gruppo,
altri scappando da tutte le parti, cercavano di arrivare alla Chiesa, dietro
alla catasta di legno. Ma il fuoco partigiano batteva tutto il terreno e solo
pochissimi ci riuscirono.
Un milite che riuscì a raggiungere la catasta di legno, gridò rivolto ai
suoi camerati:
“Porca miseria, ci hanno preso proprio alla sprovvista, in mezzo alla
strada e allo scoperto.”
Tutti quelli che riuscivano a scappare si spogliavano, rimanevano in
mutande andando poi a rubare qualche indumento dai contadini.
Il terreno, la strada davanti allo schieramento partigiano era pieno di
repubblichini morti e feriti gravi.
Alcuni militi riuscirono a piazzare un fucile mitragliatore sulla catasta
di legna e un altro alla casa vicino alla chiesa e con quelli sparavano.
La sparatoria diventava ogni minuto più cruenta e destava echi profondi
da tutte le parti.
Una colonna tedesca che passava vicino alla Consuma si fermò, ma
visto che non era lei l’obiettivo del fuoco, ripartì rapida.
Gli ufficiali repubblichini non vedevano altra speranza che nei mortai.
“I mortai, piazzate i mortai”, gridò un ufficiale ai suoi uomini.
Ma nessuno ebbe il coraggio di piazzarli, le pallottole fischiavano da
tutte le parti e nessun milite volle mettere in troppo pericolo la sua pelle,
quindi l’ordine non venne eseguito.
Solo i due mitragliatori reagivano: dapprima il loro tiro era alto e faceva
cadere sul corpo dei partigiani una verde pioggia di ramettini, poi si
aggiustò pian piano e divenne sempre più preciso e le pallottole si infilavano
nei tronchi degli alberi e sollevavano la terra lungo i corpi dei partigiani
appiattiti.
Un partigiano polacco, incurante del fuoco nemico e dei reclami insistenti
dei compagni, sparava in ginocchio per vedere meglio. Ad ogni colpo
cadeva un fascista. Era un tiratore eccezionale il polacco, ma la morte
era in agguato sopra di lui.
Parecchi colpi fischiarono, alcuni lontani, altri vicino, infine venne
investito in pieno da una raffica e cadde fulminato.
I partigiani polacchi a quella vista, sembrarono impazziti e innestando
le baionette fecero per slanciarsi all’assalto delle postazioni dei mitragliatori
nemici, per vendicare il compagno.
Impresa folle che avrebbe significato la morte di tutti; infatti come
avrebbero fatto ad attraversare il terreno scoperto e battuto dal fuoco fascista,
senza cadere uno sull’altro falciati dai mitragliatori?
Bardazzi, Gigi, Bastiano, Lella, Zuppa dopo non poche fatiche riuscirono
a dissuaderli da così nobile ma temerario intento e ci riuscirono
soltanto quando fecero loro capire, che non erano consigli quelli che si davano
loro, ma ordini!
Essi allora obbedirono e continuarono a sparare, col volto più chiuso
e gli occhi più cupi.
Ed il loro compagno fu vendicato ugualmente. Il combattimento continuava
ancora: la strada ed i margini di essa erano pieni di morti e di feriti,
i repubblichini trincerati nella casa e nella Chiesa continuarono a far
fuoco.
Una parte arrivò alla Rufina senza vestiti, altri invece compresero
forse che i bei tempi erano finiti e che a fare il fascista c’era da rimetterci
la pelle, e scapparono senza far ritorno al loro Comando.
Intanto i partigiani si accorsero che le loro munizioni erano al termine,
rimanevano le bombe “pine” per snidare gli ultimi fascisti, ma il rispetto
per la Chiesa e per la casa, ove certamente vi erano dei civili, impedì ai
partigiani di tradurre in atto il loro pensiero.
Quindi, a piccoli gruppi conversero verso Cigliano e da lì ripresero
la marcia per Foresta, sul Falterona.
Al campo la IV squadra detta la “pesante”, poiché dotata di mitragliatrici
e di due mortai da 45, rimasta lassù a difesa dell’accampamento,
intesa la sparatoria, era tutta schierata pronta ad ogni evenienza.
I partigiani si abbracciarono, addolorati per la morte del compagno e
nello stesso tempo contenti per la splendida vittoria riportata: cinquantadue
fascisti erano morti, molti erano feriti e ancor di più gli sbandati.
Ancora più grande e più bella sarebbe stata la vittoria se non fosse
costata una vita ai partigiani: un combattente per la libertà, partito dal
campo, pieno di vita di volontà e di fede, vi fece ritorno morto, portato a
braccia dai suoi compagni di lotta che lo guardavano muti.
Era il primo caduto della formazione ed il dolore si leggeva sul volto
di tutti.
Arrivati al campo che era già buio trovammo i compagni, ognuno dei
quali ci voleva spiegare com’era stata fatta l’azione durante la quale erano
stati ammazzati cinquantadue repubblichini; quando dicemmo che noi in
altra località ne avevamo fucilati cinque cominciarono a gridare: cinquantasette
morti in un sol giorno. Gambero ed io dovemmo durar fatica a farli
star zitti:
“Ragazzi se fate così ci sentono a decine di chilometri di distanza, e
loro fino ad ora non sanno che siamo accampati qui. Andiamo a dormire,
siamo tutti stanchi. Domani mattina per prima cosa dobbiamo fare la cerimonia
per il compagno caduto.”
Gruppo di partigiani della Brigata Sinigaglia.
La mattina del 5 aprile facemmo schierare la squadra dei polacchi di
fronte ad una squadra italiana: nel mezzo era stato sotterrato il caduto.
Berto, Ugo, Gambero ed io tenemmo l’orazione funebre, poi furono
sparate tre salve di fucileria.
Ci commuovemmo tutti. A cerimonia finita i polacchi ci vollero ringraziare
dandoci una forte stretta di mano.
Io, invece, fui abbracciato da tutta la squadra polacca.
* * *
La mattina dell’8 aprile al campo ci fu una bella sorpresa: una sentinella
ci avvertì che il marchese Dufour Berthe e due sacerdoti erano saliti
fin lassù da noi per parlare col comando di cose urgenti.
Andammo di corsa incontro a loro, Berto ed io abbracciammo con
calore questo caro amico nostro e della Resistenza. Questi ci presentò i
due sacerdoti.
Uno era il parroco di Dicomano e l’altro il parroco di Londa.
Facemmo accomodare i tre all’ombra di un vecchio castagno e con
impazienza attendemmo che essi esponessero il motivo della loro venuta.
Il marchese Dufour Berthe e il parroco di Londa si erano offerti di
accompagnare il sacerdote di Dicomano che era portatore di pace.
Gruppo di partigiani della Brigata Sinigaglia.
E il sacerdote parlò tutto agitato e con il volto pieno di apprensione.
“Figlioli”, disse, “sono venuto fin quassù per cercare d’impedire, con
le mie povere forze, che accada una cosa tremenda. Nei pressi di Dicomano,
dei partigiani hanno arrestato dei fascisti repubblichini e niente di loro
si è più saputo. Il comando della GNR di Dicomano con il pieno consenso
dei tedeschi, ha fatto per rappresaglia arrestare diciotto pacifici cittadini e
non li rilasceranno se non quando i partigiani avranno liberato i fascisti arrestati.
Capite figlioli? Se voi non rilascerete i fascisti che avete arrestato,
essi fucileranno i diciotto ostaggi.”
Il povero parroco tremava nel dire questo e più volte si era dovuto
interrompere, perché il dolore e l’affanno per quei miseri alla mercé di
quei malvagi, gli mozzava il respiro.
Poi riprese lentamente:
“Sì figlioli vi capisco, voi volete far giustizia, ma non potete mettervi
apertamente contro di loro, ne vanno di mezzo delle vite umane che niente
hanno a che vedere con le colpe degli altri. Vi capisco, voi siete nel vostro
diritto, ma quelli là non hanno pietà e fanno presto a fucilare diciotto innocenti.”
Anche il marchese Dufour Berthe era inquieto e approvava con lenti
cenni del capo quello che il parroco diceva.
La cosa era molto delicata. Il parroco era latore di una lettera del comandante
della “Guardia Nazionale Repubblicana” di Dicomano, indirizzata
al Comando della Brigata Garibaldi “Stella Rossa”.
Malgrado la gravità della cosa, l’intestazione della lettera ci fece sorridere:
le nostre azioni compiute lo stesso giorno in più luoghi, le dimostrazioni
di forza e di capacità date a Vicchio, alla Madonna dei Fossi e altrove
avevano dato ai fascisti il modo di sopravvalutare la forza partigiana
ed essi credevano nientemeno di avere a che fare con una Brigata; invece
non si accorsero mai di subire “scacco matto” da pochi uomini soltanto,
ma ben decisi e armati di una grande fede!
La lettera in primo luogo ammoniva severamente i ribelli, dichiarandoci
“fuori legge”, banditi, postisi su una falsa e pericolosa strada e ci intimava
di lasciare al più presto le montagne sulle quali ci eravamo rifugiati,
altrimenti ci avrebbero trucidati tutti.
In secondo luogo infine, facendo leva sui sentimenti umani, dichiarava
che se i ribelli non rilasciavano immediatamente i fascisti prigionieri,
loro avrebbero fucilato i diciotto ostaggi. L’ultimatum scadeva alle ore dodici
del giorno 9 aprile.
Mentre noi del Comando prendevamo attentamente visione della lettera
e ci consultavamo per la risposta, i due poveri parroci ci guardavano
ad uno ad uno fissamente cercando di cogliere dalle nostre espressioni la
risposta alla loro missione, e forse nel loro animo imploravano Dio, affinché
ci illuminasse per salvare quelle diciotto vite, in estremo pericolo di
morte.
Non ci lasciammo intimorire dalla lettera minacciosa dei fascisti e
dato che Gambero aveva una chiara e bella calligrafia, dettammo collegialmente
la risposta, con tutto il rispetto e l’amicizia che le persone degli ambasciatori
richiedevano.
“I partigiani della Faliero Pucci (Stella Rossa) non rilasceranno nessun
fascista, in quanto degli arresti fatti nella zona di Dicomano non ne
sanno nulla. Forse gli arresti saranno stati fatti da qualche altra formazione
nell’interesse della guerra contro i traditori fascisti. In merito poi all’arresto
di diciotto cittadini da parte della GNR di Dicomano, il Comando della
Faliero Pucci (Stella Rossa) informa il Comando della GNR di Dicomano,
che se esso non rilascerà liberi i diciotto ostaggi entro le ore diciannove
del giorno in cui sarebbe stata recapitata questa nostra risposta (8/4/1944)
con l’impegno preciso di non tentare nuovi arresti e persecuzioni, i partigiani
che hanno nelle loro mani più di quaranta ostaggi fascisti fra cui ufficiali
e gerarchi, avrebbero immediatamente fucilato questi ostaggi, e sarebbero
poi scesi in Dicomano e qui avrebbero fatto piazza pulita di tutti i
fascisti e collaborazionisti ed avrebbero bruciato le loro case e i loro averi.”
Il parroco di Dicomano accolse il messaggio con fermezza, comprese
che non poteva opporsi alla nostra volontà.
Certo il suo spirito cristiano soffrì perché temeva per la vita dei diciotto
infelici, che erano affidati alla riuscita della sua generosa missione.
Berto ed io nell’accompagnare i due sacerdoti ed il marchese Dufour
Berthe fino al nostro posto di blocco, dicemmo loro a bassa voce:
“State tranquilli perché ora la missione è nelle nostre mani, se entro
le ore diciannove non rilasceranno gli ostaggi, alle ore diciannove e un minuto
andremo noi a tirarli fuori. Ora andiamo a fare il piano per attaccare
Dicomano e le sue caserme.”
I tre a quelle parole rimasero turbati e commossi e ridandoci la mano
ci dissero:
“Sapevamo in cuor nostro che non ci avreste lasciati soli, grazie!”
Quella giornata finì nel migliore dei modi. Accerchiammo Dicomano
ed i militi della GNR, comprendendo che la loro vita era in pericolo, prima
delle ore diciannove rilasciarono tutti gli ostaggi.
Facemmo ritorno felici al nostro accampamento!
Finalmente il 10 aprile attraverso Mario II (Umberto Rocchi) staffetta
della “Delegazione per le Brigate e Divisioni d’assalto Garibaldi” sapemmo
perché ci avevano fatto andare sul Monte Falterona.
Lo scopo era il seguente: andare sul crinale che determina il confine
tosco–romagnolo, entrare in Romagna e prendere contatto con Armando o
Dino, che comandavano due brigate partigiane, fondersi con quelle, per
compiere azioni più grosse sia dalla parte romagnola che da quella toscana.
Berto mi domandò che cosa ne pensavo.
Come al solito siccome con i compagni dico sempre la verità gli risposi:
“È una grossa stupidaggine, in quanto aver mandato tutte le formazioni
partigiane in un sol posto contraddice le regole di guerriglia e favorisce
i tedeschi che possono concentrare le loro forze su un unico obiettivo.”
* * *
Come tutti sanno, la Resistenza, in ogni sua fase, seguì i contraccolpi
della guerra combattuta sul fronte: difatti ad una situazione di immobilismo
del fronte corrispose sempre l’accentuarsi dei rastrellamenti e delle
persecuzioni nazifasciste.
L’avanzata del fronte alleato, invece, contribuendo allo sfaldamento
dell’organizzazione repubblichina e all’impiego di tutte le truppe tedesche
contro il fronte angloamericano, facilitava lo sviluppo delle azioni partigiane.
Nel marzo–aprile 1944, la situazione sul fronte di guerra si era quasi
stabilizzata.
Nel sud, gli angloamericani logoravano i loro effettivi, cozzando
contro la linea tedesca, che faceva perno su Cassino.
La primavera era alle porte e quindi le formazioni partigiane si preparavano
per un’offensiva contro i tedeschi, allo scopo di facilitare una
probabile offensiva angloamericana.
Fu in quei primi giorni di aprile che dal “centro” di Firenze, venne la
disposizione di prepararsi per prendere accordi con i partigiani romagnoli,
allo scopo di creare, sul confine tosco–emiliano, grosse formazioni partigiane,
che avrebbero potuto vibrare colpi più efficaci contro i reparti nazifascisti.
In previsione di ciò, in quei giorni noi del Distaccamento Faliero
Pucci intensificammo le azioni di requisizione di prodotti agricoli (grano,
olio, vino) non solo per evitare che fossero consegnati agli ammassi nazifascisti,
ma per distribuirli alla popolazione affamata e anche per provvedere
al sostentamento della formazione.
Fu così che il 10 e 11 aprile una squadra di partigiani, al comando di
Gambero e mio, col Nonno, Pipone, Professore, Cecco, Bob, Milano ed altri,
con un paio di muli, operò una serie di requisizioni nella zona di Stia,
verso Vallucciole.
Il 12 le requisizioni, soprattutto di grano, continuarono in tutta la zona.
Vallucciole, frazione del comune di Stia, è un piccolo borgo nell’alto
Casentino, in provincia di Arezzo. È formata da alcuni casolari siti un
poco più in alto della strada che da Stia conduce a Lonnano e quindi a Firenze
attraverso l’Appennino, strada di cui fino a tutto l’inverno 1943–44,
i tedeschi non si erano mai serviti.
Con l’inizio della primavera però, a seguito della crescente pressione
aerea angloamericana, il comando tedesco aveva deciso e attuato il dirottamento
di una parte del suo traffico motorizzato proprio su quella strada,
che si presentava più sicura e tranquilla.
In quei giorni di requisizione, noi partigiani non avevamo mai trovato
né visto nessun tedesco e nessun repubblichino.
Nel pomeriggio del 12 aprile, dopo che due nostri partigiani avevano
caricato sul mulo un sacco di farina del grano fatto macinare dal mugnaio
di Molin del Bucchio, località che si trova proprio sotto Vallucciole,
un’automobile “Balilla” civile, blu scuro, con a bordo diverse persone,
percorse il tratto di strada che da Vallucciole conduce al mulino.
Data la distanza e i vetri chiusi, i partigiani rimasti nel bosco, a protezione
dei due compagni in missione al mulino, non riuscirono a vedere
chi erano gli occupanti della macchina.
D’altro canto, neppure le persone che si trovavano a bordo dell’auto
avevano visto i due partigiani col mulo dirigersi dall’uscita posteriore del
mulino verso il basso bosco.
La macchina si fermò al mulino, ove rimase una decina di minuti in
sosta nello spiazzo, coperto alla vista dei partigiani.
