Archivio mensile:luglio 2012
Giuseppe Martini, “Paolo”
Giuseppe Martini, “Paolo”
«Un gappista fra i migliori», così fu definito Giuseppe Martini (nome di battaglia, “Paolo”) da Cesare Massai. Nonostante l’importanza delle sue azioni svolte nei primi mesi del 1944 a Firenze e a Siena, “Paolo” è uno dei protagonisti meno noti della Resistenza toscana e in particolare fiorentina.
Un paio di anni fa, sul «Corriere di Siena» (28 luglio 2008), è uscito un articolo nel quale veniva attribuita a Martini una serie di esecuzioni di figure più o meno rilevanti del fascismo senese, senza fornire alcun documento concreto a sostegno di questa tesi.
Poiché Martini, come risulta dalle testimonianze dei compagni di lotta, operava in stretta osservanza alle direttive dei suoi superiori, non è sostenibile che egli abbia agito in modo autonomo per condurre una lotta personale contro i fascisti, cioè per un impulso omicida più che per motivazioni di carattere politico-militare. La personalità rigorosa del gappista “Paolo” è riassunta bene da Gianni Zingoni, il biografo di Fanciullacci, quando lo descrive come: «tiratore scelto dei gap, freddo, risoluto come nessuno, al punto da fare qualche volta paura agli stessi compagni, ma di estrema sicurezza per ogni evenienza, non si ricorda in lui il minimo dubbio od il minimo cedimento».
Nato nel 1923 a Bibbiena da una famiglia antifascista, Martini mostrò fin da giovanissimo la sua avversione al regime. Arruolato per il servizio di leva nella Marina nel 1942, disertò nell’agosto del 1943 per entrare nella lotta clandestina, introdotto nell’organizzazione dei GAP dal partigiano Gino Tagliaferri. Come gappista compì azioni sia a Firenze che a Siena. Partecipò ai GAP che liberarono Bruno Fanciullacci l’8 maggio e Tosca Bucarelli il 9 luglio 1944. Dopo la Liberazione fu in Cecoslovacchia fino al 1954, collaborando alla trasmissione del programma “Oggi in Italia” di Radio Praga. Morì nel 1999.
“Paolo” fu il solo a tentare un attentato al maggiore Carità, capo dell’omonima squadraccia che imperversava a Firenze. Si appostò all’angolo tra Borgo Pinti e via Giusti e sparò verso piazza D’Azeglio, dove abitava Carità, ma non riuscì a colpirlo.
Carità quello dopo il cane
Inoltre di “Paolo” vanno ricordate in particolare due azioni. Martini partecipò all’attentato al colonnello Italo Ingaramo dimostrando di possedere una sicurezza e prontezza di riflessi indiscutibili. Ingaramo era il comandante della 92a legione, alla quale afferiva anche il Reparto Servizi Speciali di Carità. Alloggiava all’Albergo Arno sul Lungarno degli Acciaiuoli ed ogni mattina si recava al suo ufficio intorno alle nove, nove e mezzo, a bordo di un auto guidata da un milite. La mattina del 29 aprile Antonio Ignesti e Martini passeggiano sul marciapiede in attesa che arrivi l’auto e Ingaramo esca dall’albergo. Di fronte sulla spalletta che dà sull’Arno vi è un altro gappista, pronto a intervenire se ce n’è bisogno. Un altro ancora, Luciano Suisola, si trova invece in un vicolo a fianco dell’Albergo la via di fuga per Ignesti e Martini. Alle nove e mezzo arriva la macchina guidata dallo squadrista Giuseppe Ciantelli. L’autista apre la porta e poco dopo esce Ingaramo che sale subito in macchina. Ma i gappisti sono veloci: Ignesti colpisce l’autista e Martini spara a Ingaramo attraverso il finestrino abbassato. Sopraggiunge un milite fascista, ma Martini, calmo e preciso, lo elimina. Poi Ignesti e Martini fuggono via lungo il vicolo, mentre Suisola tira fuori una bomba e la lancia verso il Lungarno per coprire la fuga dei compagni. Ingaramo morirà il 10 maggio.
