Archivio mensile:luglio 2016
Ho Chi Minh – Diario dal carcere–L’arresto
Ho Chi Minh
Diario dal carcere
L’arresto
Ho scalato montagne,
superate le vette
le vie della pianura
son più dure a percorrere!
Le tigri, su pei monti,
non m’hanno mai assalito:
ma qui ho incontrato
un uomo ed ecco
che m’arresta.
Sono il rappresentante
di un Vietnam nuovo e libero
vo a visitare i capi
di un paese fratello.
L’oceano ha forse invaso
tutte le nostre terre?
Vedo che mi si onora
buttandomi in galera!
Io sono un uomo onesto,
dall’animo sereno
mi si sospetta d’essere
un cinese nemico!
Lo so che la mia vita
è piena di pericoli
viver la propria vita
è sempre più difficile.
*
La marcia
Cinquantatré chilometri
di marcia
un sol giorno
cappello, abito zuppo,
calzature a pezzi
in più senza sapere
dove si può dormire.
Accanto alle latrine
sto aspettando l’aurora.
Monica Emmanuelli – Non è stato come andare a una festa da ballo
Non è stato come andare a una festa da ballo
Una raccolta di videointerviste a partigiani e staffette che raccontano la lotta di Liberazione nella Destra Tagliamento
25Aprile Antifascismo Fascismo Partigiani Resistenza
Il documentario “Ribelli per la libertà. Memorie partigiane nel Friuli occidentale” nasce dalla necessità e dall’urgenza di lasciare una traccia, una memoria orale sulla Resistenza della Destra Tagliamento, prima che le testimonianze, rimanendo circoscritte al privato, vadano lentamente dimenticate (https://www.facebook.com/1497273350538182/videos/1631989407066575/).
Il lavoro di Alessandra Montico e di David Da Ros, a cui ha collaborato Giuseppe Mariuz, è stato promosso dal Comitato provinciale Anpi di Pordenone e dalla sezione “Elio Gregoris – Learco” di San Vito al Tagliamento.
I racconti di Luigi Baldassar “Mameli”, Ruggero Benvenuto “Biella”, Dino Candusso “Athos”, Angelo Carnelutto “Clark”, Antonio Piasentin “Gallo”, Manlio Simonato “Fortezza, Ascaro” e delle staffette Eginia Manfé e Vilma Pizzin si susseguono, si incastrano e si completano grazie all’abilità della regista Montico che riesce magistralmente a creare una metastoria che supera le singole biografie per approdare ad una narrazione uniforme e complessa.
A casa di “Gallo”
La trama si snoda attraversando le tematiche dell’8 settembre, della scelta, delle azioni partigiane, dei rastrellamenti, della vita in montagna e della liberazione. Si tratta di un viaggio nel passato dove il limite delle parole viene affinato da delicate inquadrature di sguardi eloquenti e di movimenti quasi impercettibili.
L’intervista a “Biella”
I protagonisti vengono ritratti nelle loro case e nei loro giardini in quella odierna quotidianità che rende più facile svelare ad una telecamera parte della propria vita. Il ricordo del fuoco delle armi lascia spazio alle emozioni, ai sussulti ancora vivi della paura e delle sofferenze. La descrizione delle notti, dei bagliori, dei rumori, degli sferragliamenti dei fucili trasforma fatti di cronaca in narrazione letteraria. Il sapore della polenta, del latte freddo, dell’acqua di fonte, delle sigarette e il fastidio dei pidocchi ci immerge nel clima della guerra che, come ci rammenta Eginia, non è stato come “andare a una festa da ballo”, in quei paesi dove c’erano “più fascisti che gente umana”.
L’intervista a “Fortezza”
I racconti meticolosi si contrappongono alla fugacità del nostro presente caotico, interpretato all’inizio del documentario da un susseguirsi di immagini concitate, quasi deliranti, che riassumono i tempi più recenti attraverso forme vorticose di scale mobili, persone frenetiche, esplosioni nucleari, migrazioni di massa e violenze. I resistenti, invece, si presentano con la naturale fermezza di chi conserva delle certezze, con un tono di voce pacato e serio nell’intento di sottolineare il valore della storia che raccontano, della propedeutica alla democrazia che hanno vissuto. Il linguaggio chiaro, essenziale, definito da un rigore spartano senza sbavature, comunica quell’esigenza di essere compresi, affinché non solo le parole, ma anche i valori su cui si sono fondate le loro lotte e i loro patimenti non vengano dimenticati. Nella nostra immaginazione di spettatori la figura di un anziano che racconta la propria storia di guerra si sovrappone a quella di un partigiano giovane che combatte per portare la pace e la libertà nel proprio Paese.
L’incontro con “Athos”
C’è da augurarsi che queste narrazioni oramai ibridate dal vissuto del dopoguerra, dalle letture e dagli studi storici possano rimanere patrimonio delle generazioni più giovani, un patrimonio da recuperare quotidianamente e da attuare attraverso pratiche di cittadinanza consapevoli e coscienziose.
In conclusione, due riflessioni cariche di saggezza:
“Clark“: secondo me la Resistenza non è stata solo una guerra per – diciamo – liberarci dai nazifascisti, ma è stata anche una rivoluzione culturale e anche per cambiare la società. Purtroppo tutti quei principi che sono nati durante la Resistenza e che poi sono stati trascritti nella Costituzione sono continuamente disattesi e oggi noi vediamo che le disuguaglianze fra i cittadini aumentano sempre di più, quindi si va verso una vanificazione della lotta di liberazione, a parer mio… se avessi la forza lo rifarei ancora!