Trascorso questo tempo, la vettura ritornò sulla strada, soffermandosi
un po’ ai margini, senza che nessuno scendesse, come se aspettasse
qualcuno.
Bob, inviato al vicino mulino per chiedere informazioni su quanto
stesse succedendo, ritornò dicendo che una persona, uscita dal mulino, gli
aveva detto che a bordo di quella macchina c’erano dei signori con una
donna, che abbisognava di un intervento urgente di una ostetrica.
Dopo alcuni minuti, dal momento in cui Bob era tornato per darci
questa notizia, l’auto, che non avevamo mai cessato di controllare visivamente,
ritornò al mulino.
Fu a questo punto, che tenuto conto che avevamo altri sacchi di grano
da macinare, Gambero, Nonno ed io decidemmo di non perdere altro
tempo e quindi vederci chiaro.
Così, mentre noi rimanemmo nel basso bosco in attesa di intervenire,
il gruppetto che rimase sulla strada, dopo una curva coperta dalla vegetazione,
si trovò di fronte all’auto, alla quale fu intimato l’alt, con l’intenzione
di controllare i documenti degli occupanti, e per imporre il loro silenzio
su quanto avevano visto.
All’intimazione l’auto si fermò di colpo e i tre uomini, scesi fulmineamente
a terra, da dietro gli sportelli aperti della macchina, aprirono il
fuoco con armi automatiche.
La precipitazione con cui effettuarono tutte queste manovre: frenata,
aprire gli sportelli, gettarsi di fianco all’auto, sparare, fece sì che il loro
tiro non fosse preciso, tanto è vero che i loro colpi passarono sopra la testa
dei nostri partigiani, questi risposero immediatamente con i loro Sten e fucili
colpendo i tre scesi dall’auto.
Due di essi crivellati di colpi morirono subito, il terzo per quanto ferito,
si gettò nella macchia vicina e nonostante alcuni dei nostri partigiani
si gettassero all’inseguimento, seguendo le tracce di sangue, non riuscirono
a trovarlo, forse perché riuscì a salire su un automezzo di passaggio.
Le tracce di sangue, sul terreno del bosco e sulla strada rotabile cessavano
improvvisamente.
Sull’auto non c’era, e non c’era mai stata nessuna donna.
Trovammo tre grosse casse piene di bombe a mano che occupavano
molto spazio e impedivano la presenza a bordo a più di tre persone.
Se eravamo rimasti un po’ sorpresi da quella sparatoria che avremmo
volentieri evitato in quel luogo vicino all’abitato, fummo ancor più stupefatti
di fronte ai due morti. Erano questi due atletici giovanotti, biondi, vestiti
come due ex prigionieri inglesi o americani, forse per dare l’impressione
di essere fuggiti a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943
dai campi di prigionia.
I pantaloni, i giubbotti, gli scarponi e le camicie, erano del tutto simili
a quelli degli alleati ex prigionieri di guerra.
I nostri compagni Pipone, Cecco e Bob, un po’ perplessi e preoccupati,
cominciarono a perquisire quei due corpi inerti.
Nelle tasche dei giubbotti trovarono dei mazzetti di “am–lire”. Fu
quella la prima volta che vedemmo quelle monete, fatte stampare dagli angloamericani
nelle zone del sud Italia, già liberate.
“Mio Dio!”, disse Milano. “Ci siamo uccisi tra noi. Erano degli alleati.”
“Ma che alleati”, dicemmo Gambero ed io, mettendoci a perquisire
con molta attenzione i due defunti; nelle tasche posteriori dei pantaloni
trovammo due piccole tessere di riconoscimento individuali, con fotografie
corrispondente ad ognuno di essi. Questi risultavano essere due tenenti
delle SS germaniche; una velina scritta a macchina, bilingue (tedesco e italiano),
regolarmente firmata e timbrata da un comando germanico, era
contenuta in ognuna delle tessere: in essa si precisava che i due ufficiali si
trovavano in missione speciale per il servizio informazioni e che ogni reparto
o Comando tedesco o italiano, doveva porsi a loro disposizione per
quanto poteva loro occorrere.
La tasca interna del giubbotto di uno di questi morti, conteneva una
carta topografica a 25.000 ripiegata accuratamente. Quando venne aperta,
a causa dei colpi di Sten che l’avevano trapassata, essa presentò diversi
fori che formavano un disegno geometrico.
Gambero, Nonno ed io, appena data una prima occhiata, sobbalzammo:
su di essa era praticamente tracciato un completo piano di rastrellamento.
Dalla carta topografica si potevano localizzare con esattezza (visto
come era stata messa in evidenza la nostra) tutte le posizioni occupate dalle
formazioni partigiane, sia al di qua che al di là del versante appenninico
tosco–romagnolo che si trovavano già rinchiuse in un cerchio di ferro e di
fuoco.
Tutti i passi montani, fino al più piccolo sentiero erano bloccati: così
erano i ponti, i quadrivi, le strade, i sentieri.
Tutte le posizioni occupate dai partigiani erano sottolineate con inchiostro
rosso, con inchiostro blu erano segnati: panzer, SS germaniche,
paras, mortai, cannoni, carri armati, autoblinde, Divisione H. Goering,
Battaglione Muti, SS italiane e GNR.
Sette direttrici di marcia colpivano i punti più nevralgici dello schieramento
partigiano: da ognuna di queste, altre più piccole si irradiavano
nelle zone ove i partigiani presumibilmente si sarebbero ritirati…
Dagli appunti stesi dietro la carta si comprendeva bene che in quel
rastrellamento sarebbero stati impiegati novemilacinquecento uomini, decine
e decine di mezzi blindati e cingolati, tre cicogne (le cicogne erano
aerei da ricognizione).
Resa inservibile l’auto, scaricati i due quintali di farina che donammo
alla gente del luogo, caricate sui muli le casse delle bombe e delle pallottole
calibro 9, con Gambero e me alla testa dei nostri ragazzi, ci rimettemmo
in cammino attraversando più paesi possibili per consigliare la
gente a lasciare le case.
Una donna mi disse:
“Ma se lasciamo le case quei maledetti le bruciano.”
“Se ci rimanete dentro bruciano la casa insieme a voi!”
Camminammo tutta la notte sotto un vento gelido.
Quando arrivammo al campo erano le dieci del mattino: anche le
squadre comandate da Ugo insieme a Bastiano, Lella, Lupo, Ricciolo,
Topo e Cacino per la Faliero Pucci e da Ferri per lo Storai, avevano fatto
ritorno dalla loro missione, che era quella di raggiungere a 1296 m il Passo
della Calla, vero e proprio confine con la Romagna e da qui portarsi a
Ridracoli, piccolo gruppo di case oltre il Passo della Calla, in territorio romagnolo.
Secondo gli ordini del comando della delegazione toscana per le
Brigate d’assalto Garibaldi, dovevamo prendere contatto con i partigiani
romagnoli, per concordare con quei compagni la fusione dei distaccamenti
garibaldini per dare vita ad una grossa brigata, capace di operare sia di
qua, che di là dell’Appennino tosco–romagnolo, capace insomma di operare
sul territorio della “Linea Gotica”.
Marciando nella foresta di Campigna, tra la neve, nonostante la primavera
inoltrata, verso le ore diciannove e trenta, arrivarono nei pressi del
Passo della Calla: era già buio.
A duecento metri dalla Caserma della Forestale, trovarono una casa
cantoniera semi–diroccata e di lì spiarono il passo montano, che stranamente
era contornato da piccole luci.
Bastiano andò avanti per vedere di che cosa si trattava.
Vide l’albergo tutto illuminato e diverse persone che sembravano
soldati che si muovevano nel buio attorno all’albergo, proprio sul “passo
da attraversare”. Tornò subito a riferire.
Ugo e Ferri chiamarono Cacino che pur essendo un sedicenne, dimostrava
due anni di meno; gli domandarono se era disposto ad andare da
solo, disarmato a vedere di che cosa si trattava, se insomma si poteva valicare
il passo montano.
Cacino accettò seriamente l’incarico, gli fecero lasciare le armi, gli
tolsero qualsiasi oggetto di origine militare e gli dissero:
“Se ti fermano i tedeschi devi dire soltanto che ti sei smarrito, non
conoscendo bene la zona, perché sei con la mamma, sfollato dalla città
presso un contadino, ti sei trovato qui col buio e hai tanta fame.”
Il tempo sembrava non trascorrere mai, però Cacino, in verità fu assai
svelto: difatti dopo circa quarantacinque–cinquanta minuti lo sentirono
arrivare da un’altra parte, rispetto a quella di partenza.
Sottovoce Cacino pregò i compagni di non far rumore perché l’albergo
era pieno di tedeschi e fuori, sul passo montano, erano piazzate svariate
mitragliatrici e mortai, mentre pattuglie tedesche giravano intorno.
Ugo e Ferri, compresa l’impossibilità di superare il passo montano
dettero l’ordine di rimettersi in marcia in silenzio, per far ritorno al campo.
Dopo un paio d’ore di marcia si fermarono per riposarsi, e ripartire all’alba.
Solo allora Cacino raccontò come si erano comportati i tedeschi nei
suoi confronti:
“Quando sono arrivato davanti all’albergo, sono andato diritto alla
porta d’ingresso, un tedesco mi ha fatto un cenno di fermarmi e mi ha rivolto
molte domande in italiano masticato. L’albergo era pieno di tedeschi
armati fino ai denti. Mi hanno domandato chi ero, da dove venivo, se avevo
veduto qualcuno nei dintorni e cose del genere. Ho raccontato la storiella
che mi avete insegnato voi e loro mi hanno dato due fette di pane
nero spalmate di burro rancido. Poi mi hanno insegnato la strada per raggiungere
quel gruppo di case che ho inventato e che ci doveva essere davvero.
Andai in quella direzione perché ero certo che mi sorvegliavano, poi
dopo una deviazione, passando attraverso zone coperte dalla vegetazione,
sono ritornato da voi.”
* * *
Alle ore dieci del mattino tutti erano tornati al campo, così facemmo
dare l’allarme per mettere una difesa e preparare psicologicamente tutti i
nostri compagni.
Contemporaneamente facemmo la riunione del Comando per informarlo
delle grosse novità.
Mentre noi discutevamo sul da farsi Gigi ricopiò tutti i dati fornitici
in quella particolare occasione al Molin del Bucchio sulla nostra carta topografica
e la carta originale la inviammo, per mezzo della nostra staffetta
Pevere, al Comando della Delegazione Regionale d’assalto Garibaldi a Firenze,
nella speranza che da Firenze potessero avvisare tutte le formazioni
partigiane della regione toscana e della regione romagnola, che si trovavano
in pericolo.
La riunione del Comando continuò a discutere per trovare il modo di
uscire da quella trappola mortale senza lasciarci le penne.
Il Distaccamento Faliero Pucci in quel momento contava centocinque
uomini, il Distaccamento Storai sessantacinque.
Il compagno Ferri, Comandante Militare dello Storai, propose di attaccare
uno di quei passi presidiati dal nemico e passare oltre, ma prevalse
il parere, condiviso da tutti i dirigenti del Distaccamento Faliero Pucci, di
ritirarsi, di non impegnarsi in combattimento, far perdere le tracce, entrare
e passare nelle zone già rastrellate, camminare notte e giorno per portarsi
al di là della zona da rastrellare, tentare di attraversare la Sieve facendo un
lungo giro a ferro di cavallo, in modo da portarsi alle spalle delle colonne
dei rastrellatori provenienti da Londa.
Sulla questione ormai evidente per tutti noi dirigenti che qualcosa
non aveva funzionato a Firenze, dato che quarantaquattro ore dopo il nostro
spostamento a Foresta, reparti germanici in perlustrazione avevano
sulle cartine fornite dai loro comandi dati precisi che i partigiani erano anche
a Foresta, decidemmo di discutere la questione dopo che si fosse usciti
fuori dal rastrellamento. Ugo da questo fatto rimase molto colpito e non
volle neanche pensare che il partito a Firenze avesse delle colpe in merito
e mi voleva convincere di ciò. Ricordo che gli dissi:
“Ugo siamo troppo amici e troppo legati nella lotta per non poter
dire come la penso; il partito e l’organizzazione del partito non è qualcosa
di soprannaturale che sta in cielo, il partito non è Dio, che non sbaglia
mai; il partito è fatto di uomini e l’uomo può sbagliare, può venir meno
alla disciplina rivoluzionaria, può venir meno a qualche regola cospirativa,
può farsi sfuggire, anche in buona fede, una notizia; può usare un anello
debole di una lunga e forte catena, anello debole che il nemico può utilizzare.
Nell’organizzazione potrebbe esserci una talpa, non si sa mai; se le
località segnate su quella carta sono vere anche per le Formazioni romagnole,
allora la talpa o l’anello debole non è a Firenze, ma addirittura a livello
interregionale, però sono d’accordo con te di non parlarne ora, anche
se tanti pensieri di questa natura passano per la testa. In ogni modo può essere
nel partito come nel CLN interregionale: che ne sappiamo noi da
dove è partito l’ordine e quanti passaggi da un uomo all’altro ha fatto?
Una cosa rimane certa: la questione è sospetta ed un giorno dovremo chiarirla.
Ora bisogna battere il nemico, bisogna studiare il modo di fregare i
fascisti e i nazisti, salvare i due distaccamenti partigiani e ogni singolo uomo.”
Ugo mi dette la mano con tacita intesa. E fu proprio in quel momento
che l’attacco nazifascista in tutta la zona da rastrellare ebbe inizio: i paesi,
le frazioni, i boschi, tutta la macchia fu devastata da un crepitio di mitragliatrici,
un tonfare continuo di colpi di cannone e di mortaio, mentre colonne
di fiamme e di fumo si levavano un po’ ovunque, si sentiva un tremendo
puzzo di bruciato. Dalla Consuma mezzi meccanizzati e cingolati
avanzavano su precise direttrici di marcia, accompagnate nel bosco da ingenti
colonne di fanteria e da reparti di lanciafiamme.
Ugo e Berto chiamarono a rapporto tutti i comandanti militari e commissari
politici dei due distaccamenti.
“Compagni”, disse Berto, “la zona è stata circondata e le forze nemiche
sono preponderanti. Rimanere qui vuol dire la morte per tutti; poiché
con i cannoni, con i mortai, e i mezzi blindati, con le loro armi insomma, i
tedeschi ci possono distruggere tutti comodamente, il nostro intento è di
andare sul Monte Giovi, dove abbiamo già delle basi pronte, fornite di vettovaglie
e preparate politicamente, e dove si possono portare in salvo i distaccamenti
garibaldini, tutti gli uomini, le armi e tutto il potenziale bellico.”
Dovevamo in primo luogo servirci delle nostre capacità ed esperienze,
del nostro comune coraggio, della nostra dura autodisciplina, del nostro
spirito di sacrificio, di tutti i nostri occhi, delle nostre orecchie e anche
e soprattutto della collaborazione dei nostri più fidi collaboratori, i
contadini, camminando per le vie più inaccessibili ed impervie dei boschi
o addirittura nei corsi d’acqua, che in quel periodo erano abbastanza generosi.
All’alba nostri esploratori inviati ad osservare i movimenti del nemico
rientrarono informando che carri armati stavano aggirando tutta la
zona; autoblinde, automezzi cingolati e motorizzati, reparti di fanteria con
mortai e lanciafiamme brulicavano un po’ ovunque, circondavano ogni
piccolo cocuzzolo, pronti ad aprire il fuoco e bruciare tutto, a frugare dappertutto.
Rimanere accerchiati su una piccola grande posizione, su qualche
poggio, voleva dire la distruzione completa; fu chiaro per tutti che bisognava
precedere ovunque i tedeschi, per riuscire poi a passare in una zona
già rastrellata. Bisognava sgusciare fuori da quel ferreo cerchio passando
fra qualche maglia più debole; in pratica bisognava osservare i movimenti
dei nazisti, senza farsi mai vedere, non perdere mai il controllo di noi stessi,
far ragionare sempre il cervello, far appello all’intelligenza di tutti per
rispondere positivamente ad ogni situazione nuova; bisognava non dimenticare
mai la grande sproporzione delle forze che si fronteggiavano: da un
lato potenti forze esperte, agguerrite, dotate di tutti i mezzi della guerra
moderna, con rifornimenti continui di munizioni e vettovagliamenti, rifornimenti
radio, ricognizione aerea e dall’altro un esiguo gruppo di uomini
male armati, con munizioni che sarebbero bastate tutt’al più per un’ora di
fuoco, armati del loro coraggio e della loro fede nella libertà e nella democrazia.
