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Il partigiano Cif: "Io prigioniero della Rsi, fui graziato da un repubblichino"

Il partigiano Cif: “Io prigioniero della Rsi, fui graziato da un repubblichino
Giunto a Milano l’8 settembre 1943, col ritorno dei fascisti che pretendevano di reclutare i giovani, a Villani sembrò del tutto normale rispondere di no e schierarsi contro. Si collegò subito ad Arturo Capettini, gappista milanese, che gli diede fiducia e lo incaricò di organizzare un gruppo di giovani autonomi e che battezzò “Giovani studenti per la libertà”. Villani si mise in contatto con alcuni giovani e Azione e libertà, divenne amico e collaboratore del giovane Bruno Trentin, oltre che di Leo Valiani. Riesce ad agganciare  alcuni lavoratori dell’Atm in preparazione sciopero del marzo 1944. Il raggruppamento diviene numeroso e fa capo a Sergio Kasman, capo di Giustizia e libertà a Milano, braccio destro di Ferruccio Parri, ucciso il 9 dicembre 1943.Il raggruppamento del quale faceva parte Villani si era spinto ad affiggere manifesti in piazza del Duomo a Milano,  tra febbraio e marzo 1945, ma l’azione andò male. Giuseppe Canevari, un giovane antifascista  di 17 anni venne catturato, condotto nella sede della Muti di via Rovello e ucciso.
Ferruccio Parri e il partigiano Walter de Hoog, di origine olandese, nome di battaglia Tulipano, stretto collaboratore di Parri, vengono arrestati il 2 gennaio 1945 in via Vincenzo Monti 92 dai tedeschi. Per liberarlo, Cif con Edgardo Sogno e Bruno Trentin, si reca al Comando generale della banda repubblichina Carità a Porta Venezia, vestiti tutti e tre da brigatisti neri. Salgono al terzo piano dell’edificio e, mitra spianati, ordinano a tutti di alzare le mani. “Mentre Sogno parlava, uno dei brigatisti seguitava a muoversi. MI avvicinai allungandogli la bocca del mitra tra collo e orecchio. Questo atto di clemenza mi salvò la vita, qualche mse più tardi”. 
Quel viso Villani infatti lo avrebbe rivisto durante la sua carcerazione a Como e fu proprio quel repubblichino graziato, che gli risparmiò la vita. l tentativo fallisce perché Tulipano era già stato fatto salire su un convoglio diretto a Mauthausen.
Villanilucidissimo ricorda anche quando con Trentin viene di nuovo affidato il compito di liberare Parri, che secondo le informazioni sarebbe stato trasportato dall’Albergo Regina all’ospedale militare. Villani e Trentin predispongono l’assedio all’ospedale militare, ma ricevono poi l’ordine dal comando di tornare alle proprie basi. Anche questa operazione sfuma. Una lunga storia di battaglie e di azioni militari, fino al giorno della LiberazioneTratto dal Quotidiano
Repubblica
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Renzo Baccino – Natale partigiano

Natale partigiano
Renzo Baccino

Un racconto tratto dal 2° volume di “Quando si combatteva per la libertà…”, un libro per ragazzi edito dall’ANPI alla fine degli anni 70
In quella vigilia di Natale del 1944 si era combattuto aspramente presso il Ronco, un minuscolo villaggio posto a cavaliere di un colle prealpino. I tedeschi volevano occuparlo, perché il Ronco rappresentava come il cardine della resistenza partigiana. I difensori, un pugno di montanari, quasi tutti vecchi alpini, si erano asserragliati nell’ultima casa del villaggio, posta proprio al sommo del colle, e di lassù nessuno era riuscito a sloggiarli. La casa contesa era un’antica «caminata», dai muri spessi come quelli di un fortino. I colpi di mortaio l’avevano ridotta a un cumulo di macerie, ma fra i muri smozzicati i partigiani avevano costruito un nido di mitragliatrici.
All’imbrunire i tedeschi avevano sferrato ancora un assalto, ma sotto le secche falciate di una mitragliatrice pesante, erano stati costretti a ripiegare. Uno di essi era rimasto e giaceva supino, informe macchia grigia, sul bianco della neve che copriva la strada.
Era una notte fonda, una gelida notte invernale, piena di brividi lontani di stelle. Non una luce brillava, e tuttavia la neve ch’era intorno avvivandosi delle luci sideree, emanava un tenue bagliore. Lontano, duri profili di montagne tagliavano l’orizzonte come lame di ghiaccio.
Dai comignoli delle case occupate si dipanavano dense colonne di fumo: i soldati tedeschi avevano cercato riparo al freddo e dividevano con i contadini il tepore dei focolari. Solo alcuni erano rimasti agli avamposti. I partigiani avevano trovato rifugio in un locale seminterrato e cercavano di scaldarsi a un misero focherello. II comandante Folgore era rimasto fuori all’addiaccio, assieme a un mitragliere, e, avvolto in un vecchio giubbone di pelliccia, a ridosso di un muro, scrutava le tenebre, mentre il suo orecchio esercitato vagliava ogni rumore, ogni scricchiolio.
II silenzio era alto, quasi solenne. Nulla si muoveva intorno. C’era solo quel morto disteso supino laggiù sulla strada, che sembrava guardare il cielo gremito di stelle.
Improvvisamente un suono lontano, tanto lontano che pareva nascere dal profondo dell’animo, giunse all’orecchio di Folgore: un tintinnio di campane… E allora ricordò. Era Natale! E quel suono scendeva dalle pievi dei suoi monti, dalla zona franca partigiana, ove regnava la libertà, ove si poteva suonar le campane in barba ai tedeschi e ai fascisti.
Tacquero le campane dei monti e fu ancora silenzio. II morto era sempre là e pareva che anche lui tendesse l’orecchio per ascoltare la sua campana di Natale. Sì, anche lui, pensò Folgore, aveva una casa lontana, moglie, figli che in quel momento uscivano per recarsi alla messa… E non sapevano che…
Uno strano scricchiolio interruppe le meditazioni del comandante. Qualcuno camminava nella notte… Ma non dalla parte del nemico, bensì dalla vallata che stava alle spalle dall’appostamento.
Folgore lanciò un breve avvertimento ai partigiani e tosto essi uscirono dal loro rifugio e presero posizione. Immobili stettero con le armi impugnate ad ascoltare la notte.
Sì, qualcuno si avvicinava. Si udiva il ritmico infrangersi della crosta gelata sotto il peso di chi si avvicinava. Poi, a un tratto, su di un sentiero lungo una siepe apparve una strana ombra grigia che avanzava lentamente.
Ora la strana ombra, avvicinandosi, si andava delineando. Erano due bambini, quelli, non c’era alcun dubbio! Due bimbi che andavano attorno soli, in quella gelida notte, piena di agguati mortali. Venivano innanzi adagio, incespicando e gemendo, e a tratti parlavano fra loro:
– Ho freddo, Maria, ho freddo – diceva una vocina tremante.
– Zitto, Carlo… Ecco il Ronco. Fra poco saremo dalla nonna – rispondeva un’altra vocina più ferma.
Erano oramai a pochi passi, quando Folgore li chiamò, a bassa voce:
– Ehi! Bambini, per di qua! … Silenzio che ci sono i tedeschi in paese!
II gemito del piccolo cessò di botto. La bambina chiese sgomenta, con un soffio di voce:
– Chi chiama?
– Zitti! … Venite qui da noi!
I due avanzarono ancora e furono tra le rovine. Erano molto piccoli, la maggiore forse di dieci anni e il bimbo di cinque o sei. Tremavano dal freddo e dalla paura. I partigiani li presero in braccio e li portarono accanto al fuoco. Seduti, si strinsero l’un con l’altro, come per difendersi dall’ignoto che li circondava.
Un partigiano porse loro da bere, ma essi si schermirono. Folgore li guardò un istante, poi con voce stranamente dolce, chiese loro:
– Di dove venite, piccoli?
– Da casa – fece la bambina. – È la cascina del Rosso la nostra casa.
– E perché l’avete lasciata la vostra casa per andare attorno la notte?
– Eravamo soli… il papà… – e la bambina ebbe la voce smorzata da un singhiozzo – è in guerra, disperso…
– E la mamma?
– La mamma non ce l’abbiamo. È morta…
– Oh, poveri piccoli. Ma dove volete andare a quest’ora?
– Dalla nonna – disse il piccolo con ansia, nascondendo subito il viso in grembo alla sorellina.
– Ma al Ronco ci sono i tedeschi. Non potete proseguire – interloquì un partigiano.
– Dovete tornare indietro. Vi accompagnerò io – aggiunse Folgore.
Fu silenzio per un istante, e si udì solo il lieve crepitare della fiamma. Folgore pensava. E nel pensare si risovvenne di quel suono di campane udito fuori, poco prima… E poi chissà perché, ripensò a quel morto ch’era fuori, supino sulla neve… Natale!
Si alzò deciso – Andiamo – disse – Tenterò di mandarvi dalla nonna.
Un partigiano osservò: – Se li fai uscir fuori te li fulminano!
– Forse non spareranno – rispose il comandante – Lascia fare a me.
Uscì, seguito dai suoi e dai bimbi, e a cauti passi si portò presso il suo solito osservatorio. Poi, con tutta la forza dei suoi polmoni da montanaro grido:
– Ehi, Tedeschi! … Mi sentite?
Ripeté tre volte il suo grido che smoriva senza echi nel silenzio. Al terzo richiamo una voce sorda rispose: – Noi Tedeschi sentire… Chi chiamare?
– Siamo noi i partigiani… Ascoltate: ci sono qui due bambini…
– Due bambini? Sì, capito… due bambini.
– Sono soli, senza casa, senza nessuno, vogliono andare nella casa dalla nonna che abita costì, nella casa sotto la chiesa…
– Nonna? Oh, sì… Großmutter … Capito.
– Volete lasciarli passare?
La risposta si fece attendere. Poi, giunse come esitante:
– Non potere… no, non potere.
– Ma domani è Natale e sono soli!
– Natale… sì, Natale… Capito!
Ci fu una pausa che parve interminabile. S’udì come un parlottio aspro, concitato, poi la solita voce nemica parlo:
– Avanti i due bambini… Soli… Noi non sparare.
– Possiamo fidarci di voi?
– Sì, noi non sparare su piccoli. Parola di soldato!
Folgore si voltò, carezzò il capo dei bimbi e disse brevemente:
– Andate. Buon Natale.
I due fanciulli entrarono nella strada e avanzarono esitanti, tenendosi per mano. I partigiani, con le armi puntate verso il nemico, li seguivano a ogni loro passo.
Ma non accadde nulla. I bimbi si fermarono esitanti un istante presso quel morto disteso sulla neve, poi proseguirono, piccola macchia grigia su di un candido lenzuolo. A un certo punto svoltarono e fu silenzio.
Ancora i partigiani si ritirarono nel loro rifugio e Folgore rimase immobile nella notte, con gli occhi fissi a quel buio che aveva inghiottito i due fanciulli. Pensava. Quelli di là non avevano sparato. Anche in loro dunque c’era un briciolo di umanità. Erano uomini anche loro, infine. E nella notte di Natale anche nel loro cuore indurito si era accesa una fiammella di umanità.
Guardò ancora quel morto, supino sulla neve ghiacciata. Guardò su verso i monti dov’era la sua casa, i suoi bimbi. Poi si decise. Si affacciò al muretto e gridò:
– Tedeschi! Ohé… Tedeschi!
La risposta fu pronta:
– Qui Tedeschi… Che volete partigiani?
– Sentite… Quel vostro camerata ch’è in mezzo alla strada… Venitevelo a prendere… Non spareremo!
– Non sparate voi?
– No. Parola di partigiano!
– Venire… sì subito venire…
Ci fu ancora un attimo di quiete, poi di lontano fiorì un allegro scampanio che riempì la notte di un miracoloso senso di gioia.
Era mezzanotte! Cristo era sceso in terra e le pievi ne davano l’annuncio. Folgore stette immobile ad ascoltarle, mentre nella sua mente era un tumulto di strane immagini: ceri accessi, bimbi sperduti, un soldato tedesco supino sulla neve con le braccia spalancate… Finché s’accorse che il gelo gli mordeva gli occhi. Quando fa molto freddo, le lacrime fanno questi scherzi.

