Archivio mensile:gennaio 2014

il “Treno degli italiani” – 1944

Dai fantasmi del ’44 riemerge
il “Treno degli italiani”

 

 

Il 4 gennaio di 70 anni fa partiva da Roma un convoglio diretto a Mauthausen: a bordo trecento deportati politici, rastrellati dai loro connazionali
Nel febbraio del 1944. In segno di buona volontà verso il governo di Berlino la polizia italiana rinchiuse a Regina Coeli centinaia di prigionieri politici
umberto gentiloni
Un convoglio speciale si muove dalla stazione Tiburtina di Roma nel tardo pomeriggio di 70 anni fa, il 4 gennaio 1944. La destinazione ignota ai più prevede il passaggio da San Giovanni in Persiceto, l’attraversamento del confine al Brennero, una sosta di un paio di giorni a Dachau e l’approdo a Mauthausen all’alba del decimo giorno. 
Un treno come tanti che si muovono sui binari di mezza Europa durante il secondo conflitto mondiale, carico di centinaia di passeggeri stipati nei vagoni: mezzi di trasporto che spostano vite, storie, famiglie, lacerando comunità e falcidiando intere generazioni. Una ferita che non si rimargina e che colpisce parti del tessuto della capitale provata dai primi mesi di occupazione a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e dalla guerra civile che divide la popolazione. Particolari tuttavia le ragioni e il contesto che portano alla composizione del gruppo dei viaggiatori: un progetto che punta ad allontanare in modo forzato presenze indesiderate o potenziali oppositori del regime fascista e dell’occupante nazista. Una sorta di biglietto da visita di chi si batte indefesso a fianco della Germania nazista anche dopo le nuove alleanze maturate nell’estate cruciale del 1943. 
Se ne sa poco, anzi per molto tempo non affiorano notizie o documenti in grado di supportare gli interrogativi di nuove indagini conoscitive. Poi, a fatica, qualche messaggio raccolto nelle frenetiche ore di preparazione del viaggio, un passaparola e alcuni biglietti passati di mano in mano, lettere consegnate a famiglie rimaste incredule, in attesa di un segno plausibile dopo giorni di angoscia e lunghe peripezie. Consegnare un messaggio a chi è in cerca di notizie, di speranze sui propri cari rappresenta una buona occasione di un baratto: tessere annonarie, regalie e qualche spiccio in cambio di preziose parole e di una firma su piccoli fogli di carta. La sorte di chi scrive è quella di tanti, quasi 300 prelevati in pochi giorni e avviati verso un incerto destino. Un insieme variegato che è uno spaccato per seguire le dinamiche dell’occupante nazista e le connivenze di chi ne asseconda strategie e obiettivi. Le premesse sono semplici e ben definite; della storia si sa poco fino a quando alcune ricerche pionieristiche cominciano a squarciare un velo fatto di omissioni e oblio (promossi dall’Associazione Nazionale Ex Deportati, i lavori di Italo Tibaldi e da ultimo Eugenio Lafrate http://www.deportati4gennaio1944.it). 
A fine 1943 Roma è segnata dall’occupazione nazista, sul suo territorio sono in vigore le leggi di guerra del Terzo Reich. Come segno di buona volontà nei confronti del governo di Berlino agenti di pubblica sicurezza italiana iniziano a rastrellare e rinchiudere nel carcere di Regina Coeli alcune centinaia di prigionieri. La questura si muove su indicazione del ministero dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana e mira a gestire l’intera operazione: deve essere un segno inequivocabile di efficienza, un modello e un colpo alle forme di resistenza che si erano espresse nella capitale. Il bilancio è inquietante: la gestione della polizia fa sì che italiani in divisa accompagnino propri connazionali fino al Konzentrazionlager di Mauthausen. Una collaborazione proficua nel quadro del sistema della deportazione che i nazisti sperimentano in mezza Europa.
I trasferimenti erano iniziati la mattina di settanta anni fa, centro di raccolta la stazione Tiburtina in un tragitto che diventa l’ultima possibilità di fuga. Alla fine arrivano a destinazione in 257, solo 59 riusciranno a vedere l’alba della liberazione e l’arrivo degli americani nel maggio 1945. Il treno è uno strano universo: ragazzi, giovani sbandati, soldati fermati nel fronte Sud durante la battaglia di Cassino, renitenti alla leva, cittadini di religione ebraica e circa 70 antifascisti di varia natura e provenienza (anarchici, comunisti, socialisti, liberali). Per tutti la strada è irreversibile: campi di concentramento, inserimento nel sistema di lavoro coatto, controllo sui destini individuali e sulla sorte dei nuclei familiari.
Con la fine del viaggio il «Treno degli italiani» scompare dalla trasmissione della memoria collettiva nel lungo dopoguerra, anche dalle vicende più tormentate dell’occupazione nazista di Roma. Poi si accende una luce e quel lungo tragitto sui binari viene riproposto come pagina di un passato che ci interroga e ci interessa; la sua ombra sembra spingersi dal 1945 fino a un tempo a noi più vicino. Sono le lettere, le immagini, le biografie dei prigionieri, le storie nei documenti d’immatricolazione del carcere, nelle carte dell’Ovra o nell’archivio della Croce Rossa a Bad Arolsen che aiutano a dare un volto a chi non l’aveva, un’identità a chi l’aveva perduta, un indirizzo a chi era stato sradicato e travolto dall’odio della guerra. Tra i sopravvissuti a Mauthausen, due (Mario Limentani e Antonio Fragapane) sono ancora in vita; degli altri solo le tracce come piccole schegge di una memoria che merita di non andare dispersa.
http://www.lastampa.it/2014/01/05/cultura/dai-fantasmi-del-riemerge-il-treno-degli-italiani-db0vbR23CsUKFCLy3JisQM/pagina.html

