Maria Teresa Regard (Piera)

 

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MARIA TERESA REGARD (PIERA)

Medaglia d’ Argento al Valor Militare

Gappista

 

Maria Teresa, il suo cognome, Regard, non è di origine italiana…

 

Infatti, la famiglia di mio padre era originaria della Svizzera francese e non so come si era trasferita in Piemonte, a Casale Monferrato. Nonni e bisnonni erano funzionari fidati della monarchia, scelti probabilmente dai Savoia per le garanzie che dava la loro origine d’oltralpe. Mia madre proveniva da una famiglia di artigiani romani, e quando mio padre la conobbe era impiegata perché era riuscita a diplomarsi frequentando le scuole serali. All’età di tre anni, con tutta la mia famiglia ci spostammo a Napoli dove mio padre fu trasferito per dirigere la farmacia militare dell’ospedale di Napoli. Rimanemmo in quella città dal 1927 al 1937. Mio padre come militare non poteva fare politica e si servì di questo espediente per non iscriversi al partito fascista. Diceva di essere legato da fedeltà al Re. Mia madre, piuttosto religiosa, a differenza di mio padre non aveva opinioni precise in proposito, mi educò come si educano tutte le ragazzine che vivono in un ambiente piccolo borghese. Tra i vari parenti mi ricordo con particolare affetto di un mio zio, fratello di mia madre, che era di idee socialiste e manifestava apertamente la sua opposizione al regime tanto che in camera sua teneva appesa una foto di Giacomo Matteotti, e a quell’epoca esporre una foto simile era un gesto di grande coraggio. Non a caso per il suo rifiuto di iscriversi al fascio non ebbe mai un lavoro stabile e visse facendo i più svariati mestieri. Sia a mia madre che a mio padre riconosco di avermi inculcato il senso del lavoro, l’amore per lo studio; soltanto studiando, infatti, avrei avuto la possibilità di rendermi indipendente, di svolgere una professione di mio gradimento. Erano due genitori moderni che davano libertà alla loro figlia e questo era in aperto contrasto con le volontà del regime, secondo il quale le donne sarebbero dovute restare a casa per fare la calza. Mi ricordo di quanto i miei rimasero sorpresi e preoccupati per i molti licenziamenti che ci furono intorno al 1937-38, e dei provvedimenti per cui le donne non avrebbero più potuto iscriversi a facoltà scientifiche.

 

Quando incominciò ad occuparsi di politica?

 

Fin dalle elementari ero diventata amica di un compagno di classe ebreo: Giorgio Formigini. Le discriminazioni razziali colpirono anche lui e non gli permisero di continuare gli studi, questo provocò in me un forte risentimento contro il fascismo. Sin da bambina non avevo avuto mai simpatia per le adunate, alle quali dovevamo partecipare in divisa, e poiché a scuola, responsabile della propaganda fascista era soprattutto l’insegnante di educazione fisica avevo preso a odiare la ginnastica, riportando in questa disciplina voti insufficienti. Fu Giorgio a venire in contatto con un gruppo di trotzkisti diretti dal professor Villone; era il 1940 e le discussioni, i libri proibiti che riuscii a leggere, fecero di me una militante trotzkista…

Nel 1940 morì mio padre e ci trovammo in difficoltà. Da Napoli ci eravamo trasferiti a Roma.

Arrivai a Roma e mi trovai male. Il liceo Mamíani, dove mi ero iscritta, non era allo stesso livello del ginnasio che a Napoli avevo frequentato. Napoli era una città culturalmente molto vivace, i professori erano stati tutti influenzati dalle idee di Benedetto Croce. A Roma mia madre trovò un impiego. Io pensai però che era giunto il momento di sostituirla nel suo lavoro e per questo dovevo ottenere subito la maturità classica e allora decisi di saltare la terza liceo, ma per fare questo avrei dovuto conseguire la media dell’otto, perché non rientravo nei limiti di età. Così, per conseguire più facilmente otto in storia, preparai per il professore di storia e filosofia, Giafaglione, una tesina su Pietro il Grande; il professore, che io non sapevo essere comunista, dopo averla letta, mi invitò a discuterla a casa sua dove mi recai. Mi fece delle lodi per la scelta dell’argomento e finimmo a parlare di politica piuttosto apertamente. Fu lui che mi convinse ad abbandonare le mie idee trotzkiste. Fece appello all’unità e mi disse: «se qui ci dividiamo ad indicare quali sono i socialisti buoni o quelli cattivi si fa il gioco dei fascisti e non troveremo mai la forza per combatterli». Era un ragionamento pratico e le donne sono sempre state pronte a farli propri. Così feci opera di persuasione anche con Giorgio e con i vecchi compagni.