Scopo di noi partigiani in quella situazione era quella di salvare i
due distaccamenti garibaldini, con tutto il materiale bellico, non per fuggire
di fronte al nemico, non per codardia, ma per essere in grado in un prossimo
futuro di attaccarlo vantaggiosamente e fargli ripagare, con tutti gli
interessi, quello che stava facendo ora.
Così quel mattino del 14 aprile 1944, appena ritornati gli esploratori,
iniziammo di nuovo la nostra marcia attraverso il terreno più impervio. I
tedeschi avevano già aperto il fuoco, le cicogne volavano in cielo alla ricerca
dei reparti partigiani. L’ordine fin da quel momento fu di utilizzare
al massimo i borri; entrare e scendere dentro i borri, con l’acqua alle ginocchia
era un buon metodo per star fuori dal tiro delle armi avversarie e
occultarsi di fronte al nemico in movimento e in osservazione, con i suoi
strumenti ottici e con le sue cicogne. Infatti il borro è sempre ineguale, coperto
da fitta vegetazione, ma anche per quella strada prendemmo delle
precauzioni: entrare all’inizio del borro e uscire prima della fine del borro
stesso e prima di certi punti obbligati perché proprio in quei posti poteva
esserci il nemico ad aspettarci. D’altra parte da quel giorno ponemmo
sempre grande attenzione a non stroncare nessuna frasca perché quella
stroncata lì o portata giù in basso dall’acqua poteva divenire fonte d’individuazione
da parte delle pattuglie nemiche. Così, mentre lentamente si
andava avanti nell’acqua, che appesantiva i nostri passi, pensavo a Molin
del Bucchio, a Vallucciole: “Che cosa sarà successo ieri, nel primo giorno
del rastrellamento? La gente sarà stata lontana dalle case?”
Praticamente, come sapemmo qualche settimana dopo, le cose erano
andate così: noi, il 12 aprile sulla strada, sulla tarda sera lasciammo Molin
del Bucchio, dopo aver avvisato tutti di scappare dalle case perché sarebbero
arrivate le SS tedesche e avrebbero ucciso tutti. Passammo anche da
Vallucciole, Sorelli e altre piccole frazioni, dicendo a tutti di scappare. Ebbene,
dopo un paio d’ore che noi s’era andati via, a Molin del Bucchio arrivarono
i tedeschi, presero i loro morti, bruciarono l’auto, poi salirono a
Sorelli e alle prime case di Vallucciole dissero a tutti che il giorno dopo,
ossia il 13 aprile, ci sarebbe stato l’attacco tedesco contro i partigiani, ma
gli abitanti di Vallucciole potevano star tranquilli in casa perché a loro non
sarebbe successo nulla. Rassicurati, gli abitanti rimasero tutti nelle loro case.
La mattina del 13 aprile, all’inizio del grande rastrellamento, con
l’impiego della divisione Hermann Goering, appositamente distolta da
giorni dal fronte, Vallucciole venne invasa dai nazisti: catturarono tutti,
bruciarono le case e ammazzarono donne e bambini e tutti quelli che trovarono.
Gli uomini furono costretti a portare pesanti cassette di munizioni
sulle spalle; chi non ce la faceva più veniva gettato a terra con una spinta e
ucciso con un colpo di pistola. A tutti quegli uomini fecero trasportare le
munizioni fino sul Falterona e ad ogni casa che incontravano la scena si ripeteva:
uccidevano donne e bambini, risparmiando gli uomini che dovevano
portare le munizioni e bruciavano le case.
A sera gli uomini che non erano stati ancora uccisi vennero portati al
giuncheto, carichi di tutto ciò che i tedeschi avevano saccheggiato nelle
case prima di bruciarle, e qui vennero massacrati uno ad uno. Dal numero
si salvarono solo quattro o cinque, che riuscirono a fuggire. A Vallucciole
la carneficina si concluse con centootto persone uccise, di cui sedici bambini,
quarantasei donne, quarantasei uomini, una cinquantina di case bruciate;
quasi tutto il bestiame e quanto fu trovato nelle case asportato, macerie
fumanti, cadaveri di bambini, di vecchie, di donne giovani e di uomini,
testimoniavano la furia bestiale dell’ordine nuovo di Hitler e di Mussolini.
Stragi saranno fatte anche a Partina, Moscaio, Nonnano, Pratiriccia.
I repubblichini, di tutto questo, furono più che contenti perché speravano
che il movimento partigiano venisse finalmente debellato e che le
popolazioni attribuissero le responsabilità degli eccidi ai partigiani e andarono
in giro spargendo la voce che se a Molin del Bucchio non fossero stati
uccisi i due tedeschi non ci sarebbero state le stragi di Partina, di Vallucciole,
di Moscaio e di Nonnano. Ma cosa c’entrano queste località con
Molin del Bucchio? La verità è che gli eccidi sarebbero stati compiuti comunque
perché facevano parte di quel piano di rastrellamento stabilito
dall’alto e descritto su quella carta topografica. Dell’opinione che l’incidente
successo a Molin del Bucchio non c’entri niente con queste stragi
operate dai nazisti è il generale Raffaello Sacconi, nella sua opera “Partigiani
in Casentino e Val di Chiana”, in Quaderni dell’Istituto Storico Regionale
Toscano, n°2, La Nuova Italia, anno 1975.
Sempre quel 13 aprile 1944, primo giorno del rastrellamento del Falterona,
il distaccamento garibaldino Checcucci, che con noi era stato all’azione
di Vicchio, e che al comando di Romeo Fibbi si trovava sul Falterona
per le nostre stesse ragioni, doveva congiungersi con quelli della Romagna.
La formazione venne a contatto con i tedeschi ed ebbe due feriti e
sette partigiani caddero prigionieri dei tedeschi.
I sette prigionieri, fra i quali i due fratelli Papini, furono portati dai
nazisti in quel viottolo piuttosto grande, che si trovava fra il rifugio del
Caie e Pian delle Fontanelle e lì furono fucilati.
Il partigiano Pancino, fu uno dei primi a cadere colpito da svariati
proiettili e così tutti gli altri gli caddero addosso; dopo svariate ore Pancino
si riebbe, non era morto e, rimasto sotto agli altri, non aveva avuto il
colpo di grazia. Grondante di sangue da cinque ferite si trascinò fin nei
pressi di una casa di contadini e implorò aiuto; il contadino e la moglie di
questi gli dettero i primi aiuti medicandogli alla meglio le ferite, lo nascosero
in una specie di caverna nel bosco, ove andarono a curarlo e a portargli
da mangiare. Così Pancino col tempo guarì e ritornò nella lotta partigiana.
Ritornando ora al mattino del 14 aprile, quando noi, dopo ventiquattr’ore
di marcia e due o tre di riposo c’eravamo rimessi in cammino, nella
speranza di aprirci uno spiraglio sul Passo del Muraglione, ci sembrava
che i tedeschi da lì fossero avanzati nei boschi e quindi poteva darsi che
lungo il passo fossero rimaste poche forze, essendo la zona ormai rastrellata.
Andammo per tentativi, da qualche parte dovevamo vedere se si erano
create le condizioni più favorevoli per noi. Così, mentre in fila indiana,
con piccoli nuclei in avanguardia e in retroguardia, arrivammo fradici di
sudore nei pressi del Muraglione, a quota 907 m, lo rasentammo audacemente
lì, dove sotto la protezione di forti capisaldi tedeschi, collegati da
reparti mobili, fervevano i lavori della Todt. Berto, Nick, Timo ed io eravamo
avanti a tutti per osservare più da vicino e per vedere se c’era qualcosa
da fare per noi; a un certo punto il viottolo che percorrevamo si biforcava
in due viottoli più piccoli, uno andava a sinistra e uno a destra. Nick
e Timo presero cautamente il viottolo a sinistra, Berto ed io quello a destra.
Avanzammo senza fare nessun rumore; il viottolo faceva una stretta
curva a sinistra, appena superata trovammo improvvisamente davanti a noi
un largo spiazzo sterrato e polveroso e due uomini, un ufficiale e un maresciallo
dell’Hermann Goering, riconoscibili per il fatto che sopra i polsini
della giacca avevano scritto per esteso il nome e il cognome di detta divisione;
stavano armeggiando ad un trespolo metallico, sul quale, sopra, c’era
un osservatorio da campo. Sia noi che loro rimanemmo un attimo fermi,
guardandoci negli occhi; il nostro cervello ci diceva velocemente che non
potevamo sparare né potevamo fare sparare a loro: il rumore degli spari
avrebbe dato l’allarme e i nostri due distaccamenti garibaldini sarebbero
stati annientati dalla stragrande forza presente in quella zona. Mi lanciai a
mani nude sull’ufficiale e prima che aprisse la fondina e tirasse fuori la pistola
gli torsi il polso della mano destra, così come in più di dieci anni di
lotta greco–romana avevo imparato a casa di mio cugino Cesare, che era
un campione di questo sport.
Per quanto facesse forza, l’ufficiale, dolorante al polso destro, non
riuscì a prendere la pistola e allora con la sinistra tentò di accecarmi; con
la mano destra riuscii a togliermi quella mano dal viso, allora lui mi afferrò
il collo per soffocarmi: era quello che volevo, in quelle condizioni potevo
resistere per qualche secondo e così, preso con la destra il mio pugnale
che tenevo dietro la vita, glielo infilai sotto il cuore, dal basso verso l’alto;
velocemente lo risfilai e lo colpii ancora. Mi cascò addosso in un lago di
sangue, lo spinsi a terra e accorsi come una belva sul maresciallo germanico
che lottava con Berto, che era riuscito a non fargli usare la machine–pistol;
lo colpii in pieno petto dal basso all’alto; sentii il suo sangue appiccicoso
inondarmi tutta la mano e calarmi dal polso fino al gomito: in quel
momento compresi che noi non eravamo preparati a questo; anche se ci
trovavamo in quella tempesta di morte e di odio non eravamo preparati a
dare così la morte.
I due tedeschi erano morti, allora Berto ed io, presili per i piedi, li
trascinammo nella zona coperta, da dove eravamo venuti. Nel frattempo
arrivarono Nick e Timo che se li caricarono addosso e li buttarono in una
grossa buca nel bosco; lì buttammo anche l’osservatorio, pietre e frasche.
Li avrebbero trovati, sì, ma non subito e questo ci bastava. A Nick e Timo,
terminato l’occultamento, dicemmo di non dire nulla ai compagni: “Sai”,
disse Berto, “potrebbero impressionarsi, pensare che ora verrebbero subito
ad attaccarci i tedeschi. No, è meglio non dire nulla, allontanarsi al più
presto da questa zona.”
Così tornammo in testa alla colonna dei partigiani che ci aspettavano
fermi a circa 300 m e che, coperti dalla vegetazione, non avevano visto
niente. Ci rimettemmo in marcia passando alla destra di S. Godenzo, poi
scendemmo a sud e passammo nei pressi di Onda e di Petrella; di qui, con
una deviazione a sud ovest passammo nei pressi di Casale; ancora a sud
ovest e fummo al Colle di Prato al Vinco, a 777 m e più ancora a sud ovest
giungemmo a Rupino. Da qui andammo a sud e ci portammo a Monte Domini,
tenendoci sempre nel coperto della vegetazione, perché c’era in volo
la cicogna; poi ci accorgemmo che quella cicogna lanciava volantini sui
paesi, frazioni, casolari di campagna, alcuni caddero anche su di noi; li
prendemmo e così potemmo leggere:
“Attenzione! Per mantenere la sicurezza del paese, per la protezione
della popolazione civile e per evitare contromisure più severe il Comando
Supremo germanico comunica: premi fino a £ 5000 e 5 kg di sale per ogni
segnalazione che renda possibile il sequestro di un deposito o di un rifornimento
aereo di armi, di esplosivi oppure la cattura di un ribelle; fino a £
10.000 e 10 kg di sale per la segnalazione di un importante deposito o rifornimento
aereo di armi o esplosivi oppure di capobanda o, in altri casi
particolari, fino a 1.000 £ e 1 kg di sale per ognuna altra utile segnalazione
di ribelli, armi nascoste, rifornimenti, ecc.”
Il volantino ci mise di buon umore perché fece ridere tutti: “Ragazzi,
siamo cresciuti di valore. Fino ad oggi davano 1.000 £. e 1 kg di sale per
ognuno di noi, ora 5.000 £ e 5 kg di sale: se continua così si costa un patrimonio!”
Noi politici, tenendo conto che quel volantino poteva anche impressionare,
spiegammo un po’ a tutti che anche quello dimostrava l’impotenza
del nemico che nel mondo contadino non riusciva a trovare nessun confidente,
alzava le quote per vedere se qualcuno cedeva, ma era un tentativo
inutile, i contadini erano tutti con noi, il loro fronte unitario non sarebbe
stato sconfitto: quei volantini li avrebbero offesi più che mai.
Poco dopo Monte Domini però gli esploratori, inviati verso sud ovest
ad osservare il terreno e i movimenti del nemico, informarono che le forze
naziste avevano bloccato ogni possibilità di passare la Sieve in quella zona
osservata.
Nel comando ci consultammo velocemente e decidemmo una mossa
piuttosto audace: puntare a sud ovest su Petroio, a 744 m, ove una strada
comunale malagevole porta, dopo 4 km, a Londa, dalla quale la mattina
era partita la colonna nemica per cercarci nelle zone vicine.
Da Petroio andammo ancora più a sud e fummo a Caiano, alla destra
di Londa; da qui, più a sud e fummo nei pressi di Vierle, ai cui piedi scorre
il fosso di Bucigna. Dentro il fosso di Bucigna ci fermammo quindici
minuti in attesa degli esploratori inviati avanti a vedere come si presentava
la situazione. Ero stanco morto, si era camminato ad una velocità che ha
del temerario, tenendo poi conto che ognuno di noi addosso aveva un carico
di non meno di 25–30 kg. C’è da considerare poi che noi del comando,
è vero, sì che marciavamo in testa alla colonna, ma continuamente, almeno
Berto io e Gambero, andavamo in su e in giù, dalla testa della colonna fino
alla fine della colonna, per rincuorare i compagni, aiutare i più deboli, fare
coraggio, dire una battuta di spirito: così mi sembrava di aver fatto per due
volte tutto il percorso, mi sentivo i muscoli delle cosce dolere maledettamente
e quella sosta di quindici minuti mi dava noia alle gambe.
Nella mia testa c’era sempre l’episodio di quella mattina: quell’episodio
mi aveva scosso.
Avrei preferito morire piuttosto che uccidere così: le mie mani avevano
spento due vite, il loro sangue era ancora incrostato sulle mie braccia.
Non è come quando si spara: tutto diverso. Avevo la responsabilità di
tante vite ed avevo dovuto agire di conseguenza; il ragionamento diveniva
in quelle circostanze molto freddo, in relazione ad obiettivi che pesavano
al di sopra di noi e ci conducevano ad una soluzione: uccidere con ogni
mezzo. Nonostante ciò, ero profondamente turbato e scosso, la guerra era
il contrario della vita e la condizione del soldato, del partigiano, del combattente
che uccideva un altro uomo avevo sempre pensato che fosse la
cosa più innaturale. Eppure noi che volevamo una società più grande, più
bella, dove l’uomo fosse libero, felice, nel rispetto di se stesso e dei suoi
simili, eravamo lì per libera scelta, con le nostre mani adatte a creare e a
costruire, dovendo utilizzarle per uccidere altri esseri.
I quindici minuti erano trascorsi, i nostri esploratori erano tornati dicendoci
che la via era libera. Feci forza su di me:
“Avanti”, dissi, “Gianni, vai a fare il tuo dovere, il cervello deve essere
sgombro, pronto ad affrontare i problemi che si porranno dinanzi a
noi.”
Decidemmo di andare ad ovest di Vierle fino a trovare la nostra vecchia
Petrognano. Quando fummo all’altezza di Petrognano, mi trovavo a
circa metà della colonna ad ispezionare i miei compagni di lotta, Zuppa
che portava una pesante cassetta di munizioni per i nostri due mortai mi
disse:
“Gianni, qui c’è gente che prega per noi.”
“Lo so Zuppa”, dissi, “ed è proprio per l’affetto, la stima e l’amore
che quelle suore e bambini hanno per noi che dobbiamo farcela a tutti i costi.
Sarà per noi una grande gioia tornare a Petrognano, portare viveri e caramelle
a quei bambini.”
