La Memoria offesa
La Memoria offesa
«Come mi disse una volta Primo Levi, noi non ci saremmo mai accorti di essere ebrei se non ce lo avessero dimostrato in modo alquanto persuasivo». Il ricordo della persecuzione razziale operata dal fascismo: una vicenda spesso rimossa o minimizzata con la favola degli «italiani brava gente», ma che non fu meno grave dell’analoga storia vissuta dagli ebrei tedeschi
Sembra che non ci dovrebbe essere nulla di più pacifico della datazione degli eventi contemporanei, per cui disponiamo sia di testimoni che di storici. Il guaio è che non sempre queste due categorie vanno d’accordo. Un caso esemplare è quello delle persecuzioni in Italia, che secondo i testimoni [tra cui mi annovero] datano dall’emanazione delle cosiddette leggi per la difesa della razza, cioè dall’ottobre 1938, mentre secondo gli storici sarebbero state anticipate da un censimento generale degli ebrei di cui noi testimoni non serbiamo memoria e che avrebbe avuto luogo il 22 agosto precedente. Gli storici hanno tirato fuori fior di documenti [articoli di giornali, telegrammi di certi prefetti, p.es. di quello di Torino, che attestano le avvenute dichiarazioni, ecc.] che confermano senza dubbio la loro tesi.
I testimoni continuano per lo più a non ricordare, ma si fanno delle ragioni. Resta il fatto che questo primo atto dell’antisemitismo ufficiale del governo italiano passò quasi inosservato, sia per la stagione estiva, sia perché la campagna antisemita sui giornali e alla radio era cominciata da un pezzo, sia perché gli ebrei, come tutte le vittime designate, si facevano delle illusioni fino all’ultimo istante.
In Italia queste illusioni traevano origine dalla quasi perfetta integrazione degli ebrei nel contesto sociale. Come mi disse una volta Primo Levi, noi due non ci saremmo mai accorti di essere ebrei se non ce lo avessero dimostrato in modo alquanto persuasivo. Lasciamo andare la questione «italiani brava gente» e il richiamo alla risiera di San Sabba come testimonianza della possibilità di una piccola Auschwitz italiana, compresa la congiura del silenzio. Decisivo in questi casi è il confronto: non se fosse o meno possibile una Auschwitz italiana, ma quali fossero le probabilità di finirvi dentro. Per ragioni che non sto a elencare, credo che fossero assai minori. Oggi le cose stanno diversamente, cioè peggio: da una parte il nazismo ha offerto un capitale di antisemitismo moderno cui si può sempre ricorrere; dall’altra il prosperare del fondamentalismo [ebraico e musulmano, ma anche cristiano, cfr. il caso Pivetti] rimette all’ordine del giorno un tipo di antisemitismo che si sperava [almeno quello!] superato. Inoltre la creazione dello Stato d’Israele favoriva la confusione tra antisionismo e antisemitismo. Paradossalmente, quindi, c’era in giro meno antisemitismo in Italia quando esso era ufficiale che adesso, tanto che dopo il libro di De Felice sugli ebrei durante il fascismo si annoverano le persecuzioni antisemite tra le cause del distacco delle masse italiane dal regime.
La vasta impopolarità di tali persecuzioni non significa però che esse suscitassero reazioni se non isolate e non finissero per rientrare nel credito generale che gli italiani avevano accordato al fascismo.
L’edificio di questo credito cominciava a scricchiolare, ma ci vollero ben altre esperienze negative prima che le strutture vacillassero.
Ogni provvedimento restrittivo per gli ebrei poteva contare sulla complicità di chi desiderava il loro posto voleva qualche piccola vendetta. Si trattava comuque di poche persone, come pochi erano i colpevoli «pietismo filogiudaico» – espressione allora inventata dai fascisti – di tipo attivo e solidale.
