Luigi Bonistalli

clip_image002

I Compagni di Firenze

Memorie della Resistenza 1943 / 1944

Istituto Gramsci Toscano

1984

 

clip_image003

 

 

Luigi Bonistalli è nato a Empoli il 29 settembre 1910. Di professione vetraio, nel 1928 aderì al PCd’I. Nel 1931, in seguito all’espatrio di alcuni dirigenti del partito nell’empolese (Cioli, Matteoli, Fabiani) assunse, insieme ad altri, responsabilità dirigenti. Nel maggio del 1932 fu arrestato e deferito al Tribunale Speciale. In seguito ad amnistia e condono nel dicembre venne rimesso in libertà, ma nel 1937 venne nuovamente arrestato e condannato a tre anni di reclusione per attività antifascista. Nel 1940 il carcere venne trasformato in confino nell’isola di Pianosa con due anni di sorveglianza speciale. Nel 1939 viene richiamato alle armi. Nel novembre del 1943 venne arrestato dalla Banda Carità. Destinato alle FF.AA. italiane in Germania riuscì a fuggire e riprese contatto con il Comando Militare del PCI. Gli venne quindi affidato il comando militare della I zona del PCI. Dopo la Liberazione ha svolto attività di direzione nel partito e nel sindacato. Attualmente è segretario dell’ANPI di Prato e fa parte del Consiglio direttivo dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci.

 

***

 

Il 25 luglio ero in servizio al corpo d’armata, dalla parte di piazza S. Marco quando sentii dei clamori. Vidi entrare il generale Sogno, il comandante del quinto corpo d’armata, mobilitato in fretta, e io lo fermai perché era in borghese e sulle prime non lo riconobbi. Così lui mi fece una gran. sfuriata. Avemmo l’ordine di sbarrare le porte. Si sentì poi alla radio che c’era stata la caduta di Mussoliiii. Insieme all’altro sergente Benvenuti (perché lì di servizio c’era anche un maresciallo dei carabinieri, che però di notte non c’era mai) si svegliarono i soldati, perché avevevano sentito voci che i fascisti volevano dare l’assalto al palazzo. Si svegliarono i soldati, che erano senza armi, e si portarono poi al portone. Ma non successe niente. Nei giorni seguenti si sentiva soltanto un sacco di discorsi; c’erano degli ufficiali, come il maggiore Pellegrini e il capitano Bianchi, mutilato ad un braccio, ambedue fascisti dichiarati, che discutevano animatamente.

Dal giorno in cui i tedeschi fecero il loro ingresso al Palazzo di S. Caterina, devo aver preso contatto con i compagni di Firenze, ma non riesco malgrado i miei sforzi, ad avere un ricordo esatto di quando e come ebbi questo contatto. Ricordo, di essere andato più volte nei pressi del Ponte alle Mosse con il compagno Bertini; oltre a lui c’era un altro compagno grassoccio; poi in via S. Antonino, vicino al pellicciaio Agnoloni e nel negozio di pizzicheria del Bernini, dalla famiglia Ricci, nei pressi di Monte alle Croci ai piedi del piazzale Michelangiolo; ho lavorato anche con « Lazzaro Pancini, detto Pancino » un tornitore di piazza S. Spirito.

Nell’ambiente militare parlavo molto con vari soldati. Pagliai di Empoli e un altro soldato il cui nome non ricordo, lavoravano in una piccola tipografia interna del Comando, con il caporal maggiore Fidanzi di Firenze. C’erano poi Paciscopi, un tecnico addetto al comando genio; Faustini, un romano; un livornese del quale non ricordo il nome; i caporalmaggiori Rossi, Aretino, e Pelacchi, che era di Barberino di Mugello, Mati pratese ed altri i quali, senza spingersi troppo, condividevano la mia posizione, cioè cessare la guerra, cacciare i tedeschi, dare libertà ai detenuti politici: naturalmente erano contrari alle decisioni di Badoglio.

I tipografi fecero un manifestino a questo proposito, che noi facemmo circolare con molta discrezione fra i soldati; i caratteri tipografici li facemmo scomparire, e io li consegnai, mi pare, al tornitore « Pancino ».

Vi erano tra i soldati anche dei fascisti dichiarati, come Marchi di Prato e fra gli ufficiali oltre al capitano Bianchi e al maggiore Pellegrini, era fascista anche il colonnello Falangola.

L’8 settembre i comandi entrarono in piena confusione, con aspre discussioni tra i grandi ufficiali. Ci giunse all’orecchio che il generale Armellini-Chiappi era deciso ad opporsi con le armi ai tedeschi e con lui il generale Fattori, dei bersaglieri. Il colonnello Pellegrini, il capitano Bianchi ed altri erano, invece, per la resa. Il giorno 9 o 10 settembre (vigeva sempre il coprifuoco), la sera, mentre ero in servizio alla porta S. Gallo, venne giù dagli uffici dei comandi un gruppo di borghesi; era una delegazione del comitato di unità nazionale, mi pare si chiamasse così. Tra essi riconobbi uno, del quale poi seppi che era il compagno Bitossi; mi avvicinai a lui e gli chiesi: « Tu sei comunista? », mi guardò e mi disse: « Come hai fatto a riconoscermi? » Non seppi spiegarlo li per lì, ma sicuramente lo avevo già visto in qualche altro luogo, dove insieme avevamo partecipato a qualche riunione di partito.

Bitossi mi disse che i tedeschi marciavano per occupare Firenze, che il fronte nazionale di unità antifascista si era recato al comando della difesa per chiedere di armare il popolo e, insieme alle forze militari, combattere i tedeschi e respingerli; purtroppo i comandi militari avevano dichiarato che sarebbero stati disposti a opporsi con le armi ai tedeschi, ma che non le avrebbero fornite al popolo. Anche il generale Armellini-Chiappi che era d’accordo per opporsi ai tedeschi, era stato contrario ad armare il popolo. Intanto l’ora del coprifuoco era passata e loro erano ancora lì; uscire significava rischiare di essere fermati dalla polizia militare, perché non erano ancora stati muniti dalle autorità militari di un permesso di circolazione.

Allora parlai con l’ufficiale di servizio, il maggiore Bazzanti, che dopo la liberazione entrò nel partito socialista, che sapevo di idee antifasciste. Il maggiore mi disse che stava provvedendo alla « bisogna »; infatti dopo poco comparve a porta S. Gallo e certamente munì la commissione ilei documenti necessari, perché questa, dopo i convenevoli d’uso, se ne andò.

Non nascondo che rimasi male per l’atteggiamento del compagno Bitossi: dopo che avevo fatto tanto per fargli capire chi ero, se ne andò senza neanche salutarmi; mi aspettavo qualcosa di più.

Intanto pareva che i comandi militari volessero opporre resistenza con le armi all’invasione tedesca. Si sentiva dire di forze militari italiane che erano state inviate al valico della Futa. Vedemmo arrivare al palazzo del comando compagnie di bersaglieri, di paracadutisti del 5° gruppo d’armata e di ogni arma di stanza a Firenze — fanteria, artiglieria, genio, autocentro ecc… — equipaggiati con armi leggere: fucili, mitragliatrici leggere e pesanti, bombe a mano, e « cavalli di Frisia ». Il mattino del 10 o dell’11 arrivarono varie automobili, con dei « berretti rossi », cioè ufficiali subalterni e superiori inglesi, già prigionieri di guerra, che ora venivano resi liberi.

Ci fu una grande confusione: chi voleva trattenerli, chi invece si dava da fare per metterli al sicuro. Il generale Armellini-Chiappi si impose e fece di tutto per renderli liberi, occupandosi direttamente di trovare una via affinché gli ufficiali inglesi non cadessero nelle mani dei tedeschi. Infatti li vidi ripartire con auto messe a loro disposizione.

Il giorno 11 settembre gli uffici erano quasi deserti, non vedemmo arrivare i soliti ufficiali, verso mezzogiorno anche i militari chiamati per difenderei comandi scomparvero, gettando le armi a terra nel cortile di via S. Gallo. Rimasero solo bersaglieri e paracadutisti e i soldati addetti alla pulizia e alla guardia del palazzo, due carabinieri, uno per porta, il maresciallo Podda, qualche scrivanello, scrivente, tutti disarmati.

Degli ufficiali domiciliati nel palazzo e delle loro famiglie sembra che rimanessero ai loro posti di responsabilità soltanto il generale Armellini-Chiappi e il colonnello e, si dice, pochi altri ufficiali tedescofili. Nel primo pomeriggio dell’11, non mi ricordo l’ora, arrivarono i tedeschi. Mi trovavo a porta S. Gallo, la porta era aperta, e due motociclisti in sidecar entrarono armati di pistole mitragliatrici. Alla porta una pattuglia in assetto di guerra spinse entro la stanza del corpo di guardia. Eravamo sarmati e non si curarono affatto di noi; poi entrarono le auto in via S. Gallo e la presidiarono. Vi erano anche carri armati. La sicurezza che i tedeschi dimostravano gli avvenimenti ai quali assistevamo, ci fecero pensare fosse stata già concordata la resa. Infatti era così. Al mattino del 12 i bersaglieri e paracadutisti vennero radunati dopo aver fatto loro depositare le armi sul mucchio che era già nel cortile, inquadrati e scortati dai tedeschi armati, vennero portati via.