Famiglia Gucci : 6 Agosto 1944

Famiglia Gucci : 6 Agosto 1944
di Serena Gucci, 24-4-2010, Tutti i Diritti Riservati.
È la mattina del 6 Agosto 1944.
Fiesole vive i giorni concitati che precedono la liberazione di Firenze: tra bombardamenti, fucilazioni e rastrellamenti di partigiani e di famiglie che li aiutano, da parte delle truppe tedesche.
Sono due soldati a bussare con violenza alla porta della Famiglia Gucci, intorno alle 13, in Via San Clemente.
La figlia maggiore, Gucci Leonetta, di anni 12, li aveva visti arrivare mentre attingeva acqua dal pozzo ed era corsa in casa ad avvisare i familiari.
Fu Giovannini Norma, di anni 31 (moglie di Gucci Aurelio), ad aprire la porta.
I due soldati entrarono spintonandola violentemente e, dopo aver controllato sommariamente le due stanze del piano terra, uno prese un coniglio nelle gabbie sul retro di casa ordinando che gli venisse spellato, mentre l’altro, armato di fucile mitragliatore, fece cenno a Norma di precederlo al piano di sopra.
Al piano di sotto rimangono i nonni, Gucci Ulisse , di anni 77, e Casati Maria di anni 66 con i tre figli, Leonetta, Luciano, di anni 6 e Giancarlo, di neanche 3 anni.
Al piano di sopra il soldato trova il capofamiglia Aurelio, di anni 36, a letto e con regolare congedo per motivi di salute, che prontamente mostra.
Il soldato non guarda neanche il documento e prosegue la perquisizione, forse pensando
di trovare prove che la famiglia Gucci aiutasse i partigiani.
Poi fa cenno a Norma di seguirlo nella stanza accanto dove cerca di violentarla.
Accorso alle grida della moglie, Aurelio aggredisce il soldato a mani nude.
Nella colluttazione il soldato cerca di sparargli, ma Norma afferra la canna del fucile deviando i colpi verso il soffitto; poi riesce a togliergli l’arma dalle mani e a scappare al piano di sotto.
Intanto, richiamati dagli spari, giungono altri soldati che circondano la casa mentre, il soldato che
era con Norma, ripreso il fucile spara, uccidendolo sul colpo davanti alla porta di casa, Ulisse.
Costringe poi la donna a trascinare in casa il cadavere mentre risale al piano di sopra in cerca del
capofamiglia.
Aurelio, con la casa circondata aveva potuto solo scappare da una piccola finestra e rifugiarsi sul tetto.
Purtroppo il soldato lo aveva notato e, nonostante le suppliche della moglie, che cercava di togliergli l’arma, abbattuto.
I soldati se ne vanno mentre Norma, constatata la morte del marito, decide di andare in cerca dei figli, fuggiti attraverso i campi alle prime raffiche di mitragliatore.
Sulla porta le SS hanno lasciato un piantone a guardia della casa, ma fortunatamente in cucina c’è una botola che porta in cantina: lì si trova un’uscita secondaria (la casa è costruita a ridosso di una collina) che lei usa per allontanarsi senza essere vista.
La nonna Casati Maria non si sa quando si sia allontanata da casa.
In cerca del Comando tedesco, situato in una villa lì vicino, era stata vista da testimoni prima presso una casa colonica in cerca di aiuto poi, nel tardo pomeriggio, piantonata da soldati tedeschi.
Fu trovata verso le 19, uccisa per fucilazione, nel campo poco distante il luogo dove ora sorge il tabernacolo in località Bosconi dove sono ricordati i caduti civili della zona.