 

Come entrò poi in contatto col partito comunista?

 

Tramite due ragazze Fulvia Trozzi e Michela Bucci, che avevano frequentato con me il liceo Mamiani e che avevo ritrovato all’Università dove mi ero iscritta alla facoltà di Lettere e filosofia, conobbi Trombadori e Onofri. In quel periodo insieme a Giafaglione cercavamo disperatamente di collegarci al partito, che era rigorosamente in clandestinità. Spesso il partito era lì, rappresentato dai suoi dirigenti e noi non lo sapevamo. Poi Trombadori fu arrestato e mandato al confino, questo fatto ci aprì gli occhi. Proprio in quei giorni, ed era ormai la fine del 42, capitò a Roma da Napoli Galdo Calderisi un amico di Giorgio Formigini. Galdo era disperato perché partiva per il fronte, passammo insieme le ultime ore che gli restavano prima di mettersi in viaggio per la Jugoslavia dove, di lì a poco, avrebbe trovato la morte. A rivelarmi che il partito era molto più vicino di quanto credessi fu proprio lui, indirizzandomi a Onofri.

L’incontro decisivo col partito comunista lo ebbi proprio con Fabrizio Onofri e Mario Socrate. Non fu però così semplice… ci fu un interrogatorio preliminare in cui decisi di dire fino in fondo quello che pensavo e che sapevo. Avevo deciso che era meglio compromettersi rischiando la galera, nel caso che l’informazione di Galdo non fosse stata conforme al vero, piuttosto che continuare a cercare senza trovare mai. Ma quando ebbi finito Onofri mi trattò duramente accusandomi di parlare troppo e una che parlava troppo era un vero pericolo per il partito. Loro cominciarono addirittura a negare di essere rappresentanti del partito comunista. Mi sembrò di essere tornata da capo. Invece dopo un po’ fui convocata dal partito che mi assegnò subito dei piccoli incarichi di collegamento. Segnalai inoltre alcuni nomi di persone fidate tra cui quello del professor Giafaglíone.

 

Da che cosa fu determinata la sua scelta antifascista?

 

Le ragioni sono tante ma una in particolare voglio ricordarla: la discriminazione che il regime operava nei confronti delle donne; ad esempio le donne non potevano accedere a determinate carriere e lavori, fu questa una delle cause per cui molte di loro si opposero al fascismo. Il fascismo voleva relegarci in casa, voleva che avessimo minime responsabilità nella società italiana e questo noi non lo digerivamo.

Mi ricordo di ingiustizie clamorose; pensate che chi era stato «moschettiere del Duce» o «squadrista» percepiva come regalo duemila lire in più sullo stipendio. Per me, poi, che ero appassionata di cinema, il divieto di vedere film francesi o americani era intollerabile.

 

Quand’è che, ai suoi occhi, la guerra apparve in tutta la sua dimensione drammatica?

 

A ricordarmela di continuo c’era la fame che, già nel 1942-43, in una grande città come Roma, si faceva sentire. E poi, c’era il dramma dei giovani antifascisti che venivano richiamati, e ai quali non si poteva che consigliare di fare propaganda al fronte, dato che «imboscarsi» appariva una avventura fuori della realtà. Ma la guerra in tutto il suo orrore si rivelò a me, come a tutti i

romani, il 19 luglio con il bombardamento di San Lorenzo. Non so descrivere ma ho ancora negli occhi lo sbigottimento, la disperazione di tutti quei romani, ed erano un’ immensa folla, che si recarono a San Lorenzo quel pomeriggio. Si era sparsa la voce che il cimitero del Verano fosse stato sconvolto dalle bombe, che molte tombe fossero scoperchiate. Risparmierò di riferire altri particolari macabri che pure circolavano.

Si può dire che ogni famiglia avesse qualcuno sepolto lì e ciascuno voleva sincerarsi che i propri morti riposassero in pace. Trovarono invece altri morti, a decine, allineati l’uno accanto all’altro lungo il marciapiede del piazzale, dove le vittime erano state provvisoriamente raccolte. Ho il ricordo di una mia collega che viveva a San Lorenzo che appena seppe del bombardamento si precipitò a casa sua, successivamente seppi che tutta la sua famiglia era stata distrutta dalle bombe. Nelle altre zone della città invece la vita continuava a scorrere come tutti i giorni; in fondo Roma è così grande…

Durante l’estate del ’43, l’estate dei quarantacinque giorni di Badoglio, io lavorai molto per i detenuti politici, nostro obiettivo era quello di liberarne più che potevamo. Cominciammo col portargli da mangiare perché in molti stavano morendo di fame. La fame era davvero un problema allora, io non mangiavo quasi nulla, e non so neanche chi mi dava la forza per fare tutte quelle cose. Mi ricordo che spesso, un pò per caso, avevo delle patate con le quali preparavamo, per i detenuti, delle torte di patate. Il gruppo, delle «liberatrici», che era tutto costituito da ragazze, riuscì a far liberare un discreto numero di detenuti politici.

