Archivio mensile:giugno 2014

Le stragi di Civitella e San Pancrazio

“per dignità, non per odio”

Le stragi di Civitella e San Pancrazio

di Giovanni Baldini, 14-8-2003, Creative Commons – Attribuzione 3.0.

Questa storia si svolge nei comuni di Bucine (AR), Civitella in Val di Chiana (AR).

Il 18 giugno 1944 arrivò nel paese di Civitella un gruppo di partigiani, entrati nel circolo ricreativo vi trovarono quattro soldati tedeschi. Nello scontro che ne seguì due dei tedeschi rimasero uccisi, gli altri invece riuscirono a scappare e a raggiungere dei commilitoni più a valle.

Dopo questi fatti la popolazione di Civitella abbandonò in massa il paese. Ci furono perquisizioni e violenze ma nessuno si fece delatore, tant’è che venne imposto un ultimatum di 24 ore, se entro quel tempo non fossero stati comunicati al comando tedesco i nominativi dei partigiani coinvolti vi sarebbero state rappresaglie.

I giorni passarono, da parte tedesca venne l’assicurazione che l’uccisione dei tre soldati (uno dei due che si erano salvati era poi morto per le ferite) era stata vendicata in scontri diretti coi partigiani e che Civitella poteva stare tranquilla.

Il 29 di giugno a Civitella si festeggiavano i santi Pietro e Paolo, per le assicurazioni avute dai tedeschi quasi tutti gli abitanti rientrarono in paese. In realtà era una trappola: la notte vari reparti circondarono Civitella, Cornia e San Pancrazio.

Nel giugno del ’44 l’area fra Civitella, Monte San Savino e Bucine contò 230 vittime.

Civitella

Durante la messa della mattina i soldati irruppero in chiesa e fecero uscire tutti, dividendo gli uomini dalle donne e i bambini. Poi, dopo aver indossato dei grembiuli per non macchiare le divise, iniziarono a uccidere gli uomini a gruppi di cinque con un colpo alla nuca. Don Lazzeri, arciprete di Civitella, pur potendo facilmente sottrarsi alla morte scelse di condividere la sorte dei suoi parrocchiani, per questo è stato insignito della medaglia d’oro al valor civile.

Scamparono solo un seminarista che scartò all’ultimo il colpo che doveva ucciderlo gettandosi dalle mura e un padre con una bambina in braccio, fatto fuggire di nascosto da un soldato. Dall’altra parte l’ufficiale nazista ucciderà uno dei suoi soldati perchè si era rifiutato di partecipare al massacro.

Il paese venne poi dato alle fiamme, e così morirono anche quelli che si erano nascosti nelle cantine e nelle soffitte.

Oltre cento furono i morti nella piazza di Civitella, fra gli uomini pochissimi scamparono.

San Pancrazio

I tedeschi radunarono gli uomini di San Pancrazio nelle cantine dell’antico palazzo del Podestà e li fucilarono: 55 vittime. Poi cosparsero i cadaveri di benzina e vino e appiccarono il fuoco.

Sia il palazzo podestarile che la chiesa andarono parzialmente distrutti.

Oggi nelle cantine dove fu compiuto il massacro è stato creato un sacrario che ospita una cappella ed un centro culturale dedicato a Don Torelli.

Sul retro è stato creato un giardino dove sono stati piantati numerosi rosai, uno per ogni vittima.

Pablo Neruda – I Nemici

Pablo Neruda
I Nemici
Puntarono qui i fucili carichi
e ordinarono la strage spietata;
trovarono qui un popolo che cantava
un popolo raccolto per dovere e per amore,
e l’ esile fanciulla cadde con la sua bandiera,
e il giovane sorridente rotolò accanto a lei ferito,
e lo stupore del popolo vide cadere i morti
con furia e con dolore.
Allora, sul posto
dove essi caddero assassinati,
si chinarono le bandiere per bagnarsi di sangue
e per rialzarsi di fronte agli assassini.
Per questi morti, i nostri morti,
chiedo castigo
Per quelli che di sangue cosparsero la patria
chiedo castigo
Per il carnefice che comandò questa morte
chiedo castigo
Per il traditore che salì al potere sul delitto,
chiedo castigo.
Per colui che diede l’ordine dell’ agonia
chiedo  castigo
Per quelli che difesero questo delitto
chiedo castigo
Non voglio che mi diano la mano
Intinta nel nostro sangue.
Chiedo castigo.
Non li voglio come ambasciatori
E neppure a casa loro tranquilli,
li voglio vedere qui giudicati,
in questa piazza, in questo luogo.
Voglio castigo

