Archivi categoria: Poesie di Libertà

Pietro Gori – Inno del 1 Maggio

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Pietro Gori

Inno del 1 Maggio

Vieni o Maggio t’aspettan le genti
ti salutano i liberi cuori
dolce Pasqua dei lavoratori
vieni e splendi alla gloria del sol

Squilli un inno di alate speranze
al gran verde che il frutto matura
a la vasta ideal fioritura
in cui freme il lucente avvenir

Disertate o falangi di schiavi
dai cantieri da l’arse officine
via dai campi su da le marine
tregua tregua all’eterno sudor!

Innalziamo le mani incallite
e sian fascio di forze fecondo
noi vogliamo redimere il mondo
dai tiranni de l’ozio e de l’or

Giovinezze dolori ideali
primavere dal fascino arcano
verde maggio del genere umano
date ai petti il coraggio e la fè

Date fiori ai ribelli caduti
collo sguardo rivolto all’aurora
al gagliardo che lotta e lavora
al veggente poeta che muor!

Sylvia Plath – Papà

Sylvia Plath
Papà
Non servi, non servi più,
O nera scarpa, tu
In cui trent’anni ho vissuto
Come un piede, grama e bianca,
Trattenendo fiato e starnuto.
Papà, ammazzarti avrei dovuto.
Ma sei morto prima che io
Ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,
Statua orrenda dal grigio alluce
Grosso come una foca di Frisco
E un capo nell’Atlantico estroso
Al largo di Nauset laggiù
Dove da verde diventa blu.
Un tempo io pregavo per riaverti.
Ach, du.
In tedesco, in un paese
Di Polonia al suolo spianato
Da guerre, guerre, guerre.
Ma il paese ha un nome molto usato.
Un amico mio polacco
Mi dice che ce n’è un sacco.
Così non ho mai saputo
Dov’eri passato o cresciuto.
Mai parlarti ho potuto.
Mi s’incollava la lingua al palato.
Mi s’incollava a un filo spinato.
Ich, ich, ich, ich,
Non riuscivo a dir di più di così.
Per me ogni tedesco era te.
E quell’idioma osceno
Era un treno, un treno che
Ciuff-ciuff come un ebreo portava via me.
A Dachau, Auschwitz, Belsen.
Da ebrea mi mettevo a parlare,
E lo sono proprio, magari.
Le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna
Non son molto pure o sincere.
Per la mia ava zingara e fortunosi sbocchi
E il mio mazzo di tarocchi e il mio mazzo di tarocchi
Qualcosa di ebreo potrei avere.
Ho avuto sempre terrore di te,
Con la tua Luftwaffe, il tuo gregregrè.
E il tuo baffo ben curato
E l’occhio ariano d’un bel blu.
Uomo-panzer, panzer, O tu –
Non un Dio ma svastica nera
Che nessun cielo ci trapela.
Ogni donna adora un fascista,
La scarpa in faccia, il brutale
Cuore di un bruto a te uguale
Tu stai alla lavagna, papà,
Nella foto che ho di te,
Biforcuto nel mento anziché
Nel piede, ma diavolo sempre,
Sempre uomo nero che
Con un morso il cuore mi fende.
Avevo dieci anni che seppellirono te.
A venti cercai di morire
E tornare, tornare a te.
Anche le ossa mi potevano servire.
Ma mi tirarono via dal sacco,
Mi rincollarono i pezzetti.
E il da farsi così io seppi.
Fabbricai un modello di te,
Uomo in nero dall’aria Meinkampf,
E con il gusto di torchiare.
E io che dicevo sì, sì.
Papà, eccomi al finale.
Tagliati i fili del nero telefono
Le voci più non ci possono miagolare.
Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi –
Il vampiro che diceva essere te
E un anno il mio sangue bevé,
Anzi sette, se tu
Vuoi saperlo. Papà, puoi star giù.
Nel tuo cuore c’è un palo conficcato.
Mai i paesani ti hanno amato.
Ballano e pestano su di te.
Che eri tu l’hanno sempre capito.
Papà, carogna, ho finito.