I bambini, che scappavano per raggiungere il bosco lì vicino, furono raggiunti 200 metri più su della loro casa da alcune raffiche di fucile mitragliatore.
Il figlio minore fu colpito gravemente alla schiena e a un polso: una fucilata che, in un bambino
così piccolo comportò il quasi totale distacco della mano.
La sorella maggiore usò la propria gonna per creare una rudimentale fasciatura, lo prese in braccio e proseguirono la fuga in cerca del vicino comando tedesco, al quale segnalare l’accaduto.
Strada facendo incontrarono dei soldati tedeschi che, non capendo il racconto della ragazzina (o non volendolo capire) li condussero a una vicina casa colonica.
La famiglia che abitava lì, conoscente dei Gucci, visto il bambino così gravemente ferito, crea con una scala di legno una barella rudimentale con cui trasportarlo all’Ospedalino di Fiesole, operativo pure in mezzo al caos della guerra e dei bombardamenti.
Nel mentre li raggiunge la madre che, sconvolta e in lacrime, racconta l’accaduto.
Madre e figlia cercano di raggiungere la chiesa di S.Michele a Muscoli per sapere se la nonna fosse passata di lì.
È lo stesso parroco a consigliarle di andare con lui al Seminario di Fiesole, adibito in quei giorni a centro sfollati, passando per vie secondarie.
Giancarlo fu ricoverato all’ospedalino di Fiesole dove il medico che lo curò compì un grande miracolo salvandolo e guarendolo, poiché poteva perdere una mano e rimanere paralizzato a causa della ferita alla schiena.
Il figlio mezzano, Luciano, si ruppe un braccio a causa dello spostamento d’aria per lo scoppio di una granata, mentre la madre, Norma, era sotto shock per il dolore dei lutti subiti.
Dal giorno 6 Agosto al 15 dello stesso mese i corpi di Ulisse, Aurelio e Maria rimangono là dove furono uccisi.
I tedeschi non davano la possibilità di avvicinarsi, neanche la Curia ottiene il permesso.
Sono i vicini di casa a ottenere che i corpi vengano rimossi.
Le SS costringono due contadini a scavare una fossa sul retro di casa e a seppellirli lì; mentre la nonna Maria verrà coperta con poche palate di terra dalla sorella, nel campo dove è stata fucilata.
Dopo la Liberazione di Fiesole, il 1° Settembre, i partigiani costruirono per loro delle bare rudimentali con il legname delle cassette per le munizioni.
I loro corpi riposano al Sacrario dei Partigiani presso il Cimitero di Rifredi a Firenze, mentre i loro nomi figurano sul tabernacolo dei Bosconi e sulla Lapide ai caduti di Fiesole lungo la salita che porta alla Chiesa di S. Francesco.
I superstiti della Famiglia Gucci poterono rientrare nella propria casa solo a fine di Ottobre, trovandola devastata e depredata di tutto.
In seguito si è appreso che un vicino che mirava ad avere un qualche “vantaggio” dalle SS denunciò i Gucci come famiglia che aiutava i partigiani.
Cosa peraltro non vera.
La signora Giovannini Norma rese testimonianza solo una volta, per la denuncia alle autorità, poi non ne ha più voluto parlare.
Ha continuato tutta la vita a rendere omaggio con fiori e messe ai propri cari, fino alla morte avvenuta nel 2001, mentre Gucci Leonetta, tramite l’ANPI e il Comune di Fiesole ha continuato a testimoniare la storia della sua famiglia soprattutto davanti ai giovani, fino alla morte avvenuta nel 2007