Sergio Cocetta

Sergio Cocetta

Nome di battaglia “El Cid Campeador”,Cid per brevità guerrigliera, nasce a Bicinicco nel 1925 e da giovanissimo diventa commissario politico del battaglione Gregoratti della divisione d’assalto Garibaldi-Natisone.
In esilio obbligato per svariati anni nel dopoguerra in Cecoslovacchia con il nome di Andrea Calano, sceglie la “consapevolezza al posto dell’ipocrisia” pagandone il prezzo: “
…ma noi lottavamo
contro la tenebra e il cinismo
scrive nei suoi diario – e le apprensioni si moltiplicano aiutate dal vento della disperazione incuneatosi nella stretta valle della speranza e delle certezze”
. E in quell’esilio le tenebre si riaffacciavano ai suoi occhi. Da clandestino era uscito dall’Italia, e da clandestino vi rientra alla ine degli Anni 50.
Artista scultore, anche se non amava essere chiamato “artista” – “sono un semplice scalpellino” diceva di se stesso – si ritira a Tarvisio nel 1963 (cittadina dove fu anche consigliere comunale) dopo il suicidio del fraterno amico e artista Giovanni Foschiani. Prima, durante gli anni udinesi, e poi nelle sue discese in città, lavora in stretta collaborazione con Dora Bassi e frequenta Luciano Ceschia, Max Piccini e suo figlio Giulio Piccini, Dino Basaldella…
Ci lascia così una delle figure più belle e limpide della lotta di Liberazione che, nonostante la sua scelta di vivere costantemente in una condizione al limite, una sorta di esilio a vita, i suoi incontri con giovani e meno giovani che vanno a trovarlo, continuano. Incontri anche sorprendenti che assumono valore “storico”, come quelli con Erri De Luca, Peter Handke, Predrag Matvejevic, Carlos Montemayor, PierLuigi Cappello..Paolo Lollo di Tarvisio oggi psicanalista, filosofo, segretario generale d’INSISTANCE arte psicanalisi e politica, ricercatore associato a Paris . che lo frequenta negli Anni 60 e 70 scrive in una lettera a lui inviata: “
… non so come dirti, ma spero che tu ti sia accorto che sei stato per me un Maestro di vita e
di pensiero… perché hai dato una direzione e un movimento alla mia vita durante i primi anni della giovinezza, ma anche perché le tue parole aderivano alla tua vita, alla tua voce, alle tue mani che sapevano creare. Tra pensiero ed azione ci deve essere coerenza, non per questioni di principio, dunque etiche, ma perché la mente e il corpo, il pensiero e la mano sono uniti nel loro operare”.
Il fotografo Danilo De Marco che lo frequenta per decenni fin dalla sua gioventù e che gli dedica un lungo capitolo nel suo ultimo libro “
Noi che siamo così poveri nel dire” , fa certamente sua questa frase: “…
un partigiano deve tenere i
suoi bagagli sempre pronti”
perché
“la verità è sempre in
esilio”.
Ecco quello che ha scritto di Sergio Cogetta Erri De Luca:
«La faccia di Sergio è una foto segnaletica del 1900. C’è la mappa dei bivacchi in montagna, uomini saliti a decimare e a farsi decimare, comandanti a vent’anni.

