Archivio mensile:Maggio 2014

Luigi Accattoli – “La strage di Farneta”

“La strage di Farneta”

È la storia sconosciuta dei dodici certosini fucilati dai tedeschi nel 1944.

Luigi Accattoli scrive nella premessa che, in queste pagine, racconta un fatto primario della reazione italiana all’occupazione tedesca e, forse, il più corposo dal punto di vista cristiano.

I monaci avevano nascosto nel monastero della Certosa di Farneta (Lucca) un centinaio di ricercati dai nazifascisti: perseguitati politici, partigiani ed ebrei. Fatti prigionieri dalle SS, nella notte tra l’1 e il 2 settembre 1944, condotti prigionieri a Nocchi di Camaiore e, poi, a Massa, furono uccisi a piccoli gruppi e in diversi luoghi, tra il 7 e il 10 di quel mese, insieme a trentadue persone che erano state accolte nella Certosa: in parte perché ritenuti colpevoli di resistenza all’occupante, alla pari dei monaci; in parte “selezionati” per fare numero in operazioni di rappresaglia, insieme a decine di altri rastrellati in quelle giornate di ritirata delle truppe tedesche.

Per Accattoli, straordinari aspetti simbolici arricchiscono la vicenda: i dodici vengono da sei Nazioni, hanno età diverse, portano con loro esperienze singolari. Tre sono di lingua tedesca (ciò non servì a salvarli); uno era stato vescovo in Venezuela (ne era stato scacciato da un dittatore e i nazisti lo consideravano una “spia americana”); un altro era spagnolo e, in patria, otto anni prima, si era avventurosamente salvato da un analogo assalto alla Certosa di Montalegre, da parte dei “rossi”.

I nomi dei dodici certosini sono elencati nel libro, nell’ordine in cui furono fucilati. I primi due il 7 settembre 1944, sulle pendici di Montemagno: Martino Binz, sacerdote, svizzero di lingua tedesca, e priore della comunità dal 1940; Bernardo Montes de Oca: era stato vescovo di Valencia (Venezuela), ma è solo un novizio. È l’unico dei dodici a non essere sepolto nella Certosa: i suoi resti, riconosciuti solo nel febbraio 1947 dai frammenti del breviario ritrovati nel luogo della fucilazione, sono stati portati in Venezuela e sepolti nella cattedrale di Valencia. È anche l’unico ad avere avuto fin d’allora onoranze di martire, prima a Lucca, poi a Roma e, infine, in patria.

Tra gli altri dieci certosini fucilati, spicca la figura di Gabriele Maria Costa, sacerdote, “procuratore” della Certosa dal 1942. È l’unico tra i confratelli a sapere tutto dell’opera di accoglienza dei ricercati e ad avere la piena percezione del rischio che ciò comporta; il “procuratore”, infatti, è l’economo della Certosa, il responsabile delle attività dei “fratelli” laici che conducono i lavori agricoli e artigianali del monastero, il gestore delle proprietà della comunità al di fuori del muro di cinta; l’unico a curare le relazioni con l’esterno, comprese – nel suo caso – quelle necessarie al soccorso prestato agli ebrei e ai perseguitati. Per questi impegni, più volte, nei mesi dell’occupazione tedesca, era uscito dalla Certosa in abiti borghesi, per non esporre la comunità monastica ai rischi che correva.

Sue sono le parole che, confidate durante la prigionia ai monaci sopravvissuti, esprimono una perfetta consapevolezza della situazione: “Se veniamo uccisi voi dite che è stato a causa della carità”.

Per l’accoglienza degli ebrei è in contatto con Giorgio Nissim. È amico di Gino Bartali, attivo anche lui nell’opera di salvataggio degli ebrei. Durante il periodo trascorso nella Certosa di Firenze (1929-1933) conobbe Giorgio La Pira, di cui fu confessore e che scrisse la prefazione della biografia di San Bruno, pubblicata da padre Costa con lo pseudonimo di A.Mariani, non essendo permesso ai certosini di apparire come autori di pubblicazioni. L’intelligenza collettiva, scrive ancora Accattoli, in relazione ai fatti di Farneta, ha trovato un’espressione compiuta nella motivazione della medaglia al merito civile, assegnata dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel 2011: “Comunità conventuale sempre occupata nel soccorso dei più deboli, durante l’ultimo conflitto mondiale, con spirito cristiano ed encomiabile virtù civile, si prodigava offrendo aiuto ai perseguitati, agli ebrei e a quanti sfuggivano ai rastrellamenti. Subiva la feroce rappresaglia da parte dei soldati tedeschi che pure aveva accolto, sacrificando la vita di numerosi suoi Certosini, separati dai confratelli, deportati e dispersi. Nobile esempio di grande spirito di sacrificio e di umana solidarietà”.