“Athos”: è costante al mio DNA… ho vissuto sempre in positivo e sono ancora qua a dire agli amici e agli avversari che occorre battersi perché quegli ideali della Resistenza abbiano davvero il valore che noi a quegli anni abbiamo inteso dare; purtroppo non sempre viene recepito questo sentimento che è mio proprio, ma io continuo imperterrito – scusate il termine pomposo – a dir la mia in questo senso, occorre ragionare in positivo… non è che sia mia la frase, ma l’ho fatta mia e l’ho pronunciata in varie occasioni anche nei piccoli discorsi che si fanno e in riunioni: senza memoria non c’è futuro.
Jaroslav Seifert . – Io volli qui così cantar per voi
Jaroslav Seifert .
Io volli qui così cantar per voi
Io volli qui così cantar per voi,
mentre ora il vento per l’ultima volta
senza il suggeritore ripeteva
la sua nella notte priva di luci.
Sulle labbra il tuo nome, andrò da lei
come un bambino, seppure bruciasse.
Così l’amai, come s’ama una donna
di cui la gonna il nostro corpo avvolge.
La capricciosa a cui sotto l’ascella
suona la luna come un mandolino,
e quella che veglia e monta la guardia
tenendo la mano in quell’orologio
che va e ancora va né mai più s’arresta.
Praga! Ha sapore di sorso di vino.
La Resistenza dei militari italiani a Dubrovnik
La Resistenza dei militari italiani a Dubrovnik
L’8 settembre 1943 a Dubrovnik (Ragusa) stazionava un forte presidio della Divisione Marche che si oppose all’avanzata della divisione SS Prinz Eugen, che puntava all’occupazione del porto. Il 10 settembre i tedeschi riuscirono a entrare in città, mentre gli italiani stavano nei fortini situati sulle alture circostanti. Nella notte del 12 settembre i tedeschi fecero prigioniero il generale Giuseppe Amico, comandante della piazza, e chiesero il disarmo del presidio. Indignati per l’arresto proditorio del loro generale, i soldati si mossero dalle caserme per avviare furiosi combattimenti lungo i camminamenti della città fortificata. Lo stesso vicecomandante della divisione Prinz Eugen venne ferito in quegli scontri. Non ci fu purtroppo la sperata insurrezione della popolazione e la resistenza italiana venne alla fine sopraffatta. Il generale Amico, nuovamente catturato, fu portato fuori città e ucciso a tradimento da un sicario dei tedeschi. La città ha dedicato una via ai soldati italiani che combatterono per la sua liberazione.
La Resistenza dei militari italiani a Belgrado
I superstiti della difesa di Spalato continuarono a combattere e nacquero così prima il Battaglione Garibaldi, subito accolto nelle fila della I Brigata proletaria iugoslava, e poi il Battaglione Matteotti, costituito grazie al moltiplicarsi dei militari che avevamo scelto di combattere i tedeschi. Per ben tre volte i due battaglioni Garibaldi e Matteotti, le maggiori formazioni italiane in Bosnia, rischiarono di essere annientati dalle offensive tedesche a largo raggio e di lunga durata e tuttavia ressero alle più dure prove meritando l’elogio di Tito e frequenti citazioni nei bollettini di Radio Londra. I due battaglioni parteciparono anche alla conquista di Belgrado, città alla cui tenuta i tedeschi attribuivano un’enorme importanza morale e strategica. La sede del Teatro Nazionale della città fu liberata il 19 ottobre dal Battaglione Garibaldi, dopo tre giorni di violenti scontri con i tedeschi. A Belgrado venne decisa anche la costituzione della Brigata d’assalto Italia, grazie alla fusione dei due battaglioni Garibaldi e Matteotti con altri tre composti da centinaia di italiani liberati dalla prigionia; una brigata forte di 4.000 uomini che nel maggio 1945 ritornò in patria con il nome di Divisione Italia.
R. Finzi – Un canto inedito della Divina Commedia
R. Finzi
Un canto inedito della Divina Commedia
Io vidi ed anco il sangue mi s’abbica
di gente una gran turba in quel girone
sozza d’ogni sozzura nova e antica
*
Chiesi a Virgilio: O Duca, esce persone
che si sconciati hanno cuore e budella,
per qual mai colpa sono in questo agone?
*
Ed egli a me, con ischietta favella:
d’ogni uman fallo, Dante, vedrai pena
pria che tu giunga in fondo a questa cella;
*
vedrai predon, falsari ed altra oscena
compagnia, traditori e barattieri
e violenti nella calda arena;
*
ma quanti ora tu vedi son più neri
di colpa che qual altro cittadino
di questa valle ove non è chi speri.
*
Qui piange suoi misfatti lo strozzino,
qui si strappa suoi visceri colui
che su nel mondo li strappò al vicino.
*
Subitamente vidi e certo fui
che giustizia divina facea strazio
qual si conviene a questi spirti bui.
*
Scorsi uno d’essi, che pareva sazio
d’ogni dolor, ficcar le dieci dita
nel ventre aperto come sacco al dazio,
*
ed a forza allargar quella ferita
e le budella rivoltar col gesto
del doganier che contrabbando addita.
*
Ed uno spírto di costui più mesto
il proprio cuore aveva portato a’ denti
e si il mordeva d’ogni intorno lesto.
*
Un terzo ancor, che gli occhi aveva ardenti
d’infame rabbia, con aguzzo sasso
faceva a brani i visceri pendenti.