La realtà era che la stragrande maggioranza degli ebrei apparteneva alla borghesia e che questa classe si distingue per l’identificazione del proprio utile privato con quello pubblico. Il nazismo cercò di fare di questa identificazione la caratteristica del capitalismo «di rapina», che sarebbe poi quello «giudaico», di fronte al capitalismo «creativo» degli ariani. Ma perché questa operazione avesse successo erano necessarie le tradizioni di antisemitismo anticapitalistico che c’erano in Germania e anche in Francia, ma non in Italia, dove erano rappresentate al massimo da Julius Evola, in cui l’antisemitismo era marginale rispetto all’anticapitalismo e che perciò conobbe nuove fortune nel dopoguerra come fondamento ideologico del neofascismo «di sinistra». Evola distingueva fin dal principio, secondo una tradizione che risale all’ebreo viennese Weininger, un concetto «spirituale» dell’ebraismo da quello «materiale» legato al sangue e alla razza, ma ciò non gli impediva di patrocinare una volgare falsificazione come I protocolli dei savi di Sion», che supponeva l’esistenza di una congiura internazionale degli ebrei atta a fornire una giustificazione «storica» allo sterminio. Evola, in grado di formulare teorie per sbagliate e contraddittorie che fossero, era però un’eccezione, gli altri teorici dell’antisemitismo italiano che ebbe per qualche anno il suo organo nella rivista La difesa della razza , essendo ridotti come il giovane Giorgio Almirante a esaltare le virtù degli antichi romani, che non esitavano a far fuori gli altri popoli del Lazio, evidentemente appartenenti a razze meno pregiate.
Da qualsiasi parte lo si prenda, l’antisemitismo italiano era un disastro, costretto com’era a mutuare argomenti e perfino vignette con ebrei dal naso a uncino da prototipi germanici.
Ma per quanto sapesse di copiato, l’antisemitismo italiano aveva la sua efficacia, oggi sottovalutata grazie alla nuova prosperità e arroganza del neofascismo accordatosi al berlusconismo e divenuto ben accetto ai salotti borghesi e in parte, ahimè, anche a quelli di sinistra, non in nome del comune anticapitalismo ma in nome della comune appartenenza all’ambito «democratico». Il comunismo essendo ormai all’acqua di rose, anche il fascismo pretende di essere tale, anzi di esserlo sempre stato prima del 1938 e dello sciagurato influsso dell’alleato antisemita. Ma questo influsso fu in realtà, come gli studi mostrano sempre più chiaramente, una capitolazione totale da parte dell’Italia. Per fortuna ci sono ancora testimoni che conservano, per dirla con Primo Levi, la «memoria dell’offesa». Certo l’offesa non ebbe spesso la gravità e la tragicità di quella toccata a Primo Levi, né si possono mettere sullo stesso piano il sopravvissuto di Auschwitz e il ricco ebreo per cui la persecuzioni significò soltanto un «dorato» esilio in Svizzera.
Ma l’intenzione di umiliare e offendere tutti gli ebrei c’era sempre, perché il segreto dell’efficacia del razzismo sta nella possibilità di rivincita che esso offre agli umiliati e agli offesi.
Ricorderò sempre l’impiegatuccio del consolato italiano di Zurigo, un tipino travèt , che ogni volta che facevo una delle mie rare apparizioni in quel luogo per la necessità di rinnovare il passaporto mi salutava con un «Ecco qua l’ebreo Coen» che mi costringeva a precisare che nemmeno i nazisti, che obbligavano tutti gli ebrei a chiamarsi Israele o Sara, erano arrivati a unificare anche i loro cognomi. Ammesso che sia ancora vivo, quel tizio sarà certo un pacifico e «democratico» seguace di Fini o di Berlusconi, pronto a ridiventare antisemita se vedrà l’occasione di poter umiliare qualcuno.
La maggior parte degli italiani si comportò, come si è detto, da «brava gente». Compresi gli stessi ebrei, che, partiti da una divisione tra fascisti e antifascisti che riproduceva in piccolo quella dei cristiani [salvo un certo aumento della percentuale antifascista dovuto all’elevato numero di intellettuali] si ritrovarono com’è naturale tutti antifascisti alla fine della guerra. Per gli ebrei era quella un’acquisizione definitiva, tanto che spesso si dimenticarono di essere stati anche fascisti. Quando glielo ricordai senza calcare la mano in occasione del quarantesimo anniversario delle leggi razziali [fascicolo speciale del Ponte , dicembre 1978] nell’articolo «Cosa fai in giro?» [ristampato nella raccolta II testimone secondario Einaudi, 1985], molti caddero dalle nuvole e mi serbano ancor oggi rancore come si serba a un traditore. Ma preferisco questo tipo di amnesia a quello di chi pretenderebbe che noi votassimo, così senza rancore, Alleanza nazionale. A qualcosa, come afferma un detto francese, la disgrazia deve pur servire, anche in tempi in cui nulla sembra essere servito a nulla.
Articolo tratto dal Settimanale “Il Manifesto 1995
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