Archivio mensile:ottobre 2012

La strage dei minatori di Noccioletta

“per dignità, non per odio”

La strage dei minatori di Niccioleta

di Giovanni Baldini, 27-9-2004, Creative Commons – Attribuzione 3.0.

La miniera di Niccioleta fu da subito un importante luogo d’appoggio per i partigiani della zona. Successivamente all’armistizio dell’otto settembre 1943 rifornì i ribelli di carburante, di esplosivi, altri materiali essenziali ed ebbe ruolo di officina per riparare le armi.
Da quando in zona cominciò ad operare la 23° Brigata Garibaldi (vedi
Frassine) l’attività dei minatori in appoggio ai partigiani intensificò ancora.

I tedeschi di stanza a Massa Marittima controllavano spesso Niccioleta, la tattica della terra bruciata imponeva di monitorare da vicino le risorse della miniera in modo da poterle distruggere nonappena il fronte si fosse avvicinato troppo. Ma i minatori avevano occultato macchinari, attrezzature, esplosivi e viveri.

Il 3 giugno 1944 un distaccamento di partigiani comandati da Vincenzo Checcucci entrò in Niccioleta. L’euforia degli abitanti di Niccioleta, che leggevano questo fatto come un’avvisaglia della prossima fine della guerra indusse a due leggerezze: da una parte fu deciso che i fascisti del paese non erano particolarmente pericolosi e li si obbligò soltanto a una sorta di arresti domiciliari, dall’altra una delle liste per i turni di guardia al materiale salvato dalle razzie dei tedeschi fu lasciata in vista nei locali della miniera. Le conseguenze furono tragiche.
La guardia ai pochi fascisti di Niccioleta venne montata efficacemente, ma alcune delle loro mogli riuscirono ad aggirarla e ad avvertire il comando fascista che era al Pian di Mucini, a tre chilometri dal paese.

La squadra partigiana nel frattempo si era ritirata, sul posto erano rimasti solamente dei partigiani di Niccioleta che avevano organizzato i suddetti turni di guardia.
Il 13 giugno oltre 300 fra soldati tedeschi e milizie fasciste accerchiarono e attaccarono il paese di Niccioleta.
Durante il rastrellamento i nazifascisti avevano radunato e immediatamente fucilato quanti erano stati riconosciuti dai fascisti locali come collaboratori dei partigiani. In questa occasione i caduti furono: Baffetti Rinaldo, Barabissi Bruno, Chigi Antimo, Sargentoni Ettore, Sargentoni Ado e Sargentoni Alizzardo.

I Sargentoni (padre e due figli) vennero uccisi perchè trovati in possesso di una pistola, che in effetti avevano requisito ad uno dei fascisti il giorno della venuta dei partigiani. Il Barabissi fu trovato in possesso di un fazzoletto rosso e il Baffetti era un antifascista noto. La storia di Antimo Chigi è più articolata: il Chigi era un repubblichino di stanza a Siena, tornava a casa spesso in divisa tedesca, per farlo in tutta tranquillità si era accordato coi partigiani che gli avevano rilasciato un lasciapassare, faceva insomma il doppio gioco. Quando i tedeschi presero gli altri per torturarli e poi ucciderli lui se ne uscì con frasi di incitamento ai tedeschi e di ingiuria verso i condannati. Il tenente tedesco allora lo fece avvicinare e lo perquisì, trovandogli il lasciapassare partigiano.

I nazifascisti scovarono la lista dei nomi di coloro che fra i minatori avrebbero partecipato alle ronde anti-tedesche nei giorni successivi. Allora radunarono tutti gli uomini del paese e dopo aver liberato il direttore della miniera, il parroco e pochi altri fecero incamminare verso nord, gli venne detto che sarebbero stati obbligati a lavorare alla distruzione della stazione geotermica di Castelnuovo e successivamente vennero fatti salire su dei camion.