Dei tedeschi, almeno a porta S. Gallo, ce n’erano solo due di guardia e altri due alla porta principale. Noi eravamo liberi di circolare nel cortile e nelle camerate, però non potevamo passare a porta S. Marco. Il 12, verso le ore undici, osservai attraverso la visuale che offrono gli archi, che i tedeschi portavano via il generale Armellini. Chiappi e, forse, anche qualche altro ufficiale. Ci giunse la voce che erano stati dichiarati prigionieri di guerra, perché fedeli all’ordine di Badoglio. Il tenente colonnello Pellegrini, il capitano Bianchi, il colonnello Falangola e altri ufficiali e sottufficiali si dichiararono subito collaboratori dei tedeschi. A porta S. Gallo vi era un solo tedesco e un carabiniere e, di giorno, anche il maresciallo Podda, che era un maresciallo dei carabinieri. Da questa porta non si svolgeva nessuna attività o quasi. Noi militari si pareva « anime in pena »: non arrivavano ordini da nessuna parte, non arrivava né caffè, né rancio, non si poteva uscire; solo il maresciallo Podda e il carabiniere avevano più libertà di movimento. Il primo era uscito, il secondo aveva avuto il cambio; cercai di andare a porta Cavour, ma venni rimandato indietro. Mi accompagnava un sottufficiale, certo Collaudi italiano e camminando mi disse che chi si dichiarava collaborare con l’esercito tedesco veniva accolto e fornito di un lasciapassare provvisorio che mi mostrò. Gli chiesi se poteva farmene avere uno anche a me, mi disse di si e la sera mi consegnò il lasciapassare che avrei dovuto restituire firmato il giorno dopo.Era scritto in tedesco, portava in testa l’aquila dell’armata tedesca, la Wehrmacht; si vedeva chiaramente che era un, dattiloscritto ciclostilato, l’aquila e la firma erano dei timbri Mi pare che il soldato Paciscopi, tecnico della direzione del genio si prese l’incarico di farne delle copie perché su al comando, aveva il necessario, e infatti così fece. Poi col linoleum facemmo dei timbri simili a quelli che c’erano sul lasciapassare e distribuimmo ai soldati presenti questi lasciapassare falsi. Poi facemmo una prova: il Paciscopi e il caporal-maggiore Pelacchi si presentarono alla porta, mostrarono il lasciapassare al tedesco, questi diede uno sguardo al foglio e li lasciò andare. Allora ci furono degli altri che, visto che andava bene, presero questo foglio e andarono via.

Però erano rimasti dei soldati indecisi; allora al mattino, verso le cinque, radunati i soldati rimasti, (prima avevo parlato con il carabiniere di guardia insieme al tedesco, che era d’accordo per lasciarli passare) e messili in colonna, (di circa duecento che eravamo, quelli rimasti saranno stati una settantina), dopo alcuni comandi — « attenti, riposo, fianco sinistro, avanti march » — ci avvicinammo alla porta che era lì, a pochi passi; « plotone alt » davanti al tedesco, lo salutai alla tedesca, gli mostrai il falso permesso e il camerata, che era tutto fra il sonno, mi fece un gesto con il braccio come per dire via, « Avanti march! » uscimmo dalla porta «un due, un due», via XXVII aprile, piazza dell’Indipendenza poi ognuno per conto suo.

Andai in via della Scala, da mia cugina Dina Benvenuti, mi vestii in borghese e partii per Empoli. Qui venni a sapere che i repubblichini cercavano gli ex-condannati al Tribunale Speciale, nella notte sentii sparare in piazza Farinata degli Uberti, lì vicino a casa mia; salii sul tetto di casa mia e, dopo aver strisciato su altri tetti, uscii di casa da un abbaino.

Ritornai a Firenze. Dove andai a Firenze? Cosa feci? Non ricordo nulla, proprio nulla. Ricordo invece che un dopo pranzo, mi pare di domenica, mi recai ad una riunione in una casa davanti al teatro Comunale; ho sempre, avuto in mente via Montebello e una bella ragazza bionda che venne ad aprire. Ero solo?

Non ricordo; per quanti sforzi faccia e abbia fatto non mi vuol venire in mente. Chi c’era a quella riunione? Forse Fabiani, Roncagli, Rossi, Tagliaferri? Ci doveva essere Leone, « Pietro » si chiamava, quello di Vercelli, mi pare che ci fosse lui, perché poi l’ho rivisto e fra noi si stabili una certa confidenza. C’era anche il compagno « Bombardino », Desiderio Cugini, mi ricordo bene che c’era, perché poi l’ho ritrovato a Reggio Emilia.

Si parlò della necessità di formazioni militari, guerriglia, partigiani, organizzazione, reclutamento militare ecc.

Quando parlarono della necessità di avere una carta militare della zona, dissi che forse avrei potuto procurargliela; mi ascoltarono e poi, con il compagno « Bombardino », mi inviarono a procurare codesta carta.

Giunti davanti a porta S. Gallo, vidi il maresciallo Podda che parlava con un carabiniere; accompagnai « Bombardino » al bar Genio lì vicino, dicendogli di aspettarmi e che se entro un’ora non mi avesse visto tornare se ne andasse.

Mi presentai al Podda che mi salutò, dimostrandosi abbastanza contento, anche se mi rimproverò di non essere ritornato in servizio. Mi disse « Noi siamo qui per espletare le pratiche dell’ufficio truppa oltremare, Africa in particolare; non dipendiamo né da Badoglio, né da Graziavi, tanto è vero che non abbiamo promesso fedeltà a nessuno dei due. Torna in servizio: c’è bisogno anche di te ». Intanto ero entrato con il maresciallo nel cortile; così potei vedere che c’erano solo un tedesco senza armi e un carabiniere, anche esso disarmato, di guardia alla porta. Il maresciallo fu chiamato, io lo seguii su per le scale, poi mi diressi nell’ufficio del comando zona militare.

Alla parete c’era una carta topografica della zona, grande come un giornale dispiegato; tolsi le liste di legno che gli facevano da cornice, la staccai, me l’arrotolai sul busto a contatto con la pelle; poi rovistai nei cassetti: trovai un caricatore pieno, una rivoltella calibro 9 — mi pare —e una bomba balilla. Misi in tasca il caricatore e la bomba e me ne tornai indietro. Non vidi il maresciallo, salutai II carabiniere e tranquillo, tranquillo, me ne andai da « Bombardino ».

« Bombardino » mi offri un cognac e dopo averlo sorbito con soddisfazione, (perché si aveva un po’ di paura; certe cose si facevano ma la paura non mancava…) ritornammo in via Montebello; qui si parlò di quanto mi aveva proposto il maresciallo Podda e dopo breve discussione ini diedero l’incarico di ritornare in servizio e di rimanere a contatto con loro.

Primo appuntamento: Piazza dell’Indipendenza con « Bombardino », in quale giorno e ora non ricordo. L’incontro stabilito avvenne come era stato promesso e mi fu presentato un compagno: oggi so che si chiama Fontani. Ci incontravamo nei posti e nelle ore più disparate che fissavamo via via; il mio recapito di emergenza, mi pare che fosse in Via della Scala n. 69 ma non ne sono sicuro.

Mi furono richieste delle carte topografiche militari delle regioni di tutta Italia ed eventuali informazioni su quanto potevo sapere riguardo i movimenti dei collaboratori e dei tedeschi.

Con il compagno Fontani ebbi tre o quattro contatti, gli fornii molte carte topografiche militari che prelevavo da una stanza posta a pianterreno del palazzo. Siccome il compagno Fontani, che poi ritrovai a Roma, dove mi disse che faceva il segretario a Togliatti, si lamentava perché gli consegnavo solo carte topografiche, gli chiesi quali direttive mi portava; non seppe dirmi nulla e allora gli dissi: « Ti lamenti, ma quale direttive mi dai? ». Gli feci noto che se avesse potuto organizzare quanto occorreva, si potevano prelevare molte armi e munizioni, lenzuola e coperte, quelle lasciate dai soldati nel cortile di porta S. Gallo e quelle che erano nella camerata dove dormivano gli attendenti e gli altri addetti alla pulizia.

Gli spiegai dove si trovavano e perché; inoltre gli spiegai che mi pareva che fossero poco sorvegliate e che, secondo me, data la vigilanza esistente nel palazzo (di notte un carabiniere, un solo tedesco e io che molte volte non c’ero) e l’esistenza di una porta carraia protetta da un solo cancello di ferro, non sarebbe stato troppo rischioso impossessarsi delle armi e dei materiali; il peggio da fare era dopo, al momento di uscire con il mezzo carico di armi. Infine gli proposi di fare un sopralluogo.

Quando lo rividi mi presentò un compagno molto giovane, alto, biondo, di cui non conosco il nome; dopo la Liberazione incontrai anche lui a Roma mi pare, pare al V congresso e mi disse che andava in Polonia come segretario del compagno Reale, nominato console e là destinato.

 

Anche questo ragazzo, simpaticissimo, non portò disposizioni del partito a mio riguardo. Dissi loro che il comando di S. Caterina stava riorganizzandosi, sotto la direzione del generale Adami Rossi, dei colonnelli Pellegrini e Falangola, del capitano Bianchi ed altri; che si parlava

reclutamento e soprattutto di organizzare a Siena una divisione di carri armati, consegnai le carte che avevo e ci lasciammo. Intanto dove dormivo? Dove mangiavo?

Ricordo di avere preso una camera in affitto in via S.Gallo, vicino alla questura, mostrando il tesserino di riconoscimento rilasciatomi a suo tempo dal comando di difesa territoriale. Ricordo di aver mangiato in una piccola trattoria in via della Scala, due volte con il compagno Rossi e poi nella trattoria posta davanti al Bar Genio, angolo v S. Gallo, via XXVII Aprile e dalla famiglia della Dina Ricci, dal cognato del compagno Giuseppe Molli, in via S.Agostino.

Sempre in questa via mi stabilii in una stanza piuttosto sudicia, insieme a Molli e al compagno Dami; certamente questo deve essere avvenuto dopo l’eccidio, di Piazza Torquato Tasso. Poi mi sistemai in casa del compagno Molli Tuttavia la maggiore e più lunga ospitalità devo averla avuta dalla famiglia di Benvenuto Benvenuti, cugino di mia moglie.

In quale periodo sono ospitato in queste case non riesco a collocarlo nel tempo. Dico questo per non ritornare sopra alle questioni dell’alloggio e vitto.

In una mia visita a casa seppi da mia sorella Frine di una grande attività del partito; le riunioni non avvenivano spesso in casa mia, perché era riservata ai soli funzionari inviati dal centro.

Un giorno, scappato a casa per un breve permesso, vidi Gino », uno dei funzionari che mia sorella mi aveva detto di ospitare più spesso, e in lui riconobbi « Bombardino », ma non mi feci vedere: meno si sa e meglio si sta. Roncagli lo avevo visto solo un’altra volta. Mia sorella serviva per i contatti con i compagni dirigenti, fra cui Catone Ragionieri, Ginetto Cantini, Gino Fontanelli, Pietro Ristori ed altri. I quali pregavano mia sorella di farmi dire che rimanessi in servizio, che mi facessi vedere per Empoli in divisa da sergente e infatti due o tre volle mi feci vedere per Empoli vestito da sottufficiale, ma avevo sempre le stellette e non il gladio, quello che avevano i fascisti.