 

Che ricorda dell’otto settembre a Roma?

 

li popolo romano ebbe un comportamento straordinario. Durante quei violentissimi combattimenti a Porta San Paolo, a un certo punto ebbi la sensazione che avremmo potuto farcela a cacciare i tedeschi, tanto era il coraggio e l’ardore di chi gli si opponeva. Pensate che Vasco Pratolini e Raffaele Persichetti, quel giorno si recarono a Porta San Paolo col tram. Raffaele Persichetti, che era tornato dal fronte e insegnava al liceo, ritrovò i suoi soldati e rimase con loro a combattere contro i tedeschi. Morii li, a Porta San Paolo, all’angolo di Viale Giotto.

Quando la sera del 10 settembre l’esercito tedesco entrò in città cessò ogni resistenza. Ero sfinita e ne avevo motivo perché da due giorni avevo continuamente tenuto i collegamenti a piedi o in bicicletta, ma ero anche profondamente depressa e con me tanti altri giovani, perché avevamo subito la prima grande delusione della nostra esperienza politica. Come avremmo potuto riprendere la lotta in clandestinità ora che ci eravamo scoperti? Per nostra fortuna arrivarono, pochi giorni dopo, dai compagni più responsabili nuove indicazioni di lotta.

Già alla fine del mese di settembre la città era divisa in otto zone a capo delle quali c’erano un responsabile politico e uno militare. Con l’infaticabile Adele Bei cercammo di organizzare i «gruppi di difesa della donna» nella terza zona che comprendeva i quartieri Flaminio, Salario, Nomentano, Montesacro. Camminavamo tutto il giorno e io spesso ero sul punto di crollare, Adele invece non si fermava mai. Durante quel periodo frequentai la casa di Vasco Pratolini, dove ebbi occasione di incontrare altri intelletuali. Il responsabile politico della terza zona era Vittorio Mallozzi un fornaciaio romano che aveva combattuto in Spagna dove era stato anche ferito a Guadalajara e aveva passato lunghi anni all’estero e in galera. Ricordo che teneva vere e proprie lezioni sulla storia del partito, riunendoci ora in una casa, ora in un’altra e la sua personalità esercitò un gran fascino su di me e credo su molti altri giovani di allora. Mallozzi fu purtroppo arrestato e fucilato a Forte Bravetta.

 

Come entrò nei Gap? Quali azioni ricorda?

 

La prima metà di novembre del 43 ero rimasta disoccupata perché il mio ufficio era stato trasferito a Varese ed ero ormai unicamente impegnata col partito. Il 7 novembre Franco Calamandrei, che conobbi a casa di Vasco Pratolini, tenne un comizio volante in piazza Fiume per celebrare la Rivoluzione d’Ottobre e io, insieme ad altri, ero stata incaricata di creare confusione nel caso si presentassero delle difficoltà o si cercasse di arrestare l’oratore. Ricordo che due o tre giorni dopo Trombadori mi fece la proposta di entrare nei Gap. Il mio gruppo era cpmposto da sei uomini e una donna, cioè io, finché non mi portarono in via Tasso. Ci riunivamo non solo per organizzare o eseguire le azioni, ma anche semplicemente per studiare. Uno di noi leggeva a voce alta un’opera e alla lettura seguivano commento e discussione. Altre volte studiavamo la pianta topografica di Roma e i modi per eseguire le azioni. La prima azione del nostro gruppo fu l’attentato al Flora, e fu per me la più rischiosa. Nel grande albergo di via Veneto alloggiavano gli alti ufficiali tedeschi ed era stato sistemato il Tribunale di Guerra tedesco. Franco Calamandrei, Ernesto Borghesi ed io fummo incaricati di depositare una bomba su ciascuna delle tre finestre del pianterreno, sul lato che dà su via Campania. A me toccò la finestra più esposta, quella all’angolo con via Veneto. Non solo. La sentinella che sorvegliava l’ingresso dell’albergo camminando su e giù, faceva dietro front pro- prio davanti a quella finestra. L’ ordigno si sarebbe dovuto accendere strofinando sulla miccia la carta smerigliata dei fiammiferi svedesi, cosa che a Franco e a Ernesto riuscì facilmente nonostante fosse una giornata grigia e umida. Io invece dovetti provare più volte e la carta smerigliata si strappò in più punti e quando mi accorsi che già le altre due bombe erano state collocate e i miei compagnierano filati via, ero al colmo dell’ansia. Avevo ormai perso il calcolo del tempo. Infatti