A Castelnuovo

Il III Polizei-Freiwilligen-Bataillon Italien (le SS italiane, volontari che servivano direttamente nell’esercito nazista) era arrivato a Castelnuovo all’alba del 10 giugno 1944 proveniente da San Sepolcro. A Castelnuovo l’attività partigiana era stata particolarmente intensa nei giorni precedenti, nei dintorni si erano installati alcuni distaccamenti della 3° Brigata Garibaldi: il 7 i partigiani erano entrati in paese e avevano requisito le armi della Guardia Nazionale Repubblicana. I fascisti tra l’altro avevano evitato lo scontro dileguandosi per tempo, solamente uno venne preso mentre rientrava da Pisa. Alla richiesta da parte dei partigiani di identificarsi costui mostrò la tessera del fascio repubblichino, una spavalderia che gli costò la vita.
Inoltre l’arrivo delle SS italiane interruppe un’azione partigiana che mirava a sottrarre tutta la biada che i contadini erano stati costretti a mettere all’ammasso, in maniera simile a quello che quasi contemporaneamente accade anche a Monterotondo Marittimo, ma a Castelnuovo i partigiani riuscirono a ritirarsi senza essere notati.

All’arrivo in paese le SS operarono un rastrellamento che portò all’arresto di quattro giovani renitenti alla leva e che vennero instradati verso la deportazione.
La sera del giorno 13 arrivano a bordo di camion circa 120 uomini rastrellati a Niccioleta.

I minatori di Niccioleta passarono la notte nel teatro di Castelnuovo, la mattina furono divisi in tre gruppi: uno destinato alla fucilazione, uno alla deportazione e uno per essere rimandato a casa.
Al più importante dei fascisti di Niccioleta, tale Calabrò, di origini siciliane, venne data la possibilità di scegliere sei persone da salvare ma ne scelse solo due. Così il gruppo dei condannati arrivò a contare 77 persone.
La cernita per la composizione venne fatta sulla base della lista rinvenuta a Niccioleta per i turni di guardia che i minatori avevano istituito a protezione della miniera, chi era in quella lista venne ucciso. Gli altri vennero divisi per età: i giovani alla deportazione, i vecchi a casa.

I 77 vennero condotti poco distante, nei pressi di una centrale geotermica, dove i soffioni erano stati liberati dai tubi e producevano un rumore fortissimo. Vennero fatti entrare in una specie di piccolo anfiteatro naturale e abbattuti a raffiche di mitra.
Il gruppo dei giovani venne portato a Firenze e di lì in Germania nei campi di lavoro, a quanto risulta sono tutti tornati alle loro case alla fine della guerra.

Oltre ai minatori

Ai settantasette minatori si aggiunsero quattro partigiani provenienti da Volterra, tutti ex ufficiali dell’esercito.
Si trattava di Gianluca Spinola, romano di famiglia facoltosa e possidente della villa di Ariano nei pressi di Volterra, dei sardi Vittorio Vargiu e Francesco Piredda e infine di Franco Stucchi, fiorentino, arrestati nei giorni precedenti durante un’operazione contro i tedeschi e trasferiti al Maschio di Volterra. Nella notte fra il 13 e il 14 vennero trasferiti a Castelnuovo e nei pressi del podere Sorbo, tra le 11.00 e le 12.00 del 14 di giugno, Stucchi, Piredda e Vargiu vengono fucilati. Spinola invece, riconosciuto come capobanda, verrà più volte interrogato e poi ucciso nella caserma di Castelnuovo.

Altri tre partigiani erano destinati alla stessa fine. Nella notte tra il 14 e il 15 giugno vengono prelevati dal carcere di Volterra Dino Fulceri "Mosè", Gino Benini e Dino Del Colombo, che a causa delle torture subite versano in pessime condizioni. Durante il percorso il mezzo su cui si trovano deve fermarsi per la foratura di un pneumatico. Al loro arrivo a Castelnuovo i tedeschi saranno già partiti e i prigionieri verranno di nuovo riportati nel carcere di Volterra dal quale saranno liberati circa un mese più tardi.