L’altra azione di rilievo di “Paolo” riguarda la partecipazione all’esecuzione del filosofo Giovanni Gentile. Martini stesso dette di recente la sua testimonianza personale su questo episodio della Resistenza fiorentina in una intervista concessa allo storico Paolo Paoletti (riportata nel libro Il delitto Gentile, Le Lettere, Firenze 2005). Martini chiarì che il commando era formato da cinque gappisti (oltre a lui, erano presenti Fanciullacci, Ignesti, Serni e Suisola) e che a sparare a Gentile furono egli stesso e Fanciullacci. Inoltre è importante, tenuto conto delle varie polemiche e interpretazioni cui ha dato adito l’esecuzione di Gentile, che Martini mise in evidenza da chi era venuto l’ordine di procedere all’uccisione del Presidente dell’Accademia d’Italia: «L’esecuzione di Gentile non fu decisa dal Gruppo A di cui facevo parte [cioè, il GAP di appartenenza], a noi arrivò solo l’ordine di eseguire l’azione. Secondo me il fatto che nella mia cellula si sia discusso di eliminare Gentile insieme a Massai, il vice di Gaiani, cioè il responsabile dei GAP, e con Fontani, non significa automaticamente che l’idea sia partita da loro due. La mia impressione fu che l’ordine di giustiziare Gentile venisse da più in alto e che Fontani e Massai ci avessero portato quell’ordine che in realtà avevano ricevuto da altri, ma siccome per sicurezza nostra e degli altri era meglio sapere il meno possibile, non facemmo mai domande».
Questa dichiarazione dimostra il carattere dell’uomo che, convinto della sua scelta di lotta, non esita a mettere a disposizione della organizzazione dei GAP la sua determinazione e le sue qualità operative per arrivare ad una società di liberi. Da questi elementi nascevano le scelte degli antifascisti anche nel primo dopoguerra. Gli uomini, che sceglievano di lottare come gappisti in città o partigiani nelle campagne e nelle montagne, si inserivano in organizzazioni che coordinavano le azioni, davano la sicurezza possibile e lasciavano ai ruoli personali solo le capacità di svolgere al meglio gli incarichi ricevuti.
Il revisionismo storico, grazie al suo potere mediatico, accusa di individualismo sanguinario chi cercava di contenere le continue violenze dei nazisti, dei fascisti in generale e dei componenti delle bande di Carità, della X MAS, ecc. I gappisti però non potevano che evitare lo scontro frontale col nemico e usavano l’agguato e la sorpresa per eliminare persone e cose al fine di indebolire, anche nel morale, lo stato autoritario e violento.
Anche oggi la lotta contro una dittatura o uno stato, che sempre più pratica misure autoritarie, può essere condotta con un’organizzazione unitaria antifascista, che puntuale denuncia gli abusi di potere con la controinformazione, ma anche tenendo vivo nelle donne e negli uomini liberi quel senso di ribellione alle ingiustizie, all’indifferenza, alla rassegnazione che permetterà di essere antifascisti militanti e di lottare con ogni mezzo necessario e proporzionato alla gravità delle condizioni.
Si ringrazia Antonietta Martini per la collaborazione nella raccolta delle informazioni sul padre “Paolo”.
http://www.anpioltrarno.it/notizie/allegati/I%20GAP%20a%20Firenze.pdf
Alessandro Sinigaglia
Alessandro Sinigaglia
Nato a Firenze nel 1902, ucciso nel capoluogo toscano il 13 febbraio 1944, meccanico, Medaglia d’argento al valor militare alla memoria.
Nel 1926, tornato a Fiesole dopo aver svolto il servizio militare in Marina come sommergibilista, Sinigaglia (che lavorava come meccanico) aveva aderito al movimento comunista clandestino. Due anni dopo, per evitare di essere arrestato, fu costretto a espatriare in Francia. Di qui il giovane operaio fiorentino passa in Unione Sovietica, frequenta una scuola di partito, torna al suo lavoro di meccanico e si sposa. Una parentesi in Svizzera, per organizzarvi comunisti italiani fuoriusciti, poi (dopo l’aggressione di Francisco Franco alla Repubblica popolare), Sinigaglia accorre in Spagna. Partecipa alla guerra civile, come ufficiale a bordo di un incrociatore repubblicano, e si distingue bonificando il porto di Barcellona minato dai franchisti.