La riservatezza dei Certosini sull’accaduto e il “conflitto interpretativo” dell’evento (tra chi lo percepiva in chiave “resistenziale” e chi come “opera di carità”) hanno impedito che questa tragica storia fosse conosciuta dal grande pubblico. Luigi Accattoli ha ottenuto dall’Ordine Certosino l’autorizzazione a pubblicare un documento riservato e, fino a oggi, inedito: la “Relazione sul martirio dei monaci di Farneta, uccisi dai tedeschi nel settembre del 1944, redatta da un monaco certosino nel 1999, su richiesta della Pontificia Commissione per la Commemorazione dei Testimoni della Fede del secolo XX, che si tenne al Colosseo, domenica 7 maggio 2000, nell’ambito del Grande Giubileo dell’anno Duemila”. Accattoli ha raccolto anche le testimonianze dirette degli ultimi protagonisti dei fatti.

Luigi Accattoli, giornalista del “Corriere della Sera” dal 1981; dal 1975 al 1981 ha lavorato alla “Repubblica”. Collabora alla rivista “Il Regno”. Nel 2011 ha pubblicato un volume sul mondo delle Certose.

La Guardia Rossa

La guardia rossa
Quel che si avanza è uno strano soldato
viene da Oriente e non monta destrier
la man callosa ed il viso abbronzato
è il più glorioso fra tutti i guerrier.
Non ha pennacchi e galloni dorati
ma sul berretto scolpiti e nel cor
mostra un martello e una falce incrociati
gli emblemi del lavor
viva il lavor.

È la guardia rossa
che marcia alla riscossa
e scuote dalla fossa
la schiava umanità.

Giacque vilmente la plebe in catene
sotto il tallone dei ricco padron
dopo millenni di strazi e di pene
l’asino alfine si cangia in leon.
Sbrana furente il succhion coronato
spoglia il nababbo dell’or che rubò
danna per fame al lavoro forzato
chi mai non lavorò
non lavorò.

È la guardia rossa.
.che marcia alla riscossa
e scuote dalla fossa
la schiava umanità
.
Accorre sotto la rossa bandiera
tutta la folla dei lavorator
rimbomba il passo dell’immensa schiera
sopra la tomba di un mondo che muor.
Tentano invano risorgere i morti
tanto a che vale lottar col destin
marciano al sole più ardenti e più forti
le armate di Lenin
viva Lenin.

È la guardia rossa.
.che marcia alla riscossa
e scuote dalla fossa
la schiava umanità

Quando alla notte la plebe riposa
nella campagna e nell’ampia città
più non la turba la tema paurosa
del suo vampiro che la svenerà.
Ché sempre veglia devota e tremenda
la guardia rossa alla sua libertà
la tirannia cancrenosa ed orrenda
più non trionferà
trionferà.

Ché la guardia rossa
già l’inchiodò alla fossa
nell’epica riscossa
dell’umanità.

La macchina non parte: scontro con i nazisti

I diari, le storie, le memorie
Nel Valdarno partigiano
La macchina non parte: scontro con i nazisti