Considerazioni storiche

Una delle questioni su cui ci si è interrogati, anche a proposito delle motivazioni che generarono l’eccidio, è il perché a Castelnuovo siano state inviate SS di San Sepolcro, che essendo in provincia di Arezzo comportò un lungo spostamento durato pressappoco un giorno e una notte. Spostamento disagevole e movimentato, visto che durante il giorno 9 la colonna fu ripetutamente bombardata dagli alleati.
Questa scelta risulta particolarmente strana ricordando che vi erano numerosi reparti della Wehrmacht (ovvero dell’esercito regolare) che transitavano e stanziavano lungo la costa grossetana e livornese e che avrebbero raggiunto Castelnuovo in minor tempo.
L’opinione oramai consolidata degli storici è che vi fosse in atto uno scontro politico fra gli alti ufficiali delle SS e dell’esercito regolare tedesco e che le SS si volessero accreditare agli occhi dei generali come ben più efficienti nell’opera di contenimento delle bande partigiane, che all’epoca si erano fatte estremamente pericolose. In quest’ottica assume un significato sia il rastrellamento iniziale particolarmente tiepido contro Castelnuovo e
Monterotondo per l’intenzione di fare in zona una base per azioni antipartigiane, sia l’accomunare partigiani veri e minatori sotto un’unica conta di 92 partigiani giustiziati (oltre ai 77 minatori caduti qui e ai 4 partigiani provenienti dal Maschio di Volterra ci sono da annoverare 6 caduti alla Niccioleta e altri 5 partigani caduti a Monterotondo).

Insomma: le SS erano in quella zona per compiere qualche azione antipartigiana eclatante e i fatti della miniera di Niccioleta furono un’occasione fortuita ma eccellente, poco importa che i 77 minatori stessero semplicemente difendendo il proprio lavoro.
Il tenente Blok, artefice del rastrellamento di Niccioleta, riceverà per questo un riconoscimento al valor militare dai suoi superiori.

Sangue sulla Nievole

“per dignità, non per odio”

Sangue sulla Nievole

di Roberto Daghini, 22-10-2008, Tutti i Diritti Riservati.

Questa storia si svolge nel comune di Montecatini-Terme (PT).

L’8 agosto 1944 i tedeschi e i fascisti locali effettuarono un rastrellamento nel paese della Nievole.
I militi erano alla ricerca di armi e di partigiani. Furono perquisite alcune abitazioni in località Vannini, fra le quali la casa di Cesare Francesconi in cui non venne trovato niente. Ma in un abitazione a fianco, di cui i Francesconi avevano la chiave e la custodia, trovarono numerosi viveri lasciati dal proprietario. Questo bastò per arrestare il Francesconi.

Il rastrellamento continuò con l’arresto di Quinto Mazzoncini (amico del Francesconi), di Orlando Buralli e di un certo "Napolino", sfollato in casa dei Buralli. Portati al comando tedesco furono interrogati alla presenza di sette fascisti, di cui due di Serravalle e gli altri della Nievole, e di ufficiali tedeschi.
Gli fu chiesto se sapevano dove fossero nascosti i partigiani.

Disperata, la moglie del Mazzoncini raggiunse il comando tedesco di Vannini e chiese del marito e degli altri ostaggi. Un fascista del posto disse che stavano discutendo per trattare la loro liberazione.
Dopo circa due ore dalla cattura il Buralli e "Napolino" furono liberati.

Alle ore ventidue il Francesconi e il Mazzoncini furono portati da due tedeschi in località "Le vigne". I tedeschi, ubriachi, cominciarono a scavare una fossa, gli ostaggi furono messi in cima ad un ciglio.
Durante i preparativi dei tedeschi il Mazzoncini capì che li avrebbero fucilati e propose al compagno di tentare la fuga, ma Francesconi rispose che non se la sentiva, che non aveva motivo di aver paura perché non aveva fatto nulla di male.

Approfittando di un attimo di distrazione dei tedeschi il Mazzoncini si gettò lungo la scarpata, i tedeschi lo fecero segno di numerosi colpi di mitra e bombe a mano, ma nascosto dentro un canneto aspettò che cessasse il fuoco e risalì la scarpata dalla parte opposta.
Durante la fuga il Mazzoncini si era ferito con del filo di ferro perché era stato catturato scalzo ma la paura era così tanta che non sentì alcun dolore. Cercando di non lasciare tracce raggiunse l’abitazione dei fratelli Armando e Orlando Francesconi a cui chiese di avvertire la sorella e la famiglia che era vivo.
I Francesconi lo aiutarono: il Mazzoncini rimase nascosto nei boschi circostanti per venti giorni prima di fare ritorno a casa. Fortunatamente i tedeschi e i fascisti non trovando il corpo pensarono che fosse morto e che i suoi resti fossero stati portati via dai partigiani locali.