Per me era una sofferenza fare questo, a Firenze era più difficile; ma la cosa mi diventò ancora più penosa quando il compagno Pietro Ristori mi raccontò che il mio amico, forse allora compagno Leonardo Maestrelli ebbe a criticare con disprezzo la mia permanenza sotto le armi – Se non lo capisce da sé diteglielo voi che butti via la divisa ».

Ristori si accorse che ci ero rimasto male, e allora aggiunse che gli aveva risposto che il partito voleva così. Sinceramente avrei lasciato il servizio, anche perché il mangiare e il dormire mi era diventato un problema. Non arrivava nulla; niente caffè, niente rancio, nulla, né desinare, né cena, né decade o altro, non vi erano soldati, ero abbandonato a me stesso.

Il carabiniere riceveva il cambio e quindi sotto questo aspetto ero a posto. Il maresciallo Podda, domiciliato con la famiglia a Firenze, non aveva problemi di questo genere ; il suo « tirapiedi », il soldato Benelli di Campi, neppure, perché si faceva vedere solo quando c’era da arrangiare qualcosa. È vero che nessuno mi dava ordini e quindi non avevo nulla da fare lì a palazzo, dalla mattina alla sera; è vero che vestivo la divisa a mio piacimento e senza gladio, cosa questa che mi aiutava a resistere nella consegna datami dal partito. Riguardo alle spese che dovevo sostenere per un bel pezzo feci in proprio, poi parlatone con i compagni di Empoli e il Ristori, via via il partito mi faceva avere qualcosa, qualche soldo. Ritornato a Firenze ebbi di nuovo contatto con il compagno biondo. Come sempre chiesi istruzioni; nulla di nuovo, niente di speciale. Allora lo invitai a fare un sopralluogo al palazzo di S. Caterina,, per farsi un’idea della possibilità di portar via le armi; mi rispose « Quest’altra volta! » e fissato il nuovo incontro, ce ne andammo ognuno per conto suo.

Al nuovo incontro mi chiese se potevo ospitare un compagno, era il compagno Rossi; che era lui lo seppi molto dopo, lì per li non lo sapevo. Lo portai dalla solita famiglia Benvenuti in via della Scala e non ricordo quanti giorni ci sia stato: mi pare due o tre.

A mangiare si andava in una piccola trattoria in via della Scala, che mi pare che sia stata del Bausí, dato che, era lì vicino alla mia cugina, vicino a via dell’Albero.

Il compagno biondo venne a fare un sopralluogo al palazzo di S. Caterina dalla parte dì porta S. Gallo e dopo la ricognizione mi disse che avrebbe riferito al partito e che, con tutta probabilità, si sarebbe fatto il colpo.

Gli rivelai quello che secondo me avrebbe dovuto essere il piano d’azione: verso le ore sei del mattino, io aprivo il cancello di Porta carraia, un compagno che parlasse in tedesco e vestito da tedesco, con quattro o cinque compagni vestiti da repubblichini avrebbero dovuto venire nei cortile, caricare le armi e andarsene. Oppure i compagni dovevano venire la sera, prima della chiusura delle porte e entrare nel palazzo, io li avrei nascosti nel rifugio antíaereo; un quarto d’ora prima che giungesse il nostro camion si sarebbero immobilizzati il carabiniere e il tedesco si sarebbero caricate le armi e si sarebbe andati via. Secondo me non era mica tanto difficile; se fossimo stati organizzati come dopo, con i partigiani, era cosa fattíbile. Anche io mi preparai per sparire insieme alle armi; cioè, avvertii i compagni di Empoli che me ne andavo in montagna perché già si parlava di partigiani a Monte Morello.

Un pomeriggio durante l’incontro con il compagno biondo, questi mi disse che era stato deciso di fare il prelevamento delle armi il giorno dopo alle sedici sarebbe venuto dame al palazzo per studiare meglio la cosa. Il giorno dopo venne era in bicicletta e mi disse che il colpo era rimandato ma qualcosa si poteva portare via ora di giorno? gli dissi non vedi che alla porta c’è un tedesco ed un carabiniere? Non ci furono ragioni Allora presi tre moschetti, li avvolsi in un telo di branda e dopo averli assicurati tra il manubrio e la canna della bicicletta ci avviammo verso l’uscita. Andò tutto bene, altrimenti non sarei stato qui a raccontare queste cose.

Il partito si organizzava, ma si organizzava anche il nazifascismo, la repubblica di Salò e il suo programma. Il colonnello Gobbi al distretto preparava il richiamo alle armi del ’24 e del ’25, il bando per gli sbandati, la richiesta, anche a noi militari rimasti di firmare un’adesione al nuovo esercito della repubblica di Salò, il cambio delle stellette con il gladio, romano. Avevo sempre le stellette, quando non vestivo borghese, ma non resistevo più. Il compagno biondo si fece rivedere e si parlò ancora del colpo per sottrarre le armi. Ma passava il tempo e una mattina, entrando in servizio, constatai che le armi e le coperte non c’erano più; c’erano invece, due carrarmati tedeschi li parcheggiati nel cortile che parevano essere lì proprio per essere portati via. Ebbi un nuovo contatto con il solito compagno, lo informai della cosa e lui rimase male: « Ebbene — dissi — ci sono i carrarmati ! La cosa è più difficile e pericolosa, ma è anche più grossa, non ti pare? ‘.

Porca miseria! Mi dicevano che gli portavo soltanto carte topografiche, ora c’era anche questa roba da pigliare ci lasciammo. Una mattina mi chiamò il maresciallo Podda, mi disse che dovevamo regolarizzare le nostre posizioni militari, dare l’adesione e mettersi la nuova divisa. Era vestito in borghese, lì per lì gli dissi: « Va bene, domani verrò in divisa ». Verso le undici, mentre vigilavo dei borghesi che erano stati chiamati a liberare e il cortile di porta S. Gallo e quello dietro la camerata dove prima dormivano i soldati fui fermato da un capitano; mi chise chi fossi cosa facevo, mostrai il tesserino di riconoscimento, lo osservò poi mi ordino di mettermi la divisa, reguardì i borghesi e se ne andò.

Allora io non sapevo che era il capitano camerata Carità

La sera vidi il compagno e gli dissi che me ne volevo andare perché non intendevo mettere il gladio, mi disse di pazientare ancora poi si sareb.be provveduto.

Passarono altri due o tre giorni; quando rividi il compagno la sera del 28 novembre 1943 mi disse: « Ti accompagno da un altro compagno, che mi darà la risposta aii tuoi propositi ». In via della Scala trovai il compagno Rossi; quando seppe tutto disse che l’ora di tagliare era giunta e mi chiese « Hai avvertito la tua famiglia? ». mia risposta affermativa mi disse « Alle ore 6 della mattina del 30 novembre trovati in piazza della Stazione, capolinea tram per Sesto Fiorentino. Allegro, si va in montagna! Porta pane e prosciutto e un fiasco di vino! ». lasciammo, mi sentivo davvero allegro e più leggero. La fina del 29 novembre 1943 in divisa di sergente, 19° Reggimento artiglieria, dopo aver preparato una valigetta lsciata in casa entrai in servizio a palazzo.

Verso le ore dieci fui chiamato dall’ufficiale di servizio; mentre salivo le scale per recarmi da detto uffici incontrai un individuo che attirò la mia attenzione. Era in divisa di maresciallo della milizia, zoppicava, lo riconobbi: era il Moscardini di Empoli. Avversario politico, ma più che avversario, per la questione di una ragazza Empoli di cui era geloso con la quale avevo avuto rapporti sentimentali, mi guardò e poi continuò a scendere scala.

Pensai subito che la cosa si metteva molto male. Che fare? Scappare subito? La mia ragione mi suggerì di proseguire e di presentarmi all’ufficiale di servizio che mi avevi fatto chiamare. Questi, un capitano che non conoscevi mi disse che alle ore sedici dovevo prendere servizio centralino, poi fui portato alla presenza del sottufficiale che in quel momento era al centralino telefonico; mi dette la consegna e alle sedici dovevo sostituirlo. Il capitano lasciò dicendomi di farmi spiegare come si svolgeva il se vizio. Ebbi l’impressione di essere seguito, mi parve che ogni mio movimento fosse vigilato; forse ero anche un pò prevenuto per l’incontro fatto al mattino. A mezzogiorno non andai in via della Scala, mangiai, invece, alla trattoria lì davanti al bar Genio, vicino al palazzo di S. Caterina.,

Mangiai di malavoglia, avevo il cervello in confusione, ogni idea di fuga che mi veniva in mente veniva scartata, perché mi dicevo « Se mi volevano arrestare lo avrebbero fatto subito; invece mi hanno assegnato il servizio, così. Se non mi presento mi dichiarano disertore. Mi hanno dato queste ore di tempo perché pensano che io scappi e mi presenti da qualcuno del partito, così mi seguono e la frittata è fatta! Domattina devo partire — mi dicevo non è mica tanto lontana ». Alla fine decisi di presentarmi al servizio al centralino, convinto che qualunque cosa accadesse quella decisione era la più giusta.

Così alle ore 16, puntualmente, presi servizio al centralino telefonico del nuovo comando militare dell’esercito di Grazíani. Ci rimasi poco: mentre stavo ricevendo uni fonogramma da Siena, trasmesso per ordine del generale Angelica, che diceva di aver formato una nuova divisione corrazzata, pronta per essere impiegata, ne dava i dettagli v chiedeva disposizioni, entrò un capitano. Era quello che pochi giorni prima mi aveva fermato e redarguito nel cortile di Porta S. Gallo, cioè colui che poi sarebbe divenuto II famigerato maggiore Carità (allora era ancora capitano). Mi fece firmare la ricezione del fonogramma e dopo aver risposto al mio interlocutore di Siena, « Riceve il sergente Bonistalli Luigi », questo capitano mi disse: « Bene sei proprio tu! Vieni con me!! ».

« Ci siamo » dissi dentro di me, ma malgrado tutto rimasi calmo e risposi: « Signor Capitano, lei sa meglio di me che ho una consegna, non posso lasciare il posto senza che mi sia stato comandato dall’ufficiale di servizio ». Il capitano si fece sulla porta, chiamò e vennero due sottufficiali che non conoscevo, gli ordinò di piantonarmi e si allontanò. Tornò con un maggiore, anche questo che non conoscevo, il quale mi disse di eseguire l’ordine del capitano e di passare le consegne ai due sottufficiali. Naturalmente feci come mi avevano ordinato e seguii il capitano Carità.

