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Paolo Ciotti – Le prime cannonate non si dimenticano

Paolo Ciotti

Le prime cannonate non si dimenticano

Paolo Ciotti racconta bombardamenti, battesimo del fuoco a Ghertele (VI) il 30 maggio 1915

La marcia verso il confine italo-austriaco del 116° fanteria termina la notte del 30 maggio: ufficiali e truppa, dopo aver percorso alcuni chilometri, sono a breve distanza dal nemico.

Arriviamo al Ghertele verso le quattro del mattino. La truppa bivacca vicino a Casare Baitle, proprio sotto al Monte Verena, che spara a fuoco accelerato. Avanti a noi l’azione è sostenuta anche questa volta dalla Brigata Ivrea. Noi siamo di rincalzo e attendiamo gli eventi. Ma come dimenticare quegli istanti? Il rombo del cannone, che sentiamo per la prima volta vicino, mette a tutti – e perché nasconderlo? – brividi di terrore addosso.

Ma l’azione purtroppo non riesce. Scendono dalla linea gruppetti di soldati, e allora è un accorrere dei nostri presso di loro per attingere notizie, le quali sono sempre peggiori e fanno supporre che noi dovremo presto sostituire la truppa in linea. Due disertori austriaci transitano lungo la via, e allora altro accorrere di soldati. Passa pure un tenente del 162° con pochi uomini: Dice che è impossibile avanzare perché il nemico reagisce violentemente col fuoco!

Paolo Ciotti – Ci ammazzano il cuoco

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Paolo Ciotti
Ci ammazzano il cuoco
Paolo Ciotti racconta bombardamenti, morti a Camporosà-Costesin (VI) il 8 giugno 1915
L’8 giugno il 116° reggimento è attendato nella zona Camporosà-Costesin, solo piccole scaramucce tra gli eserciti turbano la calma del fronte nei pressi di Asiago.
Al mattino gli austriaci,  vedendo fumo a Mandrielle, hanno bombardato le cucine. Rimane ferito il cuciniere della 3^ Compagnia che dopo poco muore. E’ il primo morto del Reggimento ed è triste che la prima vittima sia stata proprio un cuciniere che i soldati chiamavano “Imboscato”.

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Giuseppe Lucarelli – Si è sparato a un ginocchio

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Si è sparato a un ginocchio

Giuseppe Lucarelli racconta autolesionismo a Saletto (UD) il 9 luglio 1915

9 luglio. Alle 5 suona la sveglia. Dopo pochi minuti udiamo in vicinanza un colpo di fucile. Accorriamo verso il punto della detonazione e troviamo il soldato di sentinella al parco seduto su di un carro che si lamentava non poco. Il fucile giaceva per terra e la baionetta tolta da questo, abbandonata più lungi. La canna del fucile è calda ancora. È il Sold. Bisceglia Felice; ha il ginocchio forato dalla pallottola del proprio fucile. Sottoposto il Bisceglia ad un interrogatorio e tenuto anche conto del carattere stravagante, risulta essersi egli ferito per esimersi dal servizio militare. Venne tosto trasportato all’ospedale di Saletto.

Otello Ferri – Si mangia con appetito, di fronte ai cadaveri

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Si mangia con appetito, di fronte ai cadaveri

Otello Ferri racconta bombardamenti, morti, feriti, cibo, orrori, vita in trincea a San Floriano del Collio (GO) il 21 aprile 1916

Una serata piacevole, con musica di organetto, è appena trascorsa a San Floriano del Collio in provincia di Gorizia, dove sono dislocati i pezzi di artiglieria ai quali è addetto anche Otello Ferri.