*
Terribil vista! Io spinsi allora il passo,
ma Virgilio esortommi con amari accenti:
Osserva il nuovo contrappasso:
*
Costoro al mondo non ebbero altari
d’amor fraterno, e pane a’ lor fratelli
vendettero per oro a peso pari.
*
Luogo è lassù non cinto di castelli
ma di rete metallica, che ospizia
molti latini ed angeli son con elli,
*
Cazzenovo s’appella e la malizia
che qui in eterno pagherà lo scotto
là dentro visse e compì sua tristizia.
*
Tacque il Maestro, ed uno ch’aveva rotto
tutto il torace, fegato e budella
strappossí in ira di Virgilio al motto,
gridando con orribile favella:
Agli affamati ogni crosta conviene
e misi in borsa orioli, gemme anella!
*
Ed io gli dissi: Queste vostre pene,
strozzini abbietti, sono giusto scherno
al color del peccato che vi tiene
così sconciati in vostro duolo eterno.
Nota
Tratto da “Poesie dal fronte”
Oltre a dirigere il giornale del campo di internamento di Katzenau, ‘La Baracca il professor R. Finti teneva corsi di letteratura italiana per i prigionieri. Dotato di un certo senso dell’ironia, fondamentale per salvarsi nei momenti più difficili della vita – adattò la Divina Commedia alla situazione che vivevano i deportati all’interno lager, scrivendone un canto “aggiuntivo”.
Marino Monni – Vardar
PRIMA GUERRA MONDIALE
Marino Monni
Vardar
Picchi bianchi di rocce ed ombre
Qui corre o Vardar.
Alta è la notte.
La luna si specchia nell’acqua
E muto è il monte.
Veles si adagia sonnolenta
S’ode il rapace
Strido di gioia
Della civetta.
Di sconforto e di pianto è colma
L’anima spoglia
L’acqua va lesta,
lontano a cercar libertà
nel mare grande,
Libera su spazi più immensi
Ed io qui Solo.
Oh fiume: con te fuggire.
La vita cerco.
Cerco la Patria
Ora lontana.
Tratto da
Poesie dal fronte
Nodo Libri
Renzo Corsini – Vita da partigiano e soldato per "Mariolino" Innocenti
Renzo Corsini
Vita da partigiano e soldato per "Mariolino" Innocenti
Dal " Quaderno di Farestoria, il periodico dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Pistoia (numero 2 del maggio-agosto 2007) riprendiamo il testo di Renzo Corsini sulle vicende partigiane del soldato "Mariolino" Innocenti, diventato nel dopoguerra, Segretario dell’ANPI di Pistoia e presenza operativa nella vita culturale e politica della città toscana. Mario, di carattere schivo e restio a parlare delle proprie esperienze di guerra, era conosciutissimo stimato e amato da tutti i pistoiesi. Questa è parte della sua storia. non la conoscono in moltissimi Ecco perché la pubblichiamo.
Nel marzo del 1943 ero a Pinerolo. militare di leva. Per la strada di quella cittadina incontrai un «giovane con delle borse sotto il braccio. Doveva avere all’incirca la mia età. camminava letto. –Dove vai?, gli chiesi – Vado a casa mi rispose – "Oggi ce’ lo sciopero-
Così sì Mario Innocenti racconta- il suo primo impatto con un fatto politico. proibitissimo sotto la dittatura fascista. La cosa lo colpì profondamente: la dittatura. il fascismo non era poi così invincibile come appariva!
« E mi tornarono in mente proseguiva Mario – quelle volte che il mio babbo, a Pontenuovo dove abitavo. doveva scappare di casa. appena a tempo per non essere bastonato. Ma non sempre ci riusciva, e allora… Sai – aggiungeva Mario – i miei erano tutti e due sarti, lavoravano soprattutto per i contadini che pagavano quasi sempre in natura. Insomma, a casa mia, non si pativa la fame ma i miei erano antifascisti e allora…».
Dopo Otto settembre Mario, come tanti altri riesce a tornare a casa. Arrivano i tedeschi. il fascismo riprende sotto la veste della repubblichetta di Salò.
«[…] A primavera vo coi partigiani!» – ripete Mario –. Ma l’impazienza lo tormenta e, verso febbraio, con le montagne ancora bianche di neve. assieme ad alcuni compagni, si avvia verso la collina, verso Tobbiana.
«[…] Ci avevano detto di seguire certi sentieri., poi avremmo incontrato delle capanne. Se da qualcuna uscivano segnali di fumo voleva dire che lì c’erano i partigiani. La prima capanna la trovammo vuota ma il fuoco era accesa… significava che avevano abbandonata da poco. spostammo oltre e in un "altra panna c’erano i partigiani cercavamo. A ripensarci posso dire che andò bene a noi ma andò bene anche a loro: potevamo essere dei fascisti e li avremmo sorpresi tutti in riunione».
Mamma e babbo cercarono insistentemente di fermare l’ansia di Mario di unirsi ai partigiani. «[…] Tu. babbo. se eri più giovane. cosa agresti fatto?».
«[…] Se avessi trent’anni – gli rispose il babbo con un sorriso intriso di amarezza – sarei già coi partigiani!».
«[…] Bravo babbo. lo ne ho venti e parto!». Rispose Mario. E così fece. L’impatto coni partigiani della ‘`Rozzi’" (nome assunto dopo la morte del suo primo comandante, il fiorentino Gino Rozzi), non fu scontato: di norma le "reclute" venivano avviate in quella formazione dalla orgaizzazione politica comunista.
«[…] Ad Agliana – ricordava Mario – in casa di Magnino Magni, vi era, per così dire, il —distretto militare" dei partigiani della nostra zona. Di lì passavano un pò tutti! ».