Ivano Artioli – « LA BUCA

Ivano Artioli  -  « LA BUCA

Renzo Orvieto:

Ho dei disertori, li metto da voi?… Gli inglesi sono già a Ravenna e allora si tratta di poco, cosa dite?», ci aveva chiesto Eugenio che era arrivato di notte in bicicletta dal Casso del Reno, ed era un partigiano comunista. Diceva che veniva da noi perché eravamo solo in due, dei fidati, e poi abitavamo lontano da tutti (località Passetto nel comune di (Alfonsine). «Va bene, se pensate che ce la facciamo», avevamo risposto e la mattina dopo eravamo andati tra i filari di viti, lontano da casa anche trecento metri. Avevamo scavato una buca che alla fine assomigliava a una fossa, e allora ci siamo chiesti se ci dovevamo mettere dei vivi o dei morti, così abbiamo ripreso la vanga e l’abbiamo fatta di due per due per due, come un basso comodo. Un lavoro per bene ma con la paura e la fretta, tanto che alla sera mio marito l’avevo messo a letto alle sei per la fatica e la sudata. «Quello è Felix e l’altro si chiama Uwe, il primo è un tedesco sul serio ma il secondo è un austriaco, un ingegnere e un bracciante insieme, pensate…», Eugenio ce li presentava mentre ci passavano davanti, io stavo attenta perché dei soldati da tanto vicino non li avevo visti mai. Diceva che Felix era un ragazzo ancora, uno di quelli cresciuto nelle scuole che fanno fare anche lo sport, uno di città, mentre che Uwe fosse di campagna si vedeva dal fatto che era rotondo e basso, non aveva meno di quarant’anni di sicuro. Dopo che si erano calati dentro, e dopo che si erano sistemati sui materassi, avevamo ricoperto con tavole di legno e terra mossa, non pestata, nessuno se ne doveva accorgere. Il primo giorno passò bene, ogni tanto guardavo e mettevo orecchio, ma niente.

La notte quando tornò Eugenio li aiutò a uscire e camminarono, mangiarono di asciutto, restarono là nell’umidità di novembre. Ma alla seconda notte gli favorii di entrare in casa a scaldarsi, si poteva far diversamente? E poi anche la notte dopo, e la notte dopo ancora. Io stavo lì, attizzavo il fuoco, davo una minestra. Addirittura a volte Eugenio non arrivava perché c’erano dei pericoli, e mio marito non ce la faceva a stare su, noi due eravamo vecchi oramai e lui ne risentiva più di me perché ha sempre lavorato pesante, così restavo io da sola Felix non parlava, ringraziava a ogni cosa: «Danke», «Danke». Uwe invece diceva che della terra come la nostra mai l’aveva vista, piatta, liscia e comoda, invece la sua era tutta ondulata e si faceva più fatica. Io restavo così così, non è che non ci credessi, se uno dice una cosa vorrà pur dire che è vero però… però io non sapevo cosa volesse dire fare i contadini in montagna, nelle giornate limpide dalle mie finestre di sopra si vedevano le colline da dove viene il Reno, ma non sapevo cosa significasse lavorarle; conoscevo invece cos’era raccogliere il granoturco in agosto e anche trebbiare, tagliare l’erba spagna con la falce no, quello l’ha sempre fatto mio marito. A essere sincera Uwe mi piaceva poco, pareva non avesse anima, era uno che se la sarebbe cavata sempre. Invece non riuscivo a staccare il pensiero da quel giovane che stava là sotto dalle sei del mattino alle otto di sera, sicuramente un poco dormiva e un poco no; poveretto. Sarà anche perché non ho avuto figli; li volevo, eh! Ma Nostro Signore ha deciso per me.

Buio e freddo, freddo e buio, e la terra che gli entrava nel naso e che m’impressionava. Noi, io e mio marito, avevamo messo delle assi tutt’intorno, ma contavano poco e quando quei poveri cristi uscivano più di tutto avevano il naso nero, proprio dove passava il respiro, e non era la barba, perché se la facevano e pure con l’acqua calda.

Cercavamo di aiutarli con dei calzettoni di lana, delle maglie, anche un fiaschetto di vino al giorno; si poteva forse vivere senza il sangue caldo sotto terra? Felix era ansioso: ogni volta che usciva le parole erano poche e sempre le stesse: gli alleati arrivano?

Eugenio una notte si fermò apposta per parlargli: «Preparatevi, gli inglesi non hanno fretta, preferiscono stare al caldo, forse in aprile, speriamo marzo, mi dispiace, però ho una proposta…», e gli offrì di andare con lui dai partigiani, era più sicuro e più comodo. Uwe disse subito di sì perché conveniva, ma Felix fu risoluto: No! E se fosse capitato un conflitto a fuoco? E se avesse dovuto sparare ad altri tedeschi? No! Una cosa così, no! Per me aveva ragione, non dissi nulla però la pensavo come lui. Così restarono tutti e due e gli passai l’imbottita matrimoniale.

La situazione peggiorò con l’anno nuovo. Il tre gennaio proprio tra i filari delle viti, non tanto lontano dalla buca, i tedeschi piazzarono una batteria antiaerea e presero a venire in casa a scaldarsi e a sedersi per mangiare un poco. Che facce! Gente disperata. Cattiva. Ci volevano male. E di notte arrivava anche Pippo (un aereo da ricognizione alleato) che buttava dei bengala che si vedeva fino a Madonna del Bosco. E delle volte qualche tedesco ci comandava di dormire in cucina perché il nostro letto se lo prendeva lui. Insomma, per Felix e Uwe la vita peggiorò di molto, li tiravamo fuori quando si poteva. Era pericoloso. Troppo pericoloso. In più quell’inverno se non fu come quello del Ventuno gli andò vicino. La campagna era bianca di una neve che si era incrostata e tutte le notti faceva il ghiaccio.

Felix cominciò a rifiutare il cibo: «Guarda che devi mangiare sai, mangia, è buono», gli dicevo. Pallido era pallido, ma non era la cosa che m’impressionava di più, tutti quelli di città sono pallidi, era che proprio si era lasciato andare.

Anche Uwe cercava di tenerlo su, gli faceva lunghi discorsi in tedesco sugli inglesi che in primavera sarebbero arrivati di sicuro, chiedeva che io confermassi persino.

Non ce la fece. Morì. Sì!

Felix morì. Da un giorno all’altro. Di notte. Nessuno pensava arrivasse a tanto. Io però il pericolo lo sentivo, noi donne certe cose le sentiamo. Era il quattro di febbraio.

La mattina aprimmo la buca e trovammo Uwe che sembrava impazzito: disse che se ne era accorto solo quando non l’aveva più sentito respirare. Neanche un colpo di tosse. Neanche una parola. Era diventato freddo, solo quello. Ah, non ci dovevamo nemmeno pensare, lui in quella buca mai più! Piuttosto si buttava nel Reno.

Fu un colpo. Per i figli il destino ha deciso per me, però mi sarebbe piaciuto un ragazzo gentile e anche un po’ timido, di quelli con gli occhi che si abbassano, che pensano, insomma uno come Felix.

Per Uwe fece Eugenio. Lo accompagnò subito ad Alfonsine e diventò Terzo Squarotti di anni trentotto, sordomuto, inserviente all’ospedale civile, tutto in regola con carta di identità e grembiule blu.

Quando gli inglesi arrivarono in aprile lui si diede prigioniero e si salvò.

Invece a Felix ci pensammo noi.

Mio marito corse un gran rischio: forse mi aveva capita o si era affezionato anche lui, o forse era solo per un fatto di cristiani. Dicevo, mio marito fece una specie di cassa e poi scavò un’altra buca, meno profonda e più stretta, lontana dalla postazione tedesca, sotto l’argine del Reno, quasi.

Per seppellirlo venne anche Eugenio. Tutto di nascosto e con il magone. È dal quel giorno lì che ho preso a considerare tantissimo quelli che seppelliscono i morti: che mestiere! Più dell’avvocato.

Wanda Canna: “Due volte mi hanno sparato addosso”

Wanda Canna: “Due volte mi hanno sparato addosso”

 

Wanda Canna, staffetta partigiana, classe 1921, ricorda la sua esperienza.

«Ho iniziato a partecipare al movimento resistenziale in da subito. Mio padre era socialista e perseguitato politico, sempre dentro e fuori dalla prigione, condannato due anni in Calabria. Era anche anticlericale e non aveva né battezzato, né cresimato i suoi sei figli. Quando cominciai a fare la staffetta fu lui a istruirmi spiegandomi che, malgrado fossi curiosa, dovevo imparare a chiedere il meno possibile, a sapere solo quello che era necessario, a non fidarmi e a non dire mai chi ero e dove andavo. Il mio compito era quello di mantenere i contatti tra il Biellese e la Valsesia, tenendo aperto un canale di comunicazione attraverso il quale far viaggiare soldi, armi, messaggi e persone che avevano la necessità di incontrarsi. In qualche caso ricevevo gli ordini direttamente al comando ma di solito gli appuntamenti erano fissati in un luogo convenuto. Una volta dovevo incontrare due uomini che non conoscevo per scortarli nel Biellese da Franco Moranino “Gemisto”. Per riconoscerci avrei dovuto portare una borsa di colore nero, quando passai in bici nel sul posto fissato vidi due tizi appoggiati a una staccionata che non mi dissero niente, allora tornai indietro e videro la borsa infilata sul manubrio:

“È lei quella della borsa nera?”. Partimmo, io davanti e loro dietro, ma lungo la strada c’era un posto di blocco, allora prendemmo la via sterrata nel bosco. Giunti al fiume Sesia lo attraversammo su una diga fatta di sassi, perché il ponte non esisteva più e c’era solo una barca che faceva la spola tra le due sponde, ma bisognava pagarla. Dall’altra parte, in un grosso casale abbandonato, punto d’appoggio per le staffette, presero in consegna i due uomini – uno era Giovanni Battista Stucchi, il comandante “Federici” – e io me ne tornai indietro.

Ero sempre in sella alla mia bicicletta e molto allenata a pedalare, avevo 23 anni, ma ero già sposata. Mio marito, partito soldato, era riuscito a tornare dalla Russia e mi diceva sempre: “Io ce l’ho fatta, ma sta a vedere che prima o poi mi ammazzano la moglie…”. Per tutti quei mesi ho tenuto un diario scritto a matita in cui appuntavo tutto quello che accadeva, senza i nomi ovviamente, contravvenendo però ai consigli di mio padre. Ma lo tenevo ben nascosto nel pollaio, sotto il letame, e in due perquisizioni non lo hanno trovato. Ora è conservato nell’archivio dell’ANPI Nazionale, a Roma. Un giorno, nell’autunno ’43, ci scattammo anche una foto, tutti assieme: con me c’era un australiano, Franck, con le bombe, il comandante militare della Valsesia Eraldo Gastone “Ciro” e il commissario politico Vincenzo Moscatelli “Cino” che diventerà uno dei nostri Padri Costituenti. Facevamo parte del Distaccamento Gramsci che poi, ingrossate le sue file, è diventato la 6ª Brigata d’assalto Garibaldi, sotto il comando del CLN di Milano.

Mi hanno sparato addosso due volte, l’ultima mentre conducevo un inglese da Moscatelli. Aveva con sé un enorme zaino e una borsetta più piccola di plastica. Ci presero di mira mentre attraversavamo il iume, ma per fortuna non ci hanno colpiti. Solo quando fummo in salvo mi rivelò che trasportavamo una radiotrasmittente con i messaggi speciali da diffondere. Ecco perché, prima di partire, mi aveva detto: “Se ci fermano io mi faccio saltare, ma tu non farti prendere!”»

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Giovanni Pesce – Spie, carnefici e giustizieri (1)

Giovanni Pesce

Spie, carnefici e giustizieri (1)

Conti, all’ultimo momento non ha sparato.

La spia era salita, ignara e tranquilla sul tram, diretta al suo ufficio, da dove erano già partite settanta denunce contro i patrioti, seguite da altrettanti arresti. Ora l’ha fatta franca e può continuare a nuocerci.