Nel 1940, l’antifascista italiano (che è riparato in Francia con i reduci delle Brigate Internazionali), è arrestato dalla polizia francese, che lo consegna alle autorità fasciste. Confinato a Ventotene, Sinigaglia riottiene la libertà nell’agosto 1943, dopo la caduta di Mussolini. Alla proclamazione dell’armistizio torna in Toscana e qui (col nome di battaglia di "Vittorio"), comanda una delle prime formazioni gappiste che ha organizzato a Firenze. Pochi mesi dopo, caduto in una imboscata dei repubblichini della Banda Carità, è abbattuto sulla porta di una trattoria in via Pandolfini. Una lapide lo ricorda oggi nel luogo dove fu trucidato; il suo nome è inciso anche con quelli dei partigiani caduti del comune di Firenze e nel Sacrario dei partigiani fiorentini a Rifredi
Raffaello Ramat – Diurno e notturno
Raffaello Ramat
DIURNO E NOTTURNO
Raffaello Ramat, nato a Viterbo nel 1905, professore di lettere e critico. A stato condirettore della rivista antifascista « Argomenti ». Attivo organizzatore e propagandista della corrente liberalsocialista dapprima e del Partito d’Azione dopo, fu arrestato dalle S.S. Ha combattuto nella Brigata « Sinigaglia » in cui era noto sotto il nome di Maurtias.
Il 10 piovve. All’Antella le gore crosciavano. Bene: il mulino ad acqua poteva funzionare. Quella era la mia preoccupazinne maggiore. Avevamo ottenuto che gli Inglesi sgombrassero la stanza delle macine ove avevano fatto dormitorio : e l’indomani pensavamo di macinare. Ma quei ragazzi avevano appuntamento a Firenze per la mattina. Torniamo stasera —dicemmo (io tornai dopo tre mesi) e la mattina dell’11 alla levata dal sole, ci incamminavamo insieme a passo accelerato, verso la città. Cammin facendo la compagnia si ingrossava. Al Ponte a Ema eravamo già un bel gruppo. Ugo della Tonga mi raccontava le sue avventure, dal giorno che l’avevo lasciato nel carcere alle Murate : una bottiglia di benzina sparsa nel camion che portava al Nord lui e compagni, un fiammifero, e fuga. Silvano Peruzzi mi dava informazioni sugli avvenimenti del paese. La campagna era fresca come di primavera; riconoscevo le strade della mia adolescenza, ma pensavo che qualcuno di noi non l’avrebbe più percorsa al ritorno. Prima di arrivare a Poggio Imperiale piegammo a sinistra, scendemmo nella piana, arrivammo alle Due Strade. Il circolo fascista era diventato caserma partigiana. Non vi erano che due o tre uomini: blandivano con parole evasive una povera donna che cercava il figliolo, non avevano il coraggio di dirle che il giorno prima era morto. Fucili, munizioni, bombe ce n’erano: empii le tasche e la blusa, mi cinsi di una cartuccera, scelsi con cura un moschetto e via.
4 Agosto 1944 la Brigata Sinigaglia entra a Firenze
Da Porta Romana entrammo a Firenze. I compagni della « Sinigaglia » aspettavano vicino alla scuola « Mazzini ». E sole era già alto e non ci si muoveva ancora. Delle ragazze portavano fiaschi di acqua : si beveva come spugne : l’attesa ci consumava gli umorì, eravamo tutti aridi di attesa. Gli Alleati non ci consentivano di passare l’Arno. -Due corrispondenti di guerra canadesi girellavano fra noi, e fotografavano. In America forse dal tempo delle guerre di secessione non han visto facce come le nostre! Finalmente arriva una staffetta: Prima Compagnia! Seconda Compagnia! Terza Compagnia! Sì va. I borghesi ci guardano un po’- smarriti. In tutti c’è il senso della frontiera, si sta per passare la frontiera. Di qua c’è un mondo, di là un altro: qui il passato è passato, di là è ancora presente — ci sono i tedeschi, ci sono i fascisti ancora. L’Arno corre fra due terre e due età ben distinte – qui la libertà, l’Italia, il popolo, di là la schiavitù, la marca tedesca, il gregge. Svicoliamo ed eccoci, sul Lungarno. Un attimo il cuore sbigottito si ferma: Ponte Santa Trinita -non c’è più.