Ma dopo pochi giorni Mario e i suoi compagni si conquistarono la fiducia dei capi con cui condividevano freddo, disagi, pericoli e spesso la fame, ma anche esaltatiti esperienze.
«[…] Quelli che trovammo – d iceva Mario – erano antifascisti usciti da poco dalle galere del regime. Lì avevano studiato. sapevano di storia, di politica, dei fatti del mondo… io li ascoltavo. avevo voglia, avevo bisogno d’imparare. Da giovanissimo avevo fatto il pesaio. con me c’era un antifascista che ci aveva dato qualche spunto, poca cosa. La scuola poi, figuriamoci. ci aveva
dato un quadro. Diciamo così, romantico del Risorgimento… ora invece. lì. fra la neve era un’altra cosa!».
Di quel tempo Mario ricordava volentieri un aneddoto:
«[ … ] Un giorno. in un momento di sosta delle arie attività quotidiane. ci sedemmo accovacciati intorno alla capanna. improvvisamente —Nando il comandante (Fernando Borghesi, un gappista fiorentino mandato dal Partito Comunista a rimpiazzare il Bozzi mi chiede: —E allora Mario, dimmi un pò, se si potesse mettere una bandiera sulla nostra capanna, quale ci metteresti?". Ci pensai un po’. poi mi decisi per la risposta che ritenevo la più gradita al mio Capo, verso il quale avevo già maturato un sentimento di grande stima e affetto. –CI metterei la vostra, la bandiera rossa, dei comunisti!" dissi. Nando abbozzò un sorriso, poi calmo mi rispose: —N o, Mario, ci dovremmo mettere la bandiera tricolore, quella dell’Italia". E aggiunse: "Noi non siamo qui a batterci per un partito, siamo qui per cacciare i tedeschi e la dittatura fascista. Poi, dopo, deciderà il popolo".
Devo ammetterlo– ricordava Mario – sul momento ci rimasi male, ma oggi ringrazio "Nando" di avermi regalato con la sua solita semplicità una bella lezione».
Si avvicina la primavera del 1944; stanno per giungere per Mario e la sua "Bozzi" i giorni della lotta armata più intensa, i più duri, ma anche i più esaltanti. La repubblichina del duce non riesce a reclutare uomini per la guerra che disperatamente conduce al fianco dei nazisti di Hitler. È costretta a ricorrere alle minacce. alle fucilazíoni 11 31 marzo del 1944, nella Fortezza di Pistoia, vengono trucidati quattro giovani pistoiesi soltanto colpevoli di non voler combattere una guerra infame, di cui si anelava solo la fine più rapida. Sarebbe stato possibile tentare di salvarli? Chi avrebbe potuto farlo? E come? Mario Innocenti ricordava che, in quei giorni, con il Comandante e alcuni compagni si era messo in marcia verso Pistoia, guidato da un emissario del Comando Politico Militare di Pistoia.
«[…] Ma la guida ci lasciò poi in altre mani e, camminando a lungo, finimmo nella zona di Torbecchia . Trascorremmo la notte da quelle parti e, verso l’alba, riprendemmo la via del ritorno. Insomma – ricordava Mario – non fu fatta alcuna azione». La cosa trova conferma anche in una testimonianza rilasciata da "Nando’" al Prof. Verni. Doveva essere l’azione finalizzata a tentare di liberare i ragazzi della Fortezza o erano altri gli obietti` E noto che il CLN di Pistoia cercò di conoscere l’ora del trasferimento dei quattro condannati dal carcere di Collegigliato alla Fortezza. L’Informatore_ un capo fascista doppiogiochista. forni l’orario delle otto. Purtroppo alle sei dei mattino, i giovanissimi. Aldo. Valoris, Alvaro e Vinicio erano stati ammazzati. Il comando fascista aveva ingannato tutti, compreso il capetto fascista` 0 questi mentì intenzionalmente?
«[…] Sta di fatto – afferma ~ Mario che se anche ci avessero portati nel polo giusto non credo che con le poche armi che avevamo, l’inesperienza nel loro uso i pochi uomini di cui era
la nostra pattuglia. avremmo potuto attaccare con successo la colonna protetta da carabinieri. milizia ed esercito in forze
Presto arrivò il vero “battesimo del fuoco" per la formazione di Mario. La “Bozzi” aveva lasciato la prima localizzazione alla "Bollava" per acquartierarsi nel rifugio CAI di Pian della Rasa. Da qui ripartì per spostarsi verso l’Appennino Emiliano. Raggiunta la Collina di Treppio. dopo la sosta notturna. Furono attaccati all’alba da colonne di tedeschi e fascisti. Mario ricordava lucidamente quei momenti e. in più di un’occasione. intorno al cippo dedicato a Magni Magnino, ne ha fatto “lezione all’aperto" a centinaia di studenti. descrivendo le posizioni sul terreno, l’attacco, la strenua, eroica difesa di Magnino dietro la mitragliatrice che sapeva usare meglio di tutti, la sua morte in combattimento.
«[…] un sacrificio – ricordava Mario – che permise al grosso della formazione di sganciarsi verso Suviana, provvidenzialmente protetti da un banco di nebbia incredibilmente giunto a proteggere la nostra ritirata».