Dev’essere stato un inferno quella sera a S. Maria. Quando la staffetta giunse al comando partigiano per segnalare che vi erano delle armi da recuperare a Bruscosa, si decise di mandare “Cecco” a preparare l’azione.
“Cecco”, il giovane marinaio antifascista che da poco tempo si era trasferito a San Giovanni e per questo sconosciuto ai fascisti locali. Quando scendeva dalla montagna e si metteva il vestito a doppio petto che teneva in serbo dal contadino di sotto, sembrava un altro.
L’appuntamento era per le 21,00 al ponte sull’Arno, ma Oliviero, il “Cocco”, quando c’era da fare contro i tedeschi e i fascisti aveva sempre furia; il suo entusiasmo era dovuto sì al suo antifascismo, ma molto dipendeva dalla dura lezione che a suo tempo gli avevano impartito i fascisti quando l’avevano arrestato, e solo Dio sa come aveva fatto ad uscirne vivo. Per questo
la macchina della pattuglia partigiana arrivò all’appuntamento con mezz’ora di anticipo.
Aveva una storia quella Peugeot a sei posti, vanto dell’industria francese, nonostante le
svastiche e le insegne del comando nazista che gli rattristavano l’aspetto, era veramente
una bella macchina. “Cecco” la riconobbe subito. Pensò che probabilmente i tedeschi (prima che la prendessero i partigiani della “Sinigaglia” con a bordo un colonnello e un maggiore della Whermacht con una stazione radio, più carte geografiche inerenti la linea difensiva Gotica)
l’avevano presa a qualche ricco signore.
“Cecco” ricordò che i due alti ufficiali erano stati scambiati con degli ostaggi in mano ai tedeschi. La macchina ora era lì sul ponte, ma quante scorribande per le strade del Valdarno e quante raffiche di mitra contro le colonne tedesche! Valeva un bel po’ quell’automobile; su di essa vi
era una taglia di 500.000 lire, qualcosa come 50 milioni di oggi. Un volo in Arno di tutta la complessa segnaletica stradale scritta in tedesco e via, verso Bruscosa.
Il cielo era nero e si preparava una grossa tempesta; alla luce dei lampi che si facevano
strada nel buio della notte, fra le prime gocciole d’acqua, si potevano intravedere i partigiani di pattuglia. “Ragù”, un francese, era al volante con l’immancabile rivoltella dall’enorme tamburo ed una grossa bomba anticarro alla cintola. Anche gli altri: il “Cocco”, “Cecco”, “l’Arrapato”,
“Dario”, “Memo”, “l’inglese”, “Annibale” il sudafricano, erano armati chi con lo Sten, chi con lo Schmeisser, la “machinepistole”, chi con il 91, chi con la Beretta.
Il “Cocco”, “Annibale” e “Memo”, nel loro travestimento da ufficiali tedeschi, spiccavano fra gli altri per le loro greche e i gradi.
Al ponte di S. Maria la strada si fa più stretta: da una parte un torrente colmo d’acqua, a monte una scarpata e i campi verdi verso la fattoria. La macchina dei partigiani avanzava alla fioca luce dei fanali schermati quando improvvisamente un segnale ondeggiante indicò la presenza di un posto di blocco tedesco. “Ragù” fermò la macchina ed il motore si spense. Il “Cocco”, con addosso l’impermeabile da ufficiale nazista, scese per rendersi conto dell’ostacolo. Imprevedibilmente, una colonna di SS della Hermann Goering si era accampata da poche ore nella zona. Gli automezzi bloccavano la strada. Una sentinella salutò il “Cocco” sull’attenti. Questi tornò verso la macchina per riferire. Si decise di tornare indietro. Un cenno a “Ragù” che capisce ed aziona subito la
messa in moto, ma invano. 1, 2, 3, 10 volte… le batterie sono scariche.
I partigiani scendono provando a mettere in moto a spinta, mentre la sentinella rivolge alcune parole ai partigiani in uniforme tedesca, ma questi non capiscono e la ignorano. La macchina entra finalmente in moto ma è troppo tardi e la sentinella, insospettita, sta gridando l’allarme. Lo scontro è inevitabile. È difficile dire cosa avvenne in quei pochi ma lunghissimi istanti: i tedeschi accorrono da tutte le parti, si accende una mischia furibonda, sparano all’impazzata, ma a causa della macchina con le insegne tedesche e dei partigiani travestiti hanno le idee confuse. I partigiani invece riconoscono bene chi è il nemico e dopo aver esaurito le munizioni si
sganciano eclissandosi nella notte tempestosa.
Alcuni si gettano nel torrente in piena e si lasciano trasportare a valle dalla corrente, gli altri si
lanciano tra i campi. Gli sfollati alla Badiola, soprastante S. Maria, parleranno dopo di una
notte d’inferno, di centinaia di raffiche di mitra, del terrore dei tedeschi per i partigiani e dei tentativi di rappresaglia.
Tre tedeschi restano uccisi nel combattimento e molti altri feriti. I partigiani nel giro di tre
giorni rientrano tutti alla loro base.
Questo è il bilancio di un’azione che ha del romanzesco. I superstiti si ritrovano, parlano della più spericolata azione partigiana fino allora mai fatta. “Ragù” riceve le congratulazioni mentre era in corso il combattimento lui aveva continuato imperterrito a guidare a marcia indietro prima di dover abbandonare la macchina. Il “Cocco” è stato il più impegnato ed è anche il più malconcio;
è stato colpito al torace con il calcio di un fucile, il che gli ha procurato una terribile contusione che lo farà soffrire per molti anni e che sarà in futuro causa della sua morte.
Una domanda corre alla mente. Come fecero i partigiani e in particolare gli stranieri ad orientarsi, a sfuggire alle maglie dei rastrellamenti e a tornare in formazione? Furono aiutati,
nascosti e sfamati dagli abitanti della zona che, pur sapendo quale sorte avrebbero subito se fossero stati scoperti dai fascisti, non esitarono a dare tutto il loro aiuto ed anche a rischiare la loro vita per la causa della libertà.
È questo il motivo più forte del successo della Resistenza. Una grande comunione di intenti, le stesse speranze, gli uguali propositi dei partigiani e di tutto il popolo per scacciare i nazifascisti, per creare per tutti un avvenire migliore. I tedeschi ed i fascisti sapevano e capivano quanto fosse per loro pericolosa la grande solidarietà che legava i partigiani al popolo e fecero di tutto perché questa solidarietà venisse a mancare.
I miserandi, efferati, barbari delitti, le stragi come quella di Castelnuovo e di Meleto, non trovano una giustificazione se non si ricollegano all’opposizione dei lavoratori del Valdarno al sorgere del fascismo. Come il glorioso affermarsi della Resistenza è stato possibile grazie al contributo
di tutto il popolo, degli alleati, dei partigiani anche stranieri, così i delitti dei nazifascisti sono stati una barbara e feroce reazione di fronte alla ostilità mostrata nei loro confronti dal popolo italiano.