La fiducia di Cesare Francesconi non fu premiata: i tedeschi lo fucilarono subito, lo sotterrarono e la famiglia lo trovò il giorno dopo, con i piedi fuori dalla terra.

A fine guerra fu fatta un’inchiesta grazie alla quale si conoscono tutti i nomi dei fascisti che parteciparono alla cattura, ma come in molti altri casi non si è mai arrivati ad una condanna.

Nota

L’autore desidera ringraziare i signori Francesco e Giuseppe Francesconi e Cesare Mazzoncini, figli rispettivamente di Cesare e Orlando Francesconi e Quinto Mazzoncini, per le testimonianze orali concesse il 6-9-200

L’incendio di Fonte Santa

L’incendio di Fonte Santa

di Alessandro Bargellini, 14-2-2006, Tutti i Diritti Riservati.

Questa storia si svolge nel comune di Bagno a Ripoli (FI).

Dopo aver lasciato San Donato in Collina, la mattina del 3/8/1944 le retroguardie tedesche giungono a Casa Gamberaia. Devono organizzare un’altra linea di resistenza contro l’incalzante avanzata degli Alleati e contemporaneamente smantellare la presenza dei partigiani della XXII/bis Brigata Garibaldi "A. Sinigaglia".

Proprio nel tentativo di accerchiare un gruppo di soldati tedeschi, una pattuglia garibaldina resta isolata e dopo un breve combattimento viene scompaginata.

Il comandante della I Compagnia della "Sinigaglia", Sergio Donnini ("Otto"), è catturato e condotto verso Troghi per essere giustiziato. Durante la marcia riesce a sorprendere il soldato che lo scorta: lo uccide e così riesce a porsi in salvo.

Nel pomeriggio il bosco di Fonte Santa è in preda ad un incendio di vaste proporzioni. I tedeschi hanno attaccato in forze usando i lanciafiamme per stanare i partigiani. Le fiamme, sprigionate nei boschi di Montisoni, sono spinte dal vento verso Poggio Firenze e ciò contribuisce a proteggere la ritirata di queste truppe.

Le uniche forze che ancora le contrastano sono quelle della II Compagnia della "Sinigaglia"; alla fine degli scontri il nemico conterà 16 caduti.

Di contro abbiamo la solita barbarie tedesca che si sfoga presso Casa Gamberaia con l’uccisione del contadino di San Donato in Collina Fortunato Chiarantini (nato a Rignano sull’Arno, 58 anni) e del partigiano Silvano Galantini (nato a Firenze, 20 anni). Dopo essere stati catturati sono trucidati con un colpo di pistola alla nuca.

Non è noto a quale formazione appartenesse il Galantini giacché nel libro di memorie di Angiolo Gracci, comandante della "Sinigaglia", è pubblicato l’elenco dei caduti di questa formazione ed il suo nome non vi compare. Tuttavia è sepolto nel cimitero monumentale dell’Antella.

La strage di Castello

La strage di Castello

di David Irdani, 2-10-2006, Creative Commons – Attribuzione 3.0.

Questa storia si svolge nel comune di Firenze.

Teatro del massacro furono i sotterranei dell’ Istituto Chimico Farmaceutico Militare di via Reginaldo Giuliani, adibiti allora a rifugio antiaereo e dove la popolazione civile della zona si era rifugiata per sfuggire alle bombe.

Verso le ore 21 del 5 agosto 1944 un gruppo di soldati tedeschi si presentò ad una casa della zona con la scusa di chiedere dei viveri ma, fatti passare in casa, tentarono di violentare una giovane donna. Mentre la donna cercava di difendersi partì un colpo di pistola, non si sa bene se sparato da un soldato che cercava di impedire lo stupro o partito per caso, che ferì uno degli aggressori. A questo punto i soldati si dileguarono mentre la donna con i propri familiari si nascosero nel vicino ospedale di Careggi; il codice tedesco di guerra prevedeva pene severissime per i suoi soldati che si macchiavano di reati di stupro.
I soldati aggressori, tornati al comando, dissero al loro comandante che il loro commilitone era stato ferito da un italiano lungo via Reginaldo Giuliani in modo da evitare la corte marziale. Il capitano Kuhne, comandante della zona, dette ordine di fucilare dieci italiani per rappresaglia.