Per tre volte mi sono recato sul teatro dell’azione e altrettante ne ho discusso con Conti, Giuseppe e Antonio; la strada l’abbiamo percorsa di giorno e di notte, confusi tra la folla e protetti dalle ombre; le vetrine dei negozi ci sono, familiari, come i portoni, i tombini, le lampade azzurrate, le auto, le biciclette e, naturalmente e soprattutto, il tipo di folla, operai, massaie e carabinieri.

La spia, uscendo di casa alle sette e mezzo del mattino, ha percorso un centinaio di passi; Sandra che l’ha visto in volto, lo ha segnalato a Conti. Ma Conti, all’ultimo momento, non ha sparato.

Gli altri due gappisti che hanno partecipato con Sandra all’azione, sono, rientrati alle loro basi, perplessi e furenti. La sera ci ritroviamo tutti in un’osteria a Niguarda, un locale appartato, protetto dalle insidie e dalle sorprese. Conti non è l’ultimo venuto: anziano, espertissimo, gode di molto ascendente, ha diritto di giustificarsi, ma anche i gappisti che affrontano un nemico tanto più forte e agguerrito hanno, diritto a una spiegazione.

E’ una discussione lunga, confusa e penosa. I ragazzi vogliono dei fatti e non c’è alcun fatto. è successo a me, è successo a tanti altri: al momento di premere il dito sul grilletto, si resta come paralizzati, incapaci di fare il minimo gesto, di prendere una decisione. è paura? Si, e tante altre cose insieme. Noi vogliamo’ che un gappista sia più che un uomo, ma anche lui è soltanto un uomo, con la sua tensione, i suoi crolli.

Come può spiegare queste cose Conti che, neppure le sa, che è furibondo contro se stesso per aver fallito e contro gli altri che lo rimproverano? Per una volta tanto devo fare da paciere tra i miei, calmare gli amici, ridare a Conti la possibilità di rifarsi.

Ripeteremo l’azione domani e Conti ne sarà di nuovo il protagonista.

Giunto in piazza del Duomo scendo dal tram. Alle sette ho l’appuntamento sotto i portici della Scala con Sandra.’ Sandra è puntuale. Ci incamminiamo: in piazza Cavour, incontriamo tre militi con mitra a tracolla, in piazzale Fiume i passi cadenzati di una pattuglia tedesca che si avvia al comando ci fanno sussultare; in viale Tunisia ci sfrecciano davanti autocarri zeppi di soldati.

Sempre a braccetto camminiamo, lentamente come due innamorati che hanno tante cose da dirsi.

All’altezza di Via S. Gregorio ci imbattiamo, ancora in due soldati. L’appuntamento è alla fermata del tram all’angolo della stessa via con Corso Buenos Aires dove i due gappisti ci aspettano controllando la casa del gerarca. Un carabiniere è in attesa, ma se ne va col primo tram. Conti, vestito da operaio, con la sua brava "schiscetta," appoggia la bicicletta al muro, si china, afferra la pompa come per gonfiare una gomma. Sandra gli si avvicina. Tutti e due guardano in una vetrina ciò che avviene alle loro spalle. e Sandra che vede la spia uscire dalla porta di casa.

"Calma," mormora, «ci siamo." Il fascista fa alcuni passi in strada, si guarda attorno come per controllare se non ci sono pericoli. Poi, più rapidamente, si dirige verso il tram. Conti si gira, seguito dagli altri due gappisti, e scarica la pistola senza esitare. Il fascista si abbatte con un grido rauco.

La gente fugge da tutte le parti rifugiandosi sotto i portoni. Alcune macchine si fermano. I gappisti inforcano le biciclette e si dirigono pedalando verso piazzale Loreto. Tutto sembra finito e ho già passato la pistola a Sandra che la ínfila nella borsa e s’allontana per conto proprio, quando una pattuglia di militi in bicicletta spunta da una via laterale e si getta all’inseguimento dei gappisti sparando all’impazzata. È questo l’errore che commettono sempre i fascisti: hanno paura e la nascondono sparando. I nostri non perdono la testa. Si buttano a destra verso via Morgagni, balzano a terra e prendono d’infilata la pattuglia che a testa bassa li insegue. Due fascisti cadono; gli altri due scappano.

La via è libera. A sera ci ritroviamo alla base. Una stretta di mano a Conti e la pace torna anche in casa nostra.

Esco di casa; è una di quelle giornate inesorabili d’agosto, cariche d’elettricità e grevi d’afa. Non devo farmi notare, non devo imbattermi in nessuno che mi abbia visto anche soltanto occasionalmente. Ognuno di noi, nonostante ogni precauzione, non può evitare di lasciare qualche traccia di sé. La portinaia di uno stabile dove è stato abbattuto un gerarca fascista potrebbe riferire qualche particolare alla polizia, anche se l’emozione impedirebbe di "fotografare" i nostri volti; ma tanti particolari compongono un ritratto. Il gappista è un combattente anonimo. Vive tappato in casa; trascorre, solo, lunghe ore, giorni, settimane. Sente aleggiare intorno la paura e ne scopre i mille volti; è sempre all’erta, sempre teso. Repubblichini e fascisti ignorano il momento e il luogo delle nostre azioni, ma ne temono la frequenza. Le sentinelle denunciano i segni della tensione. Gli uomini di Mussolini e di Kesserling in preda al nervosismo diventano sospettosi verso chi indugia nei pressi delle caserme dove si intensificano i turni di guardia. La tensione del nemico diventa spasmodica. Ma dopo un’azione le parti si rovesciano, siamo noi ad essere sopraffatti dal nervosismo. La tensione ti coglie anche se hai una lunga esperienza di attività clandestina e non hai dimenticato nessuna delle precauzioni necessarie a restare vivo. Non importa che tu abbia chiuso le imposte come se fossi assente; che tu non le apra all’improvviso, senza esserti fatto prima notare sulle scale dagli inquilini dello stabile. Sei inquieto, c’è troppa gente che, pur non essendo nemica è sempre in sospetto. Un gappista con un minimo d’esperienza e di possibilità di scelta, elegge la base in territorio "amico." Ma c’è sempre qualcuno che ha paura, che può essere indotto a parlare. Tu sei attento, nessun particolare ti sfugge; la sera esamini criticamente il tuo comportamento da inquilino alla ricerca di errori o di omissioni. Non ti puoi sottrarre all’isolamento, non ti puoi confidare, non puoi parlare, non puoi ascoltare.

Queste idee mi ronzano in testa la mattina del 10 agosto durante la mia sortita quotidiana. Ho sete almeno di notizie ufficiali, in assenza di quelle saltuarie fornitemi dalle staffette del comando. L’ombra degli alberi che proteggono, Viale Romagna dal sole mi conduce all’edicola. Ho fra le mani un giornale e sotto gli occhi il comunicato della fucilazione di Piazzale Loreto.

Quindici ostaggi uccisi.’ Scorrendo febbrilmente l’elenco trovo il nome di Temolo, il capo della cellula della Pirelli, uno dei più coraggiosi, dei più bravi. Anche lui c’è cascato.

` Ecco i loro nomi: Andrea Esposito, Domenico Fiorano, Umberto Fogagnolo, Giulio Casiraghi, Salvatore Principato, Eraldo Fantini, Renzo del Riccio, Libero Temolo, Vitale Vertemarchi, Vittorio Gasparini, Andrea Raggi, Giovanni Galimberti, Egidio Mastrodomenico, Antonio Bravin, Giovanni Colletti.

Da viale Romagna si raggiunge Piazzale Loreto lungo un rettilineo fino in via Porpora e si svolta a sinistra. Dappertutto cordoni di repubblichini: militi dietro militi, sempre più fitti, sempre più lugubri. In Piazzale Loreto una folla sconvolta e sbigottita. Si respira ancora l’odore acre della polvere da sparo. I corpi massacrati sono quasi irriconoscibili. I briganti neri, pallidi, nervosi, torturano, il fucile mitragliatore ancora caldo, parlano ad alta voce, eccitatissimi per aver sparato l’intero caricatore.

Sbarbatelli feroci, vicino a delinquenti della vecchia guardia avvezzi al sangue ed ai massacri, ostentano un atteggiamento di sfida, volgendo le spalle alle vittime, il ceffo alla folla. Ad un tratto irrompe un plotone di repubblichini, facendosi largo a spinte, a colpi di calcio di fucile e andando a schierarsi vicino ai caduti.

"Via via, circolate," urlano. Spontaneamente il popolo è accorso, versoi suoi morti. Ora la folla, ricacciata, viene premuta fra i cordoni dei tedeschi e dei fascisti. Urla di donne, fischi, imprecazioni.

"La pagheranno!"

I repubblichini, impauriti, puntano i mitra sulla folla.

Dall’angolo della piazza scorgo lo schieramento fascista accanto ai nostri morti. Potrei sparare agevolmente se i fascisti aprissero il fuoco. In quel momento, fendendo la calca, si fa largo una donna: avanza tranquilla, tenendo alto un mazzo di fiori; raggiunge le prime file, vicino al cordone dei repubblichini, come se non vedesse le facce, livide e sbigottite degli assassini; percorre adagio gli ultimi passi. Scorgo da lontano quella scena incredibile, un volto mite incorniciato da capelli bianchi, un mazzo di fiori che sfila davanti alle canne agitate dei fucili mitragliatori. I fascisti rimangono annichiliti da quella sfida inerme, dall’improvviso silenzio della folla. La donna si china, depone i fiori, poi si

lascia inghiottire dalla folla. Comincia così un corteo muto, nato come da un improvviso accordo senza parole.

Altre donne giungono con altri fiori passando davanti ai militi per deporli vicino ai caduti. Chi ha le mani vuote si ferma un attimo vicino alle salme martoriate. Per ogni mazzo, di fiori ci sono cento persone che sostano riverenti.

Si odono distintamente i rumori attutiti dei passi e si colgono i timbri alti delle voci. Accanto a me uno bisbiglia: "vede quello lì sulla sinistra? Tentava di scappare. Appena era sceso dal camion si era diretto di corsa verso una via laterale. Credevamo che ce l’avrebbe fatta. Era già lontano. L’hanno riportato indietro che zoppicava, ferito ad una gamba. L’hanno spinto accanto agli altri, già schierati, in attesa."

L’ultimo volto che vedo, abbandonando la piazza, è quello di un repubblichino, che ride istericamente. Quel riso indica l’infinita distanza che ci separa. Siamo gente di un pianeta diverso. Anche noi combattiamo una dura lotta, in cui si dà e si riceve la morte. Ma ne sentiamo tutto l’umano dolore, l’angosciosa necessità. In noi non è, non ci può essere nulla di simile a quello sguardo, a quella irrisione di fronte alla morte.

Loro ridono. Hanno appena ucciso 15 uomini e si sentono allegri. Contro quel riso osceno noi combattiamo. Esso taglia nettamente il mondo: da un lato la barbarie, dall’altro la civiltà. I cordoni di repubblichini sono sempre fitti. Ad ogni passaggio, ad ogni posto di blocco, mi imbatto nella loro insolenza, nella loro spavalda vigliaccheria: mitra ostentati, bombe a mano al cinturone, facce feroci, lugubri camicie nere.

Ancora una volta, come in Spagna di fronte alla spietata ferocia degli ufficialetti nazisti, si rivelano i due mondi in antitesi, i due modi opposti di concepire la vita.

Noi abbiamo scelto di vivere liberi, gli altri di uccidere, di opprimere, costringendoci a nostra volta ad " accettare la guerra, a sparare e ad uccidere. Siamo costretti a combattere senza uniforme, a nasconderci, a colpire di sorpresa. Preferiremmo combattere con le nostre bandiere spiegate, felici di conoscere il vero nome del compagno che sta al nostro fianco. La scelta non dipende da noi, ma dal nemico che espone i corpi degli uccisi e definisce l’assassinio "un esempio."

La belva ormai incalzata da ogni parte, si difende col terrore.

Mi rifugio in casa. Mi raggiuge nel pomeriggio la staffetta. I repubblichini hanno sparato in aria per allontanare la folla che sfilava davanti ai caduti. Il giorno successivo alla Vanzetti, alla Graziosi, alle Trafilerie, alla Motomeccanica, alla O.M. ecc., gli operai abbandonano il lavoro in segno di protesta; alla Pirelli le maestranze si riuniscono in silenzio. Ora tocca a noi.