Tratto da
patria indipendente l 22 maggio 2005

Giulio Stocchi – L’amico che è morto

Giulio Stocchi

L’amico che è morto
di notte mi torna
a parlare
Mi chiede notizie
del mondo
che ha dovuto
abbandonare
Ascolta ciò che dico
Poi scuote la testa
sospira
e scompare

***

Il grido dei profeti
risuonò
nel deserto
Il giusto morì
abbandonato
Il ladro e l’assassino
si spartirono
il governo
Chi doveva parlare
parlò
Ma a vanvera

Bertold Brecht L’amore del popolo per il Führer è molto grande.

Bertold Brecht
L’amore del popolo per il Führer è molto grande.
Ovunque egli vada
è circondato da gente in uniformi nere
che lo ama al punto
da non distogliere l’occhio da lui.
Quando egli siede in un caffè
immediatamente gli si siedono intorno cinque giganti perché
possa godersi un po’ di svago.
Le SS specialmente lo amano con tanta passione
che quasi lo invidiano al resto del popolo e
gli stanno addosso, tanto sono gelose.
E quando una volta con alcuni generali
fece una gita di fine settimana su un incrociatore
e passò un’intera notte solo con loro
scoppiò una rivolta fra le SA e egli dovette
farne fucilare centinaia.

Anonimo – Compagni Fratelli Cervi

Anonimo
Compagni Fratelli Cervi

Metti la giubba di battaglia
mitra fucile e bombe a mano
per la libertà lottiamo
per il tuo popolo fedel
È giunta l’ora dell’assalto
il vessillo tricolore
E noi dei Cervi
l’abbiam giurato
vogliam pace e libertà
e libertà
Compagni fratelli Cervi
cosa importa se si muore
per la libertà e l’onore
al tuo popolo fedel

Anonimo – Brigata Partigiana

Anonimo
Brigata Partigiana

Mentre il popolo languiva
triste e stanco nel dolor
con le armi si partiva
per la Patria e per l’onor

Verso i monti, sulle vette,
nelle valli, lungo il pian,
son per fare le vendette
i soldati partigian

Sono imberbi giovanetti
e qualcuno è un uomo già;
hanno il fuoco nei lor petti,
vogliono pace e libertà

Senza tema nè paura
la Brigata innanzi va
sulla strada lunga e dura,
ed il sogno arriverà.

Pace eterna gloria a voi!
Mai nessuno scorderà
tutti i nomi degli eroi
morti per la libertà

La strage incompiuta di Palazzaccio d’Arceno

“per dignità, non per odio”
La strage incompiuta di Palazzaccio d’Arceno
di Claudio Biscarini, 3-8-2012, Tutti i Diritti Riservati.

La mattina del 4 luglio 1944, due partigiani della banda comandata dal sottotenente di fanteria Uliano Grilli, facente parte del IV Gruppo Bande-Settore A del Raggruppamento Patrioti Monte Amiata, ebbe uno scontro a fuoco del tutto fortuito con due militari tedeschi della Divisione Paracadutisti Corazzata Hermann Goering, facenti parte di un reparto acquartierato da un giorno presso il podere Fornaci in provincia di Arezzo.
I due soldati si erano avvicinati al podere Pancole della tenuta di Arceno, comune di Castelnuovo Berardenga, per avere l’autorizzazione dalla massaia a mangiare alcune albicocche. Non ci furono caduti da nessuna parte e i due tedeschi, di cui solo uno probabilmente ferito leggermente, ritornarono precipitosamente al loro comando distante, in linea d’aria, pochi chilometri.
Dopo poco tempo, una squadra di una decina di soldati tedeschi a bordo di un semicingolato, preceduta dal fuoco di alcuni mortai che spararono proietti nella zona dello scontro, si diresse al podere Pancole, posto in basso rispetto al podere Palazzaccio, trovandolo vuoto.