21 aprile 1916

L’ allegria della sera fu scontata dalla nera giornata del 21. Alla mattina, ben si capiva che eravamo in Aprile per il sonno che ci tratteneva a rimanere coricati, ma questo veniva subito annullato quando qualche fischio si faceva udire vicino a noi. Il tenente Rizzo mi ordinò di fare i coperchi per i fornelli della cucina e il porta mestoli. Presi due asce e cominciai a segare, il rumore prodotto dalla sega non mi fece sentire il sibilo di un proiettile in arrivo, ma sentì bene lo scoppio che fu fortissimo, in un momento fummo circondati dal fumo. Per prudenza lasciai tutto e andai in grotta. Era scoppiata a pochissimi metri da me, ne arrivarono parecchie altre con lo scopo di rompere la strada per intralciare il traffico dei carri e camion, che in gran quantità venivano alla notte per portare legname, munizioni, viveri, ecc… Sembrava tutto spento e calmo, volli andare al buco dove era caduta la granata per vedere se trovavo qualcosa; proprio mentre raspavo per terra, ecco che di nuovo un diavolo fischiava in aria e il suo ruggito rabbioso cresceva più si avvicinava a terra.

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Un drachen balloon, 1917 (fondo Arturo Busto)

Per me era inutile fuggire, rimasi in quel posto con rassegnazione, ma la fortuna ancora una volta mi fu alleata, ma non lo fu per certi altri poveri ragazzi. Difatti il grosso obice cadde proprio sopra al baraccone ove vi erano dentro più di un centinaio di soldati. Per metà il baraccone crollò seppellendo parecchi feriti che non erano riusciti a fuggire. Dopo poco vedemmo parecchie coppie di soldati portare fuori i primi morti e feriti, quest’ultimi venivano portati al posto di medicazione in una baracca distante 60 metri. La disdetta ancora non era appagata, un altro fischio e scoppio si fecero sentire, cadendo ove i feriti si medicavano; un saldato che era andato a vedere questi e che se ne stava con la gavetta in mano, fu lanciato con nostro raccapriccio a 10 metri di altezza, ricadendo a terra come uno straccio, rimase ucciso sul colpo. Intanto la pasta in acqua era pronta, carne non si poteva mangiare a causa della vigilia. Incredibile raccontarlo ai borghesi ignari della guerra, ma si mangiò con appetito, anche se questo se ne andava ogni qual volta si rivolgeva lo sguardo ai cadaveri, distesi sui sassi con la faccia coperta da sacchi, e con i vestiti strappati da dove ancora sortiva il sangue fumante. La prima granata cadde dove Amedeo dormiva quando era qua. La seconda per poco non offese il mio nuovo compagno Betti, che più tardi venne a trovarmi, raccontandomi la brutta sorpresa toccatagli, di essersi trovato all’atto dello scoppio con un uscio sul groppone. Più tardi ci lasciammo, mentre i Drachen Ballon si abbassavano in lontananza, scomparendo dietro le prime alture di sbarramento del Friuli. Dopo aver avvisato la sentinella che mi svegliasse alle 3.00, mi coricai assieme ai miei tre compagni di casa. G. Brutto.

Gino Ricceri – Carissima madre

"Carissima madre, ancora mi trovo vivo"

Cesare, detto Gino, Ricceri racconta paura, morti, combattimenti, mamma, famiglia a Porte del Pasubio il 4 luglio 1916

Li 4-7-1916
Carissima Madre
Con molta impressione ti scrivo queste due righe per farti sapere che ancora mi trovo vivo per buona fortuna ed in ottimo stato di salute. Cara Madre vengo ad annunziarti che ieri giorno 3 dopo un gran bombardamento alle ore 11 precise abbiamo iniziato l’avanzata che dopo un breve scambio di fucilate ci anno fatti andare all’assalto non puoi credere in quel momento il mio cuore cosa mi faceva. Dunque andati all’assalto abbiamo fatto diversi prigionieri quattro mitragliatrici ed altro materiale da guerra. Cara Madre non ò potuto fare a meno di non piangere quando ò veduto quei bei giovani che come me si trovano in queste brutte condizioni più inpressione e stata quella nel vedere gran numero di feriti e anche diversi morti dove senza avvedersene a qualcuno passavamo di sopra più lamenti che facevano straziare il cuore nel vedere tante giovani vite così massacrate. Cara Madre mi sono di già visto perso perché ancora non si parla di cambio e nel medesimo tempo sono spesse volte che me la sono cavata a pulito. Come ti annunziavo in una mia antecedente che avevo avuto notizie da Riccardo e che tutto ti dicevo quanto esso mi mandava a dire ed io subito gli risposi ed attendo nuovamente da lui risposta per sapere come si trova più quando tu mi rispondi anche tu fammi sapere notizie in proposito di lui. Cara Madre credi che qua su questi altissimi monti ancora perdura la sete e la fame e per buona fortuna il giorno tre abbiamo potuto mangiare qualche scatoletta dei viveri dagli Austriaci lasciati.
Altro non mi prolungo con la speranza di tornare tra voi salvo o prima o dopo. Cesso di scrivere perché ancora non sono tornato nel mio primiero stato con queste impressioni.
Saluta tutti chi ti domanda di me saluta tanto le sorelle più ricevi i più cari ed affettuosi saluti tuo figlio Gino