Mario amava ricordare una frase del Comandante Nando: «[…] La nostra formazione, militarmente, è nata lì. Si è verificata una selezione naturale delle nostre forze– e Mario aggiungeva – E’ vero, parte dei nostri se ne andarono, tornarono a casa, insomma li prese la paura. Ma accadde a loro perché c’erano, erano nel fuoco della battaglia chi era rimasto a casa aveva fatto di meno
Alla spicciolata, stanchi, bagnati, affamati. i. si ritrovarono verso Ponte alla Venturina—. Dove andare` In Emilia. certo, là, si diceva. "c’erano i partigiani fitti come il grano-. Soprattutto. ,c’era sicuramente da mangiare. Ma intanto si doveva sopravvivere con qualche patata per giorni e senza conoscerei sentieri. senza tarsi notare… un’esperienza logorante per tutti. _Al limite. o quasi. delle forze. finalmente l’incontro con “Armando”. il Comandante Mario Ricci. e i suoi uomini operanti nella zona di Montefiorino e dintorni. Ha inizio il periodo di più intensi attività della “Bozzi” e Mario Innocenti ne e fra i protagonisti . E uno degli uomini di fiducia del Comandante che gli affida i compiti più delicati e più rischiosi. Verso la fine di aprile del 1944 Mario è a Bocchetta di Fanano. Con la "Bonzi — entra a Toano il 10 Luglio. Intanto e sorta la zona libera che prenderà il nome di "Repubblica di Montefiorino,". La "Repubblica" si dà una struttura amministrativa tutta nuova.’ nei sette Comuni che la compongono si svolgono elezioni democratiche come non avveniva da vent’anni. Si allestisce un ospedale. un piccolo aeroporto, si accolgono migliaia e migliaia di giovani e militari sfuggiti ai tedeschi. 1 problemi abbondano ma la libertà conquistata aiuta a risolverli. Mario ricordava con dovizia di particolari un episodio di quella conquista a cui, con la formazione. aveva preso parte: l’attacco alla Caserma della Milizia fascista di Cerredolo. Era la notte fra il 3 e il 4 maggio. All’accerchiamento della caserma nella zona. parteciparono alcune formazioni emiliane e un gruppo scelto della "Bozzi’. Con Mario Innocenti vi erano. fra gli altri: Marcellino Ieri. Loris Beneforti. Agostino ("Carnesecca" ) Venturi tutti schierati in posizione di attacco frontale. Un appunto autografo di Mario mette in evidenza l’eroismo di due partigiani. “Aiano” e "Moscone". incaricati di un’azione. a dir poco. temeraria. "Aiano”’ altri non era che Giovanni Vignali. pistoiese originario "da lano”: da qui, per derivazione, il nome di battaglia "Alano". Ecco lo scritto di Mario:
«[…] Per distrarre l’attenzione dei fascisti di Montefiorino dall’azione dei partigiani contro la caserma di Cerredolo e impedire loro di intervenire a sostegno dei fascisti assediati, fu organizzato un attacco di due partigiani (fra cui Aiano della Bozzi) contro i fascisti in piazza di Montefiorino. Questi due partigiani, vestiti ‘da fascisti, spararono a un comandante fascista e fuggirono dalla parte opposta di Cerredolo. Furono inseguiti ma riuscirono a cavarsela. "Aiano" ritornò dopo due giorni! La nostra vita –dice va Mario – non valeva poi molto in quei momenti e ce la giocavamo giorno dopo giorno, istante per istante».
La stima del comandante Nando per Mario è dimostrata anche da alcuni incarichi particolari che egli gli affidò ripetutamente. dopo la conquista di Toano. ai primi del giugno ’44. Mario co- mandò una pattuglia che andò a posizionarsi in avanscoperta. in modo da prevenire possibili ritorni di fiamma dei fascisti sconfitti. E. prima di far rientrare la formazione sulla Montagna pistoiese. secondo le direttive ricevute. fu Mario Innocenti delle formazioni di Campotizzoro. Maresca e Pracchia – fra cui erano sorti problemi politici delicati. acuiti dall’intervento della formazione di "Pippo" (Manrico Ducceschi), anch’essa interessata – ad avvicinare quei combattenti. Mario quindi evidenziò non solo coraggio e capacità militari ma dimostrò di aver acquisito la maturità politica necessaria ad esplicare incarichi delicatissimi in quelle circostanze. Sta di fatto che le posizioni espresse da Tiziano Calandri per la formazione di ”Pippo" furono respinte e tutti, o quasi, i partigiani della Montagna pistoiese si dissero disposti ad entrare nella "Bozzi". Mario e gli altri, a missione compiuta, rientrarono in formazione, riferirono l’esito positivo, e la
Bozzi" si trasferì nella nuova dislocazione sui monti sopra Maresca. Concretizzata la fusione dei reparti. nacque quindi la "Brigata Bozzi". forte di ben oltre un centinaio di uomini. ",Mario aveva dato un importante contributo alla sua nascita. La lotta partigiana sull’Appennino non concedeva tregua: un attacco a sorpresa alla Maceglia costò la vita a "Franchino" e al giovanissimo "Cucciolo". Poco dopo ancora un attacco tedesco sui crinali dell’Orsigna. Attacco respinto ma che consigliò alla “Brigata" di tornare a Montefiorino. Siamo ormai verso la metà del luglio 1944. Il primo impatto in terra emiliana avviene con la formazione capeggiata da un personaggio che, di lì a poco, diverrà protagonista di una vicenda non comune: Nello Pini.