Il corso del fiume che l’abitudine della memoria non consentiva di immaginare se non regolato nella inquadratura dei tre archi — piegato anch’esso dalla forza della civiltà — ora sembra avere rotto quel freno; è barbaro, è straniero — non e più fiorentino. L’acqua scomposta che schiuma tra le macerie. Al di là, Ponte Vecchio, bloccato dalle rovine fumanti. Ancora di là, i poggi, l’Appennino, la montagna serena, che ha nascosti i figli d’Italia per un anno, perchè oggi potessero passare l’Arno con un buon fucile in mano.
E’ una mattinata senza macchia: un silenzio fresco, nessuna voce umana; non c’è èhe il gorgoglio del fiume, lo scroscio della pescaia di Santa Rosa che attraversiamo. Attenzione: le pietre sono viscide. In fila, indiana procediamo cautamente il piede sinistro va mezzo orizzontale, il destro verticale, come quando, pattinando, si vuol frenare. L’acqua fa forza contro i malleoli: attenzione a non perdere l’equilibrio. Ho dei sandali vecchi, mi sembrano una pappa che fasci i piedi. Avanti, strisciando. Ogni tanto una voce, dalla testa della lunga colonna: « Attenti, c’è un filo! ». Sono mine. Dietro a me c’è uno dei corrispondenti canadesi. Nei momenti di sosta fa fotografie: e quando l’acqua è più impetuosa, si aggrappa alle mie spalle, m’afferra la mano, convulso.
La traversata non finisce mai. Non credevo che l’Arno fosse così largo.: siamo sospesi fra due punti della storia. Se mi volto indietro, a guardar la spalletta da cui siamo discesi, ho il senso che laggiù si viva una vita che è appena un’ombra nella memoria. E dalla parte opposta non so cosa ci aspetti: c’è un gran silenzio, una solitudine notturna, benché il sole sia alto, e le case, le chiese, le torri, si disegnino nitide nel cielo limpídissímo. I primi sono arrivati. Di là hanno calato una scala: qualche uomo la regge solidamente: i nostri salgono. Mi batte il cuore, come se assistessi ad uno spettacolo drammatico. Finalmente tocca a me; l’acqua sbatte contro, il muro, si rovescia violenta, fa forza. Mi attacco a un piolo, do la mano al mio canadese; e quando lo vedo ben saldo afferrato alla scala, salgo. Rido tutto. Sento l’aria di casa mia. Sono sopra- tutto soddisfatto — come se avessi beffato i miei neníci — di ritornare, così a Firenze da dove ero scappato due mesi prima (come un ladro: e carezzo il calcio del mio moschetto. Allora sentimmo, di lontano, qualche raro colpo di fucile. Ora tocca a noi. Cì dividemmo in squadre e incominciammo.
Al buio ci accasermarono in Via Garibaldi, nelle scuola « Rossini » e riposammo in letti che altra volta ho deseritto: ogni letto era fatto di due pezzi di poltrona del « Teatro Comunale »
rettangolari; ma di spessore diverso nei lati minori : si accostavano nei lati più schiacciati, sì che piedi e testa erano più alti della parte mediana del corpo, il quale si trovava a formare una sorta di lettera V. Ma non dormimmo: eravamo a ventre vuoto o quasi: e la situazione militare era pericolosa. A difesa della città liberata c’era appena un vela di partigiani, armati molto sommariamente; se i tedeschi avessero fatto, una discesa in forza, con carni armati, mortai, cannoncini et similia, di noi non sarebbe rimasto che la cenere. E la ritirata non era impresa facile. Di ripassare l’Arno, di notte, nemmeno pensarci: saremmo stati bersaglio sicuro e magnifico per i nemici — ripiegare verso il centro, semmai, e difenderci strada per strada.
Certo era che non ci saremmo lasciati beccare come passerotti; ne avremmo lasciato tanto facilmente campo libero.
Intanto, attenzione a non essere íntrappolatí: e aspettare il giorno, perché a giorno sarebbero arrivati gli Inglesi con le autoblinde, gli Americani con i carri armati…. Dalle nostre parti vedemmo il primo reparto alleato cinque o sei giorni dopo : erano gurkha, una ventina, che procedevano cauti di cantonata in cantonata, affacciandosi col mitra puntato, attraversavano uno alla volta, correndo, le strade…. Facevano, insomma, come avevamo fatto noi cinque o sei giorni prima, quando i franchi tiratori erano ancora in agguato anche per quelle strade. ma per fortuna ora là ci si viveva tranquìlli se non fosse stato per le cannonate.