quando, poco prima, Trombadori in tutta fretta mi aveva consegnato il pesante tubo carico di esplosivo e me ne aveva spiegato il funzionamento, aveva parlato di venti secondi tra l’accensione e lo scoppio; calcolai tuttavia che aveva certamente esagerato per difetto, feci un ultimo tentativo e finalmente la miccia si accese, appoggíaí la bomba sul davanzale e fuggii via. A questo punto mi sarebbe convenuto discendere per via Veneto piuttosto che passare davanti alle altre due bombe già accese, ma verso di me avanzava la sentinella e allora via Campania mi sembrò l’unica via di fuga. Passando distinsi i puntini rossi delle micce, quasi completamente consumate ed immediatamente dopo ci fu il primo scoppio. Corsi, i tedeschi sparavano in tutte le direzioni, svoltai sotto un arco e sbucai su corso Italia, lì trovai l’inferno: i tedeschi avevano aperto un fuoco indiavolato. Filando come un razzo, china quasi a terra superai tra le pallottole Porta Pinciana e quindi fui salva tra gli alberi di Villa Borghese. Del resto non avevo altra scelta, di lì a poco sarebbe venuta l’ora del coprifuoco, e per essere in tempo a casa, nel quartiere Prati, dovevo prendere per forza quella direzione.

Un’altra azione fu quella del «Comando Tappa» della Stazione Termini in piazza dei Cinquecento. Vestita di nero, con una valigetta mi avvicinai alla vetrata della stazione dietro la quale era il Comando dove si raccoglievano i tedeschi. Camminando incrociai le occhiate di vari soldati che mi prendevano per una donna di facili costumi. Con noncuranza deposi la valigia accanto alla vetrata, non senza prima averla capovolta (l’innesco era costituito da una fialetta di acido). Mi allontanai senza correre, per non dare nell’occhio, e lo scoppio, che fu terrificante, si verificò quando ero proprio in mezzo a Piazza dei Cinquecento. Alcuni dissero che era stato un uomo travestito da donna, una donna non sarebbe mai potuta riuscire in una simile impresa. Guglielmo Blasi, che stava con me intanto si era dileguato; il Blasi è lo stesso che poi tradì i Gappisti facendone catturare molti. Il peggio venne dopo, quando dovetti rifugiarmi a casa di mia nonna che abitava lì vicino, in Piazza dei Cinquecento…, era già prossimo il coprifuoco e casa mia era lontana.

Con la nonna non avevo rapporti idilliaci. Mi ricordo che la sua casa era un vero e proprio giardino zoologico, aveva la passione degli animali e con lei albergavano cinque o sei cani, molti gatti e persino una scimmia orrenda, vecchia e spelacchiata di nome Titina che correva per tutta la casa. Io ero molto restia a stabilire qualsiasi tipp di contatto con quella fauna. Quella notte per me fu un dramma, mi ricordo che per andare in bagno dovetti attraversare tutta la casa tra mille occhi che mi guardavano e che, secondo la mia fantasia, sarebbero potuti piombarmi addosso da un momento all’altro; ebbi una paura tremenda. Lo smarrimento più grande però lo ebbi quando mia zia scoprì la pistola nella borsetta. Capirono che in qualche modo avevo qualcosa a che fare con l’attentato, il sospetto le convinse a mettermi alla porta. Passai parte della notte per le scale aspettando l’alba e la fine del coprifuoco.

 

Ci racconti del suo arresto e della successiva liberazione.