Verso le ore 22.30 un plotone di soldati tedeschi bussò alla porta del rifugio dell’Istituto Chimico Farmaceutico Militare; andò a aprire un giovane, Silvano Fiorini, che venne preso a pugni con l’accusa di essere un partigiano: il ragazzo provò a difendersi ma venne freddato con un colpo alla testa. Scesi negli scantinati, i tedeschi lanciarono bombe lacrimogene per fare uscire la gente nascosta.

Un gruppetto di uomini fu portato fuori, perquisito e poi messo lungo un muro: alcuni di loro, capendo cosa li aspettava, tentarono una fuga disperata attraverso una presa d’aria. Due ce la fecero mentre un terzo, il partigiano Beppino Mazzola, venne colpito a morte. Altri ostaggi si salvarono in maniera fortunosa, uno fingendosi morto dopo una ruzzolata dalle scale; un altro nascondendosi tra i cadaveri dei fucilati; un giovane invalido si salvò per il buon cuore di un tedesco che cedette alle preghiere della mamma; un altro ostaggio riuscì a scappare da un ufficio mentre un soldato gli proponeva di salvargli la vita se andava a lavorare per i tedeschi.

Dieci uomini vennero quindi mandati a morte. La loro fucilazione si svolse tra il terrore dei parenti fra le 22 e le 23:30 dello stesso giorno. I nomi delle vittime sono: Francesco Granili (44 anni), Michele Lepri (33 anni), Tullio Tiezzi (47 anni), Mario Lippi (44 anni), Ugo Bracciotti (44 anni), Aldo Bartoli (31 anni), Attilio Uvali, Francesco Iacomelli (57 anni), Giorgio Biondo (36 anni), Vittorio Nardi (16 anni).
Quest’ultimo cugino di Loder Pirro "Gambalesta" che fu capitano della Brigata "Fanciullacci" operante su
Monte Morello.
A questi si aggiungono Silvano Fiorini (23 anni) e Beppino Mazzola precedentemente menzionati.

La rabbia dei soldati nazisti proseguì dopo la strage con il saccheggio delle case della zona e altre minacce ai superstiti. Dei fucilati, pare che solo tre di loro fossero effettivamente dei partigiani (Silvano Fiorini, Mario Lippi e il giovanissimo Vittorio Nardi) ma che in quel periodo non fossero attivi.

Al momento della liberazione della zona i soldati inglesi aprirono una indagine condotta dal sergente Smedley, conclusa nel giugno 1945, che giudicò colpevoli del massacro il capitano Kuhne ed il maggiore Grundman.

Come tante stragi naziste in Italia anche questa rimase impunita, anche se pare che uno dei due responsabili (a detta delle testimonianze di Giorgio Pipoli e di una donna che aveva dovuto ospitare il comando tedesco in casa) venisse ucciso nel centro di Firenze dai partigiani durante l’insurrezione della città una settimana dop

Una strage di pistoiesi a Trignano

Una strage di pistoiesi a Trignano

di Roberto Daghini, 15-4-2009, Tutti i Diritti Riservati.

Questa storia si svolge nei comuni di Fanano (MO), Pistoia.

Tra le stragi che hanno coinvolto cittadini pistoiesi, bisogna ricordare quella avvenuta a Trignano in comune di Fanano (MO) che coinvolse sei persone originarie della frazione pistoiese di San Felice.

Nel paese di San Felice posto sulle colline a pochi chilometri da Pistoia il 24 settembre 1944 furono rastrellati dai tedeschi sette persone che per vari motivi si trovavano nascosti in zona.
Erano alcuni padri di famiglia: Dino e Virgilio Ciani, Mario Bartolozzi, Vittorio Gori, Francesco Nardi, Uliviero Menichini, Vannino Vannucci. I tedeschi li avevano catturati perché servivano per il trasporto di materiale bellico nella ritirata.

Arrivati in Emilia furono liberati nel comune di Montese. Nel fare ritorno a casa il 28 settembre giunsero a Trignano: una donna intenta a fare lavori agricoli presso una casa li avvertì della presenza di due tedeschi che erano intenti a stendere del filo telefonico e per sicurezza gli disse che era meglio che fuggissero senza farsi vedere.
I sette pistoiesi però risposero che non avevano nulla da nascondere.