Appena nel cortile fui circondato dai repubblichini armati, che mi fecero salire su una camionetta coperta; qualunque tentativo di fuga era disperato, perché anche sulla banda posteriore della camionetta erano seduti due scherani armati di mitra.

Ero il solo prigioniero; fui condotto in via della Madonna della Tosse, perquisito e spogliato, nel vero senso della parola, di quanto possedevo: portafoglio, orologio, borsellino, penna stilografica, tutte cose che poi non più rivisto.

Mi lasciarono solo il tesserino di riconoscimento, a suo tempo mi aveva dato il comando territoriale, cartolina e un loro manifestino, che riportava il programma della Repubblica sociale di Salò, insultandomi continuamente.

Mentre gli scherani di Carità erano occupati a quel loro bisogna, c’era un sergente aspirante ufficiale, riconoscibile dal rigo dorato al bavero della giacca, che più degli altri insolentiva e mi diceva: « Questa roba non ti servirà più, i morti non ne hanno bisogno! ». Volevano mettermi più paura del timore che avevo.

Mi portarono poi in una stanza, solo, naturalmente,, guardato da un milite armato di mitra, aspettavo da un momento all’altro l’interrogatorio, con il resto che l’accompagna. Non fu così.

Dopo una certa permanenza, un’ora, due ore, era già buio, fui di nuovo caricato sulla camionetta e portato alla villa Malatesta, in via Ugo Foscolo. Fui portato in una sala, dove si trovavano tre uomini in borghese, tutti e tre con la faccia gonfia e piena di ecchimosi. Uno in particolare doveva essere stato molto pestato, era abbandonato su una sedia; pareva morto e accanto aveva due frati domenicani. Mi pare che fossero in piedi, uno alto, abbastanza giovane, portava gli occhiali l’altro più anziano, più basso di statura. In fondo alla sala una mitragliatrice leggera e dietro di essa un ragazzino, avrà avuto tredici o quattordici anni. Non c’era posto per sedersi sulla panca di legno, dove erano seduti i due che si trovavano lì. Dentro di me fremevo vedendo come erano ridotti i tre borghesi.

Mi aspettavo l’interrogatorio e relativa battuta e avevo paura soprattutto per ciò che mi avrebbero imputato e per la mia capacità di resistere alle loro sevizie. Non accadde nulla, non fui interrogato per niente; ebbi solo minacce dal ragazzo di guardia, il quale, vedendo che camminavo per la sala e che mi occupavo di portare sollievo al carcerato più martorizzato, parlandogli e aiutandolo a cambiare posizione, cercando di confortarlo, mi redarguì fino al punto di scagliarmi contro il pugnale, che per fortuna schivai, ma che mi battè nei gambali (avevo i gambali di cuoio). Il prigioniero più martorizzato era il barbiere Pretini; con gli altri due non ebbi modo di conversare, capii che diffidavano di me, forse a causa della divisa militare che portavo.

Passai tutta la notte in piedi, aiutando e cercando di confortare il Pretini il quale mi raccontò del suo martirio. « Mi hanno fatto ingurgitare per mezzo di un imbuto ficcato in bocca litri e litri di acqua bollente ». Al mattino ancora nulla; a un certo punto, non ricordo che ora fosse perché, malgrado tutto, seduto sulla panca mi ero appisolato, fui chiamato. Mi prelevarono dal salone della villa Malatesta, fui caricato sul camioncino della sera prima, solito piantone. Per quanto rimasi lì non lo so. Ad un tratto grande via vai per il palazzo, sirena di allarme aereo; fui preso di nuovo e molto bruscamente. Pensai: « Ci siamo!! ». Invece fui portato alla presenza di Carità, il quale dette ordine di portarmi alle Murate; qui dopo le consuetudini d’uso, fui messo in una cella al piano terreno, non ricordo il numero del braccio, dove trovai altri diciassette arrestati a disposizione di Carità. Così diceva il cartello sulla porta della cella. Tutti intorno: « Perché ti hanno arrestato? Cosa hai fatto? ». Spiegai che non sapevo il motivo per cui ero stato arrestato e che non avevo fatto proprio nulla, mi avevano prelevato dal centralino telefonico del comando. Ci fu uno che disse: « Forse questione politica? ». Ma io esitai a rispondergli. Nei giorni seguenti ebbi modo di conoscere superficialmente, si capisce, i miei compagni di cella. Si dormiva in terra su sacconi di paglia, pane di segala, brodaglia di semi di zucca, per toilette tre buglioli.

Dopo alcuni giorni fui chiamato e portato all’interrogatorio. Nell’ufficio vi era qualche altro prigioniero; infatti dopo una mezz’ora uscì un giovane con la faccia piena di ecchimosi; in seguito seppi che era Aldo Braibanti, lo ritrovai al partito, responsabile dei giovani comunisti.

Mi fecero entrare, mi sedetti davanti ad un tavolo dietro al quale sedevano Carità e una donna giovane e, mi parve anche bella.

Dopo avermi chiesto le generalità e avermi ricordato che ero stato condannato dal tribunale speciale, Carità mi domandò con quale scopo ero rimasto di servizio al palazzo. Qui fece dei commenti tutti suoi, trai quali: « Chi ti ha protetto per prendere servizio per tanto al palazzone? ».

Compresi francamente, e mi sentii rallegrare, che non aveva indirizzi precisi e validi; ; mi convinsi che il mio era dovuto alla buona disposizione che aveva per me lo ZOPPO fascista repubblichino Moscardini risposi che ero stato distaccato a palazzo perché dichiarato non idoneo alle fatiche di guerra lei sa che sono stato a Pianosa e che Pianosa è un sanatorio. In quanto al perché sono rimasta in servizio, (presso a poco gli dissi così perché le parole precise non me le ricordo) mi permetto di fare una domanda a lei capirà se mi fossi sbandato l’8

settembre, nelle stesse condizioni di adesso, cioè arrestato, lei mi avrebbe domandato perché non ero rimasto al mio posto; rispondendole direttamente. le dico che sono rimasto al mio posto perché mi piaceva il servizio e sinceramente le dico che, dato lo stato di guerra mi ci trovavo proprio bene ».

Continuò a farmi delle domande sulla repubblica di Salò e circa la mia opinioni, cose, che non ricordo bene Quindi nessuna domanda decisa e precisa. Questo e il fatto che mentre mi interrogava scambiava dei complimenti alla ragazza presente, mi fecero ancora più sicuro sul motivo del mio arresto: segnalazione da Empoli, fatta dallo sciagurato Moscardini, quindi a carico nulla di preciso, solo i miei precedenti. Ad un certo punto tirò fuori il manifesto programma della repubblica di Salò e lesse i vari articoli, le promesse della nuova repubblica. Io gli dissi che alcuni di essi mi potevano stare anche bene; in conclusione mi fece ricondurre in cella, e dopo non ho più rivisto capitano o maggiore Carità. Fui messo in una cella attigua a quella precedente; qui vi erano altri undici prigionieri, però questi erano stati politici e non per reati comuni: Meli, Buricchi, Rizieri, il carbonaio, tutti e tre di Carmignano sospetti collaboratori dei renitenti alla chiamata alle armi. Frezzati di Milano, sospetto antifascista; Giuliano Levi, ebreo, e il suo casiere del Galluzzo, del quale non mi ricordo per nulla il nome, eppure l’ho rivisto anche dopo, Miglio, sospetto collaboratore; non ricordo tutti i nomi. Di uno si aveva il sospetto tra noi che fosse stato messo lì per raccogliere le nostre confidenze: « Troilo » si faceva chiamare. Era uno, che aveva un testone ed era tutto ammaccato, si vede che le aveva avute da Carità. Fu questi che portò la notizia della fucilazione di sovversivi per via dell’uccisione del colonnello Gobbi, e della uccisione di un sovversivo che tentava di scappare, probabilmente del Sinigaglia. Fu lui che cercava di spaventarci dicendoci che ostaggi in attesa di fucilazione. Ebbi a richiamarlo più di una volta, chiedendogli di farla finita con discorsi e chiacchere che infondevano timore per il nostro avvenire. Mi rispondeva con evidente volontà di provocare. Una mattina, senza che io avessi fatto nulla, mi dette un pugno nella faccia e più me ne avrebbe dati se non lo avessi stretto con le mie braccia; cosa strana, nello stesso tempo, o quasi si aprì la porta della cella, fu preso « Troilo » e portato via. Un secondino che si era trattenuto in cella mi disse « Hai fatto bene a non reagire! ». Dopo alcuni giorni « Troilo » fu riportato nella cella.

 

Una bella mattina fui chiamato al parlatorio; era mia sorella e mi raccontò l’odissea per ottenere il permesso di colloquio, poiché la famiglia, mia madre, mia sorella, mia moglie e tre figli, Mario di tre anni, Alberto di otto, Grazia di tre, figlia di mia sorella, si erano trasferiti a S. Miniato dalla zia Santina.

Mi disse poi più piano « mi hanno detto di cercare il Brodda’! ». Pietro Lari; questi era stato arrestato a Firenze, ma non si sapeva da chi dipendeva, mi disse che era sempre a contatto con il partito anche a Firenze, tramite Mario Fabiani e « Cervo », Matteoli Vasco. Avevano parlato con lei riguardo a Pietro Lari di cui dopo l’arresto non sapevano più nulla. La famiglia aveva fatto ricerca: questura, Carità, tribunale militare, Wehrmacht, nulla: pensavano che fosse alle Murate a disposizione delle S.S. tedesche e purtroppo non sbagliavano.

Al parlatorio eravamo abbastanza liberi: con una certa cautela si potevano passare diverse cose, come ne ebbi prova dopo, quando mia sorella mi dette sigarette, biglietti e perfino un coltello e io detti a lei biglietti in altre occasioni.

Finito il tempo del parlatorio mia sorella se ne andò con la promessa che sarebbe ritornata. Infatti ritornò altre volte al parlatorio: una volta venne anche con mio fratello che dopo varie peripezie era giunto a casa.