Nella medesima notte prepariamo otto bombe ad alto potenziale. Il tecnico, abituato ad un lavoro di precisione, esprime le sue preoccupazioni, ma si piega alle necessità. Il giorno dopo, all’alba, io, Narva e Sandra ci troviamo nella chiesa di via Copernico per la consegna dell’esplosivo. Il parroco si accinge a celebrare la prima messa, avanzando silenziosamente dalla sacrestia. Nella chiesa, deserta, regna un silenzio profondo, una pace incredibile. Arriva il tecnico con le borse. Il prete assiste alle consegne, immobile fra i chierichetti. Comprende? Non so.

Usciamo. Accompagno le ragazze all’appuntamento con Conti e Giuseppe, per l’ultimo scambio, delle borse.

"Vi proteggerò le spalle," dico, "calma e sangue freddo. Non ci sarà nessuna sorpresa."

I due gappisti con la calma e la sicurezza di professionisti, depositano le bombe, si eclissano in una viuzza scambiandosi un rapido cenno di saluto. Una, due, tre esplosioni scuotono l’aria, infrangono i vetri. Il ritrovo uffìciali del comando tedesco è devastato come un campo di battaglia. Abbiamo disposto le cariche in modo che gli esplosivi deflagrassero prima sulle finestre e successivamente all’uscita del circolo."

Il giorno dopo il Feldmaresciallo Kesserlingo, invita le forze dipendenti ad agire con maggiore energia nei confronti dei sabotatori da impiccarsi sulle pubbliche piazze; il comandante della piazza di Milano anticipa il coprifuoco alle 22. Il nemico si rende conto che l’arma del terrore gli si ritorce contro. Dobbiamo insistere. Azzini e Bosetti attaccano il comando repubblichino nella sede dove convergono i lavoratori italiani da inviare in Germania. Il mattino del 14 agosto un alto ufficiale tedesco e due subalterni mentre discutono in un ufficio del Palazzo di Giustizia vengono uccisi con una "stile" lanciata da una finestra.

Nei corridoi, tedeschi e fascisti fuggono in preda al panico. Il coprifuoco non ci ferma: il 16 agosto ancora Azzini e Bosetti giustiziano uno squadrista, ufficiale della milizia e delatore di partigiani e, due giorni dopo un’altra squadra abbatte un ufficiale, delle SS a Porta Volta.

"La pagheranno! " era la parola d’ordine del popolo e la nostra.

3 agosto: lancio di due bottiglie "Molotov" contro gli automezzi nel giardino del comando di via Mascheroni.

9 agosto: alle ore 13 in piazzale Tonolli (oggi piazza Ascoli) abbattuto un capitano della milizia ferroviaria. Inseguiti da un gruppo di fascisti, i gappisti danno battaglia, vengono abbattuti due fascisti, un terzo rimane ferito.

18 agosto: una "siile" lanciata contro il gruppo rionale di Porta Volta. Il giorno successivo un ufficiale tedesco viene abbattuto in pieno giorno. La sera stessa una squadra di gappisti compie un’azione contro il tratto di ferrovia Milano-Novara.

28 agosto: mentre il gappista Conti sta per essere arrestato, abbatte due fascisti e riesce a fuggire.`

30 agosto: un locomotore fatto deragliare sul tratto ferroviario Mílano-Certosa-Rho mentre un’altra squadra fa saltare un traliccio metallico che sorregge i cavi conduttori di corrente ad alta tensione. I cavi spezzati cadono aggroviglíandosi sulla strada. Le ruote di un camion tedesco che si trova a passare in quel momento si impigliano nei cavi e l’autocarro si incendia: due tedeschi muoiono carbonizzati.

Nulla è più pericoloso di una spia fascista che conosca i patrioti, soprattutto se la spia è stata agente dell’OVRA fino al 1943 ed ha avvicinato gli antifascisti arrestati. Verso la metà di agosto del 1944, Franco mi informa dell’esistenza di una spia della quale non conosco né il nome, né l’indirizzo, né il volto, una anonima minaccia per un grande numero di antifascisti, una oscura ipoteca sul fronte di liberazione. Dopo 15 giorni abbiamo la prova che la spia è un certo avvocato De Martino, dirigente dell’ufficio politico della Questura di Milano, un criminale prudentissimo che esce soltanto per andare alla Questura e tornarsene a casa, in via Telesio, e sempre scortato. Via Telesio è zona "militarizzata," sede di comandi di gruppi fascisti e tedeschi, protetta da eccezionali misure di sicurezza; elegante e signorile, costeggia il parco, sotto i cui alberi secolari si avvicendano i reparti fascisti di vigilanza.

Non è possibile sostare qualche minuto in via Telesio senza essere fermati, perquisiti e magari arrestati; dobbiamo, quindi andarci a colpo sicuro e nel minuto preciso. Il nostro guaio, invece, è che nessuno di noi ha mai visto il De Martino. Ci vuole qualcuno che lo conosca e, al momento giusto, ce lo indichi. Ne parlo a Sandra e la convinco a recarsi in casa del De Martino per chiedergli un parere legale. La missione è pericolosa e richiede ad un tempo sangue freddo e fantasia, due qualità che non mancano alla nostra ambasciatrice.

Tratto da

“Senza tregua”

La guerra dei Gap di Giovanni Pesce

Edizioni Feltrinelli 1967

Giovanni Pesce – Spie, carnefici e giustizieri (2)

Giovanni Pesce

Spie, carnefici e giustizieri (2)

Il giorno seguente Sandra suona alla porta di via Telesio e viene fatta entrare nel salotto, con le finestre protette da solide inferriate, dove, qualche minuto dopo, entra un individuo alto e robusto scrutandola dietro le spesse lenti; l’uomo l’accompagna nel suo studio e dopo averla fatta accomodare in una grande poltrona di pelle, si siede, a sua volta, dietro la scrivania.

Sandra, mostrandosi molto imbarazzata, gli fa pressappoco questo discorso: "Mi manda mio padre per un consiglio. Si tratta di mia sorella di 19 anni, fidanzata ad un ufficiale degli alpini. La ragazza aspetta un bambino. Ha scritto al comando del reparto per far ottenere al fidanzato una breve licenza matrimoniale prima della nascita del piccolo, ma intanto purtroppo l’ufficiale è caduto in combattimento sul fronte greco."

"Ora mia sorella," aggiunge Sandra, "dopo la nascita del bambino è ossessionata dall’idea che debba portare il nome del suo eroico padre; conserva le lettere che le ha scritto e dalle quali traspare l’impazienza di sposarla per amore suo e del loro piccolo."

La spia osserva Sandra con insistenza, si toglie gli occhiali, li pulisce con calma, li rimette e chiede bruscamente: "perché è venuta da me? Chi le ha dato il mio indirizzo? "

Sandra, che aveva previsto la domanda, risponde con sicurezza:°

"Mi ha mandata mio padre, consigliato da un amico medico."

De Martino non fa altre domande; scorre gli appunti del colloquio e dice a Sandra: "Mi faccia avere le lettere del fidanzato di sua sorella e dica a suo padre, la prossima volta, di venire di persona. Forse un giorno suo nipote porterà il nome del padre, eroico combattente. Chi è caduto per la patria ha tutti i diritti alla nostra riconoscenza."

Sandra si alza. L’uomo, mostrandosi galante l’accompagna in anticamera per farle intendere che il favore è grande e che l’avrebbe rivista volentieri. Ora conosciamo la faccia dell’individuo, ma la sua esecuzione presenta molti rischi. Li affrontiamo.

Mercoledì, l’ settembre 1944; due gappisti si appostano all’inizio e alla fine di via Telesio. Pochi minuti prima dell’arrivo della macchina di De Martino, giungo a braccetto di Sandra. Camminiamo piano, chiacchierando come due fidanzati. Compare da via Ariosto una grossa automobile. Sandra riconosce l’uomo attraverso i cristalli. Do il segnale. I due gappisti si incamminano sul marciapiede l’uno verso l’altro, per incontrarsi davanti al portone numero 8, nel momento stesso in cui si sarebbe arrestata l’automobile con la spia a bordo.

Abbiamo calcolato esattamente i tempi e non è la prima volta che eseguiamo una simile manovra. De Martino scende dall’auto, accompagnato dalla scorta, fa tre passi sul marciapiede e cade colpito da tre colpi di pistola. La scorta, sorpresa, non reagisce immediatamente. Quando spara contro i gappisti in corsa, è troppo tardi.

Il 5 settembre appare sui giornali il comunicato del capo della Provincia. "A decorrere dal 4 settembre è fatto divieto a tutti i ciclisti di transitare in gruppi. Ai posti di blocco presso le barriere daziarie, i ciclisti devono scendere, dal veicolo almeno dieci metri prima e risalirvi dieci metri dopo."

Nel pomeriggio, in corso Sempione, incontro Azzini. Cammina lentamente. Non gli lascio il tempo di dirmi ciao. "Da dove vieni? "

"Mi ha bloccato, un rastrellamento."

"Un rastrellamento?"

"Stamattina non c’eri in via Ponzio dove è morto un compagno e Antonio è stato gravemente ferito! "

Azzini abbassa il capo. Non ribatte, ma il suo volto esprime confusione, amarezza, dolore. "Alla Ponzio, l’azione è fallita. I gappisti hanno reagito, ma purtroppo Romeo Conti è morto. Questo, è quanto. E ora parliamo d’altro. C’è qualcosa da fare?"

Da alcuni giorni matura l’idea di un colpo alla Stazione Centrale di Milano in un locale adibito a posto di ristoro per fascisti e tedeschi, dove si mesce perfino birra. Mi sono già recato con Sandra nel locale, di difficile accesso per coloro che non sono in uniforme, ma non per un gappista travestito. Il tecnico ha preparato il materiale impiegando matite esplosive a scoppio ritardato, invece della solita miccia facilmente identificabile dalle tracce di fumo. Il laboratorio dista dalla stazione circa dieci minuti di strada. Azzini mi ascolta. Risponde: "D’accordo." E aggiunge: "Tu credi forse che io abbia paura! No, non ho paura, ma…"

"Non ci possono essere ma."

Ci saranno rappresaglie, vittime…" "Rappresaglie? Sì, e sempre più feroci. Per questo dobbiamo tenergli costantemente le mani in gola."

Mi guarda negli occhi. "Ho capito," dice.

In quel momento sono io a tacere. Le domande di Azzini ce le siamo poste tutti, mille volte, davanti ai caduti, davanti agli uccisi, agli innocenti sacrificati. Sono una prova di onestà, di lealtà verso i cento e cento compagni che sono già morti, e verso quelli che lottano con l’arma in pugno in ogni angolo d’Italia.

È lui a scuotermi. "Quando ci troviamo? Dove?

Ci troviamo in via Copernico, non lontana dal laboratorio del tecnico.` E’con noi Narva che accompagnerà Azzini. Prima dell’appuntamento mi reco, in laboratorio dove per la prima volta riceviamo matite esplosive in luogo della miccia e mi isso lo zaino, sulle spalle. Quando arrivo in via Copernico, Azzini, in uniforme fascista,, mi attende. Gli passo lo zaino. Ci incamminiamo in gruppo verso la stazione.

Giulio, il tecnico, ci lascia ai piedi della scalinata. Narva prosegue sola, precedendo Azzini. Anch’io gli stringo la mano e mi allontano.

Azzini sale gli scalini un po’ curvo sotto il peso dello zaino, diretto al posto di ristoro in cima alla scalinata. Prima di allontanarmi rimango qualche minuto seguendolo con lo sguardo, mentre con la sigaretta fra le labbra, sale calmo, sicuro. Raggiungo Sandra, incaricata di sorvegliare all’esterno l’andirivieni dei passeggeri.

Quando Azzini arriva al posto di ristoro lo trova pieno di tedeschi e di fascisti: alcuni sostano all’esterno del locale, seduti sul parapetto delle scale. Poco discosto, tre bambini stanno rincorrendosi, giocando. Azzini entra nel locale, si toglie lo zaino, lo posa per terra

in un angolo. Caldo soffocante e tanta gente che parla forte e che ride. Azzini si asciuga il sudore che gli cola sulla fronte, guarda l’orologio. È tempo di allontanarsi.