Elena Bon – Combattimento

Elena Bon
Combattimento

Ululano i monti
in mezzo alla battaglia,
sibilano selve
agitando braccia di fuoco.
Tu taci,
cuore,
ti comprimi sull’arma.
Tu sei silenzioso,
sangue,
corri sulla terra
e ti seguono gli occhi dei morenti
mentre da loro ti allontani.
Forse soltanto qualche donna
altrove
sente in sé la tua voce
all’improvviso.
Disperatamente
gridi in seno a tua madre
e in seno a Dio,
sangue silenzioso.

Villa Triste di Giovanni Baldini,

Villa Triste

di Giovanni Baldini,
Questa storia si svolge nel comune di Firenze.

Il 17 settembre 1943 si costituisce a Firenze la 92° legione della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale. La 92° legione aveva al suo interno un autonomo "Ufficio politico investigativo", comandato da Mario Carità.
Quella che è rimasta nella memoria come "Banda Carità" era composta, funzionalmente ai compiti per cui era stata pensata, da individui per i quali l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana garantiva una tacita amnistia: rapinatori, evasi, autori di reati gravi e anche persone per cui è ben lecito dubitare della sanità mentale.

Nel tempo la Banda cambia sede più volte e aumenta considerevolmente l’organico fino a quando, forte di quasi 200 uomini, non trova una sede centrale definitiva in via Bolognese.
Il palazzo situato in via Bolognese al numero 67 era stato requisito dall’esercito tedesco per farne la sede della polizia politica (la S.D.: Sicherheintdienst), gli scantinati e parte dei piani più bassi verranno affidati agli uomini di Carità che in seguito assumono la denominazione ufficiale di R.S.S. (Reparto Servizi Speciali).
Nasce così "Villa Triste".

La polizia politica tedesca è già nota per la crudeltà indiscriminata ma il suo comandante lascerà comunque i lavori più infami e sadici al RSS.
Mario Carità era il comandante indiscusso del RSS ma spiccavano nello stato maggiore personaggi come Pietro Koch, che sarà in seguito in Italia settentrionale, degno continuatore dei metodi appresi a Villa Triste. L’organizzazione gerarchica terminava con le squadre: la "squadra degli assassini", la "squadra della labbrata" e i "quattro santi".

