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Vittorio Tassi

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È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Vittorio Tassi
Di anni 41 – Brigadiere dell’Arma dei Carabinieri – nato a Radicofani (Siena) il 10 mag­gio 1903 -. Dal io febbraio 1944 appartenente alla formazione S.I.M.A.R. dislocata sulle montagne di Cetona (Radicofani) -. Sorpreso il 17 giugno 1944 da un reparto di guasta­tori tedeschi nei pressi della Cantoniera detta Vittoria, lungo la Via Cassia – Fucilato poco dopo, sul luogo stesso della cattura, con Renato Magi
– Medaglia d’Oro al V.M.
Cara Olga,
Oggi 17 alle ore 7 fucilato innocente. La mia salma si trova di qua dal fiume, di qua della scuola cantoniera dove sta Albegno. Cara Olga, ti raccomando, i nostri figli. Confortali e vogli loro bene quanto gliene volevo io. Potrai recuperare la mia salma forse oggi stesso, tra poche ore. Io mi sono tanto raccomandato, ma è stato impossibile intenerire quei cuori. Perdonami se qualche volta sono stato cattivo con te, ma ti ho voluto sempre tanto bene. Cara mamma, vi raccomando di aiutare mia moglie e i miei figli quanto piú potete. Cari suoceri, anche voi aiutate e sorvegliate i miei figli specie in questi giorni tanto. difficili. Mia cara Olga, avrei tante cose da dirti, ma non posso piú scrivere perché ho il cuore secco. DIRAI A TUTTI PERCHÉ SONO MOR­TO: se Iddio vuole ci rivedremo in cielo e di li non ci separeremo piú. Caro Ercole, sii buono e ubbidiente e ricorda spesso il tuo babbo; e anche tu cara Anita, sii buona, Iddio vi aiuterà. Vi bacio tutti per l’ultima volta: Vostro Vittorio. Dirai a Remo che moriamo, io e Renato, con il nostro segreto.

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana
Einaudi Editore 1952

Tigrino Sabatini

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È destino dei popoli che il loro cammino

verso la libertà e la giustizia sociale sia

segnato dal sangue dei suoi martiri,

forse perché questo cammino non sia smarrito,

ma chi muore per una causa giusta, vive sempre

nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Tigrino Sabatini (Badengo)

DI anni 43 – operaio della Snia. Viscosa in Roma – nato ad Abbadia San Salvatore (Siena) l’8 marzo 1900 Caposettore nella formazione « Bandiera Rossa » operante a Roma e nel Lazio -. Catturato in seguito a delazione di due compagni di lavoro è con­dotto alle carceri di Via Tasso e successivamente a Regina Coeli – processato dal Tribu­nale Militare Tedesco il 14 Aprile 1944 — Fucilato in Roma il 3 maggio1944

Proposto per la Medaglia d’Oro al V.M.

Roma, li 3 maggio

Miei cari

L’ultimo momento di mia vita è questo, vi chiedo perdono come io perdono voi. Il giorno 14 aprile mi fu rifatto il processo, e fui condan­nato a morte,, per il medesimo motivo.

Oggi vado alla morte.

Mi raccomando a Nicola che sposi la Vilda e che siano felici, questo è il mio desiderio nell’ultimo istante.

Vi bacio tutti fratelli e sorelle, cognati e cognate: vi bacio caramente. Vostro padre

Sabatini Tigrino

Addio per sempre.

Lascio 40 lire

Tratto da

Lettere di condannati a morte

Della

Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Luigi Palombini–(Luigi Pucci)

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Luigi Palombini (Luigi Pucci)
Di anni 29 – meccanico – nato a Gradoli (Viterbo) il 15 febbraio 1916 -. Rientrato nel febbraio 1944 da un campo di concentramento in Germania, dove un suo fratello lasciava la vita, dopo una breve visita in famiglia si reca in Piemonte e subito si unisce alla V Divisione Alpina G.L. « Sergio Toja » operante nelle valli Germanasca e Chisone -. Catturato il 27 Febbraio 1945 mentre, nel corso di un rastrellamento ope­rato da reparti tedeschi e fascisti, tenta di portare in salvo un compagno ferito – tradotto nella caserma dei Carabinieri di Pinerolo -. Fucilato alle ore 17 del 10 marzo 1945, da plotone tedesco, con i fratelli Genre ed altri cinque partigiani.