Ma mentre esce rivede i tre bambini che si rincorrono ridendo, inconsci, felici. Si avvicina ad essi, li prende per mano e li conduce via.

Di fronte alla farmacia della stazione, Sandra segue l’azione per potermi subito riferire. In quell’istante, mentre Azzini si allontana con i tre bambini, la bomba scoppia con dieci minuti di anticipo sul tempo stabilito lanciando un volo di schegge attorno a lui. Azzini sorpreso guarda l’orologio e rabbrividisce.

I tedeschi, seduti su un parapetto della scala, sono gettati in terra dallo scoppio. Altri fuggono. Dal posto di ristoro escono spesse nubi di fumo nero. Due o tre militari feriti compaiono sulla porta del locale urlando di dolore. Azzini è ormai fuori con i tre bambini. La gente che in quell’ora affolla la stazione, si passa le voci più strane. "È scoppiata una bomba nello zaino di un tedesco." «E saltato un treno carico di esplosivo."

Molti accusano i tedeschi di incuria nel trasporto del materiale esplosivo. I tedeschi gridano: "Partigiani! Banditi! "

Arrivano i rinforzi, circondano la stazione, fanno allontanare la gente, mentre i morti e i feriti vengono trasportati fuori.

Camion armati bloccano l’entrata della stazione, arrestando chiunque si trovi a passare. Sandra fa appena in tempo a fuggire. Io, dal caffè dove mi trovo in attesa, sento l’esplosione e mi accorgo che la bomba è scoppiata molto prima del tempo stabilito. Calcolo febbrilmente il tempo: dieci minuti per arrivare sul posto, due o tre per depositare lo zaino e uscire. Anche se lo scoppio è avvenuto dopo diciotto minuti anziché dopo trenta, Azzini avrebbe avuto il tempo di allontanarsi, a meno che non si sia fermato per non farsi notare.

Poco dopo arriva Sandra, ma neppure lei sa dirmi se Azzini sia uscito, o meno dal posto di ristoro. Ha sostato davanti ad una edicola i primi dieci minuti e non ha tenuto d’occhio il posto di ristoro. La incarico di recarsi, il mattino dopo, a casa di Azzini per chiedere notizie.

Ma dentro di me si fa strada una di quelle idee assurde che attraversano la mente nei momenti in cui ci si abbandona all’ansia, al turbamento. Temo che Azzini possa pensare che io l’abbia mandato deliberatamente alla morte per punirlo della sua mancata partecipazione allo scontro della piscina in via Ponzio.assurdo, ma ho fretta di vederlo, di parlargli, di eliminare ogni dubbio. Non è necessario. Mi viene incontro nel pomeriggio tutto allegro.

La stampa fascista divulga poi la falsa notizia di bambini uccisi: il locale di ristoro diviene una infermeria!

L’arma segreta a cui i nazifascisti ricorrono come risorsa estrema è la menzogna e la calunnia.

Trascorrono tre giorni. Il meccanismo poliziesco dei fascisti si è mosso invano; ma la fatalità vuole che Azzini venga catturato dagli sgherri della "Muti" come renitente alla leva.

Arrestato, viene condotto nella caserma di via Rovello. Lo spogliano. Lo stesso, comandante della marmaglia della "Muti," Colombo, svolge l’interrogatorio.

"Sei un partigiano? Parla! Sei un bandito? Parla, vigliacco!

Azzini non parla. Il ragazzo è diventato uomo, un partigiano.

Torturato per sette giorni, di giorno e di notte. Resiste agli insulti; alle sevizie, lui oppone il silenzio. In pieno giorno riesce a fuggire dalla porta centrale per cui è entrato prigioniero, sicura preda della morte,

Quattro partigiani: Albino Abico, Giovanni Aliffi, Bruno Clapiz e Maurizio del Sale, già gappisti e poi organizzati nelle S.A.P., vengono fucilati il 28 agosto 1944 contro il muro della casa di via Tibaldí 26 a Milano.

Albino Abico cosí scriveva ai suoi familiari prima di morire "Carissimi mamma, papà, fratello, sorella e compagni tutti, mi trovo senz’altro a breve distanza dall’esecuzione. Mi sento però calmo e sereno e con l’animo tranquillo. Contento di morire per la nostra causa: il comunismo e per la nostra cara e bella Italia. Il sole risplenderà su noi ‘domani’ perché tutti riconosceranno che nulla di male abbiamo fatto noi. Voi siate forti come lo sono io e non disperate. Voglio che voi siate fieri ed orgogliosi del vostro Albino che sempre vi ha voluto bene."

Tratto da

“Senza tregua”

La guerra dei Gap di Giovanni Pesce

Edizioni Feltrinelli 1967

Monica Emmanuelli – Non è stato come andare a una festa da ballo

Non è stato come andare a una festa da ballo

Monica Emmanuelli

Una raccolta di videointerviste a partigiani e staffette che raccontano la lotta di Liberazione nella Destra Tagliamento

25Aprile Antifascismo Fascismo Partigiani Resistenza

Il documentario “Ribelli per la libertà. Memorie partigiane nel Friuli occidentale” nasce dalla necessità e dall’urgenza di lasciare una traccia, una memoria orale sulla Resistenza della Destra Tagliamento, prima che le testimonianze, rimanendo circoscritte al privato, vadano lentamente dimenticate (https://www.facebook.com/1497273350538182/videos/1631989407066575/).

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Il lavoro di Alessandra Montico e di David Da Ros, a cui ha collaborato Giuseppe Mariuz, è stato promosso dal Comitato provinciale Anpi di Pordenone e dalla sezione “Elio Gregoris – Learco” di San Vito al Tagliamento.

I racconti di Luigi Baldassar “Mameli”, Ruggero Benvenuto “Biella”, Dino Candusso “Athos”, Angelo Carnelutto “Clark”, Antonio Piasentin “Gallo”, Manlio Simonato “Fortezza, Ascaro” e delle staffette Eginia Manfé e Vilma Pizzin si susseguono, si incastrano e si completano grazie all’abilità della regista Montico che riesce magistralmente a creare una metastoria che supera le singole biografie per approdare ad una narrazione uniforme e complessa.

A casa di “Gallo”

La trama si snoda attraversando le tematiche dell’8 settembre, della scelta, delle azioni partigiane, dei rastrellamenti, della vita in montagna e della liberazione. Si tratta di un viaggio nel passato dove il limite delle parole viene affinato da delicate inquadrature di sguardi eloquenti e di movimenti quasi impercettibili.

L’intervista a “Biella”

I protagonisti vengono ritratti nelle loro case e nei loro giardini in quella odierna quotidianità che rende più facile svelare ad una telecamera parte della propria vita. Il ricordo del fuoco delle armi lascia spazio alle emozioni, ai sussulti ancora vivi della paura e delle sofferenze. La descrizione delle notti, dei bagliori, dei rumori, degli sferragliamenti dei fucili trasforma fatti di cronaca in narrazione letteraria. Il sapore della polenta, del latte freddo, dell’acqua di fonte, delle sigarette e il fastidio dei pidocchi ci immerge nel clima della guerra che, come ci rammenta Eginia, non è stato come “andare a una festa da ballo”, in quei paesi dove c’erano “più fascisti che gente umana”.

L’intervista a “Fortezza”

I racconti meticolosi si contrappongono alla fugacità del nostro presente caotico, interpretato all’inizio del documentario da un susseguirsi di immagini concitate, quasi deliranti, che riassumono i tempi più recenti attraverso forme vorticose di scale mobili, persone frenetiche, esplosioni nucleari, migrazioni di massa e violenze. I resistenti, invece, si presentano con la naturale fermezza di chi conserva delle certezze, con un tono di voce pacato e serio nell’intento di sottolineare il valore della storia che raccontano, della propedeutica alla democrazia che hanno vissuto. Il linguaggio chiaro, essenziale, definito da un rigore spartano senza sbavature, comunica quell’esigenza di essere compresi, affinché non solo le parole, ma anche i valori su cui si sono fondate le loro lotte e i loro patimenti non vengano dimenticati. Nella nostra immaginazione di spettatori la figura di un anziano che racconta la propria storia di guerra si sovrappone a quella di un partigiano giovane che combatte per portare la pace e la libertà nel proprio Paese.

L’incontro con “Athos”

C’è da augurarsi che queste narrazioni oramai ibridate dal vissuto del dopoguerra, dalle letture e dagli studi storici possano rimanere patrimonio delle generazioni più giovani, un patrimonio da recuperare quotidianamente e da attuare attraverso pratiche di cittadinanza consapevoli e coscienziose.

In conclusione, due riflessioni cariche di saggezza:

“Clark“: secondo me la Resistenza non è stata solo una guerra per – diciamo – liberarci dai nazifascisti, ma è stata anche una rivoluzione culturale e anche per cambiare la società. Purtroppo tutti quei principi che sono nati durante la Resistenza e che poi sono stati trascritti nella Costituzione sono continuamente disattesi e oggi noi vediamo che le disuguaglianze fra i cittadini aumentano sempre di più, quindi si va verso una vanificazione della lotta di liberazione, a parer mio… se avessi la forza lo rifarei ancora!

“Athos”: è costante al mio DNA… ho vissuto sempre in positivo e sono ancora qua a dire agli amici e agli avversari che occorre battersi perché quegli ideali della Resistenza abbiano davvero il valore che noi a quegli anni abbiamo inteso dare; purtroppo non sempre viene recepito questo sentimento che è mio proprio, ma io continuo imperterrito – scusate il termine pomposo – a dir la mia in questo senso, occorre ragionare in positivo… non è che sia mia la frase, ma l’ho fatta mia e l’ho pronunciata in varie occasioni anche nei piccoli discorsi che si fanno e in riunioni: senza memoria non c’è futuro.

Renzo Corsini – Vita da partigiano e soldato per "Mariolino" Innocenti

Renzo Corsini

Vita da partigiano e soldato per "Mariolino" Innocenti

Dal " Quaderno di Farestoria, il periodico dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Pistoia (numero 2 del maggio-agosto 2007) riprendiamo il testo di Renzo Corsini sulle vicende partigiane del soldato "Mariolino" Innocenti, di­ventato nel dopoguerra, Segretario dell’ANPI di Pistoia e presenza operativa nella vita culturale e politica della città toscana. Mario, di carattere schivo e restio a parlare delle proprie esperienze di guerra, era conosciutissimo stimato e amato da tutti i pistoiesi. Questa è parte della sua storia. non la conoscono in moltissimi Ecco perché la pubblichiamo.

Nel marzo del 1943 ero a Pinerolo. milita­re di leva. Per la strada di quella cittadina incontrai un «giovane con delle borse sotto il braccio. Doveva avere all’incirca la mia età. camminava letto. –Dove vai?, gli chiesi – Vado a casa mi rispose – "Oggi ce’ lo sciopero-

Così sì Mario Innocenti racconta- il suo primo impatto con un fatto politico. proibitissimo sotto la dittatura fascista. La cosa lo colpì profondamente: la dittatu­ra. il fascismo non era poi così invincibile come appariva!

« E mi tornarono in mente proseguiva Mario – quelle volte che il mio babbo, a Pontenuovo dove abitavo. doveva scappare di casa. appena a tempo per non es­sere bastonato. Ma non sempre ci riusciva, e allora… Sai – aggiungeva Mario – i miei erano tutti e due sarti, lavoravano soprattutto per i contadini che pagavano quasi sempre in natura. Insom­ma, a casa mia, non si pativa la fame ma i miei erano antifascisti e allora…».

Dopo Otto settembre Mario, come tanti altri riesce a tornare a casa. Arrivano i tedeschi. il fasci­smo riprende sotto la veste della repubblichetta di Salò.

«[…] A primavera vo coi parti­giani!» – ripete Mario –. Ma l’impazienza lo tormenta e, ver­so febbraio, con le montagne ancora bianche di neve. assieme ad alcuni compagni, si avvia ver­so la collina, verso Tobbiana.

«[…] Ci avevano detto di seguire certi sentieri., poi avremmo in­contrato delle capanne. Se da qualcuna uscivano segnali di fu­mo voleva dire che lì c’erano i partigiani. La prima capanna la trovammo vuota ma il fuoco era accesa… significava che avevano abbandonata da poco. spostammo oltre e in un "altra panna c’erano i partigiani cercavamo. A ripensarci posso di­re che andò bene a noi ma andò bene anche a loro: potevamo essere dei fascisti e li avremmo sorpresi tutti in riunione».