Buon Anno

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John Lennon – War is Over

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John Lennon

War is Over

E così è arrivato il Natale,
e tu cosa hai fatto?
Un altro anno se n’è andato
e uno nuovo è appena iniziato.

E così è Natale,
auguro a tutti di essere felici
alle persone vicine e a quelle care
ai vecchi ed ai giovani.

Buon Natale
e felice anno nuovo.
Speriamo sia un buon anno
senza timori né paure.

E così è Natale,
per i deboli ed i forti,
per i ricchi ed i poveri,
il mondo è così sbagliato.

E così è Natale,
per i neri ed i bianchi,
per i gialli ed i rossi,
smettiamola di combattere.

Buon Natale
e felice anno nuovo.
Speriamo sia un buon anno
senza timori né paure.

E così è Natale,
con tutto quello che è successo.
Un altro anno se n’è andato
e uno nuovo è appena iniziato.

E così è Natale,
auguro a tutti di essere felici
alle persone vicine e a quelle care
ai vecchi ed ai giovani.

Buon Natale
e felice anno nuovo.
Speriamo sia un buon anno
senza timori né paure.

La guerra è finita
Se tu lo vuoi
La guerra è finita
La guerra è finita, adesso.

Giuseppe Giusti – Tedeschi e Granduca

Giuseppe Giusti

TEDESCHI E GRANDUCA

Una volta il vocabolo Tedeschi

suonò diverso a quello di Granduca,

e un buon Toscano che dicea Granduca,

non si credette mai di dir Tedeschi.

Ma l’uso in oggi alla voce Tedeschi

sposò talmente la voce Granduca,

che Tedeschi significa Granduca,

e Granduca significa Tedeschi.

E difatto la gente del Granduca

vedo che tien di conto dei Tedeschi

come se proprio fossero il Granduca.

Il Granduca sta su per i Tedeschi

I Tedeschi son qui per il Granduca;

e noi paghiamo Granduca e Tedeschi.

Giuseppe Giustia terra dei morti

Giuseppe Giusti

LA TERRA DEl MORTI

A G.C.

A noi, larve d’Italia,

mummie dalla matrice,

è becchino la balia,

anzi la levatrice;

con noi sciupa il priore

l’acqua battesimale,

e quando si rimuore

ci ruba il funerale.

Eccoci qui confitti

coll’effigie d’Adamo;

si par di carne, e siamo

costole e stinchi ritti.

O anime ingannate,

che ci fate quassù?

Rassegnatevi, andate

nel numero dei più.

Ah d’una gente morta

non si giova la storia!

Di libertà, di gloria,

scheletri, che v’importa?

A che serve un’esequie

di ghirlande o di torsi?

Brontoliamoci un requie

senza tanti discorsi.

Ecco, su tutti i punti

della tomba funesta

vagar di testa in testa

ai miseri defunti

il pensiero abbrunato

d’un panno mortuario.

L’artistico, il togato,

il regno letterario

è tutto una morìa.

Niccolini è spedito,

Manzoni è seppellito

co’ morti in libreria.

E tu giunto a compieta,

Lorenzo, come mai

infondi nella creta

la vita che non hai?

Cos’era Romagnosi?

Un’ombra che pensava,

e i vivi sgomentava

dagli eterni riposi.

Per morto era una cima,

ma per vivo era corto;

difatto, dopo morto

è più vivo di prima.

Dei morti nuovi e vecchi

l’eredità giacenti

arricchiron parecchi

in terra di viventi;

campando in buona fede

sull’asse ereditario,

lo scrupoloso erede

ci fa l’anniversario.

Con che forza si campa

in quelle parti là!

La gran vitalità

si vede dalla stampa.

Scrivi, scrivi e riscrivi,

que’ Geni moriranno

dodici volte l’anno,

e son lì sempre vivi.

O voi, genti piovute

di là dai vivi, dite,

con che faccia venite

tra i morti per salute?

Sentite, o prima o poi

quest’aria vi fa male,

quest’aria anco per voi

è un’aria sepolcrale.