Un Comandante dal coraggio illimitato, dimostrato in varie occasioni, ma anche duro, ribelle ad ogni direttiva. spietato fino alla ferocia verso chi riteneva. a suo solo giudizio. inaffidabile. Un tipo. a dir poco. scomodo per la lotta partigiana. che tuttavia comandava una formazione forte di centinaia di uomini. ben dotata di armi. di vive… e di donne per il “Capo”’ Secondo Davide e “Armando". i capi di Montefiorino e ancor più per le altre forze partigiane non —garibaldine—. era un bubbone che andava estirpato. Ma come fare? Il rientro della —Bozzi— in Emilia fu ritenuto provvidenziale. Nando aveva già conosciuto Nello che. verso i toscani. si era manifestato non maldisposto. Con uno stratagemma lo convinsero a recarsi al Comando di Montefiorino. Qui giunto con alcuni fedelissimi. il fratello e l’amante. fu disarmato e arrestato. Alcune decine dei suoi uomini. non vedendolo tornare, si portarono a Montefiorino e si schierarono sulle alture circostanti con le armi spianate. Mario raccontava: «[…] io e pochi altri eravamo di guardia all’esterno del Comando. La tensione cresceva man mano che il tempo passava. Gli uomini di Nello, non vedendolo uscire, davano segni di impazienza. Erano molti più di noi, se ci avessero attaccati non avremmo avuto scampo. Dopo un tempo che sembrò infinito, finalmente affacciò sulla porta il Commissario —Davide (Osvaldo Poppi) che riuscì a persuadere gli uomini di Nello. Disse che il loro Comandante era al sicuro, che altri avrebbero preso il suo posto, che la formazione avrebbe continuato la sua opera a difesa della “Repubblica” e spiegò loro le colpe di cui era accusato. Quando li vedemmo abbassare le armi e, un po’ alla volta, gli uomini di Nello se ne andarono, il sollievo fu enorme. Nello fu poi processato e condannato a morte».
Ma 1’attacco della divisione corazzata "Goering" alla Repubblica di Montefiorino era ormai imminente. I lanci di rifornimenti da parte degli Alleati angloamericani divennero sempre più scarsi. L’intervento sperato di paracadutisti si trasformò in un sogno irrealizzabile. Insomma, fu la sconfitta. Ed anche la "Bozzi", così come le altre formazioni di “Armando’. ai primi di agosto ’44, dovette ripiegare verso le cime dell’Appennino. Furono giorni durissimi, gli scontri con le pattuglie tedesche si susseguirono. A Pratignano muore Fulvio Farinati, un cutiglianese. Fatica, fame, pericolo sono il pane quotidiano. Mario ricordava con sofferenza quel Ferragosto del 1944:
«[…] A sera, spento il fuoco, contammo le patate, l’unico cibo che avevamo: erano centottanta, e noi centoventi. Ne toccava poco più di una a testa. Davvero un bel pranzo! Poi arrivarono gli uomini di “Pippo*’. ci volevano cacciar via. Dicevano che lì. in quella zona. comandavano loro che. insomma. noi della —Bozzi—. non eravamo bene accetti. Arrivarono fino a proibire ai contadini del posto a rifornirci di viveri!».
Si rese necessario a quei punto. suddividere la formazione in tre gruppi. due di questi rientrarono sulla Montagna pistoiese. Mario Innocenti segui il gruppo di “Nando” fino a Coreglia Antelminelli. nella Garfagnana. ove. dopo settimane di enormi disagi, di difficoltà di ogni genere appena alleviate, verso ottobre dal contatto con le avanzanti forze brasiliane la formazione si sciolse no prima di aver perduto nell’ultimo combattimento il compagno “Pittorino” era il 25 ottobre 2944
Anche Mario rientrò a casa al Pontenuovo, ma per poco. Il 16 febbraio 1945 con altre centinaia di volontari, fra questi numerosissimi ex compagni della “Bozzi” parte per Cesano, presso Roma per un brevissimo addestramento e l’immediato invio al fronte della Linea Gotica Furono comprati cinquecento pacchetti di sigarette – raccontava Mario – e ne fu distribuito uno a testa
Questo vuol dire che da Piazza dei Duomo siamo partiti in 500. Si, è vero, qualcuno per strada ci ripensò, tornò indietro. insomma ebbe paura di tornare in guerra … lo diceva sempre Nando: —E una selezione naturale". Comunque loro ci avevano provato! Ed è merito anche quello».
Mario Innocenti sarà destinato al gruppo di combattimento "Folgore" e con i nuovi compagni . riprenderà a combattere contro tedeschi e fascisti. Il 25 aprile del 1945 la sua Divisione è impegnata in sanguinosi combattimenti nella zona fra Brisighella e Faenza, un mese dopo è nel Veronese. Rincorrerà i tedeschi, ormai in rotta, fino al Brennero. Con la vittoria sul fascismo e sul nazismo giunse finalmente la pace. Mario trovò lavoro provvisorio presso 1’INPS di Pistoia: una "provvisorietà" durata poi ben trentuno anni. Ma l’impegno di Mario continua quasi altrettanto intenso come nei giorni della Resistenza.
C’è da costruire l’ANPI. l’Associazione dei Partigiani. di cui sarà il principale animatore fino alla sua scomparsa. Si impegna nella vita politica e civile. sarà Assessore provinciale alla Sanità e in questo ruolo si occuperà dell’ospedale psichiatrico di Collegigliato, lasciando in tutti un positivo ricordo. Ma il ruolo che svolse con più passione, diremmo con amore, fui quello di testimone, di narratore delle vicende vissute e sofferte sulla propria pelle da presentare ai giovani, agli studenti delle scuole di Pistoia e dell’intera Provincia. Migliaia sono i ragazzi che lo hanno incontrato, ascoltato, ammirato per la semplicità e serenità nel raccontare, per la profondità delle sue riflessioni sulle vicende da cui prese vita la N uova Italia, quella in cui oggi tutti noi viviamo.
