Un uomo e tre numeri 1°

Enea Fergnani è nato a Cento (Ferrara) il 24 dicembre 1896. Studente a Bologna, in seguito si trasferisce all’Università di Milano e qui si laurea in Giurisprudenza.

Nel 1916 è arruolato in Cavalleria e partecipa alla prima guerra mondiale in trincea. Combatte sul Carso, in Carnia e sull’Altipiano di Asiago. Due volte ferito, fu decorato con una medaglia di bronzo e due d’argento sul campo. Nel 1920 fonda a Mantova la Sezione del Partito Repubblicano Italiano ed entra successivamente a far parte del movimento Giustizia e Libertà. Nel 1926, per sottrarsi alle continue persecuzioni dei fascisti, si stabilisce definitivamente a Milano. Arrestato nel 1913, è tradotto alle carceri di San Vittore, poi è trasferito a Fossoli, quindi nei campi di eliminazione di Mauthausen.

Nel 1945, dopo la liberazione dell’Oltre Danubio, fa parte del Comitato di Liberazione di Linz e dell’Alta Austria. Tornato in Italia, è tra i promotori dell’Associazione Perseguitati Politici Italiani Antifascisti. Nel 1946 è delegato, a Varsavia, al primo Congresso degli ex-Prigionieri Politici dei campi di concentramento germanici.

Deceduto nel 1978

A San Vittore

n.869

Uno stridore vicino di catenacci mi sveglia di soprassalto. Si apre una cella vicinissima alla mia. Odo il dialogo: « Presto, avanti, presto! ».

< Vengo subito. Debbo prendere anche le coperte, tutta la mia roba? ».

• Prendi la tua roba, ma le coperte no ».

• Ma dove mi mandano a quest’ora? ».

• Non so. C’è un autocarro fermo-alla porta ».

• Che ora è? ».

• Le due e mezzo ».

La polizia non conosce tregua, mai. In regime fascista la polizia è l’unico organismo pubblico che funziona e che ha sempre funzionato. Tutti gli altri rami della pubblica amministrazione sono infestati da semidei presuntuosi e infingardi. Sottratta al pubblico controllo e alla pubblica censura, la burocrazia è diventata onnipotente e la prima manifestazione della sua onnipotenza è l’ozio; ma la polizia fascista ha sempre lavorato e lavora con una tenacia e uno zelo che, se fossero rivolti al pubblico bene, sarebbero esemplari.

Nel carcere vi sono molti ebrei, uomini donne bambini. -Ieri ne sono partiti alcune centinaia per destinazione ignota. Un detenuto che ha assistito alla partenza mi ha detto che la vista di quegli infelici strappava le lacrime. Dopo settimane di maltrattamenti da parte delle SS che li sottoponevano a ogni sorta di sevizie, costringendoli talvolta a pulire il pavimento delle celle con la lingua e fustigandoli, sono stati indrappellati nei corridoi e dopo l’appello sono stati fatti salire su autocarri diretti alla stazione. E’ noto ciò che li attende. Dopo un lunghissimo viaggio in Germania dentro i carri bestiame piombati, i superstiti saranno trascinati in un campo di concentramento ed eliminati. Vecchi cadenti e bambini ancora lattanti, fanciulli spauriti, spose che nulla più sanno dei mariti, genitori che nulla più sanno dei figli; la colonna di sventurati come una mandria di animali è stata avviata verso il massacro.

Nel pomeriggio un ebreo sui cinquant’anni si è gettato dal terzo piano spaccandosi il cranio sul pavimento.

In serata le SS del carcere hanno offerto una cena ad alcuni loro collaboratori esterni italiani e tedeschi e a un garrulo stuolo di sgualdrine. Vi è stata una distribuzione straordinaria di vino anche ai militi di guardia al cellulare, alcuni dei quali hanno schiamazzato fino a tarda notte. Colpi di moschetto nei corridoi hanno reso più vivace la gaiezza delle camicie nere; calci negli usci delle celle e parole di minaccia urlate dentro agli sportelli hanno reso piú attraente il programma della serata.

Alle nove e mezzo del mattino tutto il sesto raggio echeggia del rumore di porte che si aprono, di grida, di passi affrettati. «Tutti fuori, tutti fuori! ». Dai piani superiori i prigionieri sono fatti scendere di corsa. Restano nelle celle, ma con l’uscio socchiuso, soltanto gli isolati. Le guardie sembrano impazzite. «Fuori, fuori! ». Ci fanno allineare nel corridoio. Arriva il caposquadra, arriva una SS, poi un’altra. I piú lenti sono sospinti. Alcuni di noi domandano che cosa sta per accadere. Le guardie non rispondono: visitano le celle per accertarsi che i non isolati siano usciti tutti. Noto su qualche viso i segni di una profonda emozione. Ecco giungere il maresciallo tedesco comandante del carcere, accompagnato da un interprete. Il maresciallo fa un lungo discorso a voce alta e vibrata. Lo ascolto incuriosito. Questo esemplare di facinoroso, che in questo carcere di tortura ha crapulato quasi tutta la notte in compagnia del capo dell’ufficio investigativo Bossi e di sgualdrinelle italiane, inveisce nel suo linguaggio strepitoso e perentorio contro noi tutti e minaccia fulmini perché troppi questa mattina hanno chiesto di essere visitati dal medico del carcere. La conoscenza della causa di tanto strepito solleva l’animo di tutti. Si temeva di peggio. Siamo tutti ostaggi: da un’ora all’altra venti, trenta, cinquanta di noi con estrazione a sorte o con estrazione di uno su dieci nell’ordine in cui siamo allineati, possiamo essere fucilati per rappresaglia se in città accadono disordini. La, rappresaglia è anche un comodo pretesto per sbarazzarsi di una parte di noi che siamo molti e presto saremo moltissimi