Pinerolo, 6.3.1945
Egregi Sig.ri Malan,
non ho nessuno qui a cui scrivere, e perciò m’indirizzo a voi con la speranza che a fine guerra ne diate comunicazione alla mia famiglia della mia sorte.
Ho appreso ieri sera la mia condanna a morte. L’ho appresa sere­namente, conscio del suo significato. Sono tranquillo e calmo e spero di conservarmi tale, fino alla fine.
Vi prego salutare per me tutti i miei amici, a voi ed alla piccola Marcella un saluto particolare. Tanti saluti a Frida.
Come vi ripeto, a fine guerra, fate sapere alla mia famiglia, quella che è stata della mia sorte, ditegli che muoio rassegnato e tranquillo avendo servito con lealtà la nostra martoriata Italia.
Ancora invio i piú affettuosi saluti.
W l’Italia
Luigi Palombini

Cara mamma,
mi hanno preso prigioniero. State tranquilla presto ci rivedremo in cielo. Coraggio. Ho fatto tutto il dovere con coscienza ed abnega­zione. Baci a tutti
Luigi

Cara Anna,
ti ringrazio di tutto quello che hai fatto per me. Di coraggio ne ho molto e spero di averlo sempre. Tanti saluti
Luigi

Il coraggio ce l’ho e spero di averlo fino al momento dell’esecuzione. So come devo morire e Dio mi darà maggiore forza. Non ho da rim­proverarmi nulla, ho fatto il mio dovere per il bene del mio prossimo e dell’Italia
Pucci Luigi

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Luigi Ciol (Resistere)

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”
Luigi Ciol (Resistere)
Di anni 19 – nato a Cintelli di Teglio Veneto (Venezia) il 4 ottobre 1925 -. Partigiano con il grado di caposquadra nella Brigata « Iberati » operante nella zona di Venezia -. Catturato il 22 gennaio1945 a Fossalta di Portogruaro – tradotto nelle carceri di Udine – torturato -. Processato il 14 marzo 1945 dal Tribunale Militare Territoriale Tedesco di Udine, per appartenenza a bande armate -. Fucilato il 9 aprile 1945 a Udine, con altri ventotto partigiani.
Udine li 14 marzo 1945
Dalle mie prigioni vi scrivo.
Carissimi famigliari, vengo a voi con queste mie ultime parole, fa­cendovi sapere che sono condannato a morte, ma non disperatevi per me. Speriamo che tutto vada bene, se non va bene va male. Cara mamma se anche muoio io ti resta lo stesso altri quattro leoni, niente da fare così è il destino, io. e Gino Nosella, i più disgraziati dei condannati a morte.
Luigi detto Boschin (parte?) per la Germania, Vi faccio sapere che insieme a noi due è anche il cugino Benito di Cordovado; anche lui condannato a morte. Speriamo che tutto vada bene, ma siamo che aspet­tiamo momento per momento e siamo in trentasette condannati a morte.
Un saluto ai parenti e paesani.
Una idea è una idea e nessuno la rompe. A morte il fascismo e viva la libertà dei popoli. Un saluto a Natale Tomba. e a sua moglie Gigia e ai padroni.
. Se il destino e sfortuna mi rapi, vi chiedo perdono a tutti, papà mamma e fratelli. Girare attorno di qua e di là per la prigione e a dirsi che siamo condannati a morte, ma ormai è così e viva la libertà dei popoli.
È così l’ultimo saluto che vi faccio.
Bacioni ai nonni che preghino per me tanto e vi bacio tutti.
Vostro Luigi

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Lorenzo Viale

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Lorenzo Viale

Di anni 27 – ingegnere alla FIAT di Torino – nato a Torino il 25 dicembre 1917 -. Addetto militare della squadra "Diavolo Rosso", poi ufficiale di collegamento dell’organizzazione "Giovane Piemonte" – costretto a lasciare Torino, si unisce alle formazioni operanti nel Canavesano -. Catturato l’8 dicembre 1944 a Torino, nella propria abitazione, in seguito a delazione, per opera di elementi delle Brigate Nere, essendo sceso dalla montagna nel tentativo di salvare alcuni suoi compagni -. Processato l’8 febbraio 1945, dal Tribunale Co:Gu: (Contro Guerriglia) di Torino, perché ritenuto responsabile dell’uccisione del prefetto fascista Manganiello -. Fucilato l’11 febbraio 1945 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da plotone di militi della GNR, con Alfonso Gindro ed altri tre partigiani.

Torino, 9 febbraio 1945

Carissimi,

una sorte dura e purtroppo crudele sta per separarmi da voi per sempre. Il mio dolore nel lasciarvi è il pensiero che la vostra vita è spezzata, voi che avete fatti tanti sacrifici per me, li vedete ad un tratto frustrati da un iniquo destino. Coraggio! Non potrò più essere il bastone dei vostri ultimi anni ma dal cielo pregherò perché Iddio vi protegga e vi sorregga nel rimanente cammino terreno. La speranza che ci potremo trovare in una vita migliore mi aiuta a sopportare con calma questi attimi terribili. Bisogna avere pazienza, la giustizia degli uomini, ahimè, troppo severa, ha voluto così. Una cosa sola ci sia di conforto: che ho agito sempre onestamente secondo i santi principi che mi avete inculcato sin da bambino, che ho combattuto lealmente per un ideale che ritengo sarà sempre per voi motivo di orgoglio, la grandezza d’Italia, la mia Patria: che non ho mai ucciso, né fatto uccidere alcuno: che le mie mani sono nette di sangue, di furti e di rapine. Per un ideale ho lottato e per un ideale muoio. Perdonate se ho anteposto la Patria a voi, ma sono certo che saprete sopportare con coraggio e con fierezza questo colpo assai duro.