Il fuoco è il compagno dei partigiani, il fumo è la spia che li denuncia.
Si impara a fare un fuoco senza fumo, legna secca, senza foglia. S’impara a togliersi le spie dal pelo. S’impara a disperdere le tracce, a marciare di notte, a sistemare una carica esplosiva, a organizzare un’imboscata a partire dalla via di fuga. Il 1900 è stata la più grande scuola di guerra per truppe irregolari.
La faccia di Sergio è scritta.
Gli operai hanno spesso gli occhi stretti, con intorno un reticolo di rughe cresciute come ilo spinato a protezione delle pupille. Vengono da lavori che alzano polvere, fumo, schegge. Gli operai si riparano stringendo gli occhi nelle ore di turno.
I partigiani hanno gli occhi al servizio delle orecchie, pronti a voltarsi, a calcolare al volo.
Hanno febbre d’insonnia. Sergio è rimasto partigiano a vita. La guerra si prolungò per lui con l’esilio per non essersi fermato il 25 aprile del ’45. Si era arruolato da solo salendo in montagna, non si faceva sciogliere da un atto ufficiale. La fine della guerra era soltanto la sconfitta militare e dei nazisti e dei fascisti, ma la vittoria dei partigiani non era arrivata. Era stata interrotta.
Sergio da allora è partigiano a vita. Non si è pacificato con nessun potere costituito, la repubblica era solo meno peggio dell’infame monarchia.
La faccia di Sergio è andata a piedi tutta la vita. Si è fatto la barba con la neve, i suoi occhi hanno un infrarosso che illumina il cuore di un uomo e lo fruga senza bisogno di fare do-
mande.
Sergio non si sbaglia: di fronte a un’alternativa sceglie sicuro la più scomoda.
A una tavola lascia che gli altri si servano prima, in una discussione ascolta e poi prende in giro con un paio di occhiatacce quello che l’ha sparata grossa, ha dichiarato il punto che non ha. Sergio è il nostro capostipite, un vicolo cieco. Dietro di lui si chiude il nostro 1900, il secolo più lungo della storia».
Ed ecco invece sul Cid il racconto dello storico e scrittore Tito Maniacco: «
Nomina sunt consequentia rerum
, i nomi, si dice, sono costruiti dagli eventi e gli eventi riportano nel loro fangoso alveo di fiumi, ora carsici, ora torrentizi, ora perenni, il materiale e cioè la cultura di cui è fatto il mondo, l’hegeliano Weltgeist lo spirito del mondo.
Così accade nell’urgente necessità che è l’essere diventati, improvvisamente, clandestini, altri da quelli che si era stati poco prima, nascosti alla burocrazia – il cui braccio destro
è armato – che li cerca fra le pratiche, l’anagrafe, le carte d’identità per una ipotetica e sempre possibile rappresaglia su parenti, amici o sul loro stesso paese – Gerico resiste?
Darsi un nome mentre provo scarponi abbandonati dal regio esercito e intanto ho trovato calze di lana che nessuno ha mandato in Russia, è un esercizio psichico che caccia
l’incombente paura del che ne sarà di me e richiede che le mie dita riprendano fili di memoria locale e culturale. I clandestini da anni, i rivoluzionari di professione come amano chiamarsi, cercano nomi facili, normali, tali da non creare sospetti, nomi tratti dal calendario dei santi. I più giovani scelgono eroi del cinema o eroi dei fumetti che li hanno più colpiti,
Dick Fulmine ad esempio o Gordon, forse perché Mandrake è troppo sofisticato e Uomo mascherato troppo lungo e intanto pensano che i nomi romani sono fascisti e allora io cerco qualcosa che brilli fra gli eroi del la liberazione dei popoli, dando per scontato che i nomi risorgimentali e antifascisti sono già assegnati a gruppi o distaccamenti ribelli che hanno
ancora i nomi di bande e diventeranno presto battaglioni, divisioni, brigate Mazzini Manara Garibaldi Rosselli Gramsci Matteotti.
Così, per folgorazione di memoria, viene avanti il nome del liberatore della Spagna dai Mori invasori, El Cid Campeador è il mio nome, semplice ed abbreviato sarà d’ora in poi Cid, usato successivamente anche nella legalità, tranne per la burocrazia per la quale resto il Sergio Cocetta di sempre. Scultore, il Cid ai suoi tempi che erano poi quasi i miei, aveva un volto
di pietra romanica a forte struttura compositiva e portava scenograficamente un cappello nero a falde larghe. Prima il Cid stava a Udine e poi se ne è andato a Tarvisio dove per vivere modellava bambole ma negli anni dell’immediato dopoguerra era migrato o meglio fuggito o meglio ancora riparato a Praga per le solite misteriose storie partigiane che a poco ben disposte autorità civili e militari non andavano a genio.