Gino Frontali–Una bomba fra due uomini

Una bomba tra due uomini

Gino Frontali racconta bombardamenti, feriti, morti, orrori a Ponte del Pissandolo (BL) il luglio 1915

Il sottotenente medico Gino Frontali descrive un bombardamento e gli effetti che provoca.

Lo scoppio era lacerante come un grido di ferocia sovrumana e dava una certa emozione a carattere viscerale. La ventata di uno di questi scoppi fu sufficiente a gettare a terra Frattari, il mio caporale di sanità mentre discorreva in piedi con me seduto.
Le prime vittime furono due portatori di filo spinato, che trasportavano a spalla il rotolo infilato sopra un paletto. Il proiettile doveva essere scoppiato fra l’uno e l’altro perché aveva asportato la parte posteriore del cranio scucchiaiandone buona parte del cervello a quello che stava davanti e la faccia, un braccio e una gamba a quello che stava  di dietro. Ambidue erano anneriti come da fuligine e agitavano i loro corpi moribondi in un viscidume vermiglio. D’allora in poi il mio lavoro subì delle recrudescenze ad ogni colpo che cadeva in pieno sulla nostra truppa naturalmente priva di ricoveri blindati. Consumavo in poche ore le mie riserve di medicatura e rimanevo un po’ stordito dalle grida dei feriti che s’affollavano impazienti davanti al posto di medicazione. Medicai anche qualche artigliere ferito leggermente da schegge di rimbalzo. Perché il medico degli artiglieri se ne stava a S. Stefano ed arrivava in automobile, chiamato per telefono, invariabilmente quando i suoi feriti erano già medicati.

Giovan Battista Garattini – Torturati e uccisi dagli austriaci

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Giovan Battista Garattini

Torturati e uccisi dagli austriaci

Giovan Battista Garattini racconta prigionia, fame, freddo, cibo, pidocchi, morti, nemici, odio, torture a Marchtrenk, Austria il novembre 1917

Giovan Battista Garattini è prigioniero a Marchtrenk, in Austria. Dopo un primo periodo trascorso come attendente di un ufficiale nel campo di concentramento riservato ai graduati, viene trasferito in quello destinato alla truppa, nel quale le condizioni di vita risultano ancor peggiori. Garattini descrive le violenze e le privazioni che subiscono i soldati italiani. 