Mamma e babbo cercarono insi­stentemente di fermare l’ansia di Mario di unirsi ai partigiani. «[…] Tu. babbo. se eri più giova­ne. cosa agresti fatto?».

«[…] Se avessi trent’anni – gli ri­spose il babbo con un sorriso in­triso di amarezza – sarei già coi partigiani!».

«[…] Bravo babbo. lo ne ho venti e parto!». Rispose Mario. E così fece. L’impatto coni partigiani della ‘`Rozzi’" (nome assunto dopo la morte del suo primo co­mandante, il fiorentino Gino Rozzi), non fu scontato: di nor­ma le "reclute" venivano avviate in quella formazione dalla orgaizzazione politica comunista.

«[…] Ad Agliana – ricordava Mario – in casa di Magnino Ma­gni, vi era, per così dire, il —di­stretto militare" dei partigiani della nostra zona. Di lì passavano un pò tutti! ».

Ma dopo pochi giorni Mario e i suoi compagni si conquistarono la fiducia dei capi con cui condi­videvano freddo, disagi, pericoli e spesso la fame, ma anche esal­tatiti esperienze.

«[…] Quelli che trovammo – d i­ceva Mario – erano antifascisti usciti da poco dalle galere del re­gime. Lì avevano studiato. sape­vano di storia, di politica, dei fatti del mondo… io li ascoltavo. avevo voglia, avevo bisogno d’im­parare. Da giovanissimo avevo fatto il pesaio. con me c’era un antifascista che ci aveva dato qualche spunto, poca cosa. La scuola poi, figuriamoci. ci aveva

dato un quadro. Diciamo così, ro­mantico del Risorgimento… ora invece. lì. fra la neve era un’al­tra cosa!».

Di quel tempo Mario ricordava volentieri un aneddoto:

«[ … ] Un giorno. in un momento di sosta delle arie attività quoti­diane. ci sedemmo accovacciati intorno alla capanna. improvvi­samente —Nando il comandante (Fernando Borghesi, un gappista fiorentino mandato dal Partito Comunista a rimpiazzare il Bozzi mi chiede: —E allora Mario, dimmi un pò, se si potesse mette­re una bandiera sulla nostra ca­panna, quale ci metteresti?". Ci pensai un po’. poi mi decisi per la risposta che ritenevo la più gradita al mio Capo, verso il quale avevo già maturato un sentimento di grande stima e af­fetto. –CI metterei la vostra, la bandiera rossa, dei comunisti!" dissi. Nando abbozzò un sorriso, poi calmo mi rispose: —N o, Mario, ci dovremmo mettere la bandiera tricolore, quella dell’Italia". E aggiunse: "Noi non siamo qui a batterci per un partito, siamo qui per cacciare i tedeschi e la dittatura fascista. Poi, dopo, de­ciderà il popolo".

Devo ammetterlo– ricordava Ma­rio – sul momento ci rimasi male, ma oggi ringrazio "Nando" di avermi regalato con la sua solita semplicità una bella lezione».

Si avvicina la primavera del 1944; stanno per giungere per Mario e la sua "Bozzi" i giorni della lotta armata più intensa, i più duri, ma anche i più esaltan­ti. La repubblichina del duce non riesce a reclutare uomini per la guerra che disperatamente conduce al fianco dei nazisti di Hitler. È costretta a ricorrere al­le minacce. alle fucilazíoni 11 31 marzo del 1944, nella Fortezza di Pistoia, vengono trucidati quattro giovani pistoiesi soltan­to colpevoli di non voler com­battere una guerra infame, di cui si anelava solo la fine più rapida. Sarebbe stato possibile tentare di salvarli? Chi avrebbe potuto farlo? E come? Mario Innocenti ricordava che, in quei giorni, con il Comandante e alcuni compagni si era messo in marcia verso Pistoia, guidato da un emissario del Comando Politico Militare di Pistoia.

«[…] Ma la guida ci lasciò poi in altre mani e, camminando a lungo, finimmo nella zona di Torbecchia . Trascorremmo la notte da quelle parti e, verso l’al­ba, riprendemmo la via del ritor­no. Insomma – ricordava Mario – non fu fatta alcuna azione». La cosa trova conferma anche in una testimonianza rilasciata da "Nando’" al Prof. Verni. Doveva essere l’azione finalizzata a ten­tare di liberare i ragazzi della Fortezza o erano altri gli obietti` E noto che il CLN di Pistoia cercò di conoscere l’ora del trasferimento dei quattro condannati dal carcere di Collegigliato alla Fortezza. L’Informatore_ un capo fascista doppio­giochista. forni l’orario delle ot­to. Purtroppo alle sei dei matti­no, i giovanissimi. Aldo. Valoris, Alvaro e Vinicio erano stati ammazzati. Il comando fascista aveva ingannato tutti, compreso il capetto fascista` 0 questi men­tì intenzionalmente?

«[…] Sta di fatto – afferma ~ Mario che se anche ci avessero portati nel polo giusto non credo che con le poche armi che avevamo, l’inesperienza nel loro uso i pochi uomini di cui era

la nostra pattuglia. avremmo potuto attaccare con successo la colonna protetta da carabinieri. milizia ed esercito in forze

Presto arrivò il vero “battesimo del fuoco" per la formazione di Mario. La “Bozzi” aveva lasciato la prima localizzazione alla "Bollava" per acquartierarsi nel rifugio CAI di Pian della Rasa. Da qui ripartì per spostarsi verso l’Appennino Emiliano. Raggiunta la Collina di Treppio. do­po la sosta notturna. Furono at­taccati all’alba da colonne di te­deschi e fascisti. Mario ricordava lucidamente quei momenti e. in più di un’occasione. intorno al cippo dedicato a Magni Magnino, ne ha fatto “lezione all’aper­to" a centinaia di studenti. de­scrivendo le posizioni sul terreno, l’attacco, la strenua, eroica difesa di Magnino dietro la mi­tragliatrice che sapeva usare me­glio di tutti, la sua morte in combattimento.

«[…] un sacrificio – ricordava Mario – che permise al grosso del­la formazione di sganciarsi verso Suviana, provvidenzialmente protetti da un banco di nebbia incredibilmente giunto a proteg­gere la nostra ritirata».

Mario amava ricordare una frase del Comandante Nando: «[…] La nostra formazione, militarmente, è nata lì. Si è verificata una selezione naturale delle nostre forze– e Mario aggiungeva – E’ vero, parte dei nostri se ne an­darono, tornarono a casa, insom­ma li prese la paura. Ma accadde a loro perché c’erano, erano nel fuoco della battaglia chi era rimasto a casa aveva fatto di meno

Alla spicciolata, stanchi, bagnati, affamati. i. si ritrovarono verso Ponte alla Venturina—. Dove andare` In Emilia. certo, là, si diceva. "c’erano i partigiani fitti come il grano-. Soprattutto. ,c’era sicuramente da mangiare. Ma intanto si doveva sopravvive­re con qualche patata per giorni e senza conoscerei sentieri. senza tarsi notare… un’esperienza logorante per tutti. _Al limite. o quasi. delle forze. finalmente l’incontro con “Arman­do”. il Comandante Mario Ricci. e i suoi uomini operanti nella zona di Montefiorino e dintor­ni. Ha inizio il periodo di più in­tensi attività della “Bozzi” e Mario Innocenti ne e fra i protagonisti . E uno degli uomini di fiducia del Comandante che gli affida i compiti più delicati e più rischiosi. Verso la fine di aprile del 1944 Mario è a Bocchetta di Fanano. Con la "Bonzi — entra a Toano il 10 Luglio. Intanto e sorta la zona libera che prenderà il nome di "Repubblica di Mon­tefiorino,". La "Repubblica" si dà una struttura amministrativa tutta nuova.’ nei sette Comuni che la compongono si svolgono elezioni democratiche come non avveniva da vent’anni. Si allesti­sce un ospedale. un piccolo ae­roporto, si accolgono migliaia e migliaia di giovani e militari sfuggiti ai tedeschi. 1 problemi abbondano ma la libertà conqui­stata aiuta a risolverli. Mario ri­cordava con dovizia di particola­ri un episodio di quella conqui­sta a cui, con la formazione. ave­va preso parte: l’attacco alla Ca­serma della Milizia fascista di Cerredolo. Era la notte fra il 3 e il 4 maggio. All’accerchiamento della caserma nella zona. parte­ciparono alcune formazioni emi­liane e un gruppo scelto della "Bozzi’. Con Mario Innocenti vi erano. fra gli altri: Marcellino Ieri. Loris Beneforti. Agostino ("Carnesecca" ) Venturi tutti schierati in posizione di attacco frontale. Un appunto autografo di Mario mette in evidenza l’e­roismo di due partigiani. “Aiano” e "Moscone". incaricati di un’azione. a dir poco. temeraria. "Aiano”’ altri non era che Gio­vanni Vignali. pistoiese origina­rio "da lano”: da qui, per deriva­zione, il nome di battaglia "Ala­no". Ecco lo scritto di Mario:

«[…] Per distrarre l’attenzione dei fascisti di Montefiorino dal­l’azione dei partigiani contro la caserma di Cerredolo e impedire loro di intervenire a sostegno dei fascisti assediati, fu organizzato un attacco di due partigiani (fra cui Aiano della Bozzi) contro i fascisti in piazza di Montefiori­no. Questi due partigiani, vestiti ‘da fascisti, spararono a un co­mandante fascista e fuggirono dalla parte opposta di Cerredolo. Furono inseguiti ma riuscirono a cavarsela. "Aiano" ritornò dopo due giorni! La nostra vita –dice va Mario – non valeva poi molto in quei momenti e ce la giocava­mo giorno dopo giorno, istante per istante».

La stima del comandante Nando per Mario è dimostrata anche da alcuni incarichi particolari che egli gli affidò ripetutamente. do­po la conquista di Toano. ai pri­mi del giugno ’44. Mario co- mandò una pattuglia che andò a posizionarsi in avanscoperta. in modo da prevenire possibili ri­torni di fiamma dei fascisti scon­fitti. E. prima di far rientrare la formazione sulla Montagna pi­stoiese. secondo le direttive rice­vute. fu Mario Innocenti delle formazioni di Campotizzoro. Maresca e Pracchia – fra cui era­no sorti problemi politici delica­ti. acuiti dall’intervento della for­mazione di "Pippo" (Manrico Ducceschi), anch’essa interessata – ad avvicinare quei combattenti. Mario quindi evidenziò non solo coraggio e capacità militari ma dimostrò di aver acquisito la ma­turità politica necessaria ad espli­care incarichi delicatissimi in quelle circostanze. Sta di fatto che le posizioni espresse da Ti­ziano Calandri per la formazione di ”Pippo" furono respinte e tut­ti, o quasi, i partigiani della Montagna pistoiese si dissero disposti ad entrare nella "Bozzi". Mario e gli altri, a missione com­piuta, rientrarono in formazione, riferirono l’esito positivo, e la

Bozzi" si trasferì nella nuova dislocazione sui monti sopra Ma­resca. Concretizzata la fusione dei reparti. nacque quindi la "Brigata Bozzi". forte di ben ol­tre un centinaio di uomini. ",Mario aveva dato un importante contributo alla sua nascita. La lotta partigiana sull’Appennino non concedeva tregua: un attac­co a sorpresa alla Maceglia costò la vita a "Franchino" e al giova­nissimo "Cucciolo". Poco dopo ancora un attacco tedesco sui cri­nali dell’Orsigna. Attacco respin­to ma che consigliò alla “Briga­ta" di tornare a Montefiorino. Siamo ormai verso la metà del luglio 1944. Il primo impatto in terra emiliana avviene con la for­mazione capeggiata da un perso­naggio che, di lì a poco, diverrà protagonista di una vicenda non comune: Nello Pini.