Mi disse che mia moglie, malgrado la gravidanza e disagi dello sfollamento, si sentiva abbastanza bene. Infatti mia moglie, mentre ero militare, soffriva di dolori alla schiena e il dottore la curava per l’artrite. Un giorno che andato a casa, la presi e me la portai all’Ortopedico Toscano: le trovarono spondilite vertebrale di natura tubercolare in stato avanzato, con il pericolo di perdere gli arti inferiori, e me la ricoverarono immediatamente dopo aver fatto l’ingessatura a tutto il busto. Poi in seguito si rivelò in stato interessante; volevano farla abortire, lei non volle e allora le cambiarono il gesso, lasciandole una coperture circolare in corrispondenza della pancia.

In prigione, in cella, si susseguivano intanto dei cambiamenti; chi usciva e chi entrava. Un giorno arrivarono due nuovi arrestati: un giovane che abitava in via Fra’ Beato Angelico, e un certo Mazzoni Guido delle Cure, che ricordo data l’ononimia con il compagno Mazzoni, da me molto ben conosciuto fin da prima.

Giuliano Levi e il casiere erano usciti per un interrogatorio e non erano più tornati; intanto arrivavano le notizie più disparate.

Azioni partigiane, rappresaglie dei nazifascisti, deportazione, costituzione di un esercito repubblichino, di un battaglione di fascisti, giovanissimi, ostaggi a disposizione dei tedeschi e anche fucilati. Passò del tempo e non avevo avuto più colloqui con mia sorella, la cosa mi preoccupò.

Un giorno furono portati in cella due soldati, i quali mi dissero che da Siena erano giunti al carcere delle Murate qualche centinaio di soldati a disposizione del tribunale militare. Al nostro perché dicevano che non avevano fatto nulla e non sapevano di che cosa erano accusati. Loro non lo dicevano in realtà, ci fu una specie di rifiuto di partenza. Se la memoria non mi tradisce, due giorni dopo l’arrivo dei soldati da Siena fu chiamato il giovane che abitava in via Beato Angelico. Si pensò che andasse ad un interrogatorio, perché era andato via senza la roba, anzi aveva lasciato anche il « pastrano ». Invece non lo vedemmo più rientrare.

Sapemmo dopo due giorni dal secondino che venne a prelevare la roba, che era stato preso dai tedeschi e con ogni probabilità lo avevano deportato in Germania. Cominciai ad essere veramente preoccupato: i colloqui che non venivano, i pacchi da casa non arrivavano più; mancavano dalla cella il Levi e il suo casiere, che non tornavano, e il giovane che si diceva deportato in Germania: bisognava trovare il modo per uscire da quella cella.

Con «Miglio » e un altro prigioniero se ne parlò, si fecero dei piani: bisognava trovare il modo di farci dare qualche incarico dal direttore come scopini, scrivanelli, in officina, insomma un qualche incarico che ci permettesse di circolare per il carcere. Mentre eravamo in attesa della richiesta, fatta alla direzione del carcere, che a quanto pare poi fu accolta, avvenne un fatto nuovo. Tutti i militari a disposizione del tribunale dovevano essere messi in un unico braccio.

Quando vennero a prendere i soldati provenienti da Siena prelevarono anche me, ero vestito da militare anche io, e ci portarono in un altro braccio del carcere; passando osservai le celle e vidi che al piano terreno di quel braccio vi erano dei detenuti a disposizione delle S.S. tedesche. Non solo, ma tornando dall’aria, solo, isolato e ben guardato vidi il Lari entrare in una di quelle celle. Ancora una volta fortunato fui messo in una cella al terzo piano dove ci trovai un sergente di Siena, Amadei e il compagno Gualtiero Mangíavacchi, che mi disse che era stato fermato per misure di pubblica sicurezza e destinato a un campo di concentramento, mi pare a Coverciano. Si parlò molto e si rimase d’accordo che quando andava a colloquio coni suoi familiari gli avrei dato un biglietto da dare ai miei, o a qualche compagno.

Nel biglietto spiegavo che mi trovavo prigioniero nel braccio tale alla cella tale e siccome ero in mezzo a soldati a disposizione del tribunale militare pregavo mia sorella di avere un permesso di colloquio da questo tribunale. Il biglietto giunse a destinazione, mia sorella tentò e ci riuscì. Venne a colloquio e dopo le questioni familiari mi raccontò che da Carità non gli avevano fatto più permessi perché secondo loro ero stato rimesso in libertà. « Se non è tornato al comando militare o a casa si vede che sarà andato tra i banditi » così le rispondevano quando andava a chiedere il permesso da Carità. Questo mi allarmò di più e oltre ad un biglietto dove parlavo del Lari, cioè che si trovava alle Murate a disposizione delle S.S. tedesche sotto alta vigilanza nel braccio e nella cella tale, che mi ricordo, le chiesi che informasse il partito e la famiglia del Lari di tentare di avere un permesso al tribunale militare, come aveva fatto del mia sorella.

Si ebbe un bombardamento su Firenze, Campo di Marte credo; confusione indescrivibile nel carcere, detenuti gridavano, cercando di abbattere le porte chi era fuori dalla cella cercava di scappare, guardie che rincorrevano i detenuti, che cercavano di mettersi al riparo. Alla fine tornò la calma. Non ricordo se fu il giorno dopo, dopo alcuni giorni, fatto è che a un’ora insolita si aprì la cella, entrarono un capo guardia e due secondini, mi guardarono domandarono il mio nome, mi chiesero, se sapevo in quale cella fossero « Miglio » e il suo compagno, quei due con cui si era parlato della fuga. Detti le mie generalità ma risposi loro che non potevo sapere certamente in quale cella si trovasse «Miglio » e il suo compagno. Il giorno dopo alla conta fui preso e riportato nella cella di quelli a disposizione di Carità,

« Miglio » e il suo compagno, « Crispino» avevano ottenuto di andare a lavorare nelle cucine del carcere e riuscirono a scappare. La loro evasione poteva costarmi cara; facendo degli accertamenti si erano accorti che mancavo anch’io dalla vecchia cella e naturalmente rilevarono che ero stato messo in un altro braccio. Ciò malgrado ebbi ancora un colloquio con mia sorella tramite permesso rilasciato dal tribunale militare. Dopo le cose di famiglia, Frine mi disse che la mamma o la sorella del Lari avevano tentato di avere un permesso per un colloquio, sempre dal tribunale militare, ma gli era stato negato. Visto che la situazione peggiorava, che Carità diceva di avermi lasciato libero, gli suggerii di parlare coi compagni, di un mio progetto per tentare di uscire dal carcere e dalle mani della banda Carità. Il mio piano era semplice: mia sorella doveva andare dal generale Adami-Rossi e raccontargli la verità, cioè che Carità diceva che mi aveva rimesso in libertà, ma che lei sapeva che, invece, ero alle Murate nel braccio tale e nella cella tale. Frine mi rassicurò anche sull’andamento della mia famiglia, mi disse di mia moglie e dei bambini, in particolare di Sergio, nato nel febbraio 1944, mentre ero in prigione.

Una mattina fui chiamato dal medico del carcere, benché non l’avessi richiesto; nella stanza del medico trovai il Lari lo chiamai: « Brodda, non mi riconosci?! Sono di Empoli! ». Mi guardò con molta diffidenza e mi rispose: « Avvertirò la tua famiglia se hai qualcosa da farle sapere! ». Pietro mi guardò ancora male; io ero vestito da militare r questo naturalmente aumentava la sua diffidenza; si intromise il dottore dicendomi: « Lascia perdere non ha sufficiente fiducia neanche in me! ». Il Lari uscì; il medico mi visitò e mentre mi visitava mi domandò in quale braccio ero, in quale cella e a disposizione di chi ero. Domande che soddisfeci: alle sue richieste affermai che conoscevo il Lari, che era nel tal braccio e nella tale cella a disposizione delle S.S. perché Pietro non lo aveva detto ,neanche a lui. Naturalmente gli feci osservare che queste cose le poteva sapere dall’ufficio matricola del carcere. Bonariamente mi rispose che non era sempre vantaggioso andare a domandare lì e poi aggiunse, come parlando a se stesso, « Con le S.S. è molto difficile e pericoloso! ». A queste parole si risvegliò il mio interesse e cercai di sapere; nulla, chiamò la guardia e mi fece ricondurre in cella. Dopo alcuni giorni, una mattina verso le undici, si aperse la cella e un capitano dell’esercito, aveva ancora le stellette, rosso di capelli, piuttosto basso di statura ma di corporatura robusta, che era sulla porta, mi chiamò; dopo essersi accertato che ero io, mi fece la proposta di arruolarmi nell’esercito. Risposi che non avevo bisogno di arruolarmi, appartenevo all’esercito: « Quando fui arrestato dal capitano Carità, certamente per errore, il 29 novembre 1943, ero un sottufficiale di servizio al centralino del comando agli ordini del generale Adami-Rossi: c’era lui allora ». Il capitano non disse altro e se ne andò. La mattina dopo, con grande sorpresa, dopo che si era aperta la porta, vidi il capitano del giorno prima che mi disse: « Sergente prendi tutta la roba, si ritorna al comando militare! ».

Quindi fui caricato su una camionetta, libero, senza scherani che mi facessero da angeli custodi e scaricato a Settignano, dove fui ben ricevuto: mi sentii invadere dalla commozione allo stesso tempo. Dopo alcuni giorni mi fu pagata tutta la decade e di corsa andai a casa, cioè a S. Miniato; si può immaginare la commozione di tutti. Mia sorella mi disse che i compagni Fabiani e Ristori, tutti e due, avevano approvato la mia proposta, di mandarla dal generale al generale Adami-Rossi; lei si era presentata e gli aveva detto tutto, il risultato era lì; finalmente fuori dalle mani di Carità. Mentre ero in licenza a S. Miniato feci una scappata ad Empoli per prendere, contatti con il partito. Parlai con Pietro Ristori e gli esternai il desiderio di piantare la visa militare, dicevo ormai non servo più! Al distretto militare non mi daranno certo degli incarichi che potrebbero essere utili alle nostre organizzazioni, come copertura alle funzioni che svolgeva la mia abitazione; d’altra parte il partito può impegnarmi dove sono conosciuto in altro modo. Ristori approvava quanto gli dicevo, però la risposta definitiva non poteva darmela subito; disse: « Torna domani e credo di poterti dare ». una risposta precisa

Il giorno dopo, al parco della Rimembranza di Empoli, trovai Ristori e Catone Ragionieri una vera e animata discussione. Catone era convinto che, essere utile e non voleva capire che mi sarebbe stato impossibile accattivarmi la simpatia dei superiori e ottenere dei posti di qualche utilità alla lotta partigiana: « E poi — insistevo io — mi terranno al distretto? Penso di no! ». A farla breve fu deciso di farmi rientrare, finita la licenza, al distretto; gli eventi avrebbero deciso.