Dunque, non addio, ma arrivederci in una vita migliore. Ricordatevi sempre di un figlio che vi chiede perdono per tutte le stupidaggini che può aver compiuto, ma che vi ha sempre voluto bene.

Un caro bacio ed abbraccio

Renzo

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Lorenzo Viale

Di anni 27 – ingegnere alla FIAT di Torino – nato a Torino il 25 dicembre 1917 -. Addetto militare della squadra "Diavolo Rosso", poi ufficiale di collegamento dell’organizzazione "Giovane Piemonte" – costretto a lasciare Torino, si unisce alle formazioni operanti nel Canavesano -. Catturato l’8 dicembre 1944 a Torino, nella propria abitazione, in seguito a delazione, per opera di elementi delle Brigate Nere, essendo sceso dalla montagna nel tentativo di salvare alcuni suoi compagni -. Processato l’8 febbraio 1945, dal Tribunale Co:Gu: (Contro Guerriglia) di Torino, perché ritenuto responsabile dell’uccisione del prefetto fascista Manganiello -. Fucilato l’11 febbraio 1945 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da plotone di militi della GNR, con Alfonso Gindro ed altri tre partigiani.

Torino, 9 febbraio 1945

Carissimi,

una sorte dura e purtroppo crudele sta per separarmi da voi per sempre. Il mio dolore nel lasciarvi è il pensiero che la vostra vita è spezzata, voi che avete fatti tanti sacrifici per me, li vedete ad un tratto frustrati da un iniquo destino. Coraggio! Non potrò più essere il bastone dei vostri ultimi anni ma dal cielo pregherò perché Iddio vi protegga e vi sorregga nel rimanente cammino terreno. La speranza che ci potremo trovare in una vita migliore mi aiuta a sopportare con calma questi attimi terribili. Bisogna avere pazienza, la giustizia degli uomini, ahimè, troppo severa, ha voluto così. Una cosa sola ci sia di conforto: che ho agito sempre onestamente secondo i santi principi che mi avete inculcato sin da bambino, che ho combattuto lealmente per un ideale che ritengo sarà sempre per voi motivo di orgoglio, la grandezza d’Italia, la mia Patria: che non ho mai ucciso, né fatto uccidere alcuno: che le mie mani sono nette di sangue, di furti e di rapine. Per un ideale ho lottato e per un ideale muoio. Perdonate se ho anteposto la Patria a voi, ma sono certo che saprete sopportare con coraggio e con fierezza questo colpo assai duro.

Dunque, non addio, ma arrivederci in una vita migliore. Ricordatevi sempre di un figlio che vi chiede perdono per tutte le stupidaggini che può aver compiuto, ma che vi ha sempre voluto bene.

Un caro bacio ed abbraccio

Renzo

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Condannato all’astuzia di Aronne Molinari

Condannato all’astuzia di Aronne Molinari

Fin da ragazzo, dalla fine della prima guerra mondiale, partecipai attivamente alle lotte sindacali; poi, al sorgere delle squadracce fasciste, presi parte alle lotte politiche. Fui arrestato una prima volta a Parma, mia città natale, nel 1921; una seconda volta nel 1923 per «associazione a delinquere contro i poteri dello Stato »; quindi nel 1925 per aver reagito a un insulto del segretario federale di Parma; nel 1931 per distribuzione di manifestini antifascisti; e infine nel 1934 fui sottoposto a processo in seguito a una denuncia fatta per togliermi dalla circolazione e condannato a sette anni di carcere. Di questi ne scontai quattro, alla casa penale di Padova, dove, godendo di una certa libertà di movimento (all’interno del carcere, s’intende), mi fu possibile conoscere a fondo tutte le strutture della prigione e i punti dov’era possibile la fuga. Nel 1945, nuovamente arrestato e trasferito da Palazzo Giusti alla casa penale, riuscii cosi a fuggire quattro giorni prima della liberazione.