O frati soprastanti,

o birri inquisitori,

posate di censori

le forbici ignoranti.

Proprio de’ morti, o ciuchi,

è il ben dell’intelletto:

perché volerci eunuchi

anco nel cataletto?

Perché ci stanno addosso

selve di baionette

e s’ungono a quest’osso

le nordiche basette?

Come! guardate i morti

con tanta gelosia?

Studiate anatomia,

che il diavolo vi porti.

Ma il libro di natura

ha l’entrata e l’uscita;

tocca a loro la vita

e a noi la sepoltura.

E poi, se lo domandi,

assai siamo campati:

Gino, eravamo grandi,

e là non eran nati.

O mura cittadine,

sepolcri maestosi,

fin le vostre ruine

sono un’apoteosi.

Cancella anco la fossa,

o barbaro inquïeto,

ché temerarie l’ossa

scuotono il sepolcreto.

Veglia sul monumento,

perpetuo lume, il sole,

e fa da torcia a vento:

le rose, le vïole,

i pampani, gli olivi,

son simboli di pianto:

oh che bel camposanto

da fare invidia ai vivi!

Cadaveri, alle corte,

lasciamoli cantare,

e vediam questa morte

dov’anderà a cascare.

Tra i salmi dell’Uffizio

c’è anco il Dies irae:

o che non ha a venire

il giorno del Giudizio?

Giuseppe Giusti – L’incoronazione

Giuseppe Giusti

L’INCORONAZIONE

Al Re dei Re, che schiavi ci conserva,

mantenga Dio lo stomaco e gli artigli:

di coronate volpi e di conigli

minor caterva

intorno a lui s’agglomera, e le chiome

porgendo, grida al tosator sovrano:

—Noi toseremo di seconda mano,

babbo, in tuo nome —.

Vedi i ginocchi insudiciar primiero

il Savoiardo di rimorsi giallo,

quei che purgò di gloria un breve fallo

al Trocadero.

O Carbonari, è il Duca vostro, è desso

che al palco e al duro carcere v’ha tratti;

ei regalmente del Ventuno i patti

mantiene adesso.

Colla clamide il suol dietro gli spazza

il Lazzarone paladino infermo:

non volge l’anno, in lui sentì Palermo

la vecchia razza.

Di tant’armi che fai, re Sacripante?

Sfondar ti pensi il cielo con un pugno?

Smetti, scimmia d’eroi; t’accusa il grugno

di Zoccolante.

Il toscano Morfeo vien lemme lemme

di papaveri cinto e di lattuga,

che per la smania d’eternarsi asciuga

tasche e maremme.

Co’ tribunali e co’ catasti annaspa;

e benché snervi i popoli col sonno,

quando si sogna d’imitare il nonno,

qualcosa raspa.

Sfacciatamente degradata torna

alle fischiate di sì reo concorso,

lei che l’esilio consolò del Còrso

d’austriache corna.

Ilare in tanta serietà si mesce

di Lucca il protestante Don Giovanni,

che non è nella lista de’ tiranni

carne né pesce.

Né il Rogantin di Modena vi manca,

che avendo a trono un guscio di castagna,

come se fosse il Conte di Culagna,

tra i re s’imbranca.

Roghi e mannaie macchinando, vuole

con derise polemiche indigeste,

sguaiato Giosuè di casa d’Este,

fermare il sole.

Solo a Roma riman papa Gregorio,

fatto zimbello delle genti ausonie.

Il turbin dell’età, nelle colonie

del Purgatorio,

dell’indulgenze insterilì la zolla

che già produsse il fior dello zecchino;

or la bara infruttifera il becchino

neppur satolla.

D’arpie poi scese una diversa peste

nel santuario a dar l’ultimo sacco:

o vendetta d’Iddio! pesta il Cosacco

di Pier la veste.

O destinato a mantener vivace

dell’albero di Cristo il santo stelo,

la ricca povertà dell’Evangelo

riprendi in pace.