A Villa Triste passarono alcuni dei nomi più conosciuti della Resistenza fiorentina: primo fra tutti il gappista Bruno Fanciullacci, che viene seviziato nei modi più barbari, quasi evirato con pugnalate al basso ventre e martoriato con uno degli strumenti che Carità usava con più efficacia: si trattava di un anello metallico da cui sporgeva una punta anch’essa di metallo, i pugni tirati con quello colpivano le ossa come scalpelli.
Fanciullacci riuscì a resistere e non parlò. Fuggito ai suoi aguzzini e riarrestato, sapendo a cosa andava incontro si gettò dal secondo piano di Villa Triste; forse per tentare un’ultima fuga o forse conscio di non poter reggere ad un nuovo interrogatorio. Bruno Fanciullacci muore in quella caduta.
Nel 2003 l’amministrazione comunale ha intitolato lo slargo su cui si affaccia Villa Triste a Fanciullacci, medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Nel novembre 1943, quando ancora Carità e i suoi uomini non avevano sede fissa, riuscirono a smantellare il primo comando militare istituito dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale grazie a una spia, arrestando tutti i componenti con l’esclusione del liberale Aldobrando Medici Tornaquinci, assente dalla riunione, e del comunista Alessandro Sinigaglia che riuscì a sfuggire. Adone Zoli e i figli, democristiani, arrestati in quell’occasione, verranno torturati in una casa in via Benedetto Varchi.
Sinigaglia sarà poi attivamente ricercato fino all’incontro coi "Quattro Santi" in via Pandolfini.

Anche l’azionista Anna Maria Enriques Agnoletti sarà ospite di Villa Triste, torturata fino ai limiti della follia, obbligata a stare in piedi senza poter dormire per sette giorni, prima di venir fucilata insieme ai patrioti di Radio CORA nei boschi di Cercina.

Compitare un elenco delle persone che anche solo per sospetti o delazioni fasulle hanno subito le violenze più atroci dalla Banda Carità non è materialmente possibile, così come non è narrabile tutto il sadismo che animava collaboratori di Carità come padre Ildefonso, monaco benedettino che usava coprire le urla dei torturati suonando canzonette napoletane al pianoforte. E padre Ildefonso non era il solo religioso ad affiancare il lavoro dei torturatori, così come non solo uomini si sono macchiati di questi delitti visto che numerose testimonianze concordano sulla partecipazione di alcune donne agli interrogatori.

All’avvicinarsi del fronte Mario Carità fugge a nord, le redini del gruppo vengono prese da Giuseppe Bernasconi, che si macchia tra l’altro della strage di piazza Tasso.

Mario Carità terminerà la sua lunga sequenza di nefandezze (vedi anche Ceppeto, Campo di Marte e Villa Terzollina) a guerra finita, ucciso resistendo all’arresto da parte di due soldati americani all’Alpe di Siusi, in Alto Adige.
I componenti della Banda verranno processati a Lucca nei primi anni cinquanta e condannati all’ergastolo, poi le pene massime verranno ridotte a trenta anni di reclusione e a molti imputati saranno concesse incredibili attenuanti. Infine, per l’azione dell’amnistia del 1953, pochi di loro faranno più di qualche mese di galera.

Franco Fortini Valdossola

Franco Fortini
Valdossola

E il tuo fucile sopra l’erba del pascolo.

Qui siamo giunti
Siamo gli ultimi noi
Questo silenzio che cosa.
Verranno ora
Verranno.

E il tuo fucile nell’acqua della fontana.

Ottobre vento amaro
La nuvola è sul monte
Chi parlerà per noi.
Verranno ora
Verranno.

Inverno ultimo anno
Le mani cieche la fronte
E nessun grido più.

E il tuo fucile sotto la pietra di neve.

Verranno ora
Verranno.

16 ottobre 1944

Giulio Mazzon CAPRIOLO 1944

Giulio Mazzon

CAPRIOLO 1944
Il capriolo forò di muso i rovi

sbirciando canne di mitraglia e uomini
silenti, pance a terra, immobili, irti
e se ne andò incredulo, e cauto, a valle
chè non sparavano e sembravano morti,
ma respiravano, ma piano, strani.
Era un’attesa, trappola al nemico,
artefice il silenzio.