Un Comandante dal coraggio il­limitato, dimostrato in varie oc­casioni, ma anche duro, ribelle ad ogni direttiva. spietato fino alla ferocia verso chi riteneva. a suo solo giudizio. inaffidabile. Un tipo. a dir poco. scomodo per la lotta partigiana. che tuttavia comandava una formazione forte di centinaia di uomini. ben dotata di armi. di vive… e di donne per il “Capo”’ Secondo Davide e “Armando". i capi di Montefiorino e ancor più per le altre forze partigiane non —ga­ribaldine—. era un bubbone che andava estirpato. Ma come fare? Il rientro della —Bozzi— in Emi­lia fu ritenuto provvidenziale. Nando aveva già conosciuto Nello che. verso i toscani. si era manifestato non maldisposto. Con uno stratagemma lo con­vinsero a recarsi al Comando di Montefiorino. Qui giunto con alcuni fedelissimi. il fratello e l’a­mante. fu disarmato e arrestato. Alcune decine dei suoi uomini. non vedendolo tornare, si porta­rono a Montefiorino e si schie­rarono sulle alture circostanti con le armi spianate. Mario rac­contava: «[…] io e pochi altri eravamo di guardia all’esterno del Comando. La tensione cresce­va man mano che il tempo passa­va. Gli uomini di Nello, non ve­dendolo uscire, davano segni di impazienza. Erano molti più di noi, se ci avessero attaccati non avremmo avuto scampo. Dopo un tempo che sembrò infinito, final­mente affacciò sulla porta il Commissario —Davide (Osvaldo Poppi) che riuscì a persuadere gli uomini di Nello. Disse che il loro Comandante era al sicuro, che altri avrebbero preso il suo posto, che la formazione avrebbe conti­nuato la sua opera a difesa della “Repubblica” e spiegò loro le colpe di cui era accusato. Quando li vedemmo abbassare le armi e, un po’ alla volta, gli uomini di Nel­lo se ne andarono, il sollievo fu enorme. Nello fu poi processato e condannato a morte».

Ma 1’attacco della divisione co­razzata "Goering" alla Repub­blica di Montefiorino era ormai imminente. I lanci di riforni­menti da parte degli Alleati an­gloamericani divennero sempre più scarsi. L’intervento sperato di paracadutisti si trasformò in un sogno irrealizzabile. Insom­ma, fu la sconfitta. Ed anche la "Bozzi", così come le altre for­mazioni di “Armando’. ai primi di agosto ’44, dovette ripiegare verso le cime dell’Appennino. Furono giorni durissimi, gli scontri con le pattuglie tedesche si susseguirono. A Pratignano muore Fulvio Farinati, un cuti­glianese. Fatica, fame, pericolo sono il pane quotidiano. Mario ricordava con sofferenza quel Ferragosto del 1944:

«[…] A sera, spento il fuoco, contammo le patate, l’unico cibo che avevamo: erano centottanta, e noi centoventi. Ne toccava poco più di una a testa. Davvero un bel pranzo! Poi arrivarono gli uomini di “Pippo*’. ci volevano cacciar via. Dicevano che lì. in quella zona. comandavano loro che. insomma. noi della —Bozzi—. non eravamo bene accetti. Arri­varono fino a proibire ai conta­dini del posto a rifornirci di vi­veri!».

Si rese necessario a quei punto. suddividere la formazione in tre gruppi. due di questi rientra­rono sulla Montagna pistoiese. Mario Innocenti segui il gruppo di “Nando” fino a Coreglia Antelminelli. nella Garfagnana. ove. dopo settimane di enormi disagi, di difficoltà di ogni genere appena alleviate, verso ottobre dal contatto con le avanzanti forze brasiliane la formazione si sciolse no prima di aver perduto nell’ultimo combattimento il compagno “Pittorino” era il 25 ottobre 2944

Anche Mario rientrò a casa al Pontenuovo, ma per poco. Il 16 febbraio 1945 con altre centinaia di volontari, fra questi numerosissimi ex compagni della “Bozzi” parte per Cesano, presso Roma per un brevissimo addestramento e l’immediato invio al fronte della Linea Gotica Furono comprati cinquecento pacchetti di sigarette – raccontava Mario – e ne fu distribuito uno a testa

Questo vuol di­re che da Piazza dei Duomo sia­mo partiti in 500. Si, è vero, qualcuno per strada ci ripensò, tornò indietro. insomma ebbe paura di tornare in guerra … lo diceva sempre Nando: —E una se­lezione naturale". Comunque lo­ro ci avevano provato! Ed è meri­to anche quello».

Mario Innocenti sarà destinato al gruppo di combattimento "Folgore" e con i nuovi compa­gni . riprenderà a combattere contro tedeschi e fascisti. Il 25 aprile del 1945 la sua Divisione è impegnata in sanguinosi com­battimenti nella zona fra Brisi­ghella e Faenza, un mese dopo è nel Veronese. Rincorrerà i tede­schi, ormai in rotta, fino al Brennero. Con la vittoria sul fa­scismo e sul nazismo giunse fi­nalmente la pace. Mario trovò lavoro provvisorio presso 1’INPS di Pistoia: una "provvisorietà" durata poi ben trentuno anni. Ma l’impegno di Mario conti­nua quasi altrettanto intenso co­me nei giorni della Resistenza.

C’è da costruire l’ANPI. l’Asso­ciazione dei Partigiani. di cui sa­rà il principale animatore fino al­la sua scomparsa. Si impegna nella vita politica e civile. sarà Assessore provinciale alla Sanità e in questo ruolo si occuperà dell’ospedale psichiatrico di Col­legigliato, lasciando in tutti un positivo ricordo. Ma il ruolo che svolse con più passione, direm­mo con amore, fui quello di te­stimone, di narratore delle vi­cende vissute e sofferte sulla propria pelle da presentare ai giovani, agli studenti delle scuo­le di Pistoia e dell’intera Provin­cia. Migliaia sono i ragazzi che lo hanno incontrato, ascoltato, ammirato per la semplicità e se­renità nel raccontare, per la pro­fondità delle sue riflessioni sulle vicende da cui prese vita la N uo­va Italia, quella in cui oggi tutti noi viviamo.

A -Mariolino- Innocenti Pistoia deve molto. Uomini come Ma­rio hanno contribuito grande­mente a fare della nostra Città una comunità di persone amanti della democrazia., della solidarie­tà. della libertà.

Ricordando il partigiano Gino che combatté con Che Guevara

Un uomo schivo ma dalla vita straordinaria

Ricordando il partigiano Gino

che combatté con Che Guevara

Renato Benedetti

patria indipendente

Qualche anno fa un caro amico, parlandomi sottovoce, mi dice che dovrebbe rientrare in Italia un signore, anzi un grosso personaggio, che era oramai passato di mente ai più della città dove io abito e cioè a San Donà di Piave, e francamente quando mi dice il nome non è che io possa collegare questo nominativo tra le persone che dovrebbero farmi scattare alla mente un’immagine o un ricordo del recente passato.

Allora egli mi dice «Dai!!! Gino El Venexian», ammetto la mia ignoranza ma ancora non ci sono. Allora ecco la parola rivelatrice che mi fa inquadrare il soggetto e questa parola è: Granma.

Accidenti penso alla spedizione di Fidel Castro, allo sbarco che doveva dare inizio alla rivoluzione contro Fulgencio Battista il dittatore, servo americano, che comandava Cuba.

Onestamente stentavo a credere che Gino Donè Paro – unico europeo e per giunta italiano, imbarcato sul Granma assieme agli altri componenti – potesse essere ancora in vita e ritornare non solo in Italia, ma a San Donà di Piave. Credo fossero veramente pochissimi a sapere che Gino non solo era ancora in vita ma che apparteneva oramai a pieno titolo alle pagine della storia mondiale.

Gino tornò accolto con tutti gli onori del caso e primi tra tutti a festeggiarlo degnamente, furono i compagni del sindacato. La Camera mandamentale del Veneto Orientale gli organizzò una gradevolissima serata alla quale io, per motivi personali, con molto rammarico, non potei partecipare. Arrivò poi il giorno in cui, finalmente, ebbi modo di stringere la mano ad un uomo che rappresentava nello stesso istante la Rivoluzione cubana, Fidel, ma soprattutto l’eroe conosciuto Che Guevara. Io uomo maturo ebbi in quel preciso istante la sensazione di ritornare ragazzino quando il mito del Che mi faceva battere il cuore e mi faceva sentire pronto alla emulazione di lotte, di combattimenti, per portare la giustizia là dove esisteva la sopraffazione, la libertà dove era ancora presente l’oppressione, pronto a difendere i diritti dei popoli là dove il diritto e le legalità erano negati.

Pronto a vincere tutte quelle ingiustizie che permettevano al più forte di reprimere il più debole, sfruttare le ricchezze di quei popoli al fine di lucrare interessi mostruosi, impoverendo sempre più Paesi che anche oggi, a oltre quarant’anni di distanza, vediamo traballanti per economie messe in ginocchio ieri da anni di sfruttamento ed oggi a causa della globalizzazione del mercato.

Ricordo che oltre al nome non dissi altro e come mia abitudine cercai di capire chi fosse l’uomo che mi stava di fronte. Allora in rapida e veloce sintesi mi feci passare alla mente tutte le notizie che avevo raccolto su Gino Donè Paro; il cognome Donè è quello paterno seguito dal cognome materno Paro – così mi hanno detto si usa in quel di Cuba – questa è la ragione dei due cognomi, ma per me d’ora in poi sarà solo Gino.

Gino nasce il 18 maggio 1924 a Rovarè, in provincia di Treviso, poi la famiglia si trasferisce in una frazione di San Donà di Piave, dove cresce e frequenta le scuole professionali, al termine delle quali inizia subito a lavorare nell’edilizia, ma non sarà il solo lavoro che egli svolgerà. Tra i mille mestieri svolti lo troveremo anche minatore, poi arrivano gli obblighi di leva, parte per il servizio militare e l’8 settembre del 1943 lo coglie in Istria dove, egli ricorda, una banda di titini gli ruba le scarpe. Rientrato in Italia si aggrega ai partigiani di pianura ed inizia la sua lotta di Liberazione: partigiano atipico, uomo d’azione, sarà di aiuto agli anglo-americani con una funzione molto particolare e delicata, quella di recuperare i soldati paracadutati della missione Nelson i quali terminato il loro compito devono essere recuperati per l’imbarco sui sommergibili che arrivano a largo della cittadina di Caorle per far ritorno ai loro reparti di appartenenza.

Partigiano atipico dicevo, egli riesce a beffare più volte le SS: sa attraversare le linee germaniche travestito da soldato della Wehrmacht e diventa per le truppe nazi-fasciste una specie di primula rossa. Nulla lo ferma nemmeno l’arresto del nonno preso in ostaggio; Gino sa muoversi come un fantasma, sembra essere una entità non un uomo in carne ed ossa.

Quando gli alleati entrano in San Donà egli è lì non tra la folla che applaude, ma alla testa delle truppe di liberazione. Finisce la guerra e lui da uomo schivo e modesto non chiede nulla a nessuno ed i primi anni del dopoguerra lo vedono vivere di stenti. Allora la grande decisione: solo, senza dire nulla a nessuno, si imbarca clandestino e raggiunge la Germania. Ad Amburgo fa qualche lavoretto poi ancora un imbarco e rotta per il Sudamerica con arrivo a Cuba, poi l’Argentina, terra del suo destino, dove incontrerà Fidel Castro ed un piccolo gruppo di studenti cubani che organizzano la rivolta nel loro Paese per sottrarlo alle grinfie del dittatore Batista.

Gino diventa punto fondamentale, quale ex partigiano conosce la guerriglia ed è anche esperto di armi e tra quel gruppo egli risulta essere il più anziano. Sarà il comandante del terzo gruppo nelle operazioni di sbarco a Cuba.

Però quell’esperienza lo arricchisce umanamente perché incontra, tra gli altri, quello che sarà, o meglio quello che è il mito dei miti, Ernesto Guevara chiamato il Che.