Ho fatto queste premesse autobiografiche non tanto per arrogarmi esaltazioni personali, ma perché sia meglio compresa la causa che mi portò a Palazzo Giusti e come mi servii delle amare esperienze acquistate per sfuggire, senza gravi danni, alle grinfie dei nostri aguzzini. È naturale che non fu solo per questo ch’ebbi la possibilità di uscirne. A ciò contribuì infatti la disorganizzazione delle informazioni dei nostri avversari e l’approssimarsi della fine del conflitto. Ai primi del marzo del 1945, per delazione di un certo Costante Miazzo abitante in via Belzoni a Padova, fui arrestato dalle Brigate Nere di Nello e Alfredo Allegro, Vivarelli, Prisco e Baracco di Camin. Dapprima mi portarono a Ponte di Brenta dove subii un interrogatorio e dove mi vennero contestate le accuse del delatore, ossia che ero commissario della brigata partigiana Garibaldi di Padova. Naturalmente negai. All’alba del giorno seguente fui condotto al Bonservizi (via Giordano Bruno) assieme a un altro arrestato, Sebastiano Marchesana. Qui le contestazioni ed il modo di condurre l’interrogatorio furono abbastanza duri: il Vivarelli mi bastonò. Comunque non parlai. Il giorno seguente fui messo a confronto con altri quattro detenuti e col delatore e potei rendermi conto di quanto delicata fosse la mia posizione, ma ebbi abbastanza tempo per prepararmi una linea di difesa: primo, perché la spia non aveva molti elementi di accusa al di fuori della propaganda sovversiva; secondo, perché gli altri partigiani dissero di non conoscermi con una fermezza tale da dar garanzia sulla loro sincerità (tre erano gappisti di Padova e precisamente Gastone Nalesso, Bruno Lazzareuo, Guido Franco); terzo Marchesana, agente del SIM promosso poi capitano per meriti partigiani. Dopo quattro giorni di confronti e interrogatori, fummo inviali tutti alla casa penale in attesa del processo, che venne celebrato dopo alcuni giorni da un tribunale militare straordinario. Dei componenti di quest’ultimo ricordo solo il nome del pubblico ministero, un certo maggiore Uderzo dell’esercito repubblichino. Fummo tutti condannati: il Marchesana a cinque anni di carcere, io a sette, mentre i tre giovani partigiani vennero condannati alla pena di morte. Dopo il processo fummo ricondotti alla casa pena1e e messi in due celle separate, in una io e Marchesana, i tre condannati a morte nell’altra. Noi due eravamo abbastanza tranquilli, anche se sapevamo che c’era sempre la possibilità di essere uccisi come ostaggi, cosa che in quel momento rappresentava il pericolo maggiore; d’altra parte si capiva che la fine del conflitto era vicina e che potevamo sperare nella nostra salvezza. Il mattino seguente, alle sei circa, quando cominciavamo ad assopirci, ci fecero alzare e fummo accompagnati in matricola. Qui, prelevati dagli sgherri della banda Carità, venimmo condotti a Palazzo Giusti e qui cominciò quel che si può chiamare il nostro Calvario. Fui ammanettato con il Marchesana, gli altri tre tra loro. Così passammo una lunga giornata d’attesa; non potevamo parlare; non ci dettero né da mangiare, né da bere o da fumare. A sera inoltrata cominciarono gli interrogatori. I primi chiamati furono ,i tre. giovani partigiani; dalle urla strazianti provenienti dall’ufficio del Carità potevamo capire com’era condotto. l’interrogatorio e che si volevano da loro altre confessioni oltre a quelle poche rese davanti al tribunale militare. Nonostante le sevizie subite, si mantennero sulle prime di· sornioni senza mai dire di conoscersi o di aver avuto contatti con noi. Furono portati fuori pesti e sanguinanti, tanto da non reggersi più in piedi. Quindi toccò al Marchesana, che subì pressappoco il medesimo trattamento dei primi tre; ma egli se la cavò in circa mezz’ora dalla furia di quei banditi, anche perché era il meno accusato dalla spia. All’una o alle due circa, venne il mio turno. L’accusa sostenuta dal tribunale e da me confermata, in quanto era il meno che potessi fare, era di propaganda politica, dato che mi ero dichiarato comunista. Premetto che se gli arresti subiti prima mi avevano provocato danni materiali, mi erano serviti però ad affilare l’abilità nella schermaglia degli interrogatori ch’ebbi a sostenere nei lunghi anni di lotta. Ma torniamo a Palazzo Giusti. Come dicevo poc’anzi, restai ammanettato tutto il giorno e mezza la notte. Questo tempo mi servi per osservare tutto ciò che accadeva attorno a me anche nei minimi particolari. Per esempio, nella mattinata vidi un andare e venire di gente con valige e bauli ‘ ne dedussi che c’erano preparativi di trasloco. Ravvisai persone che conoscevo, come Antonio Nicolè {Bandiera} Mario Berion (Curzio) e altri. Capii che gli aguzzini volevano prendere due piccioni con una fava, ossia, mentre si facevano servire, stavano attenti se tra noi vi fosse qualche segno di riconoscimento. Fecero anche un’altra prova: portarono Rino Gruppioni (Spartaco) a confronto con Marchesano, mio compagno di manette. lo guardavo da un’altra parte per non tradirmi col minimo segno, dato che io e Spartaco avevamo operato assieme nel comando delle brigate Garibaldi. Tutto questo susseguirsi di espedienti mi confermò che i repubblichini non avevano in mano nessuna prova concreta della mia attività di combattente partigiano. Quando fui fatto entrare nell’ufficio, il Corradeschi e il tenente Trentanove (cosi lo chiamavano) tentarono subito una provocazione perché reagissi; ma io rimasi esternamente calmo e dissi con fermezza: ~ Prima interrogatemi, poi prendete le vostre decisioni ». Questa mia ferma risposta piacque a una donna e ad un altro figuro seduto al suo fianco, che impedirono ai primi due di sfogare il loro bestiale livore. La donna (che poi seppi essere la figlia di Carità) mi chiese perché ero comunista, come risultava dai verbali processuali in loro possesso. Risposi alla buona, dicendo di non saperlo con precisione, ma che ero un operaio meccanico e che, ancora quand’ero giovane, se protestavo perché la paga non era sufficiente per mantenere la mia famiglia, i padroni mi denunciavano ai fascisti, questi ultimi mi mettevano in prigione, cosi come mi era successo a Parma, mia città di provenienza, e poi a Padova. Tant’è vero che quando nel 1939 venne a Padova il signor Mussolini, mi arrestarono per quindici giorni; nel 1940 venne quel b … del re e mi misero dentro per dieci giorni; poi venne quel c … del principe Umberto e mi tennero in carcere per altri quindici giorni. Questi due ultimi epiteti, detti di proposito, sollevarono l’ilarità degli sgherri presenti. In quel preciso momento capii di avere in mano la situazione, per lo meno per quanto riguardava i presenti. A quel rumore di risa s’affacciò alla porta un uomo che avevo visto prima confabulate con un altro, evidentemente un informatore; capii che era il comandante della ciurma. Domandò cosa c’era da ridere a quel modo, e la figlia rispose: « Senti, papà, cosa dice quest’uomo! ,.. e mi fecero ripetere le affermazioni suddette. Il Carità mi ascoltò con viso calmo e compiaciuto, quasi per approvare, e capii che avevo colpito nel segno, sfruttando il contrasto fra monarchia e fascismo. Ma poi repentinamente, e quasi con durezza, il Carità prese a farmi domande inerenti il processo subito al tribunale militare. Sapevo ormai a memoria le deposizioni precedenti, sia degli interrogatori, sia del tribunale. Mi accorsi che era rimasto colpito dalla mia tranquillità (apparente, se vogliamo, ma pur sempre ben simulata). Mi fece riferire qualche discorso tra quelli che avevo confessato fare alla gente, cosa che feci alla buona. A un certo punto mi interruppe e mi chiese bruscamente cosa pensavo della guerra in corso e della sua fine. Risposi: «Comandante, mi perdoni, ma non posso rispondere. Se fossimo al caffè potrei farlo, ma qui, con questi signori alle spalle (vi erano sempre Corradeschi e Trentanove), mi rifiuto di rispondere ». Al che disse: ~ Ti garantisco che nessuno ti toccherà, purchè tu mi dica sinceramente il tuo pensiero; e fa conto di essere al caffè ». Posso dire francamente che non sapevo decidermi. Comunque ormai il dado era tratto. Dopo alcuni attimi di silenzio, preso il coraggio a due mani, mi decisi: La guerra che io considero ingiusta, l’avete persa, ormai ». E spiegai i motivi; bluff dell’arma segreta tedesca, superiorità ormai palese delle forze e degli armamenti anglo-americani e russi. È logico che non mi sentivo tranquillo e sicuro della parola datami da Carità, però compresi che anche questa volta avevo fatto centro e che, vigliacchi com’erano, avevano una paura tremenda della fine. In quel momento avevo l’impressione di essere in una gabbia di iene, dove ciascuno aspetta il momento giusto per aggredire. Cosi si può immaginare con quale sforzo mentale cercavo di controllare la situazione. Si tenga pur conto della mia esperienza acquisita durante i precedenti arresti della famigerata polizia fascista (l’OVRA), che per condannarmi ha dovuto inventare una di quelle infami montature che erano nel suo costume. Ma torniamo ai fatti. Quando ebbi finito di parlare, Carità rimase alcuni minuti (che mi parvero ore) in silenzio, poi si alzò, mi venne vicino e chiese: «Cosa mi faresti, qualora m’incontrassi fuori dopo la sconfitta che tu prevedi? •. Risposi con calma: Nulla, in quanto da parte mia diventerebbe una vendetta quasi personale e quindi più riprovevole dell’azione che lei sta conducendo ora. Caso mai sarà una giustizia legale a procedere, ma non certo io ». Mi mise una mano sulla spalla, dicendo: «Hai ragione. La tua sincerità ti salva~. Mi chiese se avevo sete; risposi di si. Fece portare del vermut e me ne versò un bicchiere. Poi mi diede una sigaretta che accettai anche per calmare la tensione nervosa che stava per raggiungere il limite di rottura.

