Anna Marengo – Una storia non ancora finita

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E’ un pezzo che voglio raccontare la storia di Cichín : tutte le volte che l’Archivio storico della Resistenza o una qualunque delle persone che si occupano di queste cose, si mettono in giro a chiedere fatti e notizie da quelli che sanno, subito mi viene in mente Cichín prima di tutti gli altri. Poi rifletto che il Cichín non è poi una persona cosí importante per istituti e persone che scrivono la storia. Là ci stanno bene dei tipi come il generale Perotti, Dante Di Nanni, attacchi in grande stile, cose da medaglia d’oro, insomma. E Cichín, che io sappia, non ha portato a casa, dalla guerra, nessuna medaglia ci ha solo lasciato una gamba. Ma questo è poco in confronto di altri e soprattutto in confronto di quello che noi volevamo per dopo la guerra. Adesso, almeno, a pensare a quello che volevamo, sembra proprio poco. Per questo non ho mai fatto niente perché il nome di Cichín sia scritto nella storia della Resistenza. Eppure è un peccato mortale che, di tutte le cose di allora, la gente sappia così poco.

Quando ero piccola il mio papà mi raccontava tante storie che, a pensarci, erano belle, semplici, naturali e pulite come quella di Cichín: storie che parlavano di gente piccola, come il mio papà che faceva il sellaio, o come mio nonno che faceva il contadino, gente che, trovandosi in mezzo alle cose da fare, le faceva come si deve. Io ho vergogna a confessarlo, ma della storia d’Italia che ho studiato a scuola mi ricordo ben poco, invece quella storia che mi ha insegnato ad essere italiana non me la dimentico più, anche se è fatta tutta di racconti sentiti mentre trottavo dietro a mio padre che mi conduceva a caccia con sé: Garibaldi, Pietro Micca, Pio IX, io li conosco come se li avessi visti. Questo spiega perché nelle famiglie della gente come noi c’è sempre qualcuno che ha avuto a che fare in un modo o nell’altro con Garibaldi, Pio IX, o qualche altro pezzo della storia d’Italia, e allora le cose si legano fra di loro, e uno, anche se non capisce tutto, sa subito perché Tizio per forza di cose è per Garibaldi e Caio per Pio IX.

Ecco qua che ancora una volta io mi metto a chiacchierare per schivare il dovere di scrivere la storia di Cichín. Il fatto è che Cichín lo conosciamo solo noi della Brigata di Primula; anzi, quelli che son venuti su tardi, verso la fine, non lo conoscono nemmeno: forse non ne hanno neppure sentito parlare, con tutto quello che avevamo sempre da fare allora; perché allora si facevano le cose che adesso è utile raccontare, legare e ricordare, per insegnare ai bambini come si fa a diventare italiani. Qui, affinché la storia di Cichín piaccia proprio a tutti, come a me che ci ho preso parte, ci vorrebbe uno scrittore, uno, che vede l’insieme delle cose come un grande quadro, in cui ogni cosa piccola è indispensabile, anche se l’occhio non la coglie come elemento staccato. Cichín è una figura del quadro, piccola che quasi nessuno la vede, ma necessaria insieme con tutto il resto perché il quadro sia bello, E’ come stare sdraiati nell’erba alta in montagna, durante una bella giornata di sole. Uno guarda il cielo che è così alto, le montagne che sono così massiccia, sente che quel verde dell’erba è proprio quel che ci vuole e socchiude perfino gli occhi per farci stare tutta quell’estensione di montagne e di cielo; intanto di dietro il capo ti si affaccia sull’occhio lo stelo d’un fiore che si incurva e dondola al vento, solleticando la fronte. E’ un fiore, un filo d’erba soltanto, ma sta più vicino, del cielo e dei monti; questo stelo sottolinea nel gioco delle

proporzioni, l’armonia delle cose grandi, fatte di tante piccolezze.

Per me la storia di Cichín è come questo fiore, ma. Per farlo sentire come si fa? Io non sono uno scrittore. In ogni modo la storia di Cichín esiste davvero. Sarebbe buffo se una volta questa storia venisse fuori su un giornale e Cichín la leggesse; forse non gli, farebbe nemmeno piacere. Oggi Cichin è pieno di guai, non ha tempo per star seduto a pensare a se stesso come a uno che ha fatto con tanti altri un pezzo della storia d’Italia.