Il Cid che spiegava il mondo con la sua bella voce modulata, un vero incantatore di serpenti, il Cid dalle mani di scultore che assomigliavano a quelle eleganti di Dino Basaldella piuttosto che a quelle grandi e robuste da operaio di Ceschia, altro partigiano, altro scultore, altro emigrato nei paesi del socialismo e poi invitato gentilmente a ritornarsene in Italia.
Oggi il Cid viene dal Titanic con la bandiera rossa con falce e martello sul pennone e l’iceberg della storia l’ha buttato derelitto come Filottete sulle inospitali scogliere dell’isola di Lemno con la mente ulcerata dallo scontro delle ideologie e della sconfitta e stancamente si trascina per quel deserto chiamando a voce i compagni morti. Di notte, nel sonno, questi rispondono con echi cavernosi, mentre intorno a lui tutto è crollato e i compagni sopravvissuti sono ormai solo vecchi e non sono né si sentono più compagni per sconforto, per abulia per meschinità piccolo borghesi per accomodamento e adattamento e intanto, parlando delle sue misere condizioni di vita,
lo compiangono e compiangendo lo irridono e irridendolo infangano la loro stessa gioventù, ma mille lire in più hanno un senso come cupo recita il Pasolini di Tetro entusiasmo
“…A no bastava / vej pierdùt la real-
tàt, i vèvin di pierdi / encia la ilusiòn!
Chej mil francs di pì / ch’a vi àn fat
crodi ch’scumiansiàs ’na sagra / sensa
in, puòr fradis, a erin i bès dal dì /
da la vustra in…”
, ed è anche vero che hanno il senso della disfatta del-la classe generale che, dicono, non
esiste più. Pensa il Cid, grande lettore oltre che affabulatore, che questa è in fondo la
morale civile del lascito del neopositivismo logico: basta non pronunciarla perché la sostanza della forma evapori e non esista più, come non esiste più la classe operaia che pure conta al mondo centinaia di milioni di sfruttati.
Ed è per questo che, magro ed esangue, il Cid cammina piegato contro il vento della storia come l’angelus novusdi Klee nella lettura di Walter Benjamin.
Ma in questo camminare con le spalle strette e la testa abbassata, il corpo s’è inclinato, le ossa han cominciato a scricchiolare e quel nobile volto di pietra di antiche cattedrali s’è rimodellato dall’alto verso il basso, scivolando negli aridi crepacci delle rughe, la bocca s’è abbassata intorno alle labbra esangui e gli occhi azzurri incantati – non può nulla il tempo contro il colore antico degli occhi.
Così sta il Cid e se non procede contro il vento, prima o poi, Vico dicitur , esso girerà, ha da tempo scavato la sua trincea, quella della gramsciana guerra di posizione che per essere tale è lunga e non se ne avverte la fine ma si sa, o ci si illude di sapere, che alfine, i giusti la vedranno e allora il corpo s’adatta al fango, alla fossa scavata mentre il nemico che ha vinto trionfalmente su tutta la linea, ti lascia sprezzante nella terra di nessuno, incurante della tua postazione e dello straccio rosso che sventola sui ruggini reticolati, tanto essa non conta.
Ma è così?
“Ein Gespenst geht um in Europa –
das Gespenst des Kommunismus”
, un
fantasma percorre l’Europa, è il
fantasma del comunismo.
Eppure quell’inchiostro è ancora fresco. Resta però la tua capacità affabulatoria ché se la guerra è perduta, un’altra, corrusca di pioggia e fulmini, s’addensa, è il vento della pioggia che freddo si leva dai monti oscuri.
Ma intanto tu quel vento non lo aspetti più, però sai, o credi di sapere che sai che mentre ti scaldi al focherello dei ricordi, dei giovani allungano le mani per sentire il rumore e il rassicurante tepore dei vecchi sogni non morti, irrisi forse come simboli e forme decadute e scomposte dai moti tellurici della storia, ma pur sempre attivi, perché nel mondo grande e terribile le forme e i simboli si disperdono e si ricompongono come un eterno puzzle di corsi e di ricorsi, come dice Qohélet, 2.22,
“Che cosa un uomo ricava / da tutto
il suo penare / Che cosa ricava dal
torturarsi il cuore / Che cosa è il suo
sforzo sotto il sole?”,
si ricompongono non perché sia scritto ma perché lo sfruttamento continua a gridare verso il nulla disperatamente, perché insomma la lotta non è finita come gridano all’unisono, saldandosi nei secoli, Isaia e Karl Marx perché le classi non sono inite perché lo strapotere dei ricchi sarà sempre più arrogante e il sorriso trionfale del capitalismo si aggroviglierà nelle pieghe del dubbio della vittoria definitiva e della fine della storia.
Il Cid lo sa, sospira raggirandosi cautamente fra gli incastri delle sue vecchie ossa e riprende il suo cantare che incomincerà sempre con il c’era una volta dei tempi che furono, finché fatalmente la ruota non si spezzerà e l’inverno della seconda legge della termodinamica scenderà su di noi, sul pianeta sulla galassia