Ricoverati in luride baracche, parecchie delle quali sconnesse, tanto che dalle fessure vi entrava il gelido vento di quei  luoghi e la pioggia, su quella paglia polverizzata e completamente infettata da parassiti, parecchi infelici dai volti emaciati, con corpo scheletrito od enfio, colle stimmate proprie e terribili della fame, privi ormai di quella poca forza che sarebbe bastata loro per rizzarsi, stavano sdraiati coll’abbandono proprio dei morituri, volgendo attorno lo sguardo ebete, cogli occhi socchiusi ai quali la vita sembrava ormai mancare.
Di quei disgraziati, (ridotti in tali condizioni, dopo solo un mese di prigionia) ve n’era già una forte percentuale. Gli altri, quelli a cui ancora bastava la forza di camminare, la più parte cogli abiti a brandelli, colla mantellina e col cappotto bucati, o semplicemente con un pezzo di coperta sulle spalle, colle scarpe rotte, oppure privi di scarpe e coi piedi fasciati da cenci, luridi, intirizziti dal freddo, cogli occhi infossati, gironzolavano tra quei ricoveri, dai quali usciva un fetore insopportabile, dando l’impressione triste di scorgere in ognuno  di loro l’allegoria della miseria più squallida e della fame più terribile! Era, né più né meno, che una caterva di infelici condannati a languire e morire di stenti!
E quella scena sommamente triste, sotto un cielo plumbeo, fra il soffiare del vento che intirizziva, su di un terreno coperto di ghiaccio.
A quegli infelici, la fame, indubbiamente, aveva tolto il senno, e lo si poteva arguire dalle azioni inconsulte che commettevano. Era uno spettacolo straziante vedere uomini sui vent’anni , camminare curvi alla ricerca di erba e di radici, sulle quali si precipitavano per arrivare prima di un compagno vicino, estirparle e portarsele alla bocca, senza nemmeno curarsi di una sommaria lavatura, ed ingoiarle!
Questa lugubre scena si ripeteva ormai con tale frequenza, che, cosa indescrivibile  ma purtroppo vera, il Comando del Campo, per evitare che si rovinasse oltre il terreno, già tutto a buche e fossette, ordinò ai sorveglianti di impedire che continuasse?! E così  quei selvaggi colla soddisfazione di aver trovato un pretesto nuovo per sfogare liberamente il loro odio, giravano col nervo in mano in cerca di qualche prigioniero, intento ad estirpare  erbe per percuoterlo senza pietà e godere nel vederlo contorcersi!
In qualunque ora, poi, si potevano vedere dei prigionieri intenti a levare dalla cassa delle immondizie, posta fuori della cucina, le bucce delle rape e qualsiasi altro rifiuto che, dopo aver semplicemente strofinato sui pantaloni, masticavano con voluttà pazza. Alcuni, più arditi attendevano il carrello della spesa (che correva su binari a scartamento ridotto) in località adatta all’assalto, ed appena giungeva, carico di rape fradicie e di qualche kilogramma di patate annerite, il tutto in ragione di qualche decina di grammi per convivente, si lanciavano su di esso, non curandosi della scorta di austriaci, armati dell’indivisibile nervo, che menavano a destra e a sinistra come forsennati.
Questi nervi, della lunghezza di circa un metro, grossi all’impugnatura come un bastone comune e terminanti a punta, saranno per i reduci della prigionia, il simbolo e lo sprone dell’odio eterno contro i loro aguzzini, che senza ombra di umanità, usavano per un nonnulla, anzi a solo scopo di vendetta e per sfogare il loro odio selvaggio.
Vidi un sergente austriaco nel bagno del campo. Al quale era addetto, percuotere incredibilmente, dei disgraziati nudi e per quella canaglia, il contorcersi di quegli infelici, sotto quelle percosse, mentre avrebbe fatto sudar freddo per lo sdegno contro quell’aguzzino, ogni animo appena sensibile, era motivo di gioia. E’ incredibile, ma vero, il fatto che svegliandoci al mattino ci accadeva di trovarci vicino ad un cadavere, mentre a pochi passi, magari un altro agonizzante!
Quanti miseri al mattino si sollevavano dal giaciglio per chiedere visita medica, facendosi segnare sulla lista degli ammalati e morivano più lentamente, senza un lamento, quietamente come se si addormentassero, prima dell’ora di recarsi a subirla! E poi, a che giovava essere ricoverati all’ospedale, quando non esistevano medicine ed il vitto era uguale a quello che veniva distribuito in baracca?
Chi crederebbe che agli ammalati si dava da mangiare, come a noi, i rifiuti delle barbabietole Da zucchero, oppure rape a pezzi colle bucce ancora infangate e bollite semplicemente nell’acqua senza condimento e spesse volte senza neppure il sale? Chi crederebbe che gli ammalati stessi, recinto dell’ospedale gironzolavano in carca di radici d’erba? Chi crederebbe che i falegnami, addetti al campo, non facevano in tempo a costruire le casse da morto? Chi crederebbe che dalle baracche, tutte le mattine uscivano dei cadaveri? E chi mai potrebbe lontanamente immaginarsi il nostro stato d’animo, nell’assistere a tutte quelle scene, mentre si soffriva un languore impressionante allo stomaco, mentre si sentivano venir meno le forze e si prevedeva la nostra fine simile a quella, più o meno vicina, a colla sicurezza terribile compendiata nell’adagio implacabile: ”Oggi a me, domani a te!”? una notte, un infelice ridotto agli estremi, coi piedi congelati e ravvolti in cenci, dovendo necessariamente uscire dalla baracca, faceva sforzi inauditi per trascinarsi, ma fu costretto ad abbandonarsi al suolo a pochi passi dalla porta, rimanendo esausto nella neve, battendo i denti dal freddo intenso e gemendo continuamente con voce fioca. Ma i suoi lamenti non vennero uditi e chi li intese non vi fece caso, poiché in quelle tane, l’udire dei lamenti, non era cosa nuova , e poi, chi più, chi meno, erano tutti in condizioni pietose. Dopo qualche ora, due militari austriaci, piuttosto anziani, adibiti quali pompieri del concentramento e comandati quella notte, di vigilare nell’eventualità di incendi, ispezionando il campo, passarono davanti alla baracca e scorsero il disgraziato che, ormai assiderato, non aveva più nemmeno la forza di lamentarsi. In men che non si dica, i due bruti, dopo aver ingiunto bruscamente al poverino di alzarsi e ritornare in baracca, non ottenendo risposta si scagliarono su di lui malmenandolo e percuotendolo finché  trascendendo sempre più, imbestialiti come iene, finirono coll’ammazzarlo con un colpo di picconcino alla testa…!! Non aggiungo commenti, perché guasterebbero!….L’indomani venne inscenata dal Comando di Concentramento, una specie di inchiesta; gli assassini subirono una specie di interrogatorio… e tutto finì in breve, com’era da prevedersi…! Purtroppo è storia, e cito nomi di compagni che potranno testimoniare: Sergente di Artiglieria da Fortezza Perosa Guglielmo, da Latisana, caduto prigioniero sul Forte di Monte Festa – Caporale Varisco Andrea, del 35° Fanteria, da Milano (credo abiti in via Paolo Sarpi. Il numero non lo ricordo)- Sergenti dei Bersaglieri Fiordigiglio Vincenzo, da Roma-Sergente Manservigi Francesco del 35° Fanteria, da Bologna-;degli altri non rammento i nomi, ma tutti i prigionieri presenti al Concentramento in quell’epoca (credo sui primi di Febbraio)  si ricorderanno indubbiamente quel triste fatto.