Così il capriolo ebbe la vita salva.
C’era una guerra.

Franco Fortini [Quel giovane tedesco]

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Franco Fortini

[Quel giovane tedesco]

Quel giovane tedesco
ferito sul Lungosenna
ai piedi d’una casa
durante l’insurrezione
che moriva solo
mentre Parigi era urla
intorno all’Hótel de Ville
e moriva senza lamenti
la fronte sul marciapiede.
Quel fascista a Torino
che sparò per due ore
e poi scese per strada
con la camicia candida
con i modi distinti
e disse andiamo pure
asciugando il sudore
con un foulard di seta.
La poesia non vale
l’incanto non ha forza
quando tornerà il tempo
uccidetemi allora.
Ho letto Lenin e Marx
non temo la rivoluzione
ma è troppo tardi per me;
almeno queste parole
servissero dopo di me
alla gioia di chi viva
senza più il nostro
orgoglio

Mario Dacci – Inno della Divisione garibaldina A. Gramsci

 

Inno della divisione garibaldina A. Gramsci in Albania

 

da Canti della resistenza italiana all’estero
[Testo di Mario Dacci-Musica di This Daija]

 


Noi del fascismo conosciam le pene,
L’onte subite da noi lavorator.
Alfin spezzate le catene abbiam
Che sfruttavano ogni dì il nostro lavor.
Contro il nemico barbaro e crudele
Tutta l’Italia un dì si ribellò
E i partigiani stretti in forti schiere
Han mostrato a tutto il mondo il loro valor.
Partigiano va
Verso il tuo destin,
Il cammin della Patria sorgerà.
Dell’Italia la sorte abbiamo nelle man,
Siamo arditi partigiani.
Combatteremo fino alla vittoria,
La nostra terra libera sarà,
Noi dell’Italia storia si farà,
Degli eroi il sangue vendichiamo.

 


Siam Partigiani della nuova Italia
Che un dì qui sui colli ancora ritornerà,
L’Italia bella libera sarà,
Con la pace il lavor ritornerà.
Partigiano va
Verso il tuo destin.
Il cammin della Patria sorgerà.
Dell’Italia la sorte
Abbiamo nelle man,
Siamo arditi partigian.

Anonimo – Sacrificio Partigiano

 

Anonimo
Poesia scritta a conclusione di una battaglia.
In essa si ricorda, con parole toccanti,
il sacrificio di un compagno caduto.

 

 

Sacrificio partigiano
Ti vedo ancora amico e compagno partigiano:
quando nelle notti insonni
il mio pensiero fruga nel passato
Vedo il tuo volto gaio e spensierato.
I tuoi capelli biondi, lunghi da apparire un effemminato,
quei tuoi occhi chiari, limpidi e sinceri,
dentro quel corpo esile celavi un cuore,
un cuore generoso e forte, da vero battagliero.
Primo fra i primi, in ogni azione volontario,
in ogni azione coraggioso e temerario,
eri di sprone a chi ti stava accanto
e la paura di morire spariva d’incanto.
Fu in un radioso mattino d’inverno
che attaccati dal tedesco, capitò l’inferno;
su quei pendii, dal candido manto ricoperti,
dai vostri passi sulla neve foste scoperti.
Non indugiaste ad impegnar battaglia
ed a puntar contro il nemico la mitraglia;
pensasti che sacrificar tutti era invano,
dicesti ai compagni di ripiegar pian piano.
La tua arma vomitò fuoco e morte
come se 1000 energie fossero in te risorte,
gridasti: “Italia Italia cosa importa se si muor”,
prima di cader sotto il piombo del tedesco assalitor.
Allargasti le braccia, alzando gli occhi al cielo,
irrorasti con il tuo sangue quella coltre di gelo;
e da quel vermiglio colle, scrissi: “Fuori d’Italia invasor”;
con quell’atto di eroismo, gridiamo: “A morte il nazi fascismo”.