Ero quasi incredulo d’essere riuscito a calmare quelle belve che poche ore prima avevano infuriato sulle carni dei miei compagni. Invece era proprio così. Diede ordine ai suoi sgherri di condurmi al secondo piano, dicendo: «Guai a voi se lo toccate! •. Capii che anche lui in parte giocava, dato che non era riuscito a scoprire interamente il mio vero pensiero. E cosi rimasi all’erta. Intanto, dopo circa un’ora che m’ero steso su una branda fingendo di dormire, fu condotto nella cella un uomo con catene ai polsi, lo slegarono e lo lasciarono l’ Questi, poco dopo, venne vicino alla mia branda cercando di conversare; io continuai a fingere di dormire, egli mi scosse gli chiesi cosa volesse. Mi domandò perché ero là e i motivi dell’arresto. Non risposi e dissi solo di lasciarmi dormire. Rimase seduto sulla mia branda per qualche tempo e, quando credette che veramente dormissi, piano piano se ne andò. Il mattino seguente fecero un’altra prova. Verso le otto mi accompagnarono al gabinetto per la pulizia, ma a metà scala ebbi la sorpresa di incontrare Attilio Gambia (Ascanio), anche lui comandante veneto delle brigate Garibaldi e mio diretto superiore. Ambedue abbassammo la testa senza il minimo gesto; così anche questa prova, per loro fallita, mi dette una certa tranquillità. Dopo tre giorni di ansiosa attesa, fui svegliato di mattina presto e mi fu annunciato che dovevo tornare alla casa penale per scontare la condanna infittami dal tribunale, pur rimanendo sempre a loro disposizione. Non so dire che sollievo provai apprendendo questa notizia. Ebbi ancora la forza di dire: «Pregate il comandante Carità di lasciarmi li dove ero prima e dove mi ero trovato bene ». Ebbi un rifiuto e, accompagnato in un cortile, rividi i miei compagni sul camion. Fummo stipati assieme in una celletta d’isolamento, dove cominciammo subito a scambiarci le idee e i racconti su come eravamo stati trattati dalla banda Carità, e facemmo i pronostici sul nostro futuro. Il morale dei tre condannati a morte era abbastanza buono. lo e Marchesana facemmo tutto il possibile per incoraggiarli, prospettando loro la prossima fine della guerra ormai a tutti evidente. Così trascorremmo sette o otto giorni e il morale di tutti diventava sempre più allegro. Ma un mattino, alle quattro circa, fummo svegliati dai secondini che invitarono i tre giovani ad uscire e li consegnarono a quattro o cinque della banda Carità. I tre furono fucilati nelle caserme di Chiesanuova. Le preoccupazioni mie e di Marchesana aumentarono sapendo che la belva ferita è più pericolosa. Cominciai a studiare. il modo .di fuggire e riuscii a metterlo in pratica dopo alcuni giorni, il 22 aprile. Approfittando di un momento di disattenzione di un secondino che doveva condurmi agli uffici per conferire con il comandante del carcere salii di corsa sul cammino-ronda e mi gettai dalle mura. Fortuna volle che mi provocassi solo alcune escoriazioni alle ginocchia· attraversai di corsa il cortile della chiesa di S. Tommaso, dalla chiesa stessa e, di buon passo, raggiunsi una casa amica a Porta Venezia. La sera stessa ebbi modo di mettermi a contatto col comandante di brigata e di riprendere la mia attività quale comandante delle brigate garibaldine di Padova e provincia