 

Quando ci fu lo sbarco ad Anzio si decise di sciogliere i Gap, e ognuno di noi fu aggregato ad una zona. Insieme a Franco Calamandrei, che diverrà poi mio marito, fui assegnata al Tiburtino III. La liberazione si pensava fosse imminente, questione di ore, al massimo di giorni, bisognava preparare l’insurrezione armata della città. Il nostro compito era sorvegliare via Tiburtina per ostacolare la ritirata che i tedeschi. Insieme alle armi occorreva disporre di un buon quantitativi di chiodi a tre punte da disseminare sulla strada, ed ebbi l’incarico di accompagnare un’altra compagna della zona, Lína Trozzi che sapeva dove trovarne. Di prima mattina con due grosse borse ci recammo a casa del professor Gioacchino Gesmundo che abitava dalle parti di San Giovanni. Salimmo al settimo piano in ascensore, tutto appariva assolutamente tranquillo, forse troppo, ci aprì un uomo che si qualificò come un amico di Gesmundo che in quel momento era fuori. Io ero rimasta sulla porta, ero timorosa, non conoscevo nessuno e lasciai fare a Lina. A quel punto al primo uomo se ne aggiunsero altri due che chiesero a Lina cosa desiderasse e poiché questa si mostrava indecisa, uno dei tre disse di essere stato incaricato da Gesmundo di consegnare a lei quanto cercava. Vistala ancora titubante, domandò scherzoso, indicando le borse: «… non vuole, forse, i chiodi a tre punte?», Lina annuì. E il gentile signore: «..glieli vado subito a prendere». Andò nell’altra stanza e si ripresentò al nostro cospetto accompagnato da un ufficiale tedesco che, con la rivoltella puntata ci dichiarò in arresto ed incominciò subito ad interrogarci attraverso di lui che faceva da interprete. «A chi dovevate recapitare i chiodi?». Questa la martellante domanda. Io, memore dei consigli di Victor Serge, negai di essere al corrente di qualsiasi cosa (e tra l’altro in gran parte era vero) e così da allora fui considerata una figura di secondo piano, una ragazzina un po’ svagata, coinvolta in fatti più grandi di lei. Ci portarono a Via Tasso e anche nei successivi interrogatori, la mia versione fu che Lina non fosse altro per me che un’amica incontrata per strada e accompagnata in quella casa per pura cortesia, resse. E mentre Gesmundo veniva condannato a morte e poi massacrato alle Fosse Ardeatine, Lina fu mandata in un campo di concentramento in Germania, io, dopo dieci giorni venni rimessa in libertà.

 

Cosa ricorda di Via Tasso?

 

Era un luogo terribile. Dallo spioncino della mia cella vedevo persone straziate, con volti sui quali non era possibile distinguere più alcun tratto umano, tanto erano lividi e gonfi, ed ancora incoscienti venivano riportati di peso in cella perché incapaci di restare in piedi a causa delle torture subite. Le urla, il dolore, l’angoscia, era sempre buio, non cambiavano mai l’aria. Gioacchíno Gesmundo lo torturarono per interi giorni, alla fine lo reggevano perché non stava più in piedi. Anche Giorgio Labò fu torturato senza pietà e il silenzio suo e quello di Gianfranco Mattei salvò la vita a tutti i Gappisti romani. Gianfranco, per evitare le torture, una volta in cella, si tolse la vita. Giorgio aveva i polsi ormai in cancrena, a causa dalla corda che strettissima gli teneva le mani legate dietro la schiena. Il suo silenzio fu eroico, non disse una parola, alla fine, col corpo ormai distrutto, fn portato a Forte Bravetta e lì fu fucilato. Giorgio e Gianfranco erano due ragazzi, erano gli artificieri dei Gap, li catturarono a via Giulia, quelli furono per noi giorni molto tristi. Quando io fui liberata da Via Tasso era notte e c’era il coprifuoco, attraversai le vie di Roma deserte, senza neanche incontrare una pattuglia. Ricordo un gran luna e la mia meraviglia d’essere così sola e libera sotto il cielo dopo i giorni passati stipata insieme con altre otto donne in una cella buia con la finestra murata. A casa, poi, mia madre nel rivedermi quasi svenne. A questo punto iniziò per me un altro dramma; i compagni non si fidavano più di me per due motivi: potevo aver tradito, oppure potevano avermi messo fuori per pedinarmi e rintracciare altri compagni. Nel frattempo fu rilasciato Antonello Trombadorí che testimoníò a mio favore. Si era già in aprile quando fu deciso che tornassi nei Gap, ma proprio allora ci fu il tradímento di Blasi che scompaginò le nostre fila. Anch’io dovetti tornare a nascondermi e la liberazione arrivo prima che potessimo riorganizzarci.

 

Che cosa si augura per il nostro paese?

 

Che la sinistra vinca. Spero che non passi troppo tempo.

  1. Ottaviano Lombardi

    Commovente e terribile testimonianza. Da inserire nei libri di testo. Dalle
    Elementari in poi!

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