Più in fondo alla colonna trovai Esse, non ancora rimessosi del tutto
dalla ferita al petto, che camminava pesantemente, stanco, facendo coraggio
agli altri:
“Forza ragazzi”, disse quando mi vide, “bisogna camminare. Gianni,
Berto, Ugo e Gambero ci hanno portati sempre alla vittoria, ce la faremo
anche questa volta.” Quando fui vicino mi disse piano, piano: “Gianni, sei
stanco morto, si vede da come cammini: come fai a farcela ad andare in su
e in giù?” “Non lo so neanche io! So solo che resistere vuol dire non arrendersi
e farla in barba a quei maiali.”
In fondo alla colonna Sergente, con il suo bipiede, sempre allegro e
sorridente chiudeva la lunga fila:
“Gianni”, mi disse, “quando saremo liberi e la guerra sarà finita, si
va a ballare insieme, conosco due ragazze che sono una cannonata!”
“Tu fissa l’appuntamento e io ci vengo”, risposi.
Intanto si era oltrepassata la Rufina e si era già entrati nel territorio
comunale di Pontassieve; allora affrettai il passo e corsi verso la testa della
colonna in marcia. Erano quasi le ventidue del 14 aprile quando arrivammo
alla Pievecchia, a 4 km da Pontassieve, località ove la strada comunale
costeggia la Sieve. A mezzanotte Timo non era ancora ritornato, allora inviammo
Gambero, privo di qualsiasi arma, col suo abito civile di velluto
marrone e per scusa una bottiglia d’olio in mano, dicendogli che se fra due
ore non fosse tornato noi saremmo andati via.
Passarono due ore e neanche Gambero tornò; aspettammo un’altra
ora e né Timo né Gambero fecero ritorno.
Mentre eravamo lì che aspettavamo, Ricciolo si avvicinò a noi del
Comando per comunicarci che lui e altri sei compagni e cioè Martino,
Boero, Carcuzzi, Bacicalupo, Pipone e Nando di Pontassieve non ce la facevano
più a seguire le peregrinazioni della Formazione, stanchi morti com’erano
e pertanto chiedevano il permesso di rimanere nascosti nella
zona, per tentare in un secondo tempo di raggiungere Monte Giovi. Forse
anche il non ritorno di Timo e Gambero li aveva impressionati sfavorevolmente.
I sette, dopo svariati giorni e varie vicissitudini, passarono la Sieve e
raggiunsero Monte Giovi. Quando Bruschi e Potente organizzarono la Brigata
Lanciotto essi ritornarono su a combattere: Ricciolo divenne comandante
militare di distaccamento e anche tutti gli altri ebbero incarichi militari
nella nuova Formazione Lanciotto.
Sempre mentre eravamo lì ad aspettare Timo e Gambero fummo raggiunti
da due compagni del gruppo Lanciotto e cioè da Ivan e Pietrino, che
era il Commissario Politico; con loro concordammo che, se era possibile
passare su Monte Giovi, anche il gruppo Lanciotto avrebbe tentato di arrivare
sul Pratomagno, per poi andare su Monte Morello.
Ritornando al fatto che noi eravamo lì alla Pievecchia ad aspettare
Timo e Gambero, persa ormai la speranza del ritorno dei due compagni, di
comune accordo Berto, Ugo, Ferri, Bardazzi ed io inviammo in perlustrazione
piccole pattuglie di partigiani, che a stento riuscirono a far ritorno,
per riferire che tutta la zona era piena di tedeschi e repubblichini.
Pattuglie mobili perlustravano dappertutto, mentre nei punti strategici
erano state piazzate mitragliatrici e mortai: sembrava quasi che i nemici
avessero indovinato le nostre mosse, e le misure prese in quella zona impedivano
uno spostamento verso Monte Giovi.
A queste notizie una rabbia potente ci invase tutti: certo Timo e
Gambero erano stati catturati, oppure impossibilitati a far ritorno; una sola
cosa era chiara: i due distaccamenti garibaldini non potevano più dirigersi
verso Monte Giovi perché non solo non sarebbero arrivati ai suoi piedi,
ma non sarebbero nemmeno arrivati al Ponte dello Spalletti. Bisognava
quindi mutare tattica, spostarsi in altra zona.
Tenendo conto della reale situazione in cui ci eravamo venuti a trovare,
Berto, Ugo, io, Ferri e Bardazzi prendemmo sul posto una grave decisione,
quella di alleggerire gli uomini, per renderli il più possibile sempre
più adatti a spostamenti sempre più rapidi; così i muli e quasi tutte le
pesanti scorte dei viveri vennero consegnate ai contadini più vicini della
Pievecchia; nei singoli tascapani, nelle tasche dei calzoni e delle giacche
di ogni partigiano vennero suddivise tutte le munizioni e i mezzi a disposizione
per il sabotaggio. Non rimase così posto che per qualche pacchetto
di medicazioni; i due mortai e relative casse di munizioni, le due mitragliatrici
pesanti, rivoltate tutte in teli da tenda furono sotterrati e quando la
tempesta fosse finita saremmo ritornati a riprenderle.
Separarsi dai muli e dai generi di vettovagliamento fu una decisione
necessaria, ma preoccupante: sarebbero riusciti circa centosettanta uomini
impiegati in una lotta senza quartiere, quasi privi di vettovagliamenti, a
raggiungere le posizioni prestabilite? D’altra parte il vettovagliamento che
c’era rimasto e che consegnammo ai contadini era la farina che Gambero,
Nonno ed io avevamo requisito nella zona di Stia–Vallucciole e quindi,
dato che non eravamo nelle condizioni di fermarci in nessuna casa contadina
per fare il pane, che cosa ce la portavamo dietro a fare?
Dalle case contadine dovevamo star lontani per non coinvolgerli nei
nostri guai e per non metterli nelle mani di tedeschi e fascisti. Studiando
ancora una volta la carta topografica, copia di quella presa ai nazisti, decidemmo
nel Comando di aggirare i reparti germanici provenienti dalla
Consuma e, con qualche stratagemma, attraversare il passo stesso: era necessario
uscire a tutti i costi da quell’accerchiamento e raggiungere una
posizione sicura per riorganizzarsi e riprendere le azioni di guerriglia in
difesa della nostra patria.
Per realizzare ciò ci ponemmo l’obiettivo di fare una deviazione e
raggiungere Montemignaio e da Montemignaio il Pratomagno; le deviazioni
erano necessarie per evitare le postazioni nemiche che su quella carta
erano segnate. Allungavamo di molto la strada, ma facendo così in quei
giorni avevamo sempre scansato il nemico. Mentre eravamo lì per dare
l’ordine di mettersi in marcia arrivò come per miracolo Bastiano con tutta
la sua squadra.
Bastiano, come si ricorderà, era partito dal campo di Foresta per andare
a Borselli, poco prima dell’alba di quel 13 aprile ’44 e il grande attacco
del rastrellamento lo aveva colto per strada; aveva vagato giorno e notte
per i boschi, evitando i tedeschi e cercando noi; poi pensando che noi
avremmo tentato di tornare sul Monte Giovi era passato dalla Pievecchia e
lì ci aveva trovato.
Quando mi abbracciò sentii che il suo viso era fradicio di lacrime che
si unirono alle mie: che strane reazioni fa la contentezza e la felicità! Erano
tutti incolumi, li abbracciai uno per uno: avevamo suppergiù la stessa
età, ma era come se fossero tutti miei figli, miei allievi nell’ora politica
che vedevo crescere di preparazione giorno per giorno.
Era l’alba del 15 aprile; in fila indiana come sempre, con una pattuglia
di tre in avanguardia e un’altra di tre in retroguardia ci rimettemmo in
cammino. Quel tragitto diveniva immensamente lungo, perché dovevamo
fare diverse deviazioni per scansare postazioni fisse di armi pesanti piazzate
e di reparti mobili che si muovevano a raggiera su certi territori. Così
era tutto un rigirare a destra e a sinistra e a distanza di sicurezza dalle zone
pericolose; era tutto un allungare il percorso nonostante gli uomini fossero
stanchi, assonnati, affamati, ma era necessario: una grande mobilità era la
nostra salvezza.
Se il nemico non cambiava di molto il piano prestabilito su quella
carta topografica noi ce l’avremmo fatta ancora a scansarlo, a non farci agganciare.
Stavamo per fare un vero e proprio arco: si saliva al nord, e si riscendeva
a sud. Il fatto è che la colonna Hermann Goering, su una delle
sue sette direttrici di marcia stava proprio fra noi e Montemignaio, già rastrellato
fin dal primo giorno; quindi noi dovevamo oltrepassare quella colonna,
portarci al di là della medesima e questo lo potevamo fare oltre il
Passo della Consuma, perché quella colonna veniva e partiva proprio dalla
Consuma e andava giù a sud. Così dovevamo salire su, facendo un arco fin
sopra il Passo della Consuma, tenendo per tutto il tratto, fino alla Consuma
stessa, quella colonna germanica alla nostra destra; poi, passato il Passo
della Consuma, calare giù con la colonna germanica sulla nostra sinistra
ed arrivare diritti su Montemignaio ormai rastrellato.
Da quella situazione potevamo uscire a condizione di non darci un
attimo di riposo, sostenendo una mobilità permanente; non potevamo dare
retta né alla stanchezza, né alla fame né alla sete né al sonno. Certo quando
saremmo arrivati nei pressi della Consuma bisognava davvero inventare
qualcosa perché il Passo era più che sorvegliato e difeso e bisognava
passare di lì.
A Berto e a me, che amavamo tanto il teatro, stava nascendo in testa
una certa idea, pericolosa, ma, se eseguita bene e con un po’ di fortuna, sarebbe
riuscita.
Berto ed io eravamo affiatati in tutto e per tutto e non si può dire a
chi fosse venuta quell’idea per primo. Spesso pensavamo le stesse cose e
insieme ci intendevamo su tutto; così, come dicevo più avanti, quella mattina
del 15 aprile, due giorni dopo l’attacco nemico, dalla Pievecchia puntammo
su Diacceto. Passato su un fianco Diacceto puntammo a nordest,
andammo a passare fra Falgano e Bavecchia, poi sempre a nordest passammo
fra Torremozza e Molinaccio, poi tutto a est sul monte Fontefresca,
853 m di quota. Da qui, sempre ad est, passammo alla destra di La
Cava, poi a sudest puntammo sul Gualdo, a 900 m, rimanente a nord del
Passo della Consuma.
Le forze dei nostri compagni partigiani erano finite: alla stanchezza
si aggiungeva la fame e la mancanza di sonno, in quei giorni di sfrenata
marcia non si era mangiato quasi nulla, non s’era potuto cuocere niente,
non si era quasi dormito. Ci si era portati dietro due saccapani di marron
secchi, facemmo la distribuzione e ce ne toccarono cinque a testa.
Camminavamo soltanto per forza di volontà. Berto, Gigi, Ugo, Nonno,
Ferri, Bardazzi ed io andavamo in su e in giù lungo la colonna partigiana,
facendo coraggio ai più deboli e cercando di tenere alto il morale:
“Forza ragazzi, tra poco arriveremo! Qui non ci sono i tedeschi, è
una zona già rastrellata, potremo riposarci e mangiare, ma coraggio, avanti!”
Ma ormai quasi più nessuno era capace di andare avanti, la fatica accumulata
nei giorni precedenti si faceva sentire ora tutta insieme; qualcuno
ogni tanto, tra i più deboli, tra i più malati o comunque gracili di costituzione,
chiedeva di rimanere lì e proseguire dopo. Dovemmo essere inflessibili:
“Bisogna andare avanti, compagno, se ti fermi qui, se tenti di fare un
colpo di testa cadi nelle loro mani e ti fucilano.”
E per aiutarli un poco gli levavamo un peso di dosso e gli davamo un
po’ di coraggio, ma anche noi eravamo sfiniti. Berto aveva ogni tanto delle
fitte lancinanti all’appendice che gli toglievano il respiro, Rino aveva le
scarpe sfondate e in quei giorni aveva camminato quasi scalzo, le sue
piante dei piedi sanguinavano ed erano tutte una piaga; Vladimiro gli aveva
fasciato i piedi con delle bende, ma queste erano ormai fradice di sangue;
anch’io non ne potevo più, non sapevo io stesso come facevo a trovare
la forza di andare avanti.
Ogni tanto qualcuno cadeva esausto, bisognava fermarsi e riprendere
un po’ di fiato. Vladimiro, come infermiere, aveva molto da fare ed assolveva
il suo compito con molta abnegazione, coraggio e affetto; proseguimmo
sempre: la lunga fila, come un lungo serpente continuava sempre il suo
cammino, anche se tutti erano stremati.
I più deboli di fede, i più giovani avviliti dalla stanchezza e dalla
fame, dalla mancanza di sonno, dagli ostacoli troppo duri a superarsi con
gli sforzi naturali, consegnate, con qualche scusa, le armi ai compagni si
allontanarono per raggiungere la città, la famiglia, forse la morte. Ma ebbero
fortuna, in un secondo tempo tornarono in montagna e furono dei
buoni partigiani. Gli altri proseguirono.
Ci avvicinammo piano piano al Passo della Consuma: era buio pesto,
la luna era coperta e favoriva il nostro piano. Berto ed io facemmo mettere
tutti i partigiani tre per tre e due file esterne di partigiani armati di Sten,
Bren e bombe a mano; il primo e l’ultimo nella fila interna armati di Sten:
se ci fosse andata male avremmo avuto così un rettangolo di fuoco terribile,
che doveva muoversi come un reparto dell’antica Roma, cioè compatto,
facendo fuoco dai quattro lati.
Fuori dalla fila il polacco dette gli ordini che conosceva in tedesco,
alla perfezione; doveva comandare il reparto ad altissima voce, in tedesco,
come se comandasse un reparto germanico; i partigiani dovevano battere il
tacco a quelle parole che lui spiegò. Quando tutto fu pronto, a passo di
marcia, con lo pseudo–comandante tedesco che urlava gli ordini, attraversammo
il Passo della Consuma, marciando come un reparto tedesco, passando
fra dei carri armati fermi e tedeschi che parlavano fra loro. Superato
il Passo, ed anche la Consuma e, ripresa la vecchia fila indiana, puntammo
a sudest di questa ed arrivammo a Poggio Bombari, a 1048 m. Praticamente
camminavamo dietro la colonna tedesca partita dal Passo della Consuma,
una delle sette colonne per la precisione, perciò camminavamo, a distanza
di tempo, in una zona da loro già rastrellata: loro ci cercavano davanti
e noi gli camminavamo dietro.
Già da alcune ore, tenuto conto della stanchezza di tutti, si era deciso
di dare dieci minuti di riposo ogni cinquanta minuti di cammino. Bob,
Esse ed io che non potevamo star fermi per dieci minuti perché il vento
freddo della notte ci ghiacciava i muscoli delle cosce, facendoci venire i
crampi, continuavamo a camminare. Camminavamo piano per non allontanarci
troppo dai compagni, ma camminavamo. Durante i cinquanta minuti
di marcia venivamo raggiunti. A Poggio Bombari scendemmo tutto a sud
passando per la Madonna delle Calle e scendemmo su Montemignaio: avevamo
fatto tutto l’arco stabilito e tutto era andato bene. Era buio come
l’inchiostro, salimmo un po’ il monte, ma non trovammo nessun pianoro;
per non ruzzolare di sotto ci mettemmo sdraiati traverso grossi alberi e
messe le sentinelle ci addormentammo, stanchi morti e assonnati come
non mai: in quei tre giorni si era dormito soltanto pochissime ore. Ma si
vede che non avevamo fatto ancora abbastanza per sganciarci dalle forze
nemiche: queste sempre impegnate alla caccia dei partigiani, che per giorni
e giorni avevano tenute in scacco, non erano troppo lontane. Non ci eravamo
ancora riposati per un paio d’ore quando un fuoco di mitragliatrici,
di fucileria e di colpi di mortaio ci svegliò improvvisamente: non lontano
da noi sembrava si combattesse ed era il 16 aprile 1944.
Era già giorno e ci rendemmo conto della nostra posizione: eravamo
quasi allo scoperto nei pressi di un paesino, altri colpi seguirono i primi,
allora salimmo più in alto e assistemmo impotenti ad una sparatoria ben
concentrata da parte di militi della GNR e del battaglione Muti contro una
piccola Formazione partigiana. La sparatoria si svolgeva a poco più di 2
km in linea d’aria da noi, dall’altra parte del fiume e l’assalto proditorio di
reparti repubblichini contro il rifugio di Secchieta.