La 182 brigata non era ancora nata, c’era solo il di- distaccamento di Primula, allora: era il luglio 1944. Ma il distaccamento di Primula era davvero dappertutto intorno a Vercelli e dava noia ai fascisti più di una brigata. A Vercelli tutti ne parlavano: ieri sera ha dato l’assalto al posto blocco di Porta Torino, oggi ha fermato il treno a Salussola e ha disarmato «la Repubblica» che c’era sopra; l’altro ieri a Santhià ha portato via tutti i vitelli che i fascisti avevano requisito per il loro ammasso e li ha ridati indietro ai contadini; oggi hanno messo in prigione il papà del partigiano Prete — che è così vecchio — solo per rappresaglia per il colpo sull’autostrada, quando hanno, rovesciato il camion con una « signorina » e hanno fatto un macello uno che stesse in città e sentisse raccontare solo la metà di quello che combinava il distaccamento di Primula si faceva l’idea che questi partigiani fossero delle migliaia e che appena fuori di Vercelli ce ne fosse una dozzina appostata dietro ogni cespuglio col fucile spianato su ogni fascista o tedesco che passasse. Un’idea come un’altra

Come un’altra e vero? Eppure quando sono andata su anch’io ho avuto qualche difficoltà a rendermi conto che il distaccamento di Primula non contava più di quaranta uomini: gente che parlava del « mitra di Primula » come della sua batteria di artiglieria, che si conquistava le armi assalendo con pochi fucili modello ’91 i mezzi motorizzati dei fascisti sulla strada, fermava ìl treno a Salussola con una pistola dal cane rotto per disarmare « la Repubblica » e nel sonno farneticava ad alta voce di sten e di moschetti.

Primula, il comandante, che una volta faceva il carpentiere, adesso non c’è più. Al suo posto a Vercelli c’è una piazza: Pietro Camana, martire della libertà. È morto in combattimento contro trecentocinquanta fascisti che si sono ritirati dopo perdite sanguinose, vicino a Sala Biellese. Ma allora, quando c’era, uno lo vedeva dappertutto: in testa ai suoi uomini quando partivano all’attacco, in coda alla pattuglia per coprirla quando si ritiravano, in ispezione alle postazioni, in mezzo alla gente del paese che andava a Biella a lavorare in fabbrica e tornava alla sera con le notizie fresche; qualche volta veniva anche dalla moglie, che era sfollata lassù, perché con tutti i bambini che aveva non era il caso che tutti i momenti la ficcassero dentro per rappresaglia.

La moglie di Primula faceva un mucchio di cose: si occupava delle staffette, lavava dalla mattina alla sera e quando non faceva questo, cuoceva degli enormi. paiuoli di peperonata, piccante come il fuoco, per tutti noi. E poi — piccola com’era — imprecava sempre contro « quell’uomo » che era il Primula. Ci faceva rintronare le orecchie. Qualche volta stava zitta; era quando non si sapeva niente degli uomini che erano tutti giù e non venivano notizie. In. quei giorni, ci avrebbe fatto più piacere se l’avessimo sentita sbraitare.

Primula aveva due paia di calzoni. Un paio li portava indosso, l’altro paio, quando non era in bucato, lo porta-

vano a turno i suoi uomini mentre si curavano la scabbia.

Cichín era uno dei quaranta; in nulla diverso dagli altri, forse più silenzioso e quieto. Quando cantava tirava fuori una acuta voce in falsetto e i suoi occhi, fermi, riflessivi occhi di contadino, prendevano un’espressione curiosa, concentrata e un po’ velata. Non parlava mai, almeno io non ricordo. Quando i ragazzi dicevano delle cose piccanti o guardavano le ragazze di Sala, gli occhi di Cichín diventavano acuti e maliziosi.

Una volta, in combattimento, si prese una pallottola in un polpaccio. Sembrava una cosa da niente, ma gli venne la gangrena. Io lassù facevo il medico della V Divisione; poiché non mi era ancora riuscito, di trovare un posto adatto per fare l’infermeria, ero sempre in giro da un distaccamento all’altro e non posso dire che i ragazzi mi rendessero la vita facile.