Dunque, aspettar giorno, e fare buona guardia. Chi stava nelle camerate, tendeva l’orecchio ai passi di fuori. Si sentiva la voce della sentinella: « Chi va là! » e la risposta di Gracco che instancabile, perlustrava « Sinigallia ». Lunghe raffiche di mitraglia, a poche centinaia di metri. Un rombo di aeroplano, amichevole e confortatore. Accanto al letto, fucile, cartuccera, bombe: se la stanchezza chiudeva gli occhi, un rumor di passi, un colpo, destava : e la mano correva all’armeria prima ancora che il cervello si rendesse conto. di che si, trattava. lo mi ero messo in nota per la guardia notturna alla porta: m’ero accordato per fare il turno con Silvano, allora più noto col nome di Astro. Del nostro plotone — ove erano tutti ragazzi generosi — lui, senza dubbio, era il migliore, per intellìgenza, per volontà, serietà morale. Antiche erano le nostre discussioni filosofiche politiche (finìremo solo quando uno dei due — logicamente tocca a me, che son più vecchio, — se n’andrà da questo mondo), così come di molte stagioni era la nostra concordia intorno a certi punti fondamentali sui quali si era costruita la nostra amicizia.
Mi accorgo ora che di, quella notte di guardia, che pur costituisce per me un ricordo vivissimo e importante di quel periodo, non ho nulla, o quasi nulla da raccontare. C’era un lume di luna stupendo; così attraente e tranquillo che anche le fucilate non lo turbavano. In mezzo a quel chiarore suonavano umiliate, scontente, di controvoglia. Noi ci abbandonavamo alle nostre care discussioni; bisbigliando, guardando continuamente nel buio delle ombre che tagliavano nette il riflesso lunare tendendo l’orecchio ad ogni fruscio — sdoppiati: i sensi eran desti ed acuti alla guerra, ma l’anima se ne andava per conto suo, a ricordi a progetti, a speranze. Parlavamo, naturalmente di politica: ma più che alla difesa polemica di idee particolari a noi. care, eravamo intenti a sentire la gioia dell’assenso nostro a certi problemi, umani che sembravano
lavati, illuminati, da quel gran chiaro di luna: e ce li ponevamo con una fiducia che non avevamo forse mai provato, Rifare gli uomini: dedicarsi con tutta umiltà e volontà a rieducarli, rinnovarli, a forza d’amore : punto di arrivo e punto di partenza.
Cí illudevamo che tante cose dì essi si fossero dissolte al suono della campana del Bargello — che l’anima nostra stessa fosse più sgombra di quanto in realtà non era — e che la via fosse libera alla costruzione del nuovo domani. Ci illudevamo: ma non importa: idealmente dobbiamo cominciare la vita nuova con 11 di Agosto. Mi ricordavo, di un’altra notte di luna dopo l’8 Settembre. All’Antella, con Silvano, e con molti altri ragazzi che ora erano con noi; avevamo passato una notte all’aperto, nei campi, al limite dei boschi, poiche si diceva che i fascisti avevano riaperto la caccia.
Preludio di vita partigiana. Per vie diverse, con avventure ora annodate, ora indipendenti, eravamo arrivati alla stessa, conclusione: la logica ci aveva portato spalla a spalla nella battaglia di Firenze, a far la guardia insieme al chiaro di luna.
Poichè Silvano non era un letterato, ma un operaio, studente, fìglio, di un calzolaio, fu molto, naturale che finissimo col parlare di poesia — e che io dicessi, sommessamente. i Sepolcri, Foscolo, quasi suggello, della nostra discussione politica. Né il guardar e l’ascoltar attentissimo, sviò il nostro pensiero da quello che più importava. Domani potevamo non essere più; era necessario affermare che ad ogni modo qualcosa ci sarebbe ancora stato, che avrebbe parlato anche per noi.
Ove fia santo e lagrìmato il sangue, — per la patria versato, e finche il Sole — risplenderà su le sciagure umane.
Caro Silvano, io mi auguro un’altra notte di guardia al chiaro di luna con te.