E’ notte. Dal finestrino senza vetri entra un’aria gelida. Le stelle sfavillano. L’alto silenzio è interrotto soltanto dal passo cadenzato della guardia nel corridoio e da un parlottare indistinto che proviene dal cortile. Improvvisamente odo il solito sinistro rumore di catenacci. Una cella non lontana dalla mia, ma dalla parte opposta del corridoio, si apre. Uno scalpiccio di grosse suole si arresta vicino alla cella aperta. Un tedesco urla alcune parole interrotte dai caratteristici colpi del bastone di gomma. Le urla del tedesco alterate, dallo sforzo di percuotere aumentano via via di intensità. Nelle brevi pause giungono al mio orecchio dei gemiti. Poi il rumore delle percosse e il vociare rauco e gutturale del seviziatore si affievoliscono perché ora giungono dall’interno della cella. Passano due o tre minuti; odo lo stridore del catenaccio che si richiude. Il tedesco dà rabbiosamente degli ordini che l’interprete traduce alla guardia di servizio. Odo dei passi pesanti che si allontanano. Tutto il raggio ripiomba in un silenzio sepolcrale. Ma ecco che ricominciano i gemiti, dapprima fiochi come se venissero fermati nella strozza, poi più alti, più nitidi, intramezzati da un mugolio lungo. Forse perché il prolungato silenzio che segue, promettendo al tormentato l’impunità, lo incoraggia a cercare così lenimento al suo soffrire, o forse perché egli vuol richiamare l’attenzione intorno alla sua pena, nella fiducia di muovere la pietà dei carcerieri, i suoi gemiti si ripetono sempre più lunghi e strazianti, i mugolii più profondi e più tetri. In una pausa si ode il rumore di un passo pesante che si spegne lontano e intorno il silenzio sembra farsi piú cupo. Allora il disperato lancia strida altissime che degradano in un ululato, come di lupo ferito a morte. Le varie voci dello strazio, della disperazione, dell’invocazione, dell’odio si alternano raccapriccianti. Vedo la bocca spalancata nel volto contratto, gli occhi dilatati nella semioscurità. Ancora un urlo, acutissimo, lacera l’aria. Poi il raggio piomba ancora nel silenzio. A quale tortura è sottoposto? Ne ho udito un altro urlare cosí. Gli avevano legato i polsi dietro la schiena, l’uno contro l’altro, cosí strettamente che ogni piú lieve movimento gli produceva un dolore acutissimo. E non è possibile restare immobili con quello strazio nelle carni. Questo genere di supplizio è tra quelli preferiti dai tedeschi perché si prolunga a volontà senza sorveglianza e senza fatica. In questo carcere italiano è stato introdotto da loro alla metà di settembre. Fino a quando?

Intanto un altro ebreo si è sfracellato gettandosi dall’ultimo piano. E’ stato portato nella ex cappella del carcere dove è spirato dopo alcune ore. Il Comando ha proibito ai medici e agli infermieri di prestargli un qualunque soccorso.

A mezzogiorno partirà per la Germania un altro convoglio di ebrei. Essendo domenica doveva esserci distribuita la solita fetta di carne, ma di cella in cella è corsa la proposta di offrirla ai partenti. In tutto il sesto raggio la proposta è stata accolta con entusiasmo. I derelitti che una persecuzione inumana vuole sterminati, sentiranno la nostra solidarietà e il lugubre viaggio parrà loro forse meno crudele. I detenuti ammalati ammessi al vitto speciale hanno rinunciato anche al latte a favore dei bambini. Anche la metà del nostro pane è stata offerta ai partenti. La distribuzione è stata iniziata quando già le SS tedesche avevano adunato gli sventurati per l’appello. L’unanimità della manifestazione ha impedito alle canaglie hitleriane di vietarla ed esse si sono allontanate. La loro presenza non ha profanato la bellezza dell’atto compiuto.

Un altro prigioniero è stato trovato impiccato all’inferriata della propria cella. Aveva già manifestato la sua decisione a un amico e l’ha attuata con stoicismo. Era ritornato dall’ultimo interrogatorio col volto sfigurato dalle battiture e con alcune dita fratturate, ma non aveva parlato. La sua volontà era stata più forte della ferocia dei suoi aguzzini. Ma sotto l’acuirsi dei tormenti la volontà anche più ferrea può vacillare, una parola può sfuggire. Non ha atteso la nuova prova; tra lui e i suoi seviziatori ha voluto porre il silenzio definitivo della morte. E nella notte, con le sue mani rotte, si è preparato il nodo scorsoio; ha appeso uno dei capi della fune alla sbarra più alta dell’inferriata; ha constatato che i suoi piedi, per quanto accorciasse la fune, avrebbero toccato il terreno. Allora ha introdotto il capo nel nodo, ha abbandonato il corpo alla stretta mortale, e ha tenuto le gambe rattratte fino all’ultimo soffio di vita.

Aveva vent’anni.

Nella gerarchia degli eroi quale posto occupa questo giovane del quale ignoro il nome vero, che ha ucciso il suo corpo affinché non potesse diventare il nemico della sua anima?

Lo mani scellerate dei seviziatori gronderanno ancora di altro sangue, ma neppure una stilla di quel sangue cadrà invano.

In ogni cella del sesto raggio oggi si celebra lo splendore del sangue e la bellezza del sacrificio

Da “Un uomo e tre numeri”

Di Enea Fregnani

Edizioni Avanti 1955

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