Ero arrivata da poco, i garibaldini a quei tempi erano tutti operai e contadini e non mandavano giù molto facilmente l’idea di farsi curare da una donna. Del resto, tolta una epidemia di enterite, erano in salute. Non avevo altro da fare che togliere qualche dente, di tanto in tanto, e distribuire la pomata contro la scabbia; c’era stato anche Pat, un partigiano australiano che avevo, trovato al mio arrivo più di là che di qua per una frattura alla coscia buscata in combattimento e complicata essa pure da gangrena, e che avevo invano disputato alla morte.

Insomma i ragazzi non mi vedevano, molto di buon occhio; il fatto che ero un medico donna li disturbava; dei resto, per la prima volta in vita mia, mi trovavo alle prese con problemi organizzativi ai quali non ero preparata; per la prima volta vedevo nella realtà, fuori dei libri, la gangrena, non avevo siero, non avevo niente fuorché un bisturi, alcune pinze, un paio di aghi. Mi pareva più importante insegnare alle ragazze del paese le prime nozioni di pronto soccorso, procurarmi dalla città le prime cassette di medicazione per le pattuglie, cercarmi il posto e le casseruole per l’infermeria, che insegnare ai ragazzi come si fa a non prendere quella tremenda diarrea. Sovente, in mancanza delle medicine necessarie, curavo la gente battendo loro la mano sulla spalla e dicendo: « Coraggio, passerà ». Il che, si capisce, non è una buona réclame.

Finché, come dicevo, non venne la gangrena a Cichín. Io ero in giro chissà dove nei distaccamenti, lui stava proprio male. Delirava, aveva la febbre alta e, una volta che vennero su i fascisti mentre egli era in quelle condizioni, avevano perfino dovuto nasconderlo in una buca nell’orto, sotto le fascine. La moglie di Primula moriva di spavento che lo sentissero mentre farneticava ad alta voce là sotto.

Cichín era uno dei pochi casi gravi che avevamo avuto fino allora nel distaccamento. Primula badava ai suoi uomini con la gelosia di una madre, e il suo vanto maggiore era proprio il rapporto fra le vittime nemiche e l’incolumità dei suoi, nei duri combattimenti che sosteneva.

Ci voleva un chirurgo. Lo mandarono a chiamare a Biella, ma ebbe paura e non venne. Era chiaro che non si fidavano di me e che mi mandarono a prendere come estremo rimedio. Per fortuna, quando arrivai dal ferito, ci capitò anche il Cecco, il medico del Raggruppamento Divisioni Biellesi, che aveva sempre lavorato in chirurgia, ma di cui i ragazzi avevano una soggezione del diavolo, perché parlava poco, guardava sempre di traverso la gente anziché negli occhi, e soprattutto perché pretendeva che dessero una guardia armata alla costituenda infermeria. A quei tempi, quando un’arma veniva esclusivamente concepita come strumento d’attacco, pensare a sottrarne anche una sola per difendere sia pure i feriti, era cosa da rendere impopolare anche il più grand’uomo della terra.

Al nostro sopraggiungere il malato era gravissimo: era fuori conoscenza, aveva una gamba da far paura, un polso che si sentiva appena. Ci guardammo in faccia.

Spacciato per spacciato, valeva la pena di amputare la gamba. Mandai a Biella per il siero anti gangrenoso una delle mie ragazze dei Gruppi di Difesa della Donna. Mi ero già preso un cicchetto da un compagno civile, uno del posto, mai visto e mai conosciuto, perché, senza avere avuto direttive, io, partigiana, mi ero immischiata nella organizzazione delle donne civili. Quelle ragazze vivevano li sul posto, sapevano tutto di noi come noi stessi e poi la cosa era urgente. Solo loro potevano andare a Biella in farmacia per il siero e il cloruro di etile. Ci andarono e fecero anche straordinariamente in fretta.