Cesare Ermanno Bertini – Battesimo del fuoco

In trincea

Cesare Ermanno Bertini racconta battesimo del fuoco a Monfalcone il 20 agosto 1915

20 agosto. Dopo molto tempo di attesa è stato dato l’ordine di disfare le tende. Alle ore 16 siamo partiti incamminandoci verso l’Isonzo e l’abbiamo passato ad ora assai tarda.

Marcia lunga ed assai travagliata passando in mezzo a boscaglie e paludi mentre piove molto. Verso le ore 2 e ½ del giorno 21 arriviamo a Monfalcone dove ci siamo fermati sotto le trincee

21 agosto. E’ ben molto tempo che si parlava di guerra di invasione del Belgio, del bombardamento di Rejms, dell’Argonne e dei Tedeschi, con le loro famose trincee.

Si è sempre parlato e discusso circa il combattimento di trincea e della vita trista che vi devono passare i figli di Marte.

Ora anch’io, come tutti i combattenti d’Europa sono in trincea e chissà per quanto tempo dovrò starci!!

Verso le 10 ½, mentre andavo entro Monfalcone, ad accompagnare la corvè per prendere il rancio incontrai Sanchioni, soldato del 94 Fanteria, il quale era da permanente con me al 33^ Fanteria a Cuneo.

Essendo egli pratico di Monfalcone, passai in compagnia a visitarlo.

Indescrivibile è il quadro che si presentò al mio sguardo.

Ovunque vedonsi donne di ogni età: chi con la mestizia impressa in volto, chi con bambini lattanti in braccio, altre vestite di nero perché portavano il lutto ai mariti, ai fratelli, ai padri caduti in Gallizia ed altrove.

Da per tutto si vede il segno del bombardamento: muri squarciati, edifici atterrati e palazzi senza il tetto. Alle 20 ½ siamo di nuovo con gli zaini sulle spalle e, tempo una mezzora di cammino entriamo in un’altra trincea più vicina alla linea di fuoco.

Nel mentre che ci mettiamo a posto, sul fronte avviene una scarica infernale di fucileria.