Ho avuto la fortuna di passare molte ore con Gino e per quanto abbia fatto non sono mai riuscito a ricavare dai ricordi suoi un profilo completo del Che. Lui, Gino, gli ha vissuto accanto per molto tempo. Lui che a sbarco avvenuto ha dovuto cercarlo per riportarlo nel gruppo, lui che per Ernesto ha rischiato la vita, ebbene per Gino parlare del Che è come aprire una ferita talmente grande che immancabilmente si lascia vincere da una commozione che ti coinvolge e tifa cambiare argomento per non creargli ulteriori imbarazzi. Ricordo che eravamo nella mia macchina e stavamo rientrando da una serata a lui dedicata e nel corso della nostra conversazione gli chiesi a bruciapelo: «perché il Che ha fatto quella fine in Bolivia?», lui di getto mi rispose: «Perché non ero con lui, ci fossi stato non sarebbe mai andato a quell’appuntamento».

Quella risposta mi ha fatto intendere che avesse quasi un senso di colpa per quella tragica fine.

Gino è un anti eroe. Quando pensi alla sua esistenza vissuta alla grande, piena di avventure che gli hanno fatto vedere più volte la morte in faccia, una vita che gli ha permesso di conoscere persone di ogni censo, razza e nazionalità, immagini di trovarti di fronte un omone alla Sean Connery, dove la prestanza fisica conta più dell’intelligenza, ebbene lui è di una modestia e di una disarmante bontà d’animo che riesce ad imbarazzare chiunque, la sua risposta più frequente è: «Io? Ma lo avrebbe fatto chiunque».

Eppure quando ti soffermi ad osservare quel volto che ricorda Hemingway, noto che alla dolcezza dei lineamenti si contrappone uno sguardo fiero, intenso, tagliente, capace di osservarti per trenta secondi ed esprimere un giudizio che fotografa perfettamente la tua dimensione ed il tuo modo di essere e di pensare. Io sono convinto che sia questa la vera dote dell’uomo di azione: osservare, valutare e decidere il da farsi in una frazione di secondo, quando ad un comune mortale ci vorrebbero almeno una decina di minuti.

Il 22 marzo Gino ci ha lasciati in silenzio senza darci il tempo di pensare che la sua dipartita era prossima, senza che noi ci si potesse preparare alla sua assenza. Aveva appena salutato la sorella al telefonino e, una volta ultimati gli auguri per l’imminente festività pasquale, ha porto il telefonino alla nipote. Il tempo di dire: “Fidel Fidel” e la morte se l’è preso sottobraccio, lasciandoci un vuoto che con molta fatica e tanto tempo riusciremo parzialmente a colmare, certi di aver vissuto con uno degli ultimi eroi.

Per me Gino rimarrà nella mente come il secondo Giuseppe Garibaldi.

Ivano Artioli – Noemi E Rubens

Ivano Artioli

Noemi E Rubens

L’uomo scendeva il sentiero stretto e nervoso del crinale di levante del monte Barigazzo (novembre ’43) e passava dalla provincia di Piacenza a quella di Parma.

Già lasciava indietro gli abeti per incontrare i primi castagni e vide una donna e una bambina che gli salivano incontro. Erano lente, ogni tanto si chinavano a cercare qualche cosa, lo facevano con tranquillità come chi ha un tempo infinito. Capì che non le poteva evitare. Provò disagio. Anche loro lo videro e si fermarono in attesa. «Buon giorno», disse lui. «Buon giorno», rispose la donna mentre la bambina le si era infilata tra le gambe, sicuramente impaurita. L’uomo era robusto e vigoroso, portava un cappotto militare troppo lungo, con una mano teneva un bastone mentre con l’altra un sacco buttato sulle spalle, aveva barba e capelli lunghi: un selvatico.

«Cosa fate quassù?», «Noi?», «Sì, voi due», «Raccogliamo castagne, quelle che troviamo, si può?», era secca, alta per essere donna, aveva i capelli fulvi e arricciati, anche la bambina era così, e sì o no cinque anni. «Castagne!… Son per i cinghiali le ultime, è una regola».

Le vide dopo qualche giorno, lei aveva una fascina sottobraccio. «La legna non è buona, è umida, siamo avanti, non lo sapete?», «Eh?», «Quella legna lì fa solo fumo, dovete andare nelle radure verso Bardi, lì c’è ancora qualcosa», «Bardi, signore?», «Rubens, mi chiamo Rubens, sono un cacciatore», aprì il sacco e fece vedere un fagiano, però quella volta non aveva preso altro perché i cinghiali gli avevano calpestato tutto e mostrò le trappole rotte da aggiustare. «Noemi, piacere, lei invece è la mia Mariuccia, Marì. Ma voi perché vestite da soldato? Siete uno scappato?» S’incontrarono ancora. Sempre due parole e un saluto. Poi, ed era già arrivata la prima buona nevicata, Rubens offrì una lepre. Ah, Noemi per gradire gradiva, eccome se gradiva, ma pulire una lepre era un lavoro da uomini e non se la sentiva, e poi era viva. Così fece lui. Prese con la sinistra le zampe posteriori di quell’animale che si agitava, che aveva capito che gli sarebbe successo qualcosa. Lo fece penzolare a testa in giù. Colse il momento giusto e gli diede un colpo col taglio della mano destra tra capo e collo: lo uccise. Poi lo attaccò a un ramo e col coltello fine tolse la pelle e le interiora, mentre con quello grosso fece dei pezzetti: «Perché se non la si spezza nel punto giusto è capace di rompere i denti». Così Noemi lo aveva invitato a mangiarla insieme. Rubens si mostrava indeciso. Incerto. «Ma perché no? Venite. Venite pure. Ci siamo solo noi due». La casa l’avrebbe trovata bene: in sasso a due piani e stretta come una casa cantoniera, aveva mai visto una casa cantoniera? Bastava seguisse il sentiero che ci sarebbe capitato davanti, prima c’era un abbeveratoio però, grande eh, se ne servivano anche i caprioli, perché, doveva sapere che lei non era di montagna, certo, ma le tracce ungulate le conosceva, «… e non dite di no, siete sempre qua nel freddo, o sbaglio?» «Compermesso», erano le dieci di mattina, lo stavano aspettando, c’era un caldo accogliente. Scambiarono parole di cortesia e poi, perché non ne approfittava per farsi un bagno caldo? Il tempo non mancava, l’acqua era sul fuoco e la tinozza nel sottoscala. Loro due sarebbero andate di sopra, nella camera da letto a piegare dei panni mentre lui poteva fare con comodo, con molto comodo. «Potete venire», le chiamò dopo un’ora. Scesero e trovarono uno che pareva un altro: con le forbici si era accorciata la barba e i capelli. Disse subito che si era privato di alcuni amici, facendo riferimento ai pidocchi, che avevano deciso anche contro la sua volontà di vivere sempre con lui. S’intesero. Prima con Marì. Durante il pranzo le raccontò storie di falchi che volavano in alto e poi, improvvisamente, scendevano in picchiata a rubargli gli animali che aveva preso in trappola. Poi di un lupo che lo seguiva di nascosto restando sempre dietro agli alberi, era un lupo freddoloso perché di notte gli andava vicino dove lui teneva il fuoco acceso. Poi di una nuvola amica che girava sopra di lui ma sempre in modo da non oscurargli il sole, così da farlo restare al caldo anche d’inverno. Con Noemi fece un patto. Sarebbe ritornato lì a riposare e a scaldarsi un poco, in cambio avrebbe portato cacciagione già pulita e fatta a pezzettini. Però, e Noemi doveva impegnarsi di parola, nessuno doveva sapere, nessuno doveva vedere. Una questione indiscutibile. E sarebbe tornato solo di notte, di giorno mai più. Presero a far l’amore. Una cosa da adulti, s’intende. Del sentimento ce n’era di certo, ma chissà di che tipo. Fu più avanti, a febbraio. Una sera tardi, dopo aver cenato, Marì si appisolò sul tavolo e lui la prese in braccio e la portò di sopra, nel lettino, ma poi loro erano andati nel letto matrimoniale perché era l’unico modo per difendersi dal freddo, in quella casa circondata dalla neve. Almeno Noemi disse così. Decise lei, era la padrona. Gli parlò anche. Raccontò di sé. Ne aveva voglia. Un lungo racconto fatto di parole serie e lacrime. Era di Parma e Marì le era venuta da una storia senza regole. La famiglia se ne vergognava e lei aveva deciso di andarsene. L’unico contatto l’aveva con la mamma che le mandava dei soldi, per il resto solo dolore e angustia. Ma quella vita del monte Barigazzo non era la sua e non voleva lo diventasse, e poi Marì avrebbe dovuto andare a scuola. Forse a fine guerra la gente sarebbe cambiata, chissà, cosa diceva lui? Lui? Lui non sapeva. Ci sperava. E se le cose fossero cambiate sul serio l’avrebbe chiesta in sposa, era proprio convinto, ma non doveva dire nulla al momento, solo dopo, dopo sì che avrebbe dovuto parlare. Nell’agosto seguente, ai primi del mese, Rubens tornò a notte fonda. Si lavò all’abbeveratoio, come faceva da quando la stagione era calda perché l’acqua lo rinvigoriva. Vicino vi aveva trovato una sedia con sapone e asciugamano (Noemi certe sera usciva e preparava, un presentimento). Poi entrò in casa. Salì. La sentì con il respiro del sonno e le sfiorò un braccio. «Ah!», un attimo, appena un attimo di stupore e lei gli fece posto per ché s’infilasse tra le lenzuola. Com’era diventato magro. Lo diventava sempre di più. Poteva anche contargli le costole, anzi gliele contava: una, due, tre…Rubens si svegliò e la luce era forte, in fondo al letto c’erano abiti puliti. Camminò, da sotto sentirono e subito Marì salì le scale, poi seguì la mamma: «Ecco, signore, ecco l’acqua calda per la barba». Gli diceva che era ora di smetterla con quegli spunzoni duri che facevano il viso nero e grattavano, era proprio ora di smetterla. Insomma avevano un regalo, eh sì! L’avevano preso la mattina stessa, perché, se c’era la guerra i regali non si potevano fare forse? Ecco: rasoio con pennello, sapone da barba, dopobarba profumato. Glielo avevano comperato a Fornovo di Taro, anzi no, avevano fatto un baratto con il cofanetto portagioie, cosa se ne facevano di un cofanetto portagioie se gioie non ne avevano? Rubens ebbe più di un attimo di preoccupazione ma cercò di non manifestarla. S’insaponò il viso e prese a radersi mentre, sedute sul ciglio del letto, Noemi lo guardava e Marì lo invitava a quei suoi giochi divertenti: era capace di stringere tutti e due gli occhi con un movimento ritmico, e di far cadere la mascella come se gli si fosse staccata all’improvviso. I repubblichini entrarono di corsa e salirono le scale. «Su le mani», gli puntarono il fucile e lo picchiarono con bastoni fino a farlo cadere. Noemi gridò ma venne spinta a parete e immobilizzata. L’avevano preso, finalmente, ma non lo chiamavano Rubens, gli dicevano don Fabretti. Il compagno don Fabretti. Il disertore don Fabretti. Stava facendosi la barba, bene don Fabretti, però adesso sarebbero andati avanti loro, come no! Noemi era stupita, impressionata, stringeva Marì. Bravo don Fabretti, si era fatto un nascondiglio, furbo, i preti son furbi. Ma dove doveva incontrare gli altri partigiani? Non voleva dire, ne era sicuro? Con una baionetta gli aprirono tutti gli abiti e nella giubba, sotto la fodera, trovarono dispacci, lettere, una copia del giornale l’Unità insieme alla Bibbia, un crocefisso e dei santini. Lo accusarono di tenere i collegamenti tra i partigiani di Piacenza e Parma, era un collettore, ma dov’erano le piantine topografiche, eh? Preferiva tener tutto a memoria, meglio, tanto adesso ci sarebbero andati insieme a portare la benedizione, lui, loro e i tedeschi. Avrebbe fatto strada, vero? Lo uccisero subito fuori, all’abbeveratoio, si era rifiutato di dire dov’erano i garibaldini, dov’erano i badogliani. Gli tennero la testa sott’acqua. Forse non volevano arrivare fino lì, mettersi contro i preti era sempre troppo pericoloso, mica per altro. Delle donne invece nessuna pietà. Noemi venne violentata davanti alla figlia, e poi vennero date ai tedeschi che le mandarono in un campo di lavoro in Austria. Marì ritornò ma Noemi impazzì e venne gasata. Contribuirono tante cose, anche quel senso di colpa per quell’imprudente regalo per la barba