Io non aveva mai tagliato una gamba, avevo sempre e solo fatto il ginecologo, ci voleva una sega per l’osso, un laccio di gomma, delle pinze, dei panni sterili, uno che tenesse la gamba con un qualche criterio di asepsi e antisepsi, uno che desse la narcosi col cloruro di etile, dato che non c’era altro di meglio che là potessimo adoperare. E il cloruro di etile è il più bastardo degli anestetici: uno si addormenta presto, ma se gliene dai una goccia più del, necessario, ti diventa blu e se ne va in un amen. E sovente non gli puoi far niente. Se poi la narcosi non è abbastanza profonda, l’ammalato incosciente tira calci, si sbatte giù dal tavolo e non bastano quattro uomini a tenerlo. Un guaio, insomma. Le mie ragazze non avevano l’aria di essere in grado di aiutare. Ci mancavano degli svenimenti nel bel mezzo dell’operazione, coll’attrezzatura che avevamo

Parlai ai garibaldini e chiesi quattro volontari che non svenissero e non avessero paura del sangue. Sapete, come sono gli uomini; contano gloriosamente il numero dei fascisti che sono saltati a pezzi con un camion, ma se il medico fa un’iniezione, ne trovi più di uno che diventa pallido. Andai a farmi imprestare una sega dal macellaio e una gomma da damigiana dall’oste, per far da laccio emostatico, e mentre il tutto bolliva, spiegai ai ragazzi che cosa dovessero fare, come e perché. Nemmeno nelle « ore politiche » più interessanti, erano stati così attenti. La gomma per damigiana era terribilmente dura, poco elastica, le pinze emostatiche spaventosamente poche, faceva pena dover amputare alto sopra il ginocchio, era una cosa che avrebbe pregiudicato la funzionalità di un eventuale apparecchio ortopedico, caso mai Cichín se la fosse cavata, ma il ginocchio era grosso così e non si poteva più salvare. Malgrado che l’avessi lustrata con tutta l’anima, la sega lasciò sul morcone osseo uno strato di untume nero. Poco male: tanto l’avevo fatta bollire a lungo e l’infezione era già in atto, e grave.

Insomma, Cichín non mori sotto i ferri, anzi, la narcosi fu così perfetta che nemmeno si mosse, e avemmo tutto il tempo di amputare e di trasportarlo dal tavolo di cucina al letto. Per me, per tutto il distaccamento, la cosa fu pesante come un combattimento. Si era trattato di battersi con una povertà di mezzi che i ragazzi, affamati di armi come erano, avevano acutamente sentito. Per me, si era trattato di disputare Cichín alla morte, battendomi contro il senso di menomazione che mi veniva dalla loro iniziale sfiducia. Se Cichín fosse morto, non si sarebbero più lasciati curare nemmeno la scabbia.

Cichín non mori e la Fiamma, come medico, ebbe il suo battesimo del fuoco partigiano, la sua investitura garibaldina che le fece acquistare diritto di cittadinanza fra i compagni partigiani.

Niente di quello che feci in seguito, anche se fu difficile e disperato, niente di quello che farò ancora fin che camperò fu o sarà così buono, caldo, pulito. Pensate: la cucina sporca e fumosa; quattro garibaldini cogli occhi di fanciullo attento, fissi al loro compito inusitato, più fissi che al mirino del ’91 per sparare; Cichín che, sotto l’effetto dell’anestetico, russa pesantemente, il Cecco che fa dello stile e dei virtuosismi sul moncone, il mio cuore che batte coll’arteria dell’arto sopra la linea di amputazione, che batte col polso del paziente, che batte in gola a me e agli altri, col ritmo e il rimbombo di un mitra, quando si vogliono risparmiare le cartucce. Poi Cichín si svegliò: i suoi occhi stupiti di contadino si aprirono alla vita e girarono attorno: le lunghe ciglia sbatterono quasi con rumore. Lo avevamo operato dopo che da ore ed ore era in istato di incoscienza. Sfumata l’anestesia, si accorse che gli doleva il ginocchio che non aveva più e si lagnò.