Pensai che su questa decisione pesò il fatto che i compagni non mi volevano ad Empoli ed avevano ragione, per. ché io ad Empoli potevo costituire un pericolo, data la conoscenza della mia passata attività e la notizia che sarebbe giunta dal comando che ero disertore; su due piedi non sapevano, naturalmente, dove destinarmi.

Tornai al distretto e qui non ricordo dopo quanti giorni — mi pare pochissimi, però, perché non ricordo dove mangiavo e dormivo — mi fu ordinato di recarmi a Vercelli, sotto il comando di un giovane ufficiale, mi pare si chiamasse Gambarotta. Con noi dovevano partire sei giovani reclute, che erano vestite in borghese.

Partimmo, le reclute naturalmente ancora vestite in borghese per ferrovia nei primi giorni di giugno, mi pare, e dopo varie peripezie arrivammo a Vercelli. Appresi che eravamo destinati in Germania per far parte delle divisioni combattenti italiane. Eravamo consegnati nella caserma. La sera stessa del nostro arrivo a Vercelli appresi che gli alleati avevano liberato Roma e questo mi convinse che era il momento di filarmela. Cercai di convincere anche altri « Ragazzi — dissi — che si fa? Si va in Germania! ». Ma ebbero paura: sui muri erano affissi dei manifesti che dicevano di una avvenuta fucilazione dei disertori

Allora, approfittando di una colonna di carri che entrava dalla porta carraia della caserma, uscii dalla stessa con II sottotenente. Riuscimmo a prendere un treno per Genova e a Pontedecimo il treno rimase sotto un bombardamento; proseguimmo con mezzi di fortuna a piedi e arrivammo alla stazione di Genova. Il bombardamento di Pontedecimo ci aiutò a risolvere una situazione che stava ingarbugliandosi. Nella stazione fummo fermati dalla ronda militare, che ci portò al comando di stazione; mostrando il mio tesserino, ormai famoso, del comando della territoriale di Firenze, dissi che io e il sottotenente del distretto militare di Firenze avevamo accompagnato delle reclute a Vercelli e che ora si rientrava a Firenze. Nel bombardamento subito a Pontedecimo avevamo perduto la borsa e tutto quanto avevamo, quindi eravamo sprovvisti di qualsiasi altro documento. Il comando militare della stazione ci rifornì di viveri e ci consegnò al comando del treno che partiva per Pisa, ma a Pisa non arrivammo!

A Sarzana il treno fu diviso e non proseguì; lì mi lasciai col sottotenente e me ne andai. Non ricordo con quale mezzo arrivai a Pisa. Da Pisa, alla stazione di S. Miniato, S. Píerino, arrivai con un treno merci, da qui a casa a S. Miniato a piedi. Dopo gli abbracci, la colazione e, mentre si mangiava, la discussione di cosa avrei fatto, perché non intendevo tornare al distretto di Firenze. Mia madre mi aveva preparato il bagno, una conca con l’acqua calda, e mentre stavo lavandomi bussarono alla porta era il compagno Gino Fontanelli.

Era venuto per sapere mie notizie e anche perché se accettavo, dovevo andare con lui ad Empoli e mettermi a disposizione del partito.

Questo tagliò corto alla discussione che avevo in famiglia, tutti fummo d’accordo che seguissi il compagno Fontanelli In bicicletta giungemmo ad Avane frazione del comune di Empoli; e li facemmo una riunione, non ricordo chi c’era oltre i compagni Fontanelli e Puccioni ~ il partito ci richiamava a Firenze La mattina dopo, molto presto, Puccioni ed io salimmo su una camionetta scoperta, carica di ceste di polli, ci portò a Firenze.

In piazza dell’Indipendenza trovammo il compagno ci affidò subito i nostri compiti; non so l’incarico che affidò a Puccioni, a me disse che per il momento rimanevo a disposizione niente montagna fra i partigiani Mi mise in contatto non ricordo se il Bettini o il Bernini, perché io ricordo benissimo essere stato in questi due negozi. Una mattina ebbi una riunione nel viale Raffaello Sannio a cui erano presenti i fratelli Pilati e « Pipetta », lo chiamavo così e l’ho sempre chiamato così, anche dopo la Liberazione, quando ebbi occasione di andare a mangiare al ristorante « Cavallino» nei pressi di piazza Signoria, lo trovai lì e mi disse che era il proprietario.

A questa riunione in via Sanzio c’ero io, i fratelli Pilati, « Pipetta », Giuseppe Molli, Cesare Dami, Gino Pallanti, Puccioni e « Pietro » che sarebbe Roasio, ed altri che non ricordo. Parlammo di formazione di squadre, compagnie di SAP, Firenze divisa in quattro zone. A me fu affidata una zona del partito comunista: Oltrarno. Mio commissario politica era Giuseppe Molli e vice-comandante Puccioni Raffaello. Compiti: organizzare militarmente in tutta la zona assegnataci, squadre e compagnie di sabotatori, recupero armi e all’occorrenza, azioni militari vere e proprie. Qui non mi ricordo se ci fosse stato anche « Paolone» o Leone, perché ho avuto contatti con tutti e due, e Roasio.

Con il compagno Molli iniziammo il lavoro organizzativo al Galluzzo, alle Due Strade, a Soffiano, via Bronzino, S. Frediano, Villone, Sdrucciolo dei Pitti, Grassina, Gavinana, Bandino, Cinque Vie. Devo dire che incontrammo delle resistenze a una lotta armata, special-mente a Grassina e al Galluzzo, nella campagna in genere -Mi si diceva: « va bene organizzare squadre di difesa aspettiamo di venire attaccati e poi risponderemo come dovremo! ». Invece ci trovammo subito d’accordo nella zona del Bandino.

La responsabilità della zona: S. Niccolò, Gavinana, Bandino, Cinque Vie e territorio circostante e cioè della quinta e sesta compagnia, l’affidammo a « Ricciolo », cioè Gino Pallanti, al Baggianti e ad un altro compagno, nativo di Signa, che aveva un occhio sbagliato, di cui non mi ricordo o forse non ho saputo nemmeno il nome. « Ricciolo », cioè il Pallanti, si rivelò un compagno veramente in gamba; si deve prendere atto che le imprese più significative e importanti eseguite nella prima zona dal partito comunista si devono a lui.

Fra le staffette, ricordo Stella, una di S. Frediano, che faceva Montoci di cognome, poi Leida Salari, questa me la ricordo bene perché era di Empoli, ma abitava a Firenze in via Bronzino; Vera, una giovane di Castiglion del Lago, che poi si è sposata con il Puccini, da cui ora si è divisa; Scaramuche, che era un ragazzetto, che si chiamava così, Rina Fanciullaccí, la sorella di Bruno, e la figliola di Lampredi; il nipote del Molli e altre donne di cui non ricordo il nome. Una era del Galluzzo e rimase ammazzata dai tedeschi, mentre cercava informazioni sull’avvicinamento del fronte; una, Elsa, si è sposata con il compagno Luigi Gaiani che dopo la morte di « Potente » assunse il comando della divisione « Arno »; l’altra era una delle Due Strade, una morettina un po’ curva di spalle, che si era innamorata pazzamente del Bastianoni. Tramite Giuseppe Molli conobbi Aligi Barducci, « Potente » che tra la liberazione di Roma e i fatti di piazza Tasso aveva fatto un salto a casa. L’incontro si ebbe a casa del Molli e con lui il Molli e il Pallanti, « Ricciolo », discutemmo della collaborazione tra noi che si agiva nella città e i partigiani in montagna fornitura armi, indumenti coperte, scarpe…. E reclutamento in eventuali azioni , progettate, di attacco al nemico si doveva studiare sempre la via dello sganciamento, della ritirata, e se questa non dava via di uscita rinunciare; naturalmente il rischiare il tutto e per tutto quando si trattava di obiettivi ben fissati, ad esempio far saltare i ponti, linee ferroviarie ecc… Insomma ci dette una lezione di strategia militare

« Potente » l ‘ho visto allora e poi l’ho visto dopo la Liberazione, però con Molli si discuteva di lui secondo il Molli, il partito voleva destinare il Barducci ai Gappisti; allora fu mandato su in montagna. Il Barducci era stato nella Nembo. Anche questo me lo disse il Molli che su Aligi ne sapeva assai. A me questo ragazzo pareva piuttosto mite, però era deciso. La sua espressione sempre paragonata a quella di un compagno che era prigione a Pianosa con me e che poi fu ammazzato su l’alta Italia: Cesare Manetti. E dirò che i suoi occhi esprimevano allo stesso , stesso tempo decisione, ma anche dolcezza. Come dicevo i contatti diretti con le formazioni di montagna furono affidati alla quinta e alla sesta compagnia; Gino Pallanti, Baggiani e, naturalmente, alle staffette.

Al Bandino, a casa del Pallanti, mi pare, oltre al recapito staffette si era organizzato un pronto soccorso per la quinta sesta compagnia, fornito di parecchio materiale medico. La seconda compagnia aveva un altra pronto soccorso purtroppo meno fornito, organizzato in via Bronzino presso l’abitazione di Lida Salvani mentre la prima e la seconda, S. Frediano – S. Niccolò, aveva organizzato un ambulatorio, oltre che per medicazioni, anche per picco operazioni, estrazioni di proiettili, ecc. posto all’interno de chiesa di S. Felice, dove c’era un prete magrolino, piuttosto bassotto deciso anche per far pulire le strade.