A -Mariolino- Innocenti Pistoia deve molto. Uomini come Mario hanno contribuito grandemente a fare della nostra Città una comunità di persone amanti della democrazia., della solidarietà. della libertà.
Srebrenica, 21 anni fa il massacro
Srebrenica, 21 anni fa il massacro
11 LUGLIO 2016 | di Paolo Rastelli e Silvia Morosi | @MorosiSilvia @paolo_rastelli
(AP Photo/Amel Emric)
L’11 luglio 2016 ricorre il 21esimo anniversario del genocidio di Srebrenica, una delle pagine più nere della storia recente dell’Europa. Nell’estate del 1995 le truppe serbo-bosniache agli ordini del generale Ratko Mladic irruppero nella cittadina, assediata da tre anni, e in pochi giorni massacrarono più di 8 mila persone – 8.372 bosgnacchi (bosniaci di religione e/o di cultura musulmana) – per lo più uomini e ragazzi. All’interno di un preciso disegno di pulizia etnica. Oltre agli abitanti, a Srebrenica c’erano anche i profughi che durante la guerra si erano a loro volta rifugiati, scacciati dalle città e dai villaggi vicini, in quella che le Nazioni Unite avevano dichiarato “zona protetta”. In tutto 40.000 persone (La fotostoria del massacro). Scrivono in una nota i responsabili del Comitato Per la pace nei Balcani:
Un tessuto sociale e politico lacerato e non ancora ricucito. Molte delle ferite sono tuttora aperte, e l’intera Bosnia Erzegovina vive una drammatica situazione economica. Auspichiamo che questo anniversario sia un’occasione per riflettere affinché si capisca come da atti così feroci non possa scaturire niente di buono per nessuno, nemmeno per chi li commette, nemmeno per i “vincitori”. Auspichiamo inoltre che da queste riflessioni venga un monito al nostro presente, ancora violentemente sfigurato da guerre, terrorismi, sopraffazioni e razzismi di ogni tipo, ormai dentro la nostra Europa e la nostra Italia. Possiamo e dobbiamo venir fuori da questo circolo vizioso. Il genocidio di Srebrenica parla direttamente a noi, Europa del commercio d’armi e dei valori traditi.
(Ansa)
Il giorno precedente la caduta, il 10 luglio, a causa dei bombardamenti, circa diecimila musulmani, per lo più donne, vecchi e bambini, cercarono rifugio a Potocari, nella base dei caschi blu olandesi, mentre circa 15 mila uomini si incamminarono attraverso i boschi in direzione di Tuzla, sotto il controllo delle forze governative. Alcuni erano civili, altri militari, dei quali solo un terzo armati. La Nato cominciò a bombardare i carri armati serbi che avanzavano verso la città, ma dopo che i serbi minacciarono di attaccare i soldati dell’Onu olandesi, i bombardamenti cessarono.
Non fu uno scontro tra due civiltà convinte che la propria salvezza consisteva nello sconfiggere l’altra. No, è stata una guerra nella quale, noi bosniaci, eravamo stati condannati a morte in anticipo, scrive Emir Suljagić in “Cartolina dalla fossa”, toccante testimonianza sulla vita a Srebrenica. Emir fu l’unico maschio della famiglia a sopravvivere.
Ratko Mladic e il generale dei caschi blu olandesi Ton Karremans, il 12 luglio, dopo l’eccidio (Ap)
Settant’anni dopo la conclusione del processo di Norimberga ai gerarchi nazisti, a marzo 2016 anche l’eccidio di Srebrenica ha un suo responsabile. Radovan Karadzic, ex psichiatra divenuto nel corso della guerra della ex Jugoslavia (1992-1995) leader dei serbi di Bosnia, è stato riconosciuto colpevole del reato di genocidio e condannato a scontare una pena di 40 anni di carcere dallo speciale tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite. A questi reati si aggiunge quello di “presa di ostaggi” relativo al sequestro di 284 caschi blu dell’Onu usati come scudi umani a fronte dei bombardamenti della Nato. Insieme a lui giudicati colpevoli di “impresa criminale congiunta” anche Momcilo Krajisnik, Biljana Plavsic, Nikola Koljevic e Mladic.
Sono ancora qui perché Mladic si sentiva come Dio: aveva potere di vita e di morte su tutti. Per lui ero un essere insignificante, un insetto che avrebbe potuto schiacciare in qualunque momento come fece con altri mille e mille ragazzi. Ero così affamato che la mia personalità si era trasformata, da timido ero diventato aggressivo, incattivito. Ci lanciavamo sui pacchi paracadutati dall’Onu sbranandoci come lupi che sentono l’odore del sangue. Mio zio fu ucciso da una pallottola in fronte in una di queste risse: l’assassino non venne mai punito, c’era solo la legge del più forte, scrive ancora Suljagić.
(Reuters)
L’11 luglio Mladic entrò in una Srebrenica deserta, ma verso sera nella vicina Potocari c’erano già 20-25 mila rifugiati. Alcune migliaia riuscirono a entrare nel recinto della base olandese, altri si accamparono fuori. Il 12 luglio i suoi cominciarono a dividere gli uomini, tra i 15 e i 65 anni, da donne, bambini e anziani. Gli uomini vennero uccisi sul posto o portati in varie strutture nell’area di Bratunac. Oltre 23 mila donne, bambini piccoli e anziani vennero invece deportati con dei pullman e camion verso Tuzla entro la sera del 13 luglio. Quello stesso giorno i caschi blu olandesi costrinsero i rifugiati a lasciare la base consegnandoli praticamente nelle mani dei carnefici. Un tribunale dell’Aja, a cui si erano rivolti i parenti delle vittime, ha ritenuto nel 2014 l’Olanda “civilmente responsabile” per la morte di quegli uomini in Bosnia durante la guerra nella ex Jugoslavia.