Vedevamo ad occhio nudo gli uomini manovranti sotto il fuoco nemico,
si vedeva circa ad un quinto della grandezza naturale. Uscirono rapidi
dal piccolo rifugio, s’appostarono sulla neve piuttosto alta e aprirono il
fuoco, ma il terreno era sfavorevole perché scoperto e accidentato. La mitraglia
nemica ne raggiungeva molti via via che sortivano, i mortai non
centravano ancora il rifugio, ma lo smantellavano colpo colpo; dalle nuove
brecce i partigiani assediati risposero fino all’ultima pallottola, proteggendo
la sortita degli altri, ma non riuscirono a sfuggire all’accerchiamento.
Il fuoco cessò, qualche garibaldino superstite riuscì a buttarsi giù per
la valle trasportando a braccia i feriti; noi assistemmo alla fulminea aggressione
senza poter soccorrere in alcun modo l’infelice gruppo che si era
difeso con tanto onore fino all’esaurimento delle munizioni.
Una squadra fu inviata in soccorso dei feriti; i primi a voler partecipare
alla spedizione di soccorso furono proprio i nostri due ancora convalescenti
per le ferite riportate il mese prima, in azioni guidate dal tenente
Gino Volpi e cioè Esse e Valerio, detto Colombina bianca. È proprio vero
che niente al mondo affratella gli uomini come la conoscenza del dolore;
la squadra trovò lo stesso tenente Volpi ferito ad una gamba, che, strisciando,
era riuscito a salvarsi; così lo portarono da noi. Il tenente Volpi, il
comandante di quella formazione, fu messo al sicuro, così come gli altri
superstiti.
Si arrivò così, di comune accordo, alla decisione: noi della Faliero
Pucci ci saremmo diretti sul Pratomagno, mentre il Distaccamento Storai
sarebbe tornato indietro. Tutto questo avrebbe impegnato maggiormente i
nemici.
Si considerò appunto che questa divisione di forze, che si dirigevano
verso punti opposti, avrebbe ancor più disorientato i nazifascisti nella loro
caccia di questo nemico inafferrabile, che si dileguava e riappariva nei
punti più impensati.
Intanto tutte quelle forze nemiche impegnate nella nostra caccia non
erano più sul fronte di guerra. Il Distaccamento garibaldino Storai se ne
andò con Ferri e Bardazzi in testa, noi rimanemmo lì in attesa di Ugo e
Zio, che erano andati a cercare del pane.
Subito utilizzammo quel tempo per parlare a tutti i partigiani; tutti
erano così stanchi e affamati da non desiderare altro che rimanere lì, anche
se ciò avesse significato la morte. Dovemmo durare molta fatica per convincerli
che non potevano restare: quello non era il posto che credevamo
ormai rastrellato.
Era un posto poco adatto a sganciarsi e sottoposto anche a nuovi rastrellamenti.
Era la prima volta che la nostra valutazione era stata contraddetta
dalla realtà.
Pensai che questi avvenimenti avrebbero ridimensionato molto le nostre
figure di infallibili comandanti, così come loro avevano sempre detto
di noi. Era, però, bene che loro ci conoscessero per quello che eravamo,
uomini con molti difetti e qualche pregio, le sopravvalutazioni sono sempre
negative perché portano a delusioni piuttosto dolorose.
“Coraggio ragazzi”, dicemmo, “bisogna arrivare a Pratomagno; si
tratta di marciare ancora, forse anche senza mangiare: non sappiamo se
Zio e Ugo riusciranno a portarci qualcosa. Bisogna che la Formazione così
com’è ora esca viva da questa prova e dobbiamo essere noi a farla vivere.
Sul Pratomagno saremo finalmente fuori dal cerchio nemico e così potremo
far ripagare ai tedeschi e fascisti le sofferenze inflitteci.”
Mario Foschiani e Zdenko Stambuk della “carrozza”, il comitato direttivo
in carcere mi dicevano:
“Se tu vuoi puoi far tutto.”
“Ebbene, voglio camminare più degli altri e meglio degli altri, vediamo
se Zdenko e Mario hanno ragione; piuttosto vediamo di non commettere
errori, la vita di questi giovani è nelle nostre mani.”
Erano le sedici e trenta del pomeriggio, quando giunse di corsa il
partigiano Bologna, che aveva preso il suo nome di battaglia dalla sua città
natale, che, affannato e con il cuore in gola, si avvicinò a Berto e a me:
“Sono stato in giro nella zona, nel paesino di Focarnasso, che si trova
al di là della rotabile, di fronte a Montemignaio, o meglio a sud di Montemignaio,
a 694 m di quota: ebbene, qui su Montemignaio, i tedeschi e la
GNR hanno cominciato a salire da tre lati e fra poco arriveranno anche
qui; a Focarnasso non ci sono né fascisti né tedeschi. Di lì, stamattina,
sono solo transitati e non si sono fermati.”
Berto ed io avremmo voluto rimproverare l’audace e indisciplinato
partigiano, ma non era quello il momento e di scatto demmo l’ordine:
“Forza ragazzi, in marcia! Bologna, con noi due, in testa. Se ci riesce
attraversare questi due paesetti di Montemignaio siamo a cavallo. Di corsa,
ragazzi, ne va della vita! Ci riposeremo dopo.”
Tutti si precipitarono, dietro a noi, a corsa pazza, e in un baleno fummo
al primo paese, la via era libera; una donna che ci vide, impaurita, ci
venne incontro:
“Attenti, figlioli, per l’amor di Dio, i tedeschi son vicini! Sono tanti,
con camion e carri armati.”
Ma nessuno l’ascoltò, tutti, di corsa, le passarono avanti, mentre ci
guardava disperata.
Attraversammo di corsa anche il secondo paese: dove la prendevamo
tutta quella forza? Penso che solo la volontà e la fede che ci animavano
poterono fare quel miracolo. Di corsa arrivammo alla rotabile, l’attraversammo
e risalimmo dall’altra parte della strada del monte, giusto in tempo
per vedere arrivare tedeschi e fascisti che, con un grosso spiegamento di
forze, attaccarono Montemignaio anche da quella parte, dove ormai non
c’era più nessuno.
Berto ed io, sorridenti e felici, ci abbracciammo: le forze tedesche e
repubblichine venivano impegnate e malgrado tutto il Distaccamento garibaldino
era ancora in piedi.
A questo punto mi preme fare un chiarimento, non per fare una polemica,
ma per far trionfare la verità.
A pagina 123 del libro di testimonianze, avente per titolo “I compagni
di Firenze – Memorie della Resistenza”, Quaderni dell’Istituto Gramsci,
1984, Ugo Corsi scrive:
“Fu in quel momento che la Formazione si scisse, temendo di non essere
sganciata dal rastrellamento. Ferri riprese i suoi uomini, quelli che rimanevano
e partì, mentre quelli rimasti si sganciarono subito da quel poggio
e si incamminarono verso Bagni di Cetica.”
Dire e scrivere questo è come dire che noi non ci interessassimo della
sorte dei nostri due compagni Ugo e Zio; questo non solo non è assolutamente
vero, ma non è nemmeno corretto. Noi aspettammo tutta la mattina,
poi, solo alle ore sedici e trentacinque lasciammo quella posizione per
un vero miracolo, grazie all’avviso di Bologna.
Nonostante ciò, una volta traversata la rotabile e saliti sul monte per
portarci vicino a Focarnasso, mettemmo due partigiani nascosti vicino alla
rotabile per aspettare Ugo e Zio, per farli venire dalla nostra parte, per non
mandarli sul Montemignaio. Aspettammo fino alle ore diciotto, poi demmo
l’ordine di mettersi in marcia: ci dispiacque farlo, ma era necessario.
D’altro lato noi pensammo:
“Ugo e Zio sono in abiti borghesi, disarmati, con documenti falsi,
quindi si possono far passare per sfollati.”
Il Distaccamento partigiano era un’altra cosa e veniva per primo.
In ogni modo, della mia versione qui riportata ho cinquantacinque testimonianze,
di tutti i componenti il Distaccamento in forze in quel momento.
Della versione di Ugo non c’è nessun testimone.
Da Focarnasso ci dirigemmo a sud, di qui passammo vicino a Croce
di Balza, Casa al Vento e Buca di Troella; Rino aveva i piedi che avevano
ricominciato a sanguinare. Così una lunga fila di uomini, sotto il peso delle
armi e dei saccapani pieni di munizioni camminava ancora trascinando i
piedi come forzati alla catena. Camminavamo, camminavamo, sempre ancora
camminavamo; la lunga fila si spezzettava in tanti piccoli serpentelli
e si ricomponeva, si fermava un attimo e si rinnovava in quella marcia che
sembrava non avere mai fine. Tutti avevano una fame spaventosa; il Professore,
un partigiano chiamato così per riconoscimento alla sua laurea in
Lettere, mangiò il dentifricio che aveva nel suo saccapane. Gigi, calmo,
calmo aveva una speciale abilità nel trovare dell’erba commestibile, che
mangiava con accanimento e che, a giudicare dal suo continuo masticare,
doveva essere saporosa; oppure la ragione più valida doveva essere la
fame che tormentava lo stomaco di tutti. Tutto veniva mangiato pur di
mettere fine ai crampi che dilaniavano lo stomaco, anche le foglie degli alberi;
ad ogni ruscello che trovavamo bevevamo a sazietà e ci riempivamo
le borracce.
La fame era spaventosa. Nonno, per quanto vecchio resisteva con la
forza di un giovane, rivolgeva agli altri parole di coraggio. Cristo, un giovane
partigiano biondo, chiamato così per la sua strana somiglianza col
Nazareno, cercava di tenere allegri i compagni con arguzie e motti di spirito;
anche Bob faceva coraggio agli altri, benché non avesse più forza
neanche lui.
Un improvviso scroscio d’acqua ci costrinse a gruppetti sotto i teli da
tenda distesi con le mani, ma in quel fradicio, che ormai veniva da tutte le
parti, era cosa inutile rimanere fermi. Si riprese la marcia decisi a scollinare;
dalla cresta del poggio scorgemmo non lontano una fittissima palina:
forse c’era piovuto là dentro. Prima che ci fossimo entrati tutti, lo Slavo
lanciò il suo solito:
“Li vedo, li vedo!”
Spesso quello che vedeva, anziché tedeschi e repubblichini, erano
pecore, muli, vacche, asini: questa volta due uomini nel crepuscolo, si distinguevano
appena; erano lontanissimi, ma sembravano avvicinarsi. La
nostra gioia era al colmo: Ugo e lo Zio, per i quali stavamo in pensiero,
rientrarono; nei pressi di Montemignaio, avevano ordinato cinquanta pani
per la sera, ma la situazione era precipitata e Bologna, con la sua insubordinazione,
ci aveva salvato dall’accerchiamento. Addio pane!
Riprendemmo il cammino per Pratomagno; poco prima di mezzanotte,
nei pressi del varco di Reggello passammo vicino ad un grande capannone
abbandonato, a non molta distanza da una strada a noi ignota; i fari
di qualche macchina spingevano una luce smorta fino alla capanna; in
qualche casa lontana si intravedeva qua e là un po’ di luce. Ugo e lo Zio
avevano avuto indicazioni, sulla direzione da noi presa, da dei contadini;
poi a distanza erano riusciti a vederci mentre scollinavamo. Al tramonto ci
avevano raggiunto: chissà se le nostre tracce erano state sufficientemente
sperdute in queste ultime due ore di marcia. Alcuni, che non si fidavano a
dormire nel capannone, si buttarono giù fra i cespugli; ripartimmo prima
delle quattro del 17 aprile ’44, oltrepassammo il varco di Reggello, Poggio
Tre Confini, l’Uomo di Sasso, il Varco di Castra, Poggio del Lupo, Varco
alla Vetrice, dove trovammo tanta neve, poi Varco di Castelfranco, 1516
m, pieno di neve e tra la neve andammo avanti su per Monte Pianellaccio a
1593 m e da qui, sempre tra la neve che ci arrivava ai polpacci, arrivammo
alla croce di Pratomagno, 1591 m. Avevamo vinto: finalmente eravamo
riusciti a venir fuori dalla zona di rastrellamento, ora potevamo riposarci e
riorganizzarci. Un mare di neve e di pioggia ci impediva di vedere l’immensa
vallata sottostante, poi, come d’incanto, venne il sole e così si poté
assistere alla perfetta manovra svolta contro le vie di comunicazione e i
mezzi di trasporto dall’aviazione alleata: un treno carico di munizioni, sorvolato
da apparecchi alleati tra i sibili e gli scoppi scomparve nel fumo di
vapori accesi.
Man mano che le principali vie venivano paralizzate, il transito si intensificava
sulle secondarie, sugli innesti, sui raccordi. Ugo, Berto, Rino
ed io ci trovammo subito d’accordo: noi avremmo potuto svolgere un potente
sabotaggio su quei tronchi di strada; eppure in quel 17 aprile ’44, la
furia nazista e fascista nella zona del rastrellamento non era cessata: a Stia
infatti vennero fucilati diciassette partigiani delle Formazioni romagnole,
catturati nella valle del Loia, Monte Falterona. A seguito del rastrellamento
dell’Hermann Goering, il 18 aprile le SS germaniche cattureranno a
Lonnano i tre fratelli Luigi, Nello e Gino Spighi e li uccideranno a Prato
delle Cogne. Sul Falterona e in tutta la zona del rastrellamento si muore
ancora, così quel 17 aprile, arrivati al crocione di Pratomagno, mandammo
una squadra di partigiani a vedere giù, quasi a picco sotto il crocione, che
situazione esisteva a Rocca Ricciarda, 957 m di quota. La squadra entrò in
questo agglomerato di casupole: dapprima sembrò tutto deserto, gli abitanti,
tagliati fuori dal mondo, si erano impauriti scorgendo i nostri uomini armati,
trascurati e trasandati da fare spavento, ma poi, riconosciuti dal fazzoletto
rosso che portavano, accolsero tutti la Formazione con uno scroscio
di applausi e con tanta affettuosa cordialità, che meriterebbero davvero
un riconoscimento ufficiale.
Il loro maggiore, per non dire unico, sostentamento era rappresentato
dalla farina dolce; dapprima credevo che fosse la gran fame, ma poi non ci
furono dubbi: in nessun posto avevo gustato una simile ghiottoneria, sembrava
cioccolata!
Quelle genti si dimostrarono insuperabili davvero; non solo ci furono
convogli e convogli di polenta dolce a profusione, ma misero, gli abitanti
di Rocca Ricciarda, a nostra disposizione tutto quanto avevano, ci aiutarono
a raggiungere i seccatoi di marroni, visto che proprio eravamo decisi a
non dormire nelle loro case. Ci trattarono come figli.
Ci trattenemmo una settimana.
Con nostra sorpresa venne a trovarci Mario II, staffetta della Delegazione,
che ci portò l’ordine di raggiungere Monte Scalari, dove c’era già
una piccola formazione e dove occorreva organizzare una brigata partigiana.
Il 23 aprile ci mettemmo in cammino per Monte Scalari, ci faceva da
guida un compagno che abitava nella zona del monte.
Appena fummo nella zona provai un senso di delusione. La zona, col
suo raggruppamento di colline, apparve subito poco adatta alla costituzione
e alla permanenza di un’unità partigiana di oltre cinquecento uomini.
L’altezza delle colline variava da 589 a 787 m ed erano perciò molto
basse.
Le colline erano dotate di una rete stradale che giungeva quasi alla
cima dei diversi colli, e quindi agile per mezzi motorizzati e cingolati; tenendo
conto anche delle fitte nebbie presenti nella zona, la mattina con il
levar del sole, il nemico poteva salir su con facilità.
Una fitta rete di mulattiere, sentieri e treggiaie attraversava in ogni
senso i vari poggi.
A causa di molti borri situati vicini alle strade, questi potevano occultare
il nemico che sarebbe potuto salire su per attaccarci.
Se le strade che arrivavano in alto costituivano un pericolo grosso
per un eventuale attacco dei mezzi blindati e cingolati, quelle più in basso
ci chiudevano la ritirata.
L’unico aspetto positivo da evidenziare era che, essendo le colline
comunicanti ad una certa altezza, in determinate condizioni ci poteva dare
la possibilità di spostarci da una collina all’altra.
Evidenziammo questi dati nella riunione che tenemmo noi del Comando
del Distaccamento Faliero Pucci detto anche Stella Rossa, insieme
ai dirigenti del Distaccamento Fantasma, rappresentato dal Comandante
Militare Gino e dal Commissario Politico Giobbe.
Fu deciso di inviare subito, tramite staffetta, uno studio sulla situazione
geografica preparata da me, ed in seguito avremmo mandato una delegazione
per discutere sul da farsi.
Il 26 aprile noi della Faliero Pucci eravamo accampati provvisoriamente
sul Poggio Citerna: eravamo arrivati da quarantott’ore e i compagni
del distaccamento Fantasma ci avevano accolti come veri fratelli.