I proiettili fischiando ci passano sopra la testa in grande quantità mentre le granate ci scoppiano vicinissime.

Augusto Aglietti – Medici sotto tiro

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Medici sotto tiro

Prima battaglia dell’Isonzo

Augusto Aglietti racconta feriti, morti a Plava, Plave, Slovenia il 30 giugno 1915

Si combatte intorno a quota 383 nei pressi del fiume Isonzo, un colonnello chiede di organizzare i primi soccorsi il più vicino possibile alle truppe.

Il posto di medicazione fu messo in una baracca a pochi metri dalle trincee, spesso riuscivano a piantarsi delle pallottole nella tettoia della baracca, i proiettili di cannone ci passavano sopra, e andavano a cascare nell’Isonzo.

Non si poteva uscire tanto tranquillamente perché visti dal nemico, per fare i propri bisogni bisognava fare con astuzia, aspettare magari di notte per non essere colpiti, cose che chi non vede non crede, durante il giorno vi erano sempre dei feriti e qualche morto, perché le nostre trincee erano poco profonde e appena il nemico vedeva una piccola mossa era una ben diretta fucilata, che se non lo ammazzava lo feriva.

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Traggo e Ringrazio

L’Espresso e Finegil editoriale con

l’Archivio diaristico nazionale

di Pieve Santo Stefano
LA GRANDE GUERRA 1914-1918
I diari raccontano

Giovan Battista Garattini – Compagnie di morte

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Giovan Battista Garattini

Compagnie di morte

Giovan Battista Garattini racconta prigionia, nemici, morti, fame, cibo, odio, torture a Marchtrenk, Austria il dicembre 1917

Giovan Battista Garattini è prigioniero nel campo di concentramento austriaco di Marchtrenk da più di un mese, le torture e i decessi sono all’ordine del giorno.