Don Aldo Mei

.sacrificio - Copia

Don Aldo Mei – Italia

Anche in questo momento sono passati ad insultarmi —

«Dimitte illis — nesciunt quid faciunt ». Signore che

venga il Vostro regno! Mi si tratta come traditore —

assassino. no. Non mi pare di aver voluto male a nessuno

ripeto a nessuno

Aldo Mei

Di anni 32 – sacerdote – nato a Ruota (Lucca) il 5 marzo 1912 -. Vicario Foraneo del Vicariato di Monsagrati (Lucca) – aiuta renitenti alla leva e perseguitati politici – dà ai partigiani assistenza religiosa _ Arrestato il 2 agosto 1944 nella Chiesa di Flano, a opera di tedeschi, subito dopo la celebrazione della Messa – tradotto a Lucca con altri trenta catturati in rastrellamento – rinchiuso con essi nella « Pia Casa » di Lucca -. Processato dal Comando tedesco di Lucca, sotto l’imputazione di avere nascosto nella propria abitazione un giovane ebreo -.

Fucilato alle ore 22 del 4 agosto 1944,

da plotone tedesco, fuori Porta Elisa di Lucca.

4 agosto 1944

Babbo e Mamma,

state tranquilli — sono sereno in quest’ora solenne. In coscienza non ho commesso delitti. Solamente ho amato come mi è stato possibile. Condanna a morte — 1°’ per aver protetto e nascosto un giovane di cui volevo salva l’anima. 2° per avere amministrato i sacramenti ai partigiani, e cioè aver fatto il prete. Il terzo motivo non è nobile come i precedenti — aver nascosto la radio.

Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio io che non ho voluto vivere che per l’amore! « Deus Charitas est » e Dio non muore. Non muore l’Amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono. Ho già sofferto un poco per loro…E’ l’ora del grande perdono di Dio! Desidero avere misericordia; per questo abbraccio l’intero mondo rovinato dal peccato — in uno spirituale abbraccio di misericordia. Che il Signore accetti il sacrificio di questa piccola insignificante vita in riparazione di tanti peccati — e per la santificazione dei sacerdoti.

Oh! la santificazione dei sacerdoti. Oggi stesso avrei dovuto celebrare Messa per questa intenzione — invece di offrire Gesú — offro me a Lui, perché faccia tutti santi i suoi . ministri, tutti . apostoli di carità — e il Mio pensiero va anche ai confratelli del Vicariato, che non ho edificato

e aiutato come avrei dovuto. Gliene domando umilmente perdono. Mi ricordino tutti al Signore. Sia dato a ciascuno un’offerta di 75 lire per una applicazione di S. Messa a sufiragio della povera anima mia.

Almeno 100 Messe che siano celebrate per riparare eventuali omissioni e manchevolezze e a sufiragio dell’anima mia.

A Basilio — Beppe e loro mogli e figli carissimi — alla Nonna e Argia — alla zia Annina, Carolina, Livia, Giorgina — Dante, Silvio, Annunziato ecc., e a tutti i parenti — a tutti i conoscenti, a tutti i Ruotesi, cosa dirò? Quello che ho ripetutamente detto ai miei figli di adozione, i Fianesi. Conservatevi tutti nella grazia del Signore Gesú Cristo — perché questo solamente conta quando ci si trova davanti al maestoso passo della morte — e così tutti vogliamo rivederci e starcene indissolubilmente congiunti nella gioia vera e perfetta della unione eterna con Dio in cielo.

Non piú carta — all’infuori di questa busta — e anche la luce sta per venir meno. Domani festa della Madonna potrò vederne il volto materno? Sono indegno di tanta fortuna. Anime buone pregate voi tutte perché mi sia concessa presto — prestissimo tanta fortuna!

Anche in questo momento sono passati ad insultarmi — «Dimitte illis — nesciunt quid faciunt ». Signore che venga il Vostro regno! Mi si tratta come traditore — assassino. no. Non mi pare di aver voluto male a nessuno — ripeto a nessuno — mai — che se per caso avessi fatto a qualcuno qualche cosa di male — io qui dalla mia prigione — in ginocchio davanti al Signore — ne domando umilmente perdono. Al Sacerdote che mi avviò al Seminario D. Ugo Sorbi il mio saluto di arrivederci al cielo. Ai carissimi Superiori del Seminario, specialmente a Mons. Malfatti e al Padre Spirituale D. Giannotti — l’invito che mi assistano nel punto piú decisivo della mia esistenza — la morte — mentre prego il Signore a ricompensarli centuplicatamente come sa far Lui.

Arturo Cappettini ( Giuseppe)

 

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È destino dei popoli che il loro cammino

verso la libertà e la giustizia sociale sia

segnato dal sangue dei suoi martiri,

forse perché questo cammino non sia smarrito,

ma chi muore per una causa giusta, vive sempre

nel cuore di chi per questa causa si batte.”

 

Arturo Cappettini (Giuseppe)

Di anni 43 – commerciante – nato a Zeme Lomellina (Pavia) il 17 marzo 1900 -. Mili­tante comunista, perseguitato come antifascista e ricercato ad ogni occasione di visita di gerarca fascista – costretto ad espatriare in Svizzera e Francia – dopo l’8 settembre ’43 si unisce alla 3° Brigata Garibaldi G.A.P. – procura viveri ed approvvigionamenti ai parti­giani di montagna, fa del proprio negozio un deposito di stampa clandestina e di ma­teriale bellico -. Catturato il iq dicembre 1943 nella casa della madre a Mortara, dove si era recato per procurare rifornimenti a partigiani della zona – mentre il fratello ed i compagni trasportano il materiale bellico dal negozio di Milano, vengono sorpresi, su delazione, da elementi della polizia – sulla base di questo nuovo capo d’accusa, viene trasferito da Mortara al 60 raggio delle carceri di San Vittore in Milano – torturato da elementi delle S.S. tedesche — Fucilato il 31 dicembre1943 al Poligono di Tiro della Gagnola in Milano, con Gaetano Andreoli e Cesare Poli.

Cara mamma,

quando riceverai questa, io non ci sarò più, il piombo nemico mi avrà già freddato, perciò mi raccomando a te i miei cari figlioli, baciali tanto per me, come pure Tilde ed istruiscili finché siano buoni patrioti come lo fui io e che facciano di tutto per vendicarmi. Caramente bacio tutti per l’ultima volta, addio evviva l’Italia evviva l’idea comune.