Strazii altri il corpo; non voler tu l’alma

calcarci a terra col tuo doppio giogo:

se muor la speme che al di là del rogo

s’affissa in calma,

vedi sgomento ruinare al fondo

d’ogni miseria l’uom che più non crede;

ahi! I vedi in traccia di novella fede

smarrirsi il mondo.

Tu sotto l’ombra di modesti panni

i dubitanti miseri raccogli:

prima a te stesso la maschera togli,

quindi ai tiranni.

Che se pur badi a vender l’anatema,

e il labbro accosti al vaso dei potenti,

ben altra voce all’affollate genti:

— Quel diadema

non è, non è — dirà — de’ santi chiodi,

come diffuse popolar delirio:

Cristo l’armi non dà del suo martirio

per tesser frodi.

Del vomere non è per cui risuona

alta la fama degli antichi padri:

è settentrional spada di ladri,

tòrta in corona.

O latin seme, a chi stai genuflesso?

quei che ti schiaccia è di color l’erede;

è la catena che ti suona al piede

del ferro istesso.

Or via, poiché accorreste in tanta schiera,

piombate addosso al mercenario sgherro;

sugli occhi all’oppressor baleni un ferro

d’altra miniera;

della miniera che vi diè le spade

quando nell’ira mieteste a Legnano

barbare torme, come falce al piano

campo di biade —.

Ahi che mi guarda il popolo in cagnesco,

mentre, alle pugne simulate vòlto,

stolidi «viva» prodiga al raccolto

stormo tedesco!

Il popol no: la rea ciurma briaca

d’ozio, imbestiata in leggiadrie bastarde,

che cola, ingombro alle città lombarde,

fatte cloaca.

Per falsi allori e per servil tiara

comprati mimi; e ciondoli e livree

patrizie, diplomatiche e plebee,

lordate a gara;

e d’ambo i sessi adulteri vaganti,

frollati per canizie anticipata;

e con foia d’amor galvanizzata

nonni eleganti;

simili al pazzo che col pugno uccide

chi lo soccorre di pietà commosso,

e della veste che gli brucia addosso

festeggia e ride.

Walt Whitman O Capitano! mio Capitano!

Walt Whitman

O Capitano! mio Capitano!

O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è finito,
La nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto,
Il porto è vicino, odo le campane, il popolo è esultante,

Gli occhi seguono la solida chiglia, l’audace e altero vascello;
Ma o cuore! cuore! cuore!
O rosse gocce sanguinanti sul ponte
Dove è disteso il mio Capitano
Caduto morto, freddato.

O Capitano! mio Capitano! alzati e ascolta le campane; alzati,
Svetta per te la bandiera, trilla per te la tromba, per te
I mazzi di fiori, le ghirlande coi nastri, le rive nere di folla,
Chiamano te, le masse ondeggianti, i volti fissi impazienti,
Qua Capitano! padre amato!
Questo braccio sotto il tuo capo!
É un puro sogno che sul ponte
Cadesti morto, freddato.

Ma non risponde il mio Capitano, immobili e bianche le sue labbra,
Mio padre non sente il mio braccio, non ha più polso e volere;
La nave è ancorata sana e salva, il viaggio è finito,
Torna dal viaggio tremendo col premio vinto la nave;
Rive esultate, e voi squillate, campane!
Io con passo angosciato cammino sul ponte
Dove è disteso il mio Capitano
Caduto morto, freddato

Giuseppe Giusti LA TERRA DE MORTI

Giuseppe Giusti

LA TERRA DEl MORTI

A G.C.

A noi, larve d’Italia,

mummie dalla matrice,

è becchino la balia,

anzi la levatrice;

con noi sciupa il priore

l’acqua battesimale,

e quando si rimuore

ci ruba il funerale.

Eccoci qui confitti

coll’effigie d’Adamo;

si par di carne, e siamo

costole e stinchi ritti.

O anime ingannate,

che ci fate quassù?

Rassegnatevi, andate

nel numero dei più.

Ah d’una gente morta

non si giova la storia!

