Il Partigiano Norino

Il partigiano Norino:
racconto ai giovani l’orrore Buchenwald
«La mia generazione deve far sapere cosa accadde». Ecco la sua drammatica storia
di Michela Zanutto
UDINE. Sono le 7 del mattino del 1944 quando due soldati delle SS bussano alla porta della famiglia Lodolo, in via Laipacco, a Udine. Non lasciano neppure il tempo d’aprire. È un lampo. Si avventano sul giovane Norino e lo portano in via Spalato. Detenuto per motivi politici. La stessa condanna che lo condurrà fino a Buchenwald. Numero 75555.
La parola d’ordine per Boris, il nome in codice durante le battaglie partigiane, oggi è “ricordare”. E a distanza di quasi 70 anni da quei terribili attimi, Norino Lodolo lo fa con lucida freddezza, proprio pochi giorni prima del 27 gennaio. «È il compito imposto alla mia generazione: i giovani devono sapere».
Nel carcere di via Spalato rimane un mese. «Mi interrogarono più volte – ricorda –. Subito ammisi la mia partecipazione al movimento dei partigiani. La mia condanna. Caricarono uomini e donne sui vagoni bestiame. Direzione Germania. Alcuni compagni riuscirono a bucare il fondo del vagone e si gettarono sui binari all’altezza di Venzone. Rischiarono la vita, ma si salvarono».
Per tutti gli altri il destino è segnato. Campo di Buchenwald. È l’ottobre del 1944. La neve ha già imbiancato il panorama. Ma tutti i prigionieri vengono fatti spogliare. Donne, uomini, bambini. Non fa differenza. «Il primo ricordo è la vasca colma di disinfettante – spiega Lodolo, oggi 97enne –. Sentivo bruciare. E poi la doccia ghiacciata arrivò quasi come un sollievo. Mi buttarono addosso un paio di calzoni e una giacca che non avevo mai visto prima. E sul petto la croce d’alluminio con il 75555. Da quel momento il mio nome».
Passano i mesi. Mesi in cui la sveglia suona alle 4 del mattino. Un tozzo di pane per pranzo. E marcia forzata fino alle montagne: «Ci facevano spaccare le rocce. A noi che non avevamo nemmeno la forza per stare in piedi. Fino alle 18, quando c’era l’appello. Non so se era per arginare le fughe o contare i morti – ricorda Lodolo – Eravamo nel cortile accanto alle baracche. Freddo, vento, pioggia. Non ci potevamo mai sedere. I moribondi erano retti a spalla dai compagni. E qualcuno moriva in piedi. I decessi erano così tanti che i compagni venivano accatastati in un angolo della baracca per poi essere portati ai forni crematori tutti assieme, il giorno successivo».
Buchenwald è uno dei campi affidati all’autogestione dei delinquenti comuni, i “triangoli verdi”. Lì si sperimenta l’annientamento attraverso il lavoro. «Ci mandavano nei boschi, nelle fabbriche – rammenta Lodolo – Mai nessuno dei padroni disse una parola circa le condizioni in cui eravamo costretti a lavorare. Sfruttati, denutriti, malmenati. Nessun vincolo morale. Niente. Il terrorismo di SS e kapos passava inosservato. Periodicamente i prigionieri erano divisi fra abili e non. I secondi erano mandati a Bernung o Sonnenstein. Lì ad attenderli c’erano soltanto le camere a gas. Chi non poteva nemmeno affrontare il viaggio veniva ucciso direttamente al campo con un’iniezione di fenolo».
Scheletri viventi. È l’immagine stampata a fuoco nella mente di Lodolo. «E poi quegli uomini di colore venuti a salvarci. Forse degli avieri americani», dice. Innsbruck, Linz e Treviso. Le tappe prima del rientro a Udine. «Camminai per chilometri. Pensando di non poter riabbracciare la mia famiglia. La casa era stata bombardata, ma miracolosamente erano tutti salvi. La città era distrutta. Tutti piangevano qualche caro che non c’era più. Una ferita che non smetterà mai di sanguinare»
http://messaggeroveneto.gelocal.it/cronaca/2013/01/21/news/il-partigiano-norino-racconto-ai-giovani-l-orrore-buchenwald-1.6389758

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