Onde accertarsi sulla validità dei componenti delle varie squadre delle singole compagnie facemmo delle ispezioni insieme a Molli, commissario politico; a Dami, ispettore di zona; a Renato Meci comandante della seconda compagnia; al Baggianii e al Pallanti per la zona di S. Niccolò, Grassina, Bandino, Cinque Vie; a Enrico Dondi milanese, un tenente dei guastatori a cui si era affidato il comando della quarta compagnia per la zona di Due Strade, Galluzzo, Scopeti, Cascine del Riccio e poi a Bastiani Ilio, commissario politico e a « Pancino », comandante della prima compagnia di S. Frediano e S. Niccolò. Facemmo delle mobilitazioni e dei sopralluoghi, fissando degli appuntamenti in date e luoghi precisi nelle ore notturne, probabili zone delle nostre azioni. Facemmo delle ricognizioni ai ponti per individuare i fornelli dove sarebbero state poste le mine perché i fornelli furono fatti prima, diversamente da ciò che dice Orazio Barbieri in « Ponti sull’Arno ».

clip_image004

Genieri tedeschi minano il “Ponte Vecchio”

 

Quando fecero i fornelli, questo mi è venuto in mente , loro avevano fatto sgomberare una fascia di tutte le abitazioni vicino all’Amo, dove non si poteva transitare chi veniva trovato lì veniva passato per le armi, immediatamente. Riuscimmo anche ad avvicinarci alla piattaforma di legno della pescaia di S. Niccolò, che i tedeschi avevano preparato con l’evidente scopo di farvi transitare i mezzi di trasporto, truppe, carri armati, ecc. in ritirata, per vedere come attaccarla.

A questo proposito con « Ricciolo », avevamo parlato di usare la torre medioevale che era vicinissima alla pescaia. avevamo detto: « Si fa entrare una squadra o due, bene armate con bombe potenti e quando passano le ultime macchine si fa l’azione. Infatti i comandi si raccomandavano anche di prendere prigionieri e di fermare carri armati per valorizzare di più le nostre azioni e, possibilmente impedire il sabotaggio della centrale di sollevamento dell’acquedotto, che era lì vicino.

Con Raffaello Puccini, Pirricchi e lo Sbandati si parlò di mobilitazione notturna con gli uomini e si faceva anche per vedere se quando venivano comandati avrebbero reagito bene o no. Via via facevo e facevo fare i sopralluoghi e in questa occasione portavo tizio o caio a seconda della zona dove andavo.

C’era stato detto anche di predisporre l’occupazione di forte S. Giorgio per ospitare la brigata Sinigaglia, che avrebbe dovuto venir giù alcuni giorni prima delle altre e doveva star lì; noi si doveva procurare il posto e provvedere agli alimenti.

Oltre a questa si dovevano studiare i possibili obiettivi per future e probabili azioni, mettere alla prova i componenti delle nostre squadre di azione.

1,a prima zona disponeva di circa settecentocinquanta uomini; l’armamento era scarso, adatto per piccole imprese, ma certamente non idoneo ad affrontare un combattimento frontale e duraturo per qualche ora; non solo per mancanza di armi ma, soprattutto, per mancanza di munizioni; avevamo al massimo, due o tre caricatori per arma. Dai vari rapporti risultavano in nostro possesso 281 tra fucili e moschetti tipo 91, più 350 fucili da caccia; mitra e pistole mitragliatrici 10-12; mitragliatrici pesanti 4: uno in S. Frediano, uno al Pignone e due o tre al Bandino.

Rivoltelle, fra quelle a tamburo e automatiche, 192 compresa la mia: avevo una bella Colter; bombe, fra balilla buone per il rumore, ananas e quelle tedesche a manico circa 430-460. Naturalmente questo armamento fu il massimo, cioè quello disponibile al momento dell’ultimo rapporto fatto in via dei Renai, in un laboratorio di falegnameria, li proprio sulla sinistra, dove facemmo l’ultima riunione dedicata al rapporto ufficiali della prima zona con il contatto del Comitato di Liberazione e quello del comando « Marte ».

In questo laboratorio di falegnameria in via dei Renai c’erano Dami insieme ai rappresentanti del comando Marte e del comitato di Liberazione. Fu discusso degli obiettivi militari e del segnale, che ci sarebbe stato dato dal Campanile di Giotto: una fumata e questo avrebbe dovuto scatenare l’insurrezione generale. Noi avremmo dovuto occuparci anche del mantenimento dell’ordine pubblico. L’ultima riunione di compagnia la facemmo, ma eravamo poche persone, in un negozio di antiquario, mi pare nello Sdrucciolo dei Pitti.

Non fu facile organizzare le compagnie e le squadre. Comunque, avendo una certa comprensione e fidando sul buon senso di tutti, le cose andarono a posto, anche se rimasero dei « mugugni ».

Determinate armi non erano affidate al singolo Sappista, ma alla compagnia, il comando della quale le distribuiva secondo l’azione da compiere e la capacità di usarle dell’uomo o della squadra incaricata.

Le compagnie e le Squadre per le piccole azioni (come ad esempio sabotaggio alle linee di comunicazione, spostamento cartelli indicatori, invertimento degli stessi, getto di chiodi tricuspidali o di manifestini, disarmo di fascisti o tedeschi, cose impreviste come la possibilità di incendiare un camion di nemici in sosta o di passeggio, fermare un motociclista corriere, catturare un fascista o tedesco ecc.) nel territorio di loro competenza godevano di ampia libertà di iniziativa. Per azioni più grandi, che potevano coinvolgere altre compagnie, dovevano organizzare l’azione stessa con il comando della prima zona. Le compagnie tutti i giorni rimettevano quelli che chiamavamo « bollettini di guerra ».

Le azioni più significative compiute nella prima zona, oltre a quelle già citate sopra, furono la evitata distruzione dell’acquedotto e del ponte di Mantignano; la rimozione e neutralizzazione di circa 250 mine tra il ponte alla Vittoria e Ugnano; dove avemmo un numero maggiore di morti e di feriti. Infatti avemmo un morto e tre feriti, nel tentativo di levare una mina e per impedire il brillamento delle mine che dovevano far saltare il ponte alla Vittoria, nello scontro coni guastatori tedeschi, avemmo un altro morto e tre feriti. Mi fu poi detto che un nostro compagno era saltato con il ponte.

La quinta e la sesta compagnia cooperarono con gli alleati e la Sinigaglia allo sminamento e alla cattura di un centinaio di tedeschi asserragliati a Villamagna. Lo stesso tentativo di evitare il brillamento delle mine fu fatto anche al Ponte alla Carraia, ma anche qui la preponderante forza dei tedeschi (che ebbero 1 morto e due feriti) respinse le nostre squadre, che persero 5 uomini. Fu compiuto lo sminamento del ponte a Ema, però i tedeschi riuscirono a farlo saltare ugualmente; tuttavia sotto la direzione di « Ricciolo » fu riparato e divenne agibile entro pochissime ore.

Infine si prese parte allo snidamento dei franchi tiratori fascisti e tedeschi da Soffiano a Porta Romana. In via dell’Ardiglione fu catturato un tedesco franco tiratore e altri due vestiti da monaca, che stavano per entrare nel palazzo dei sindacati sul Lungarno Soderini. Avevano dei panieri con viveri e munizioni: furono passati per le armi seduta stante, tanto più che pochi istanti prima era stata uccisa una donna che era in coda per prendere il pane. Fra le altre azioni da segnalare ci sono i nostri contatti con gli ufficiali della città che ci permisero di rifornirci armi, munizioni, coperte e scarpe, con una incursione nella caserma di piazza dei Nelli e in un’altra sotto la direzione del « Ricciolo ».

Vorrei segnalare anche un recupero di armi compiuto dal nipote del Molli, un ragazzino di dodici, tredici anni fatto alla Fortezza da Basso e mi pare doveroso ricorda anche il compagno Luciano Franchi, che con un cavallo e una carretta andava per le campagne a procacciare viveri che poi venivano dati alla popolazione: spaccio in piazza Torquato Tasso, alla bottega del vino.

Noi pensiamo che la famosa incursione della banda Carità in piazza Tasso sia dovuta al fatto che lì aveva abitudine di riunirsi parecchia gente di noi. Almeno io ebbi questa impressione, perché io passavo spesso di là e in questo periodo andavo a dormire, a mangiare dal Molli, in viale Raffaello Sanzio.

In questo periodo fu fatta una riunione degli ufficiali della prima zona con l’ispettore Cesare Dami nella serra della villa del console di Francia, sita sul viale dei Colli Mentre eravamo lì che si discuteva, vedemmo venire verso, la serra il console con un ufficiale tedesco, che poi invece, andò via.

Un’altra riunione del sotto-comitato di Liberazione fu tenuta il 17 Luglio al Conventino con l’inviato del comando Marte, coi commissari politici e il comandante del« la prima zona, in cui gli argomenti principali discussi riguardarono l’andamento del fronte e il suo avvicinamento a Firenze. A questo proposito fu dato incarico alla IV, V, VI compagnia, cioè a quelle delle zone Bandivo, Grassina, Ponte a Ema, Impruneta, Due Strade, Galluzzo, Scopeti… di formare delle squadre apposite di tre individui, le quali ogni quattro ore avrebbero dovuto formare il comando posto in casa di Giuseppe Molli in viale Sanzio. Qui doveva presentarsi per ritirare il risultato delle esplorazioni un compagno, che fu fatto conoscere a me e al Molli. Ho detto che doveva presentarsi perché quel compagno non si è mai presentato. Sempre in quella riunione si discusse dell’occupazione del forte S. Giorgio per i partigiani della Sinigaglia e loro vettovagliamento, dell’ordine pubblico dei posti di medicamento, della pulizia delle strade, degli organismi pubblici. Io e il Molli uscimmo insieme dalla riunione. Avevamo fatto poche decine di metri verso il viale Sanzio, quando sentimmo la sparatoria dell’eccidio che si consumava in piazza Torquato Tasso. Saranno state le 18-19. Me lo ricordo bene anche perché quando si sentì sparare si corse, ma non là, si corse via. Si trovò dei giovani della milizia, che correvano con il moschetto verso piazza Torquato Tasso. Passò un tram e allora io e Molli in corsa si montò sopra, perché si aveva paura che prendessero anche noi.

In piazza Tasso furono uccisi il Bercigli (che mi pare fosse il commissario politico della nostra prima compagnia, col quale si era fatto alcuni giorni prima una riunione in via dei Serragli in casa dei parenti di Ottone Rosai, il pittore) Aldo Viti e Corrado Frittella. Furono arrestati Castellani, Pancacci e Curdi, che conoscevano molto bene me e il Molli perché ci eravamo incontrati a diverse riunioni.