Giunti a Poggio Citerna, ci disponemmo in modo da non essere visti
dal piccolo paese di Poggio alla Croce, che poggia in parte le sue case ai
piedi della collina, dalla quale scorgevamo qualche rudimentale tetto a
strapiombo.
Gino, il comandante della Fantasma, fu subito tra noi, ci rincuorò
con grande premura, rassicurandoci che avremmo potuto finalmente prendere
riposo, poiché la zona era assolutamente tranquilla, e perché i suoi
uomini avrebbero provveduto in poco tempo a procurarci il cibo.
Praticamente il grande rastrellamento, con l’impiego di reparti della
Hermann Goering, era terminato e così, alla fine del loro ciclo offensivo, i
tedeschi furono costretti a riconoscere lo stato di fatto, innalzando allo
sbocco delle vallate i cartelli ammonitori:
“Achtung Banditen”,
“Achtung Bandengefahr”,
“Achtung Bandengebiet”.
Durante il percorso per arrivare lì a Poggio Citerna, ne avevamo visti
tanti di quei cartelli, e avevamo avuto l’impressione che i tedeschi sopravvalutassero
il numero dei partigiani, perché praticamente con quei cartelli
ci facevano presenti in ogni bosco, in ogni collina, monte, vallata.
Gino Garavaglia mi rimase subito simpatico, uomo di taglia atletica,
biondo, sempre sorridente, cordiale, sembrava essere uno di questi capi
guerriglieri che si erano visti nei film americani nelle varie rivoluzioni del
Sud America o del Messico.
Quando ti parlava ti guardava fisso negli occhi e questo mi piaceva.
Era proprio il tipo del fegataccio; un uomo che ispirava fiducia e sicurezza.
Gino Garavaglia aveva diretto nei quarantacinque giorni Badogliani
la Commissione Interna dello stabilimento Azoto di Figline Valdarno.
Subito dopo l’8 settembre 1943, con le armi recuperate ad una tradotta
militare bloccata a Figline, alcuni giovani avevano creato una formazione
partigiana nella zona della Calvetta, zona Santa Lucia, sennonché il
28 settembre ’43 a Figline Valdarno, arrivarono due autoblinde tedesche
per la ricerca dei vecchi esponenti antifascisti, e cioè di Guido Mazzoni,
Dino Setti e di Pellari.
In quel momento quei poveri ragazzi della Calvetta, non guidati da
nessuno, sentendo odor di tedesco, gettarono via le armi e fuggirono.
Senza rendersi conto che lassù nessuno li cercava.
Gino venne avvisato del fatto allo stabilimento mentre lavorava.
Con due o tre elementi di buona volontà, andò nella zona di Santa
Lucia–Calvetta, e recuperò tutte le armi. In più recuperò anche tre mitraglie
di aerei alleati abbattuti dalla contraerea tedesca in quella zona.
Ai primi di novembre, periodo in cui per Gino era ormai rischioso rimanere
in paese, se ne andò in montagna seguito da nove giovani.
In montagna trovarono subito due slavi fuggiti dalla prigionia tedesca,
che a loro si aggregarono, e così nacque il primo nucleo della formazione
Fantasma, comandata da Gino.
Nei mesi di novembre–dicembre Gino pensò all’addestramento di
quei giovani.
Il 23 dicembre la formazione Fantasma irruppe di sorpresa nella Caserma
dei Carabinieri di Castelnuovo dei Sabbioni dove disarmò i militari
ed asportò il loro equipaggiamento.
Il 12 febbraio ’44 il distaccamento Fantasma riuscì a compiere un
grave atto di sabotaggio alla linea telefonica internazionale, nei pressi dell’Antella.
Con l’esplosivo due piloni in traliccio metallico della suddetta
linea vennero abbattuti e quarantotto cavi rimasero recisi. L’interruzione
venne riparata dopo settantaquattro ore.
Il 16 febbraio ’44 il distaccamento Fantasma occupò i paesi di S.
Polo e di Poggio alla Croce, sulle strade Firenze–Incisa Valdarno. La popolazione
venne invitata in entrambi i paesi a un comizio, nel corso del
quale i CP fecero propaganda per la guerra di Liberazione Nazionale.
Vennero sequestrati generi vari, presso la villa della contessa Capponi,
rifiutatasi di ospitare due prigionieri inglesi sfuggiti ai tedeschi.
In seguito ad un grande rastrellamento operato da forze delle SS, la
formazione Fantasma si spostò sul Monte Scalari. Si unirono a questa formazione
i resti del gruppo di Gino Volpi che era stato attaccato il 16 aprile
a Secchieta, ma di questi compagni parlerò in modo esteso più avanti.
Era una splendida mattinata di fine aprile e ognuno approfittò per togliersi
i panni sporchi e per riassettarli alla meglio, uccidere i pidocchi,
finché giunsero gli uomini di Gino, portandoci pani e bistecche, da non
scordarsene mai più.
Finalmente, dopo tanto tempo, mangiammo a volontà, e ci fu anche
per tutti una buona bevuta e una sigaretta.
Il sole aveva sorpassato da poco il suo punto più alto, e una calma
quasi tropicale favorì il sonno che non tardò ad impadronirsi di noi.
Molti che avevano le scarpe logore, fasciate da stracci, avendo
appreso da Gino, che già al Poggio alla Croce, c’era tra gli altri un compagno
calzolaio che poteva ripararle, domandarono il permesso a Berto ed
Ugo.
Berto e Ugo chiesero a Gino se nel paesino c’erano pericoli.
Gino rispose che non c’era nessun pericolo in quanto erano tutti nostri
collaboratori. Per ogni caso suggerì: “Mandate due o tre di questi ragazzi
disarmati con le varie scarpe da riparare.”
Si offrirono per questo: Bob, Lella e Zuppa.
I tre presero quel grosso mucchio di scarpe e scesero giù.
Berto si raccomandò:
“Fate presto, consegnate le scarpe e domandate quando dovete ritornare
a prenderle.”
I tre annuirono ed iniziarono la discesa.
I tre arrivarono al Poggio alla Croce, lasciarono le scarpe dal calzolaio,
e invece di risalire sul Poggio Citerna, si trattennero in paese.
Entrarono nella bottega di generi alimentari, comprarono un barattolino
di sottaceti, si misero a mangiarli, successivamente andarono alla fontana
nella piazzetta a lavarsi le mani e i piedi dato che erano rimasti scalzi.
Mentre Zuppa si lavava i piedi e Bob e Lella erano lì accanto seduti,
una balilla scura a forte velocità venne quasi addosso a loro, subito si aprirono
gli sportelli e uscirono fuori un maresciallo dei CC e militi dell’Arma
con i moschetti puntati su di loro.
Non domandarono niente. Subito volevano catturarli, come se sapessero
già chi fossero.
Prontamente i tre partigiani scalzi com’erano scapparono in tre direzioni
diverse, spinti dall’istinto e dall’esperienza della lotta che diceva:
“dividi sempre il nemico”.
Zuppa scappò lungo la strada, e subito un carabiniere gli corse dietro
gridando:
“Fermati o sparo.”
Zuppa mise tutte le sue forze in quella corsa pazza, non sentiva nemmeno
male ai piedi, il carabiniere che gli correva dietro ripeté l’intimazione:
“Fermati o sparo.”
Zuppa che correva lungo il margine della strada, vide che sotto di lui
c’era un balzo di un paio di metri e sotto un campo di grano.
Si gettò quasi a pesce di sotto, cadde in malo modo fra il grano, si
rialzò ansante e continuò a correre fra il grano in direzione del bosco, lo
raggiunse e senza fermarsi, continuò a correre, correre in salita, raggiungendoci
sul Poggio Citerna.
Lella di corsa entrò in un portone di una casa ed ebbe la fortuna che
sul dietro c’era un’altra porta che dava in aperta campagna e quindi continuò
a correre senza fermarsi un istante, facendo ritorno al campo.
Bob fu il più sfortunato, veloce com’era si getto di corsa in un vicolo,
ma purtroppo si trattava di un vicolo cieco. Il maresciallo dei CC di
Strada in Chianti e i suoi militi gli furono addosso. Disobbedendo agli ordini
aveva portato con sé la pistola, che teneva nella tasca dei pantaloni.
Tentò di tirarla fuori, ma gli rimase impigliata alla fodera della tasca. Dovette
arrendersi di fronte alle armi spianate contro di lui.
Disarmato, in malo modo fu cacciato dentro la macchina, e velocemente
il maresciallo e i militi risalirono in macchina e veloci com’erano
venuti se ne andarono via. Tutta l’operazione si svolse in pochissimi minuti.
Noi su a Poggio Citerna aspettavamo il ritorno dei nostri tre compagni,
Berto e Nonno erano arrabbiatissimi e preoccupati, poi si consolarono
dicendo che erano tutti e tre in gamba, se avessero avuto bisogno di aiuto
avrebbero fatto un fischio, o inviato una staffetta! Così passammo il primo
momento d’attesa.
Tutt’un tratto fummo sorpresi dalle urla strazianti di una donna giù,
nel paese, sembravano lacerarle il petto:
“Vigliacco! Vigliacco!”
Per un attimo ai più parve trattarsi di un qualche femmineo sfogo,
causato da bisticci di carattere coniugale, ma subito dal bosco accorsero
verso di noi due giovani del posto, uno dei quali, Tito, da quel momento
divenne partigiano e rimase sempre con noi fino alla Liberazione, e ci dissero
che uno dei nostri era stato preso dal maresciallo dei CC di Strada in
Chianti, messo a forza in una balilla scura e portato velocemente via.
Scalzi e seminudi, tutti ci precipitammo giù per le pendici fino alla
strada.
Su questa ci incontrammo con gli uomini del distaccamento Fantasma,
che Gino prontamente aveva fatto accorrere da ogni parte, ma la
macchina era già passata.
Gino si offrì di guidarci alla caserma di Strada in Chianti, dove saremmo
giunti in nottata, partendo subito. Ma l’esito dell’azione così come
ci disse, sarebbe stato molto incerto, poiché in quella località stazionavano
battaglioni tedeschi, e un nostro attacco, anche se fortunato, avrebbe potuto
esser fatale al prigioniero.
Decidemmo di fare adunata di nuovo sul poggio. La rabbia, l’impotenza,
il dolore per Bob, ci avevano tagliato le gambe.
Anche Zuppa e Lella arrivarono e ci raccontarono com’era andata.
Berto non sapeva darsi pace, e ripeteva a tutti come Gino avesse assicurato
essere quella una zona tranquilla, e avesse evidenziato la speciale
benevolenza dei paesani nei riguardi delle formazioni partigiane.
Ma com’era possibile fare di queste affermazioni, quando in un attimo
ci avevano catturato Bob? Non avevamo perduto un uomo fino ad
oggi, nemmeno nel rastrellamento del Falterona, il partito ci aveva mandato
qui, invece che su Monte Giovi, dove avevamo tutti i nostri collaboratori,
le nostre basi di rifornimento, e subito per buongiorno avevamo perso
un uomo.
Intervenimmo Nonno, Ugo ed io per calmare Berto. Comunque la discussione
sulle responsabilità fu rimandata ad altro momento e nel Comando
prendemmo due provvedimenti immediati: inviammo in bicicletta
lo Zio a Firenze perché informasse dell’accaduto la delegazione della Brigata
Garibaldi per far intervenire i GAP, che avrebbero dovuto bloccare la
macchina in arrivo.
L’altro provvedimento fu quello di mandare una squadra nelle vicinanze
per prelevare un gerarca repubblichino da tenere in ostaggio, per
scambiarlo con Bob. Alcune settimane dopo questi avvenimenti andai a
Firenze per prendere contatto con la Delegazione della Brigata Garibaldi,
ovvero con i compagni dirigenti di partito, per ragioni che descriverò. Ebbene,
Ricciolo mi testimonierà che lo Zio arrivò da lui nel quartiere di Gavinana
verso le ore diciotto e subito le SAP fecero due blocchi stradali,
uno in via B. Fortini e uno sulla via Chiantigiana.
Purtroppo la macchina era già passata.
L’operazione cominciata con rapidità era stata portata a termine ancor
più velocemente, e quindi Bob era stato portato subito a Firenze.
Intanto mentre eravamo lì a Poggio Citerna, un’insolita frequenza di
camion militari della GNR cominciò di lì a poco ad attraversare il paese.
La nostra presenza su quel piccolo poggio proprio sopra al paese diveniva
pericolosa.
Gino ci guidò in direzione di Casa al Monte a 752 m, situata tra Poggio
la Baccheria, Poggio Sughero e Poggio Tondo.
Per andar lì riattraversammo Poggio alla Croce. Nel rapido paesaggio
del paese vedemmo volti ammutoliti: lo sguardo che si posava su di
noi era di evidente simpatia e di indomita fierezza, temprata nel dolore.
Appena risalimmo il bosco, nel folto della macchia, scorgemmo con
nostra grossa sorpresa, nuclei di uomini disarmati, vestiti da reclute.
Erano i resti di un battaglione dell’esercito, avevano disertato nei
pressi di Figline Valdarno. Alcuni erano senza scarpe, poiché gli ufficiali
preposti alla loro sorveglianza li avevano comandati “di stare a piedi
nudi”, tentando così di arginare la diserzione. Ma quelli erano fuggiti lo
stesso.
Questo incontro ci illuminò su tutto quello strano movimento di forze
autotrasportate, che in quel giorno avevano improvvisamente turbato la
tranquillità della zona, che diventava pertanto, di ora in ora più insicura e
che era divenuta oggetto di accanito rastrellamento.
Peggio di così non poteva capitare, meno male che Gino e gli uomini
della sua formazione erano ormai pratici di quei paraggi.
La sparatoria foriera di accerchiamenti era già cominciata, quando
con Gino in testa arrivammo a Casa al Monte.
Procedevamo guardinghi quando fummo raggiunti dalla squadra che
era andata a prelevare quel tal gerarca della zona che avrebbe dovuto essere
scambiato con Bob. L’azione non si era svolta felicemente: nella villa
del noto squadrista repubblicano, la GNR aveva predisposto un forte presidio
che accolse col fuoco i garibaldini i quali risposero in un primo momento,
ma senza insistere poiché anch’essi si trovavano già implicati nella
zona del rastrellamento. Alcuni nuclei di rastrellatori rimasero certo esterrefatti
sentendo le armi da fuoco rispondere dalla boscaglia, mentre erano
sicuri di sparare contro le reclute inermi. Forse questa improvvisata consigliò
loro di modificare il piano di attacco e di non spingersi troppo lontano
dalla strada dove gli automezzi attendevano.
Casa al Monte era davvero al vento. Il bosco terminava bruscamente
quasi alla sommità del monte, il quale presentava una calotta vastissima e
pulita. Dal grande cascinale che sorgeva al centro, si ripartiva come un
arco meridiano, un’unica fila di alberi che si prolungava a parabola, ridiscendeva
verso il bosco che rispuntava dal ciglio in forte declivio. Un vastissimo
capannone ci accolse e ci riparò dall’imperversare della bufera di
nevischio che si intensificava man mano che si faceva buio. Ritrovammo
qualche recluta decisa a pernottare lassù. Gino ci fece pervenire un gustosissimo
minestrone caldo.
Quella sera, prima che Vladimiro montasse di guardia, avemmo una
lunga conversazione.
Vladimiro aveva per Bob un grande affetto che sempre era stato ricambiato.
Si consideravano già cognati essendo uno fidanzato alla sorella
dell’altro.
Cercai dapprima di consolare la sua ansia per la sorte del nostro comune
compagno, mostrandomi fiducioso nella missione dello Zio.
Cominciai a parlare a Vladimiro dei miei giorni d’infanzia, di mia
madre che vedevo bella come una stella. Gli parlai del quartiere di Santa
Croce, delle voci, dell’arrotino, del cenciaiolo, del riparatore di cocci e
ombrelli vecchi, del venditore di pesci d’Arno.
Allora lui, tanto schivo a parlare di sé, con compiacevole affabilità,
prese a parlarmi di quando era ragazzo. Le sue parole si colorivano nella
mia mente, la sua vita si moltiplicava in un quadro che aveva per confine
l’umanità: vedevo agitarsi nella vicenda del singolo la vita di un’intera
classe sociale; non era quella che udivo la voce di un proletario, ma quella
del proletariato.
Poi Vladimiro fu chiamato per il servizio di guardia.
Presi sonno con difficoltà. Non mi sapevo dar pace per Bob. Mi sentivo
impotente. Non mi rendevo capace di cosa si potesse fare per salvarlo.