Terminato così il lavoro di registrazione e d’immatricolazione dei prigionieri, incominciò la preparazione dei “Transport” e delle “Arbeiter Kompany” (Compagnie di lavoratori). Si procedeva a questo lavoro, preparando in primo luogo, gli elenchi dei partenti, in base ai ruolini delle Baracche (della forza organica, queste, di 250 uomini ciascuna, su quattro plotoni comandata da un sott’ufficiale). Poi bisognava adunare i prigionieri della baracca o delle baracche, destinate a partire, per fare loro l’appello col nuovo ruolino così compilato.  Il servente austriaco, per tale operazione, adunava gli uomini di scorta, che armati come lui dell’indivisibile nervo, si precipitavano nella baracca, ed urlando come pazzi, costringevano quei disgraziati, sempre in preda alla paura, ad uscire nel modo più celere a loro consentito dalle condizioni fisiche in cui si trovavano. E finché non erano adunati, fioccavano certe nervate da abbattere delle bestie! Poi , incominciava l’appello , e guai a quei disgraziati che non si trovavano presenti. Il giorno poi della partenza, dopo l’adunata, eseguita nel modo suddetto, dovevano subire una visita ovvero una rivista, per cura sempre del sergente Wille. Questa consisteva nel togliere, a quegli infelici, quel poco servibile che fosse loro rimasto; per esempio: a chi aveva due camicie e due paia di mutande, o, caso raro, due paia di scarpe, anche in condizioni cattive, veniva ritirato un capo, che poi doveva servire, specialmente se di qualche valore, alle speculazioni infami di quel soggetto da forca. A coloro pio, che avevano un capo solo (di indumenti, s’intende), ma di qualità discreta, come farsetti, o mutande, o camicie di lana, ecc. venivano loro ritirati tali oggetti e ricevevano in cambio indumenti spesse volte di carta, o comunque di nessun valore, come ad esempio: scarpe colle suole di legno. Venivano così sfruttati sino all’ultimo, senza che quelle vittime dell’egoismo e della malvagità tentassero di reagire o pronunziassero una parole di protesta, d’altronde era prudenza, perché evitavano, almeno, le percosse! A rivista ultimata, si incamminavano verso lo scalo ferroviario, esistente nel concentramento; venivano caricati sui vagoni bestiame …e partivano…lasciando in noi una profonda tristezza ed impressione, come se si fosse assistito ad una partenza di forzati, ingiustamente condannati, per bagno penale! Qualche giorno dopo giungeva l’elenco di quelli, per i quali i disagi di simile odissea erano stai superiori alla loro resistenza fisica, ed erano morti pel viaggio od appena giunti; seguito poi, ad intervalli, da altri elenchi…., e non erano pochi…!
Ed ogni volta, bisognava inviare altri disgraziati, a riempire i vuoti, in tal modo prodotti, nelle compagnie di lavoro. Qualcuno, fortunato, veniva concesso pei lavori dei campi, presso qualche colono, ed aveva così la possibilità di avere vitto a sufficienza, e di passarsela, anche per rimanente, alla meno peggio. Allettati da tale prospettiva, anche fra noi scritturali vi fu qualcuno che volle tentare la fortuna, come si diceva noi, e che consisteva sempre, nel cercare un’occupazione fuori del concentramento, ove si potesse avere un vitto migliore. Era la fame, sempre, il problema più difficile a risolvere, e che naturalmente occupava costantemente le nostre menti. E qualcuno, con nostro piacere, vi riuscì. Ma ben diversa era la fortuna che volevo tentare io, che ormai non potevo più resistere al campo, dove ero costretto ad assistere a tutte le crudeltà, che venivano commesse, nell’Ufficio stesso, dal Wille.
Quel tristo soggetto, unitamente a qualche suo degno amico, quale il sergente addetto al bagno, si permetteva ogni sorta di vigliaccheria, ed ogni qualvolta un sorvegliante accompagnava in Ufficio un prigioniero, che si pretendeva avesse commesso una mancanza, (spesse volte consisteva nell’aver scavato delle radici d’erbe, per ingannare la fame; ma tanto, tutti i pretesti erano buoni), il Wille dava di piglio al nervo e con gioia selvaggia, in atteggiamento che faceva prevedere una bufera, si precipitava sul malcapitato, che, o non aveva neppure il coraggio di pronunciare una parola a sua difesa e fingeva di rassegnarsi alla punizione, docilmente, colla speranza di ridurre alla mitezza l’aguzzino, oppure si metteva a supplicare perché gli venisse perdonato. Ma era perfettamente inutile; era come chiedere pietà alla tigre! Dopo poche domande pronunciate dal Wille in tedesco, appositamente per non farsi comprendere ed evitare la possibilità di una risposta giustificativa (mentre quando gli faceva comodo, sapeva farsi intendere in italiano), il malcapitato doveva subire la tortura di un certo numero di nervate, date con una violenza tale dallo stesso Wille, da far trasalire dallo sdegno Ed a me, in particolare, che divenivo pallido per la bile, quell’infame, compiuta la sua bell’opera, rivolgeva lo sguardo sorridente, pieno di sarcasmo.
E tralascio di narrare altre sevizie commesse da quell’uomo, che, infine, a danno dei prigionieri italiani, si appropriò in pochi mesi di una somma che secondo i nostri calcoli, s’aggirava intorno alle diecimila corone!
Tutto denaro tenuto indebitamente sulla cinquina degli italiani, ovvero ricavato dalla vendita degli oggetti tolti ai prigionieri. A che si meravigliasse o giudicasse esagerata tale somma, faccio osservare che dalla vendita di un solo pezzetto di sapone italiano, si potevano ricavare anche più di trenta corone. Qualcuno dirà: E perché non reclamare?- Valga, quale risposta esauriente a questi tali, la narrazione del seguente episodio:-un giorno, mentre si stava preparando una compagnia di partenti e si stavano cambiando loro gli zoccoli, intervenne il Colonnello austriaco, Comandante del Concentramento, urlando come un indemoniato. Noi, naturalmente, non comprendemmo nulla di quanto disse, ma ci venne dato l’ordine di portare in magazzino gli zoccoli. Poi si seppe dal caporale trentino Guarnieri, che le parole pronunciate dal Colonnello e dirette ai soldati austriaci, erano di questo genere:- Che cosa fate, bestie: perché cambiate le scarpe a questi cani? Mandateli via come sono e bastonateli!….Tali erano i superiori ai quali avremmo dovuto rivolgere i nostri  reclami