Lo Stato olandese è responsabile per le perdite subite dai parenti degli uomini deportati dai serbo-bosniaci dal compound del battaglione olandese Dutchbat a Potocari (periferia di Srebrenica, ndr) nel pomeriggio del 13 luglio 1995
Poco equipaggiati e meno numerosi, i caschi blu olandesi del battaglioneDutchbat, asserragliati nella loro base assieme a circa 5mila musulmani di Bosnia dei villaggi circostanti, soprattutto donne, non avevano opposto resistenza alla deportazione di 300 uomini che avevano cercato scampo nella protezione dei soldati con le insegne dell’Onu e si erano invece visti consegnare agli emissari di Mladic. Spiega il giudice olandese Larissa Elwin:
Il contingente olandese non avrebbe dovuto lasciar uscire quelle persone dagli edifici del suo compound. I soldati avrebbero dovuto tener conto della possibilità che quelle persone sarebbero state vittime di genocidio. Possiamo affermare con sufficiente certezza che se il contingente olandese avesse permesso a quelle persone di restare, si sarebbero salvate
La Corte de l’Aja, tuttavia, non ha dato ragione agli autori della denuncia, soprattutto madri delle vittime, sugli altri capi d’accusa. Quei caschi blu avrebbero dovuto denunciare direttamente i crimini di guerra ma lo Stato olandese non può essere ritenuto responsabile di questa omissione perché una simile denuncia non avrebbe potuto comunque comportare “un intervento militare diretto dell’Onu”. Impedendo il genocidio. Ed è, secondo il giudice, ugualmente “ragionevole” che i caschi blu non abbiano lasciato entrare nella loro base più di 5mila persone, perché non vi sarebbero state condizioni sanitarie sufficienti.
Così, fra il 12 e il 23 luglio una parte degli uomini e ragazzi che si erano avviati verso Tuzla attraverso i boschi vennero uccisi in imboscate, decimati dai bombardamenti, si arresero e furono fatti prigionieri in varie località. Si stima che nel pomeriggio del 13 luglio oltre sei mila musulmani vennero fatti prigionieri. Le prime esecuzioni di massa cominciarono nel pomeriggio del 13 con la fucilazione di 150 musulmani a Cerska, e si conclusero il 16 luglio, quando cominciarono gli scavi delle fosse comuni. Un mese e mezzo dopo, militari e poliziotti serbo-bosniaci, per occultare le prove del massacro, riesumarono e riseppellirono i corpi delle vittime in altre località.
E oggi? Sì, proprio l’11 luglio del 2016, migliaia di persone si sono recate al cimitero-memoriale di Potocari, per partecipare alla commemorazione, guidata dal capo della comunità islamica bosniaca. Accanto alle 6.377 vittime finora sepolte, sono stati inumati i resti di altre 127 vittime esumate dalle fosse comuni e identificate nel corso dell’ultimo anno grazie al dna. Solo 11 scheletri sono completi.
Tratto dal
Corriere della Sera
12 Luglio 2016
Andrea Liparoto – Partigiani vene di pace
Andrea Liparoto
Partigiani vene di pace
Sono stato
armi
per
togliervi
la follia
di farlo
E quel
sangue
ancora
urla,
ancora
mi scrive
addosso
la forza di
raccontarvi
quei cuori
di montagna,
di imbracciare
quel
sogno
di vivere
e spararlo
dappertutto
***
Ci hanno sparato la loro fine
Nessuna paura
può sperarci
fermi
nessun ordine
legarci
a un’altra
storia
Siamo
vene
nate
come
nasce
stringersi
fino al
ventre
del coraggio
davanti
alla falsità
della vita,
a un fucile
puntato
che si sbriga
di ferocia,
di sporca
idiozia
Ci hanno
sparato
la loro
fine
***
Al Comandante partigiano Nello Quartieri
La morte
è solo
un volo
di pelle
comandante,
sei un mondo
d’occhi
fioriti
del canto
d’un coraggio,
dell’unica
liberazione
***
La morte viva di una staffetta
Avete strappato
la pelle
non il cuore
di questi occhi
Avete goduto
un momento,
io sono
l’eternità
della vostra
fine
La Resistenza dei militari italiani in Slovenia
La Resistenza dei militari italiani in Slovenia
Le divisioni più vicine al territorio italiano cercarono di rientrare in patria, ma le marce di interi reparti dopo l’8 settembre si conclusero nella trappola delle strettoie di Fiume e del Carso triestino, dove avvennero retate con una destinazione unica: i lager tedeschi. Per tanti altri militari le zone boscose della Slovenia furono i luoghi per tentativi, spesso riusciti, di sfuggire alla cattura e conservare le armi per resistere. Esemplare il caso del Generale Cerruti, comandante della divisione Isonzo, che si unì ai partigiani in Slovenia e combatté da semplice soldato fino al 28 settembre. Dove prevalse il senso di disciplina e di coesione, i nostri soldati preferirono la via della montagna costituendo unità guerrigliere autonome dai nomi risorgimentali come le brigate Mameli, Fontanot, Budicin e Zara. Altri ancora si unirono alle formazioni iugoslave e operarono nell’aera dalmatina e istriana sino alla fine della guerra, nonostante la spietata repressione tedesca.