Vostro

Arturo

Tratto da

Lettere di condannati a morte

Della

Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Carletto Besana – Scoiattolo

sacrificio - Copia

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Carletto Besana (Scoiattolo)

Di anni 24 – operaio tessile – nato a Barzanò (Como) 31 luglio 1920 -. Dopo 1’8 settembre ’43 svolge intensa attività di collegamento e rifornimenti fra la Brianza e la Valsassina (Lecco) – ferito e ricercato, è costretto a rimanere nascosto -. Il 12 ottobre 1944, accorso a Biandino (Valsassina) alla notizia del ferimento del fratello Guerino, mentre veglia in una grotta la salma del fratello già ucciso da S.S. italiane,, viene catturato anch’egli dalle stesse S.S. di stanza ad Oggiono – tradotto a Casargo (Lecco) – sevi­ziato -. Processato il 13 ottobre 1944 a Casargo, da tribunale militare tedesco e fascista -. Fucilato alle ore 15 del 15 ottobre 1944 al cimitero di Introbio (Lecco), da S.S. italiane, con Benedetto Bocchiola, Antonio Cendali, Franco Guarnieri, Andrea Ronchi e Benito Rubini.

Cara mamma,

fatevi coraggio quando riceverete la notizia della nostra morte, ho ricevuto i Sacramenti e muoio in pace col Signore. Mamma non pensate al fratello Guerino perché l’ho assistito io alla sua morte.

Arrivederci in Paradiso. Figlio Carlo. Ciao.

Tratto da

Lettere di condannati a morte

Della

Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Bruno Frittaion

 

sacrificio

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Bruno Frittaion (Attilio)

Di anni19 – studente – nato a San Daniele del Friuli (Udine) il 13 ottobre 1925 -. Sino dal 1939 si dedica alla costituzione delle prime cellule comuniste nella zona di San Daniele – studente del III corso di Avviamento Professionale, dopo 1’8 settembre ’43 abbandona la scuola unendosi alle formazioni partigiane operanti nella zona – prende parte a tutte le azioni del Battaglione « Pisacane », Brigata « Tagliamento », e quindi, con funzioni di Vice-Commissario di Distaccamento, del Battaglione « Silvio Pellico » ,-. Catturato il 15 dicembre 1944 da elementi delle S.S. italiane, in seguito a delazione, mentre con il compagno Adriano Carlon si trova nella casa di uno zio a predisporrei mezzi per una imminente azione – tradotto nelle carceri di Udine – più volte torturato Processato il 22 gennaio 1945 dal Tribunale Militare Territoriale Tedesco di Udine Fucilato il 1° febbraio 1945 nei pressi del cimitero di Tarcento (Udine), con Adriano Carlon, Angelo Lipponi, Cesare Longa, Elio Marcuz, Giannino Putto, Calogero Zaffato e Pietro Zanier.

31gennaio1945

Miei cari,

nelle mie ultime ore è più vivo che mai il mio affetto per voi e voglio dedicarvi queste ultime righe.

Il nostro comune nemico vuol fare di me solo un triste ricordo per voi, per tutti coloro che mi conoscono e mi vogliono bene.

Mi hanno condannato a morte, mi vogliono uccidere. Anche nelle mie ultime ore non sono venuto a meno nella mia idea, anzi è più forte e voglio che anche voi siate forti nella sventura che il destino ci ha riservato.

Datevi coraggio, sopportate con serenità tutto ciò sperando che un giorno vi siano ricompensate le vostre sofferenze.,,

Muoio, ma vorrei che la mia vita non fosse sprecata inutilmente, vorrei che la grande lotta per la quale muoio avesse un giorno il suo evento.

Termino per sempre salutandovi e chiedendovi perdono di tutto ciò che ha potuto rattristarvi.

Addio papà, mamma, Ines, Anita, salutatemi Elio il giorno che lui potrà ritornare.

Addio per sempre Bruno

 

31 gennaio 1945

Edda,

voglio scriverti queste mie ultime e poche righe. Edda, purtroppo sono le ultime sí, il destino vuole così, spero ti giungano di conforto in tanta triste sventura.

Edda, mi hanno condannato alla morte, mi uccidono; però uccidono il mio corpo non l’idea che c’è in me.

Muoio, muoio senza alcun rimpianto, anzi sono orgoglioso di sacri­ficare la mia vita per una causa, per una giusta causa e spero che il mio sacrificio non sia vano anzi sia di aiuto nella grande lotta. Di quella causa che fino a oggi ho servito senza nulla chiedere e sempre sperando che un giorno ogni sacrificio abbia il suo ricompenso.

Per me la migliore ricompensa era quella di vedere fiorire l’idea che purtroppo per poco ho servito, ma sempre fedelmente.

Edda il destino ci separa, il destino uccide il nostro amore quel­l’amore che io nutrivo per te e che aspettava quel giorno che ci faceva felici per sempre.

Edda, abbi sempre un ricordo di chi ti ha sempre sinceramente amato. Addio a tutti.

Addio Edda

Frittaion. Bruno

 

Tratto da

Lettere di condannati a morte

Della

Resistenza Italiana

 

Einaudi Editore 1952