Ma c’era una possibilità di salvarlo?
La mattina dopo, il 27 aprile ’44, rientrò lo Zio. Di Bob solo la speranza
che agissero i GAP o le SAP. Nessuna disposizione, né nessun ordine
da parte del partito o del CLN per noi.
Bob era stato portato subito a Firenze e a Firenze subì interrogatorio
e torture, affinché rivelasse notizie di importanza politico–militare a danno
delle formazioni garibaldine.
Sostenne tutte le torture con fermezza e dalla sua carne martoriata,
dal suo corpo torturato non poterono ricavare nulla gli sgherri fascisti.
Troppo conscio del suo dovere, troppo pieno di fede era l’animo di
Bob; anzi le torture servirono a rafforzare l’odio feroce che nutriva per loro.
Neppure le promesse abbaglianti di una vita felice, serena, che i traditori
fecero apparire davanti ai suoi occhi, lo fecero vacillare.
Essi speravano di corromperlo, approfittando della sua giovinezza,
ma la giovinezza di Bob era maturità di spirito, di idee, elevatezza di sentimenti
e nulla poteva farlo cambiare. Il 3 maggio ’44 fu fucilato alle Cascine
(poligono tiro) vicino al Piazzale del Re.
Anche di fronte alla morte conservò tutta la sua fermezza, tutta la sua
forza di volontà, e seppe morire da vero garibaldino, e da vero comunista
nel cui partito militava.
L’ultima lettera scritta alla madre, dalla prigione fascista, contiene
una frase che svela, senza bisogno di commenti, il semplice e pur grande
animo di Bob:
“Non piangete per me, perché muoio contento di aver fatto il mio dovere!”
Adriano Gozzoli era il suo nome, nome che brillerà nella storia della
Patria!
La stampa cittadina riportò così la notizia:
“Tre grassatori fucilati perché trovati in possesso d’armi”
“Il tribunale Militare Straniero di Guerra, convocato ieri 2/5 ha giudicato
i seguenti:
Laghi Rino, di Natale, classe 24, da Carpinello (Forlì);
Andreoni Raffaele, di Leonetto, classe 24, da Firenze;
Gozzoli Adriano, di Alessandro, classe 22, da Firenze;
imputati di inadempienze alla chiamata alle armi e di essere stati trovati,
nell’atto di cattura, in possesso di moschetti e di bombe a mano.
Durante il dibattimento è risultato, inoltre che i tre imputati avevano
commesso, diverse grassazioni. Il tribunale Militare ha condannato il Laghi,
l’Andreoni e il Gozzoli alla pena di morte mediante fucilazione.
La sentenza è già stata eseguita.”
(da: – La Nazione – mercoledì, 3/5/44, pag.2: Cronaca di Firenze.)
Terminata vittoriosamente la guerra partigiana, ad Adriano Gozzoli,
su nostra proposta, è stata concessa la Medaglia d’Oro al V.M. alla memoria,
con la seguente motivazione:
“Gozzoli Adriano, n. 1922 Firenze. Fante (G.a.F.), partigiano combattente.
Caposquadra partigiano, ardito fra gli arditi, nelle più dure ed audaci azioni
di guerra e nei frangenti più disperati, con l’esempio, lo slancio e la passione
sapeva trascinare ad alte gesta i compagni di lotta. S. Martino del Mugello,
Polcanto, Vicchio di Mugello, S. Brigida, il Falterona e le campagne di Londa
e di Madonna dei Fossi videro l’eroico valore del pugno di uomini da lui guidati
che, con il loro sangue fecondarono per più alti destini il sacro suolo della
Patria oppressa. Catturato per agguato subì torture e sevizie che alternate a lusinghe,
non valsero a piegare la sua tempra e con epica fierezza affrontava il
plotone di esecuzione, suggellando il breve corso della sua giovane vita col
grido fatidico di ‘Viva l’Italia!’. – Mugello – Firenze, 8 settembre 1943 – 3
maggio 1944.”
Era il 25 maggio e quelle prime settimane le avevamo trascorse a far
capanne con i tronchi d’albero e piante che non si vedevano né dall’alto,
né di fianco perché le piante che producevano l’erbolina verde ci mimetizzavano.
Facemmo istruzioni sulle armi e diverse ore politiche sull’unità del
CLN, sulla necessaria e indispensabile collaborazione con le formazioni
partigiane del Partito d’Azione, della DC, dei liberali e sul grande rispetto
verso il mondo contadino.
Così il 25 maggio, Giobbe ed io, indossati due abiti piuttosto eleganti
che il compagno Romero Parronchi, che aveva una villetta nei pressi di
Poggio alla Croce, ci aveva imprestato, ci dirigemmo di buon mattino a
piedi, disarmati, verso la nostra città, sulla strada maestra, come due pacifici
cittadini.
Giobbe era andato in città già altre volte, quindi fece da battistrada.
Pioveva a dirotto ma, abituati ormai all’acqua ed ai disagi, non ci badammo,
e imperterriti proseguimmo il nostro cammino. Volevamo arrivare
presto a Firenze, per definire tutto in giornata e fare ritorno il mattino
dopo alle nostre rispettive formazioni.
Attraverso S. Polo, La Capannuccia, Grassina, raggiungemmo la periferia
della città. Qui, in via S. Marcellino, sulla porta di una trattoria
Giobbe si fermò.
“Siamo arrivati”, disse. “Il padrone è un compagno, ed è qui che il
Comando Militare tiene i contatti con le formazioni partigiane.”
Entrammo. La trattoria aveva una sala abbastanza grande, con tanti
tavolini lungo le pareti e tante sedie intorno ai tavoli. Da un lato il banco
di mescita, da una parte dietro il banco vi era la cucina dalla quale veniva
un odore acuto di minestra, di sughi e di verdure. Nappino, il padrone della
trattoria, un uomo alto, robusto e calmo, riconoscendo Giobbe lo salutò
e accennò a me.
“È un compagno”, disse Giobbe in risposta a quello sguardo. Nappino
ci tese la mano.
“Bene ragazzi, passate, Ricciolo è di là.”
Attraversammo la cucina, ingombra di grossi tegami, ove una donna,
la moglie di Nappino, si affaccendava ai fornelli. Dalla cucina una porta a
vetri immetteva in un piccolo giardino, che serviva, quando il tempo era
bello, come sala da pranzo all’aperto.
“Vedi”, mi disse Giobbe, “quando il tempo lo permette, il ritrovo è
lì, intorno a qualche tavolo, come se fossimo persone venute a godersi un
po’ d’aria fuori dalla città. Al di là del giardino vi sono tutti i campi, attraverso
i quali in caso di pericolo si può fuggire. Considerando che per venir
qui bisogna passare sotto l’occhio vigile di Nappino, pronto a dare l’allarme,
il luogo può considerarsi abbastanza sicuro.”
Attraverso la cucina entrammo in una piccola stanza; una radio accesa
faceva sentire la sua voce.
Un uomo di bassa statura ci venne incontro con le mani tese. Era
Ricciolo, con la testa pelata come una palla di biliardo e due occhi vivi che
denotavano pronta intelligenza, decisione, forza di volontà. Era un comunista
fidato, condannato nel marzo 1927 dal Tribunale Speciale fascista a
sei anni e sei mesi di reclusione. Ricciolo, oltre a questa condanna, durante
il Ventennio era stato più volte arrestato come “comunista irriducibile”. A
me ispirò subito fiducia. Ricciolo a sua volta mi guardò a lungo e mi sembrò
che rimanesse deluso. Fu tanta la sua delusione che lui francamente ed
intelligentemente me ne parlò subito.
“Vedi”, mi disse, “sono a conoscenza di diverse tue gesta che sono
veramente eroiche. Ero ansioso di conoscerti, poi quando ti ho visto mi
sono detto: ma è possibile che questo giovane così mingherlino, così calmo,
con quell’aria pacifica, sorridente, sia un capo partigiano, provato da
tante azioni di guerriglia, amato e stimato dai suoi uomini e dai contadini,
capace di sopportare i disagi della montagna, i freddi invernali, i rastrellamenti
terribili come quelli del Falterona, dal quale è uscito senza perdite e
con onore? Devi avere tanta volontà, tanta intelligenza e tanta fede per
supplire alla tua esilità fisica e alla tua giovinezza!”
Sorpreso e meravigliato, restai in silenzio.
Ci sedemmo intorno ad un tavolino e dopo aver mangiato discutemmo
un po’ della situazione politica in generale, in attesa dei due compagni
che avrebbero dovuto raggiungerci. Finalmente arrivarono, e Ricciolo ce li
presentò come Mario I e Mario II.
Mario II lo conoscevo già: era l’anziano compagno Umberto Rocchi,
conosciuto come staffetta della Delegazione della Brigata Garibaldi, che ci
aveva messo in contatto con la “Squadra dei Senza Paura”, comandata dal
Nano di Figline Valdarno per andare sul Monte Scalari.
Mario I era il compagno Dino Saccenti, condannato nel Ventennio
fascista dal Tribunale Speciale prima a quattro anni di reclusione poi a
cinque. Nel 1933 espatriò in Francia e nel 1935 fu inviato dal PCI a Mosca.
Nel 1936 accorse in Spagna nelle Brigate Internazionali, dove combatté
come ufficiale per la difesa della Repubblica spagnola; riportò una
ferita che lo rese invalido al braccio destro; un altro proiettile gli trapassò
un polmone, arrestandosi a pochi centimetri dal cuore, quindi senza possibilità
di essere operato. Con il ritiro degli Internazionali passò in Francia,
dove fu internato nel campo di concentramento GURS e da qui tradotto in
Italia nel 1940, un’altra volta nelle mani dei fascisti! Questi era l’uomo
che mi stava seduto tranquillamente davanti, ed era il rappresentante della
Delegazione per le Brigate Garibaldi.
Tutto ad un tratto mi disse:
“Così tu saresti quel famoso Gianni, ti facevo molto diverso, sei una
vera sorpresa.”
“Mah”, dissi io scherzando, “sarei quell’‘antipartito’ che rompe le
scatole a tutti i dirigenti del PCI!”
“Se tu fossi un ‘antipartito’”, mi rispose, “non saresti qui con me a
parlare di cose molto serie, riservate, sulle quali dobbiamo prendere decisioni
che vanno al di là dei sentimenti e che influenzano la vita di tanti nostri
compagni. Le storielle lasciamole in bocca a chi le mette in giro… Io
sono e sarò fin d’oggi il tuo collegamento, in assenza mia parla di tutto
con Ricciolo! Ti piace Ricciolo?”
“Sì!”, risposi.
“Allora”, continuò, “parliamo del documento che mi avete mandato
tramite la staffetta Segrè. In questo documento firmato dai CM e dai CP
delle due formazioni avete messo in giusto rilievo le condizioni che impediscono
di organizzare e mantenere in quella località una Brigata partigiana.
“Ebbene, compagni, avete ragione, sono d’accordo con voi.
“Gianni, mi devo congratulare con te per la serietà con la quale hai
fatto quei rilevamenti topografici a venticinquemila.
“Sì, compagni, avete ragione voi!
“Ma c’è un ma, è vero che le formazioni partigiane a nord del fiume
Arno hanno la possibilità di operare su sistemi montani più impervi e più
alti, ma noi non possiamo liberare Firenze attaccando solo da nord ma anche
da sud e sono sicuro che voi accetterete questo duro compito.”
“Accetto”, risposi, “e ti dico anche che, per spazzar via ogni eventuale
dubbio, la mia Brigata entrerà per prima a Firenze!”
Giobbe a sua volta si dichiarò d’accordo in tutto e per tutto con me.
Sul secondo punto all’ordine del giorno relazionai dettagliatamente
poiché la cosa era molto seria e poteva diventare anche pericolosa, così
cominciai:
“Nelle prime ore del pomeriggio del 21 maggio la staffetta Segrè
giunta da Firenze mi disse che dovevo andare subito in città.
“Mi recai immediatamente con Segrè al Poggio alla Croce per ritirare
la bicicletta dalla villetta di Romero Parronchi e cambiarmi con uno dei
suoi numerosi abiti.
“Entrambi in bicicletta, arrivammo a Firenze in casa del compagno
Berti, in via del Paradiso.
“Il compagno Berti e sua figlia Liliana ci accolsero con molto calore;
Segrè andò via perché si era vicini all’ora del coprifuoco. Dopo cena la figlia
Liliana andò a dormire.
“Fu allora che Berti mi disse che il mattino dopo alla sei e trenta mi
dovevo far trovare, con la bicicletta, in piazza Beccaria, quasi all’angolo
del viale, passato il cinema Alhambra, dove avrei trovato Gastone.
“Gastone era un fondatore del Partito Comunista d’Italia; perseguitato
dal fascismo, era andato a lavorare in Francia, poi in URSS, dove aveva
studiato presso l’Accademia Militare Frunze. Scoppiato il conflitto in Spagna,
era andato come ufficiale nelle Brigate Internazionali; ora era un dirigente
della Delegazione Garibaldi e dirigente del PCI.
“Così il giorno successivo alle ore sei e trenta esatte ero in piazza
Beccaria, dove incontrai Gastone, che, preciso al secondo, veniva in quello
stesso momento dal viale. Gastone mi disse subito che dovevamo aspettare
un momento Edoardo, VCP di Brigata, e poi saremo andati sul Pratomagno
da Potente.
“Disciplinatamente dissi: ‘Va bene, così conoscerò finalmente Potente.
“Dentro di me rimasi deluso ed amareggiato dalle capacità cospirative
dei nostri dirigenti di Firenze, ed in particolare di quelle dello stesso
Gastone.
“Mi offendeva l’idea che loro potessero mettere in pericolo la mia
vita con tanta leggerezza, facendomi venire dal Monte Scalari fino a Firenze,
farmi pernottare lì, girare per le strade della città dove ero ricercato,
con il rischio di essere catturato dalla Polizia o dai tedeschi, dai Carabinieri
o dalla GNR, per poi recarmi sul Pratomagno, dove sarei potuto arrivare
tranquillamente dalla mia postazione e senza rischi.
“Ma non sarebbe stato più facile comunicarmi di andare sul Pratomagno
attraverso i boschi? Per me sarebbe stato tutto più semplice, visto che
mi sarei portato una scorta armata in caso di brutti incontri.
“Pensai tutto questo, ma non dissi nulla, non volevo criticare questo
grande dirigente che era Gastone.
“Edoardo arrivò in ritardo di una decina di minuti; aveva una bicicletta
nuova fiammante, una camicia di seta, sprizzava salute e ricchezza
da tutti i pori della pelle. In ogni modo mi rimase subito simpatico e durante
il viaggio, nonostante lo sguardo severo di Gastone, ci raccontammo
un sacco di barzellette.
“Lungo la strada trovammo molti tedeschi intenti a piazzare cannoni
da 88 sull’argine dell’Arno, e fascisti che sui camion portavano verso nord
i prodotti alimentari razziati nella nostra regione!
“Quando arrivammo alle pendici del Pratomagno lasciammo le biciclette,
nascondendole con frasche, e cominciammo a scalare il monte che
avevo lasciato quaranta giorni prima.
“Gastone ed Edoardo non erano in forma, ansimavano e salivano per
il monte con difficoltà, ma per non umiliarli mi tenevo al loro fianco.
“Dopo svariate ore di marcia e varie soste arrivammo finalmente a
‘Cascina Vecchia’, dove cominciammo a vedere un certo movimento di
partigiani. Il primo che ci venne incontro fu l’ex tenente dell’EI Giuseppe
Bergamino detto Artiglio, che avevo conosciuto nel marzo alla Pievecchia,
dove lui a quei tempi stava organizzando un gruppo di partigiani, in gran
parte cattolici.
“Artiglio ci disse che eravamo attesi per iniziare la riunione. Entrammo
in una casa colonica abbandonata. Lui rimaneva fuori a far la guardia
insieme ad un gruppetto di partigiani.
“Nella stanza c’erano cinque o sei partigiani seduti per terra; molti
fumavano. Riconobbi Mara e Brunetto; gli altri non li conoscevo. Pensai
che fossero i capi delle Brigate Lanciotto e Caiani.
“Non ci furono presentazioni: c’era un’aria molto cospirativa.
“Rimasi in fondo alla stanza. Gastone ed Edoardo andarono davanti
a tutti e si misero a parlare con un biondino dai capelli mossi.
“Domandai ad uno di quelli che avevo davanti a me se quello fosse
Potente, e quello mi rispose: ‘Non lo vedi che è Potente?’