Gli uomini, assieme a quelli del Palazzaccio, si erano nascosti nei boschi non supponendo che i tedeschi avrebbero agito contro donne e bambini. Incendiato il podere Pancole, la squadra tedesca si diresse al Palazzaccio dove si erano concentrate diverse famiglie con circa una trentina di persone. Venne piazzata una mitragliatrice e deve essere stato a qual punto che, capite le intenzioni dei militari che avevano circondato il gruppetto di edifici del podere, i civili si misero a scappare.

Dalla posizione dei corpi, ricostruita grazie a testimoni, si evince che gli uccisi furono colpiti non in un’unica posizione ma in diverse parti della zona adiacente agli edifici e, quindi, mentre stavano scappando colpite da più armi. Non risulta nessun soldato tedesco ucciso da nessuno dei propri commilitoni anche se un testimone, accorso poco dopo la strage, afferma di aver trovato una benda insanguinata a terra, il che fa supporre che ci possa essere stato un ferito leggero da "fuoco amico". Dopo la strage i tedeschi tentarono di incendiare l’edificio principale del podere, ma un violento acquazzone estivo spense il fuoco. I tedeschi, tornando verso il loro comando, uccisero l’unico uomo ammazzato quel giorno che era uscito dal bosco dove si era nascosto. Visto il fumo salire, dal vicino paese di San Gusmé, frazione di Castelnuovo Berardenga, arrivarono i soccorsi che non poterono fare altro che trasportare i poveri corpi al paese.
Al pomeriggio di quello stesso 4 luglio arrivarono a San Gusmé elementi delle forze alleate. Nonostante gli alleati abbiano visto i morti, nessuna inchiesta o denuncia venne mai fatta per arrivare a scoprire i colpevoli della strage, mentre i Carabinieri Reali, in un loro rapporto del 1945, già avevano individuato in militari della Hermann Goering i responsabili dell’eccidio.

In più, specialmente a San Gusmé, per anni si è attivata una piccola "memoria divisa" fra chi vedeva nell’atteggiamento dei partigiani la causa della strage e chi, invece, ne difendeva l’operato. Si giunse perfino a dichiarare che il sottotenente Grilli, per il rimorso di non aver protetto i civili, nell’immediato dopoguerra si era suicidato.
In realtà il Grilli morì nel 1964 per altre cause e nessun appunto può essere fatto né a lui né ai suoi uomini ma la responsabilità ricade tutta sulla divisione Goering che quello stesso 4 luglio stava massacrando i civili delle località di Meleto, Castelnuovo dei Sabbioni e Massa dei Sabbioni, non molto distanti dal Palazzaccio di Arceno.

Salvatore Quasimodo Epigrafe per i partigiani di Valenza .

Salvatore Quasimodo
Epigrafe per i partigiani di Valenza
Questa pietra
ricorda i Partigiani di Valenza
e quelli che lottarono nella sua terra,
caduti in combattimento, fucilati, assassinati
da tedeschi e gregari di provvisorie milizie italiane.
Il loro numero è grande.
Qui li contiamo uno per uno teneramente
chiamandoli con nomi giovani
per ogni tempo.
Non maledire, eterno straniero nella tua patria,
e tu saluta, amico della libertà.
Il loro sangue è ancora fresco, silenzioso
il suo frutto.
Gli eroi sono diventati uomini: fortuna
per la civiltà. Di questi uomini
non resti mai povera l’Italia.

Salvatore Quasimodo Epigrafe per i caduti di Marzabotto

– Salvatore Quasimodo

Epigrafe per i caduti di Marzabotto

Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di von Kesselring
e dai loro soldati di ventura
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.

I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati ed arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto,
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira,
onore invece di libere armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il Lupo e la sua Brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.

La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini di ogni terra
non dimenticano Marzabotto,
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.

Albert von Kesselring era il comandante delle forze tedesche operanti in Italia. Al processo di Norimberga contro i criminale di guerra fu condannato prima a morte, poi all’ergastolo. Nel 1952 fu liberato dagli inglesi. La Repubblica di Salò, rappresenta la fase finale della dittatura fascista. Il paese di Marzabotto viene raso al suolo: milleottocentotrentasei civili vengono uccisi