Individuati furono subito arrestati dai tedeschi e portati al comando. L’ufficiale non credette alla loro versione e li scambiò per partigiani. Alle otto di sera dello stesso giorno furono fucilati e sepolti alla meno peggio nelle vicinanze.

A guerra finita nel gennaio 1945 il parroco di Trignano, don Emilio Bazzani, scrisse a quello di San Felice, don Alfonso Muratori, che aveva trovato sette corpi di toscani originari di San Felice. L’identificazione fu possibile perché una delle vittime prima di essere fucilato aveva rivelato la propria provenienza ai componenti della famiglia della casa dove era acquartierato il comando.

I parenti riconobbero i resti mortali, ma il problema maggiore erano i costi per l’esumazione e il ritorno in Toscana. A tutto fu ovviato grazie ad una sottoscrizione effettuata dai paesani di San Felice e anche grazie alla genorosità della Marchesa Vivarelli Colonna che concesse la propria auto con autista per il funerale e propose di pagare cinque delle bare.

Il 1 luglio 1945 furono fatte le esequie alla presenza del sindaco di Pistoia avv. Gino Michelozzi, del dott. Bianchi della camera del lavoro, dell’avv. Ardelio Petrucci in rappresentanza dei partigiani, di Renato Pierinelli e di don Alfonso Muratori.
Oltre alle salme dei sette fucilati si aggiunse anche quella di Poli Valoris fucilato insieme ad altri tre alla fortezza il 31 marzo 1944 perché renitente alla leva: disseppellito dal cimitero della Misericordia fu portato a San Felice in quanto originario del paese.

La fuga di "Giannetto"

La fuga di "Giannetto"

di Alessandro Bargellini, .

Ivo Lazzeri ("Giannetto", nato a Firenze il 15/8/1920, celibe), partigiano della XXII/bis Brigata Garibaldi "A. Sinigaglia", è considerato disperso durante uno scontro avvenuto con i tedeschi in località "Casa del Pecoraio" la notte sul 2/8/1944.

Invece "Giannetto" era stato catturato dai tedeschi e più tardi trucidato a colpi di pugnale in località Colonie di San Giorgio (Via del Fossato), sul borro del torrente Isone, lo stesso 2/8/1944. Secondo la testimonianza di Tullio Fiani, antifascista dell’Antella, sembra che gli siano stati cavati gli occhi.

Unitamente ad esso è ucciso l’ex soldato del Regio Esercito Giovacchino Mutolo (25 anni, nato a Partinico), sbandatosi dopo l’armistizio, ma non sono qui note le cause che hanno portato alla sua cattura ed al successivo assassinio.

Occorre riportare anche la testimonianza di Aldo Fagioli ("Fagiolo"), ex partigiano della "Sinigaglia", che offre sostanziali differenze alla versione fin qui data.
Gli Alleati sono vicinissimi a Firenze e "Gracco" comanda il Fagioli, in qualita’ di staffetta, di portare la notizia al Comando della Divisione "Arno". Inoltre gli chiede di cercare notizie su "Giannetto".
Durante la sua marcia riesce ad avvicinare alcuni contadini e, dalla descrizione che gli viene fornita, capisce che si tratta del compagno disperso. Viene accompagnato sul luogo dove è stato trovato il cadavere. Ritiene che Lazzeri, ferito gravemente al Lonchio, nella fuga alla ricerca della salvezza, abbia cercato di raggiungere le case delle Colonie di San Giorgio per chiedere aiuto. Ma, data la distanza dal luogo dello scontro, vi era arrivato allo stremo delle forze decedendovi.
Rinvenuto il corpo erano state tolte le armi (ma Gracci aveva scritto che la pattuglia era partita disarmata, NdA) e i segni che lo qualificavano come partigiano. Era stato chiamato il prete di Montisoni che, con un carretto , lo aveva portato in quella chiesa.

Particolarmente dolorosa è la storia di "Giannetto" che un anno prima, quando era ancora militare, aveva perso per una fuga di gas tutta la sua famiglia: i genitori, i due fratelli più piccoli ed il nonno. Secondo lo storico Carlo Baldini l’evento è da collocarsi al 3/8/1944 come riportato dal cippo che sarà eretto sul luogo della morte dei due giovani