“A quel punto prese la parola il compagno Alessandro Pieri, che già
conoscevo, il quale dichiarò che la riunione era ristretta, i compagni invitati
erano tutti presenti e perciò si poteva cominciare.
“Dette la parola a Gastone, della Delegazione delle Brigate d’assalto
Garibaldi.
“Gastone fu molto breve, chiaro e conciso, parlando con voce forte e
di comando. In pratica disse subito che molto presto, questione di giorni,
di qualche settimana, ci saremo trovati nell’ultima fase della guerra nel nostro
settore. Le retroguardie tedesche, prevalentemente costituite da mezzi
corazzati e blindati, si sarebbero ritirate dal fronte attraversando Firenze
per andare a nord. Nostro compito era quello di fermare, bloccare e distruggere
le retroguardie tedesche prima che arrivassero dentro la città di
Firenze; bloccarle e distruggerle a sud di Firenze e precisamente a Grassina,
Antella, Bagno a Ripoli, Ponte a Ema, la Capannuccia, in modo da preservare
la città di Firenze dalle distruzioni della guerra.
“‘Voi dovete distruggerle in questi paesi’, continuò imperterrito,
‘perché in questi paesi, quando i carri armati e i mezzi blindati saranno incolonnati
per quelle strade, saranno più facile preda per le vostre armi.’
“A me sembrava di sognare, di essere invischiato in un brutto sogno:
essendo quei paesi situati in zone depresse, non sarebbero stati scelti per le
soste di truppe tedesche appiedate e quindi sarebbero bombardati o comunque
distrutti al passaggio del nemico, e sarebbero diventati il cimitero
delle retroguardie tedesche, ma contemporaneamente anche della popolazione
civile.
“All’arrivo degli Alleati noi, facendo vedere le cataste dei carri armati
e dei mezzi blindati distrutti, avremmo potuto dire con orgoglio che
questo era il contributo dato alla Liberazione delle Brigate Garibaldi e dai
comunisti.
“La questione era grave, cinica, brutale e cattiva; in antitesi con il
pensiero ed il linguaggio comunista che fino ad allora avevo conosciuto.
“Mi sentivo ferito, offeso, ingannato. Era una ripetizione di quel folle
piano, che noi della Brigata Garibaldi Sinigaglia avevamo bocciato due
volte, l’ultima proprio di fronte al compagno Gastone.
“Sperai che qualcuno prendesse la parola, tanto per saggiare l’effetto
che quella relazione aveva fatto sugli altri, ma nessuno chiese di parlare.
Anzi, sentii Pieri che diceva a Gastone: ‘Allora, si dà per approvato…’
“Così, ruppi ogni indugio e chiesi la parola, che mi fu subito accordata.
‘Compagno Gastone, io dico che bisogna esser sinceri con noi stessi
e non nasconderci dietro affermazioni inutili ed ingannevoli. Tu hai detto
che dobbiamo fermare, bloccare e distruggere le retroguardie naziste, distruggere
i loro carri armati, le loro autoblinde, e quando verranno gli Alleati
faremo vedere loro cataste di carri armati e mezzi blindati, pezzi di
artiglieria, morti, distruzioni, macerie e, diremo loro, questo è il contributo
dato alla causa della Resistenza dalle Brigate Garibaldi e dal PCI. Noi,
compagno Gastone, e questa è la verità, non abbiamo i cannoni anticarro
né i panzerfaust, né i bazooka e neppure i lanciafiamme per bloccare questi
mezzi. No, noi non abbiamo né le capacità, né le condizioni, né le armi,
né le munizioni, né il numero di uomini per essere in grado di fermare,
bloccare e distruggere le retroguardie tedesche e impedirgli di andare al
nord. Noi possiamo distruggere qualche carro armato con le bottiglie Molotov;
possiamo mettere in cima a dei pali del plastico C4 con detonatore a
pressione per cercare di infilarlo nel cingolo di un carro armato. Riusciremo
a rompere il cingolo, il carro armato si fermerà girando su stesso, continuando
a sparare e noi lo finiremo con la vecchia bottiglia Molotov. Ma
tutto questo fuori dai paesi, che tu praticamente hai condannato a morte.
“‘Bisogna tener conto che noi non siamo un esercito, che costituisce
una linea di fronte e dice di qui non si passa. Noi siamo partigiani, la nostra
forza sono il movimento e la rapidità dei nostri attacchi, ed anche in
questa fase dobbiamo rispettare le regole di guerriglia: attaccare le retroguardie
naziste, cercando di fare più danni possibili e, prima di farci agganciare
dal grosso nemico, che con i carri armati cercherà di imbottigliarci,
fuggire via per andarlo ad attaccare in un altro punto. Poi vedi Gastone,
io non capisco un’altra cosa che tu qui hai detto: noi, con il modo di combattere
che vorresti, dovremmo condannare alla distruzione paesi come
Grassina, la Capannuccia, Antella, Bagno a Ripoli, Ponte a Ema. Tu questo
lo giustifichi dicendo che tanto sono paesi in zone depresse e quindi
l’eventuale rappresaglia nemica (a colpi di cannone) non farebbe che aumentare
di poco le gravi distruzioni sofferte da quelle popolazioni! Ma
questa, caro Gastone, è una pazzia. Sotto certi aspetti mi sembra addirittura
un crimine! Perché tutto questo cinismo? Siamo per il popolo o contro il
popolo? Dove è andata a finire la nostra umanità? Ricordati Gastone, nella
vita senza amore verso il prossimo non c’è proprio niente. E tu, candido
candido, ci fai capire che le popolazioni che sono abituate a soffrire si possono
eliminare. Questo linguaggio fino ad ora lo avevo sentito in bocca
solo ai nostri nemici.’ ‘Non ho detto questo’, mi interruppe Gastone. ‘Ma
era implicito nel tuo ragionamento, caro Gastone’, risposi io. ‘Bisogna
dare alle parole il loro giusto valore, e se lo si dà il risultato è quello che
ho detto io.’
“‘Voi della Sinigaglia’, rispose lui, ‘cosa ci state a fare in montagna,
se non volete attaccare le retroguardie naziste?’ ‘Soltanto il mio distaccamento
F. Pucci, chiamato dai contadini Stella Rossa, ha inferto al nemico
ottantadue morti e settanta feriti, e noi abbiamo avuto un solo caduto. Scusa
Gastone, così tu travisi tutto il mio ragionamento, fai dire a me cose che
non ho mai detto.
“‘Ebbene, compagno Gastone, noi partigiani, con due ore di autonomia
di fuoco dei nostri fucili, Sten, Bren, mitraglie varie, non siamo nelle
condizioni di fermare, bloccare e distruggere, come invece dici tu, le retroguardie
tedesche con i loro carri armati e mezzi blindati. Il compagno Potente,
con la sua indiscussa capacità, può essermi buon testimone. Gastone,
non creiamo false illusioni, guardiamo le cose come realmente sono e
non come vorremo che esse fossero.’
“‘Voi’, mi interruppe Gastone, paonazzo in viso ed ormai fuori di sé,
‘voi della Sinigaglia non volete combattere…’
“‘Tu’, risposi, ‘anche se sei un grande dirigente della Brigata Garibaldi
e del partito, non puoi calunniare una Brigata partigiana come la nostra.
Noi ogni giorno combattiamo il nemico ed il ruolino delle nostre
azioni lo comprova. Devi vergognarti di offenderci così! Compagni, a parte
le calunnie di un uomo che ha perduto il controllo di se stesso, sono
sempre stato convinto e rimango dell’opinione che chi colpisce per primo,
colpisce due volte. Perciò noi dobbiamo colpire attaccando improvvisamente
in più punti ed in più luoghi, fuori dai centri abitati i reparti di retroguardia
tedeschi. Bisogna colpirli improvvisamente, con tutte le nostre
armi automatiche, le nostre bombe, le Molotov ed esplosivo vario, creando
spavento, e prima che si riprendano e si riorganizzino per agganciarci, ritirarci
rapidamente, sparire ai loro occhi per andare ad attaccarli in un altro
luogo della loro ritirata. Non dobbiamo per nessuna ragione farci agganciare.
Non dimentichiamo la loro stragrande superiorità in armi e munizioni.
Ricordiamoci che le retroguardie naziste sono composte da lance spezzate,
dai soldati più feroci e abbrutiti dalle sconfitte: essi devastano, assassinano
giovani, vecchi, donne e bambini, rubano, saccheggiano, incendiano,
stuprano, distruggono! Non sono delle mammolette, che aspettano noi
per farsi ammazzare! Dobbiamo attaccarli senza pietà, alla partigiana, con
attacchi fulminei e ritirate altrettanto fulminee.
“‘Noi della Brigata Sinigaglia, caro compagno Gastone, attaccheremo
le retroguardie tedesche, cercando di arrecare loro i maggiori danni.
Però, a differenza di quel che hai detto tu, ti ripeto, non le attaccheremo
dentro i paesi, ma le attaccheremo lontano da case coloniche e centri abitati,
in modo che le cannonate tirate su di noi non vadano a colpire le abitazioni.
Noi, caro Gastone, non siamo l’esercito di un partito, ma l’esercito
del popolo, pertanto non vogliamo devastazioni, neanche nelle zone depresse.
Proprio per dimostrarti che non siamo vigliacchi, così come in certe
tue battute vorresti farci apparire, di fronte a questi testimoni, dirigenti
anche loro della Resistenza, ti affermo ancora una volta che noi attaccheremo
e non daremo tregua al nemico, lo talloneremo con la maggior velocità
possibile nella sua ritirata ed entreremo per primi a Firenze, per liberarla
dai tedeschi e dai traditori fascisti!’
“A queste mie ultime parole seguì un silenzio di tomba, poi Potente,
che era rimasto finora in silenzio, prese la parola dicendo, in modo molto
chiaro e scandito, che si poteva concludere la discussione su questo punto
con l’impegno di tutte le Brigate di attaccare senza pietà le retroguardie tedesche
con i nostri metodi e mezzi della guerriglia partigiana.
“Potente, senza fare nomi, né riferimenti, praticamente mi dava ragione
ed allineava le forze della nostra divisione Arno al concetto di attaccare
le retroguardie, e non all’altro concetto di fermarle e bloccarle per poterle
distruggere. Gastone, rosso in viso, rimase silenzioso.
“Potente allora passò ad illustrare un altro argomento, quello cioè di
trasferire provvisoriamente due compagnie (la Terza e la Quarta) della
Brigata Lanciotto ed il Comando di Divisione sul Monte Scalari, là dove
c’era la Brigata Sinigaglia; questo perché le due compagnie dopo pochi
giorni sarebbero state nascoste in Firenze, nella parte a nord dell’Arno (nei
locali delle Scuole Da Verrazzano in via Capodimondo), in modo che il
giorno dell’insurrezione uscissero fuori per occupare obiettivi importanti
per la vita della città ed aiutare le SAP (Squadre d’Azione patriottiche).
“Anche il Comando della Divisione sarebbe rimasto per pochi giorni
sul Monte Scalari, perché al maturare della ritirata nazista si sarebbe installato
più a sud, più vicino alla città.
“Potente domandò a me se fossi d’accordo con quegli spostamenti;
io, anziché rispondere di sì, per far dispetto a Gastone, che mi fissava
come il gatto fissa il topo, risposi: ‘Sotto un certo aspetto, sarei contrario,
perché il trasferimento di più di duecentocinquanta uomini nella nostra
zona non passerà di certo inosservato, e quindi come conseguenza di ciò
c’è da aspettarsi attacchi tedeschi o addirittura un rastrellamento. D’altro
canto, comprendo le esigenze che il Comando della Divisione ha, nella visuale
del suo piano generale, sono d’accordo per ricevere da noi tutte
quelle forze partigiane. Non potendo decidere da solo, chiedo ventiquattr’ore
di tempo per farlo approvare nel Comando di Brigata.’
“Potente annuì e la riunione ebbe termine. Potente mi fermò con un
abbraccio dicendomi: ‘Gianni, mi raccomando a te, hai tutte le capacità
per far passare la proposta.’
“‘Potente, devi farmi un piacere, fammi sapere il giorno e l’ora in cui
arriverete, vi farò trovare per tutti i trecento uomini un pasto caldo: brodo,
carne lessata e arrosto, pane e vino. Inoltre, noi da un albergo di Firenze
abbiamo in custodia un grande pullman con le panchine laterali ricoperte
di pelle; il colonnello Bertorelle che è anziano ed un altro ci possono dormire
la notte, e di giorno potete farci l’Ufficio del Comando.’ ‘Ma lo adoperate
voi’, rispose Potente. ‘No, dal giorno che è arrivato l’ho chiuso a
chiave e lì dentro nessuno ci è mai entrato.’ ‘Gianni, tu mi meravigli sempre
più, sono contento di averti finalmente conosciuto di persona.’ ‘Anch’io
Potente, arrivederci a presto.’
“All’uscita della riunione ritrovammo Artiglio, che aveva preparato
pane, salame e vino, così mangiammo con vero appetito.
“Gastone mi venne incontro per dirmi: ‘Neanche lo spostamento di
quelle due compagnie hai voluto accettare!’
“Avevo ripreso la mia calma ed un po’ di allegria, così sorridendo gli
dissi: ‘Gastone, neanche questa volta hai capito la mia risposta: ho detto
ni, non ho detto no! Fra ventiquattr’ore il ni può diventare sì, perché tu fin
d’ora vuoi farlo diventare no?’
“Mi guardò con due occhiacci pieni di rancore, ma non disse nulla.
“Artiglio, che era uno dei migliori cartografi d’Italia, mi insegnò la
via per tornare sul Monte Scalari senza ritornare a Firenze e sulle strade
statali; così con Gastone ed Edoardo andammo insieme a riprendere le biciclette,
poi dopo un certo tratto di strada li lasciai cordialmente, poiché
loro ritornavano a Firenze ed io nella mia Brigata.
“Più tardi, camminando stanco e deluso, salendo su attraverso il bosco
appena illuminato da un quarto di luna, pensai al nostro umanesimo
comunista, al nostro profondo affetto verso tutti i lavoratori, alla nostra solidarietà
ed al nostro amore verso chi soffre, pensai a tutte le cose studiate
nel collettivo comunista del carcere, all’esempio di affetto dato dai nostri
dirigenti, e anche alle dure delusioni che quel giorno avevo avuto proprio
su questi punti e su altri ancora…
“Ma insomma, chi eravamo? Perché quel cinismo accompagnato da
una doppiezza politica così sfacciata? Ma il partito aveva due anime, una
in antitesi all’altra? Io non ero che un povero giovane, che nel passato e
nel presente aveva avuto la ventura di ricoprire ruoli politici superiori ai
suoi meriti.
“Ma ero un giovane onesto, che amava la libertà, la democrazia, la
sua patria, il suo popolo e tutti i lavoratori.
“Li avrei sempre difesi a prezzo della mia vita!
“Così compresi che nonostante tutto dovevo stringere i denti, rimanere
quello che ero ed andare avanti, difendendo però sempre i nostri principi,
i nostri ideali di giustizia sociale, di largo rispetto umano per i nostri
simili, specie contro certi nostri dirigenti, che con le loro proposte davano
la netta impressione di aver dimenticato queste cose primarie, che stavano
alla base della costruzione dell’uomo nuovo.
“Gastone era un grosso dirigente ed in qualche modo mi avrebbe fatto
pagare la sua sconfitta, ma a me non importava, mi sentivo felice e forte
perché godevo della fiducia di tutti i compagni della mia Brigata e perché,
ancora una volta, avevo difeso il popolo minuto che in quell’occasione viveva
nelle zone depresse.
“Arrivai a notte fonda ad un posto di blocco della mia Brigata, e c’erano
di guardia i russi; ci mancò poco che mi sparassero addosso. Fu il
russo Vassili che mi riconobbe e tutto andò bene.
“La mattina dopo, d’accordo con Gracco, Berto, Giobbe, Gino, riunimmo
il nostro comune Comando e tutti furono d’accordo sulle posizioni
che in quella riunione avevo tenuto.
“Terminata la riunione per evitare che qualcuno potesse creare confusione
(un tentativo ci fu), inviammo subito una staffetta a Potente per
dirgli che eravamo d’accordo con le sue richieste, e che stavamo preparando
gli alloggi sia per il Comando di Divisione che per le due Compagnie
della Lanciotto.
“Oggi Giobbe ed io siamo qui a relazionare su tutto, di fronte a te,
Mario I, e a te Ricciolo, affinché sia chiara la nostra posizione e per riaffermarvi
che con la nostra Brigata entreremo per primi a Firenze.
“Questo è il nostro umile modo per dimostrare se combattiamo o facciamo
vuoti discorsi!”
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