E allora Primula — Primula che mori sconfiggendo trecentocinquanta tedeschi —, allora i garibaldini, che quasi a mani nude affrontavano i fascisti per strappare loro le armi, fuggirono dalla camera perché bisognava dire a Cichín che gli avevano tagliato la gamba e nessuno ne aveva il coraggio. Gliela dissi io. Cichín mi guardò con i suoi occhi fermi che non cambiarono espressione, con quegli occhi con cui i suoi padri e i suoi nonni braccianti guardarono sempre al medico e al prete venuti quando suonava l’ora del trapasso. E fu come se la sofferenza, il dolore, il rimpianto, fossero fuori di lui e non lo toccassero. Poi sotto le coperte la sua mano si mosse adagio e tastò il moncone, ahi come breve! sotto il mucchio di bende. Ecco, forse questa è una cosa che io sento solo adesso nel calore del ricordo, eppure mi pare proprio che fu in quel preciso momento che io seppi come Cichín sarebbe guarito e che la vittoria era nostra.

Allora tutto diventò normale, io cessai di essere un medico e divenni, che so io? una madre, una sorella. Cichín aveva vent’anni, era un bel ragazzo sano, aveva ancora tutto il suo avvenire, tutta la sua vita dentro di sé: e aveva una gamba di meno.

Su nella stanzetta odorante di stalla, ronzante di mosche, nel luglio dei 1944, mentre intorno, a pochi chilometri, e lontano fino ai fronti estremi i fascisti e i tedeschi distru.ggevano, torturavano, massacravano, incendiavano e impiccavano, mi misi a parlare dell’avvenire; e lo vedevo. Fuori sul ballatoio, dietro la persiana abbassata, i ragazzi, coll’orecchio teso alle mie parole, dicevano di sì, di si col capo.

« Vedrai, Cichín, la gamba ti guarirà bene, ti faranno un apparecchio a guerra finita che non si vedrà nemmeno che ti manca un pezzo. Potrai ballare, andare in bicicletta, sposarti. Avrai un lavoro diverso, che ti si adatti. Non è necessario che tu lavori solo e sempre la terra, a questo mondo ».

E nei lenti occhi del mutilato, in quegli occhi incantati di fanciullo comparve la rassegnazione. Le lunghe ciglia non battevano più: Cichín si stava già adattando al suo apparecchio ortopedico, un apparecchio da signore, dei più perfezionati.

.Guarì sorprendentemente in fretta. Non lasciò nemmeno il tempo al falegname del paese di fargli la stampella per il primo giorno quando si levò da letto.

E dopo un paio di settimane il Comando decise che l’intero distaccamento si spostasse da Sala: era necessario che le pattuglie agissero ancora più vicino alla città. Cichín, come al solito, stava zitto, in mezzo a tutto quell’armeggio della partenza. Ma quando i ragazzi, già tutti equipaggiati, con la coperta arrotolata, il fucile sotto il braccio e il cucchiaio alla cintura, vennero ad accomiatarsi da lui, allora Cichín si mise a piangere. Fummo terribilmente imbarazzati per quella che ci parve una reazione tardiva e un poco inesplicabile. E qui viene il bello, perché Cichín non piangeva la sua gamba, nemmeno per sogno! Cichín disse solo che voleva andare anche lui. Ci mancò il fiato per un momento, ma non ci sognammo nemmeno di scuotere la testa e di compatire a parole, come si usa quando, un. malato dice delle cose da fanciullo viziato. Cichín era dei nostri, voleva restare dei nostri; se un operaio, un contadino, un partigiano vuole una cosa giusta ed onesta, è segno che questa cosa tosto o tardi sarà fatta. Così ,Cichín fini per partire anche lui. Gli facemmo i documenti di mutilato nella guerra di Grecia, Primula requisì una bella carrozzella col suo cavallo e Cichín si mise a fare la staffetta e l’informatore del distaccamento. Anche lui, come gli altri, era dappertutto. Una volta lo presero perfino in un rastrellamento, ma lui era mutilato, di Grecia, uno non può sembrare un partigiano se gli manca una gamba, e lo, lasciarono andare.

Che strano! A pensare alla storia di Cichín, io ho sempre creduto che fosse facile da raccontare, perché è vera, semplice, commovente. Invece, ora che ho finito, mi accorgo che -sembra una cosa lasciata a metà.