Di libertà, di gloria,

scheletri, che v’importa?

A che serve un’esequie

di ghirlande o di torsi?

Brontoliamoci un requie

senza tanti discorsi.

Ecco, su tutti i punti

della tomba funesta

vagar di testa in testa

ai miseri defunti

il pensiero abbrunato

d’un panno mortuario.

L’artistico, il togato,

il regno letterario

è tutto una morìa.

Niccolini è spedito,

Manzoni è seppellito

co’ morti in libreria.

E tu giunto a compieta,

Lorenzo, come mai

infondi nella creta

la vita che non hai?

Cos’era Romagnosi?

Un’ombra che pensava,

e i vivi sgomentava

dagli eterni riposi.

Per morto era una cima,

ma per vivo era corto;

difatto, dopo morto

è più vivo di prima.

Dei morti nuovi e vecchi

l’eredità giacenti

arricchiron parecchi

in terra di viventi;

campando in buona fede

sull’asse ereditario,

lo scrupoloso erede

ci fa l’anniversario.

Con che forza si campa

in quelle parti là!

La gran vitalità

si vede dalla stampa.

Scrivi, scrivi e riscrivi,

que’ Geni moriranno

dodici volte l’anno,

e son lì sempre vivi.

O voi, genti piovute

di là dai vivi, dite,

con che faccia venite

tra i morti per salute?

Sentite, o prima o poi

quest’aria vi fa male,

quest’aria anco per voi

è un’aria sepolcrale.

O frati soprastanti,

o birri inquisitori,

posate di censori

le forbici ignoranti.

Proprio de’ morti, o ciuchi,

è il ben dell’intelletto:

perché volerci eunuchi

anco nel cataletto?

Perché ci stanno addosso

selve di baionette

e s’ungono a quest’osso

le nordiche basette?

Come! guardate i morti

con tanta gelosia?

Studiate anatomia,

che il diavolo vi porti.

Ma il libro di natura

ha l’entrata e l’uscita;

tocca a loro la vita

e a noi la sepoltura.

E poi, se lo domandi,

assai siamo campati:

Gino, eravamo grandi,

e là non eran nati.

O mura cittadine,

sepolcri maestosi,

fin le vostre ruine

sono un’apoteosi.

Cancella anco la fossa,

o barbaro inquïeto,

ché temerarie l’ossa

scuotono il sepolcreto.

Veglia sul monumento,

perpetuo lume, il sole,

e fa da torcia a vento:

le rose, le vïole,

i pampani, gli olivi,

son simboli di pianto:

oh che bel camposanto

da fare invidia ai vivi!

Cadaveri, alle corte,

lasciamoli cantare,

e vediam questa morte

dov’anderà a cascare.

Tra i salmi dell’Uffizio

c’è anco il Dies irae:

o che non ha a venire

il giorno del Giudizio?

Giuseppe Giusti LA GUIGLIOTTINA A VAPORE

Giuseppe Giusti

LA GUIGLIOTTINA A VAPORE

Hanno fatto nella China

una macchina a vapore

per mandar la guigliottina:

questa macchina in tre ore

fa la testa a centomila

messi in fila.

L’istrumento ha fatto chiasso,

e quei preti han presagito

che il paese passo passo

sarà presto incivilito:

rimarrà come un babbeo

l’Europeo.

L’Imperante è un uomo onesto,

un po’ duro, un po’ tirato,

un po’ ciuco, ma del resto

ama i sudditi e lo Stato,

e protegge i bell’ingegni

de’ suoi regni.

V’era un popolo ribelle

che pagava a malincuore

i catasti e le gabelle:

il benigno imperatore

ha provato in quel paese

quest’arnese.

La virtù dell’istrumento

ha fruttato una pensione

a quel boia di talento

col brevetto d’invenzione,

e l’ha fatto mandarino

di Pekino.

Grida un frate: Oh bella cosa!

gli va dato anche il battesimo.

Ah perché (dice al Canosa

un Tiberio in diciottesimo)

questo genio non m’è nato

nel Ducato!