Tratto da “Patria Indipendente
http://www.anpi.it/patria-indipendente/2014/3-4

Anonimo Il guerriero di Sedan

Anonimo

Il guerriero di Sedan

In Germania, dalla sua casa quieta e tranquilla
Un padre dovette andare alla sanguinosa guerra.
Attorno a lui, i suoi cari che lo amavano,
La sua fedele sposa e i vivaci bambini.

La madre non diceva nulla e piangeva,
I bimbi continuavano a piangere tutti assieme.
Caddero in ginocchio davanti a lui:
Papà, papà, quando ritornerai?

Il papà allora parlò con tristi lamenti:
Addio, bambini, state bene; io devo partire.
Afferrò il fucile con fare timoroso
E si affrettò a andare al cruento macello

Splendeva in cielo, sovente, la bella luna piena.
I bambini corsero fuori, alla riva,
Gridando: Papà dovrà ritornare presto,
La guerra oramai è finita da tanto.

Ma il papà giaceva nel sangue, vicino a Sedan,
là ha perso tutto il suo ardimento guerriero.
Gridò qualcosa alla moglie, qualcosa ai figli,
E poi venne la morte a lenire il dolore.

Anonimo – Inno del Battaglione Partigiano “Silvio Corbari”

Anonimo

– Inno del Battaglione Partigiano “Silvio Corbari”

Italia, la vita che ci hai data
Noi siamo pronti a ridonar;
Per liberarti patria amata
Noi siamo pronti a tutto osar.
Una è la fede, l’ardimento
Per noi divisa ormai sarà
E correremo al gran cimento

Quando Lui vorrà.
Va, Corbari, va,
Niun ti fermerà;

La tua schiera ardita e forte
Pur la morte sfiderà.
Va, Corbari, va,
Niun ti fermerà;

L’Italia ti illumina il cammino.
Che il destino segnò.
Noi siam gli invitti partigiani
Dal cuore saldo nel pugnar,
Fuggite via repubblicani
E’ duro il ferro dell’acciar.
Siamo gli alfieri della gloria
Che ormai s’irradia alle città,
Spicca già il volo la vittoria

Luce e civiltà.
Va, Corbari, va,
Niun ti fermerà;

La tua schiera ardita e forte
Pur la morte sfiderà.
Va, Corbari, va,
Niun ti fermerà;

L’Italia ti illumina il cammino.
Che il destino segnò.
Falange impetuosa e fiera
Tuoni possente il tuo cantar,
Alza nel sole la bandiera
che i traditori fa tremar.
Siamo i ribelli di Corbari
Bella e ridente gioventù,

Portiam dai monti fino ai mari
L’Italica virtù.
Va, Corbari, va,
Niun ti fermerà;

La tua schiera ardita e forte
Pur la morte sfiderà.
Va, Corbari, va,
Niun ti fermerà;

L’Italia ti illumina il cammino.
Che il destino segnò.

Anonimo – Quei briganti neri

Anonimo
Quei briganti neri
E quei briganti neri mi hanno arrestato,
In una cella scura mi han portato.
Mamma, non devi piangere per la mia triste
[sorte:
Piuttosto di parlare vado alla morte.
E quando mi han portato alla tortura,
Legandomi le mani alla catena:
Tirate pure forte le mani alla catena,
Piuttosto che parlare torno in galera.
E quando mi portarono al tribunale
Dicendo se conosco il mio pugnale:
Sì sì che lo conosco, ha il manico
[rotondo,
Nel cuore dei fascisti lo cacciai a fondo.
E quando l’esecuzione fu preparata,
Fucile e mitraglie eran puntati,
Non si sentiva i colpi, i colpi di
[mitraglia,
Ma si sentiva un grido: Viva l’Italia!
Non si sentiva i colpi della fucilazione,