Forse è perché io non posseggo l’arte di scrivere e non ho saputo darci un tono drammatico, metterci dei dialoghi che tengano in sospeso e conducano il lettore allo scioglimento dell’azione, infilarci qualche piccola invenzione che renda il tutto più appetitoso e naturale, riveli un conflitto d’animi, metta sul piedistallo un eroe. Eppure, non ne posso nulla se lassù i dialoghi non erano molto in auge, e se soprattutto Cichín rifuggeva di parlare. Non ne posso nulla nemmeno se nel mio racconto ho parlato anche dì altri, oltre che di Cichín. Egli non è per nessuno di noi l’unico eroe: egli è il garibaldino soltanto, quello che riceve forza e vita dalla sua unità di combattimento, che ne fa parte in modo da non potersi staccare da lei, se appena ha forza e vita.

E se finissi illustrando il giorno del ritorno a casa, il giorno della liberazione? Perché, vedete, naturalmente Cichín tornò nel suo villaggio, nella grande fattoria dove la sua famiglia serviva accudendo al bestiame e coltivando il riso. Tutto aveva un’aria speciale. Le ragazze ridevano e piangevano in quel giorno di aprile, scosso da fremiti di sole e da piovaschi improvvisi. Le mamme sorridevano in modo quasi doloroso, cincischiando con le mani inoperose i lembi del loro grembiule, i bambini cantavano a squarciagola le canzoni partigiane e facevano un vero corteo dietro a ogni partigiano che tornasse a casa. Ognuno credeva che tutto fosse finito e, nella improvvisa pausa successa alla cacciata dei fascisti, si stava ancora col fiato sospeso; non avevamo ancora imparato a riunirci e a discutere quello che avverrebbe nella cascina, nella fabbrica, nel villaggio. Sapevamo solo che adesso tutto sarebbe cambiato.

Il proprietario della grande cascina dove abitava il bracciante Cichín aveva messo una grande bandiera sul balcone del primo piano; andò personalmente a battere manate sulla schiena di Cichín e lo invitò a casa sua; stappò una bottiglia e lo fece sedere in sala, là dove egli non aveva mai avuto diritto d’ingresso. Aveva un’aria particolare, l’aria di chi vuole far credere che si deve mettere una pietra sopra il passato, quel passato che lo aveva reso commendatore perché nella sua cascina i Cichín avevano prodotto tanto riso e fatto guadagnare tanti soldi. Il parroco venne anche lui, abbracciò Cichín davanti a tutti, lo chiamò figliolo e gli disse all’orecchio che anch’egli aveva sofferto molto, Cichín non poteva nemmeno figurarsi quanto avesse fatto e sofferto.

Ma nemmeno questo può servire a dare un finale conseguente al fatto di Cichín. Perché fosse così, bisognerebbe poter raccontare che a Cichín fecero un bell’affaretto ortopedico di cui parlammo,, così che egli poté trovarsi un nuovo lavoro confacente, una casa, una sposa. Ma questo non lo Possiamo dire.

Io ho rivisto Cichín nel 1948. Lo portarono all’ospedale per un’ulcera gastrica perforata, bisognò operarlo d’urgenza che a momenti ci lasciava la pelle. Lo ricoverarono con le carte di povertà del Comune: era disoccupato da tante tempo, aveva fatto un po’ il fattorino al Municipio del suo paese, poi bisognò licenziarlo per riassumere il fattorino di prima che era tornato da Coltano. L’apparecchio ortopedico non ce l’aveva, si muoveva su un moncone di legno che sbatteva cupamente sul pavimento dell’ospedale e spuntava vergognoso dalla gamba dei calzoni. Erano in corso le pratiche per la pensione; bisognò ricordarsi la data precisa

di quando lo operammo e fargli i certificati medici necessari alla burocrazia.

La fidanzata non ce l’aveva.

A raccontare le cose così, uno finisce per accorgersi che davvero non è la colpa di chi scrive se la storia di

Cichín pare rimasta a mezzo. Il fatto è che la storia, davvero, non è ancora finita.

Da: Scarpe rotte e pur bisogna andar….. Racconti del premio Prato 1951 – 1954. Edizioni Avanti!, 1955

Anna Marengo, Una storia non ancora finita *

* Premio Letterario Prato 1952.

Racconto vincitore del primo premio.

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