In seguito a questi fatti e a questi arresti per prudenza il partito diede ordine a « Gigi » e « Beppe », cioè a me e al Molli, di lasciare il comando della l’ zona e di ritirarsi in montagna con « Potente ». Noi non accettammo quanto aveva disposto il partito, spiegando che non potevamo lasciare il comando perché erano in ponte troppe cose e l’organizzazione ne avrebbe sofferto proprio nel momento in cui era prossimo il passaggio del fronte. Anche se fossimo stati sostituiti da nuovi compagni si rischiava di creare disorganizzazione. Non partimmo, disubbidimmo al partito e fu un bene. Per maggior sicurezza però, d’accordo con l’ispettore Dami, furono investiti di maggiori responsabilità e pronti a sostituire il comandante e il commissario politico della prima zona i compagni Pananti, Ilio Bastianoni, Raffaello Puccini e Bruno Fanti.

Intanto le squadre erano mobilitate in permanenza e si stabilivano gli obiettivi, compagnia per compagnia. Al comando di Bastianoni fu dato l’incarico di provvedere viveri e infatti ci disse di essere in grado di procurare gallette e frutta, in quantità sufficiente per alcuni giorni: dovevano servire soprattutto per la brigata Sínigaglia, che doveva scendere prima dell’insurrezione popolare e acquartierarsi a forte S. Giorgio.

Purtroppo ciò non avvenne, e fu meglio così perché se avessimo tentato di impadronirci di forte S. Giorgio vigilato in forze dai tedeschi sarebbe stata una follia. Inoltre il comando della seconda compagnia (Porta Romana, Due Strade, Galluzzo) era scomparso. Il Bastianoni, che doveva consegnare gallette e frutta, dopo averci consegnato una cesta di gallette e una di mele, era scomparso e con lui il comandante Enrico Dondi, malgrado i nostri sforzi per prendere contatti con la sua compagnia, che avrebbe dovuto sostenere i primi urti coni tedeschi e che avrebbe dovuto installare il comando a forte S. Giorgio. Dalle informazioni dateci dalle pattuglie di esploratori, si ebbe la certezza che i tedeschi incalzati dagli alleati e dall’azione partigiana si ritiravano ed erano prossimi a Firenze.

Fu così che il comando della prima zona la mattina del 3 agosto si sistemò in una casa sita in Bobolino, indicata dal compagno Roasio.

Prendemmo posto al primo piano: Molli, io, Roasio, altri e le staffette. La squadra armata era sistemata in una stanza al piano terreno. Il posto era tranquillo, non sembrava possibile che in quella magnifica e stupenda giornata di agosto, lì a due passi, sul fronte, fosse invece un inferno. Nella notte, forse alle tre del mattino, sentimmo delle forti e fragorose detonazioni: i ponti erano saltati!

Allora, solo, con una rivoltella, corro attraverso ai giardini, sbocco in piazza Porta Romana, via Petrarca, viale Aleardo Aleardi. In piazza Torquato Tasso mi sparano addosso; corro, arrivo nei pressi del ponte alla Vittoria, trovo degli armati, lo Sbandati (« Mechi »), e altri. Il ponte alla Vittoria è lì senza più le sue arcate, restano i piloni sbrecciati e un cumulo di macerie.

« Baffino », con la sua mitragliatrice inceppata, piange come un disperato. Gli sparano addosso, sono i tedeschi dall’altra parte del ponte. Mentre si stava discutendo di quello che bisognava fare, di dietro ci sparano in aria: sono delle pattuglie di alleati, che ci impongono di ritirarci. Dò alcune disposizioni, come quella di rimettere in efficienza la mitragliatrice e di appostarla sul campanile di Monte Oliveto, poi ritorno indietro. Mentre sto passando lungo il viale Ariosto, davanti a piazza Torquato Tasso sento fischiare intorno le pallottole. Finalmente arrivo a Porta Romana, che era colma di folla. Frattanto il comando, con la sua squadra armata, si era installato nella ex-casa del fascio di Porta Romana, all’inizio del Poggio Imperiale.

Scende una compagnia della brigata Sinigaglia con il suo comandante in testa, ci abbracciamo. Gracco pare un arsenale: Thompson, due rivoltelle alla cintura, pugnali negli stivali, a tracollo un nastro con le pallottole. Una cannonata arriva in piazza della Calza, ci sono due feriti fra la popolazione; porta Romana brulica di gente in festa che acclama i partigiani. Roasio improvvisa un comizio; una compagnia della Sinigaglia viene alloggiata a Villa Cora. Il comando prima zona è stracolmo di gente, Sappisti e popolazione creano un confusione del diavolo. Cerchiamo di convincere il popolo a uscire dai locali e con difficoltà, finalmente, riusciamo a mettere un po’ di ordine. Mettiamo delle sentinelle armate sulla porta, formiamo una specie di corpo di guardia con il compito di vigilare sulle persone che entrano e di ricevere eventuali visitatori e interlocutori. Il cannoneggiamento si fa più intenso, sibili di granate si incrociano nell’aria, le granate si infrangono nelle strade vicine; arrivano le staffette. Novità: i franchi tiratori sparano su tutti! Uno di questi assassini deve essere asserragliato nel Conventino. Sull’angolo del viale Petrarca con piazza Torquato Tasso c’è un carrarmato alleato e una pattuglia di canadesi, che non rispondono al fuoco alternato dei franchi tiratori. I nostri chiedono di usare il carrarmato come scudo per arrivare al Conventino e snidare i franchi tiratori; non viene concesso neppure dopo l’intervento mio e di Molli. Ancora non sappiamo nulla di Enrico Dondi. Con Roasio, Mechi, Molli, Pirricchi, discutiamo di come affrontare il prossimo futuro, pieni di entusiasmo, di creare il partito con le sue sezioni e le sue cellule; facciamo delle previsioni per l’avvenire di una nuova Italia, veramente democratica, ma il presente ci riafferra. In S. Frediano è stata gettata una bomba contro un camion di nappisti, feriti la staffetta Lida e il capo-squadra Armido Sbandati.

Sparano in via S. Agostino, in via S. Maria, in piazza S. Felice, sparano dalla parte opposta dell’Arno. Ordino alle compagnie di sloggiare i franchi tiratori, la notte finalmente torna un po’ di calma.

Il tambureggiamento dei cannoni è meno frequente, non ci impedisce di dormire. La mattina del 5 alle ore 10 vengo chiamato da Roasio. Mi dice che sono arrivati degli ufficiali inglesi accompagnati da un capitano degli alpini e da un altro borghese; chiedono di poter parlare con il comandante dei partigiani, è quindi necessario riceverli: « Tu sei il più alto grado militare in carica! — sono le precise parole di Roasio — Tocca a te! ».

Entro nella saletta, a sinistra di chi entra nella casa, e trovo il Molli, mio commissario politico, che sta parlando con gli ospiti; ci sediamo. Il capitano degli alpini Lombroso ci dice che il colonnello inglese lì presente ha avuto l’incarico dal comando alleato di parlare con il comandante dei partigiani. Dico io: « Quale comandante? Il comandante della divisione Arno non sono io… ».

La persona in borghese venuta con loro si fa avanti e dice di essere il maggiore Niccoli, ma era vestito in borghese, comandante partigiano.

Roasio, seduto dietro di me, mi dà una gomitata nella schiena e mi dice: « Devi farti avanti ». Allora mi rivolgo al comandante inglese e dico di essere il comandante della prima zona. Siccome il comandante della divisione è assente, può parlare direttamente con me. Così avemmo la prima certezza delle intenzioni alleate sul nuovo assetto dell’Italia.

In stentato italiano, aiutato e corretto dal capitano Lombroso, l’ufficiale inglese fece gli elogi per il contributo dato dai partigiani, ma disse: — Ora il loro compito è finito —. Secondo lui, era giunto il momento di deporre le armi e tornare al lavoro per la ricostruzione delle nostre case. Combattere con le armi era loro compito. Dico la verità: rimasi come stordito, un insieme di pensieri affluirono in me, cadevano tutte le nostre rosee aspirazioni, avevo voglia di piangere. Roasio ancora mi svegliò con una gomitata e con impeto improvviso, forse anche rabbioso dissi che questo non poteva avvenire. Non si poteva, nessuno poteva impedire a noi partigiani italiani di combattere con le armi i nazifascisti.

Il colonnello ebbe un sobbalzo, alle cose dette da me ma poi con molta calma disse che quelli erano gli ordini del comando alleato; capiva il nostro dolore e la nostra disapprovazione e la nostra reazione, ma circostanze anche di prudenza richiedevano che noi partigiani consegnassimo le armi: « Se vi lasciassimo le armi, anche i fascisti e i tedeschi potrebbero mimetizzarsi da partigiani ». Replicai che questo pericolo non sarebbe esistito: noi conoscevamo i nostri uomini e molto volentieri ci saremmo messi al loro fianco, anche sotto il controllo e sotto gli ordini degli alleati e finii col dire, questo me lo ricordo bene: « Colonnello queste armi, che abbiamo conquistato con il sangue, che compendiano tanti sacrifici, ma anche tante speranze, noi intendiamo impugnarle fino a quando non avremo scacciato i nazifascisti dall’Italia ».

Nacque una eccitata discussione; anche il maggiore Niccoli sosteneva quanto avevo detto e anche il Molli. Infine l’ufficiale inglese disse che poiché la questione sarebbe stata discussa al comando della divisione Arno, solo allora si sarebbe presa una decisione definitiva: « Per il momento non vi chiediamo la consegna delle armi! Ve le lasciamo, ma per ora niente armate per le strade: le armi devono stare depositate in caserma. Se troviamo persone armate, anche se portano contrassegni partigiani, le arrestiamo ». Poi aggiunse. « Se abbiamo bisogno del vostro aiuto armato lo comanderemo noi ». Dopo averci promesso che avrebbe provveduto a fornirci dei viveri, ci stringemmo la mano e con il suo frustino sotto il braccio l’inglese se ne andò. Dopo che gli ospiti non graditi se ne furono andati tirammo le nostre nere conclusioni. Roasio disse che era necessario mettere al corrente il comando Marte e « Potente » di quanto era accaduto da noie dopo averci raccomandato di impartire gli ordini affinché i nostri uomini non girassero armati, anche lui se ne andò.

Arriva Bastianoni, che ci aveva dato tante preoccupazioni; ci racconta di essere stato tagliato fuori dall’avanzata del fronte e di avere tentato di entrare, ma inutilmente. Giunse insieme all’ordine di munire i Sappisti di segni di riconoscimento: tesserini rosa e bracciali tricolore con il cavallo alato. Firmo i tesserini che insieme ai bracciali debbono essere distribuiti ai Sappisti. Poi li faccio consegnare ai comandi di compagnia che conoscono i loro uomini uno per uno, quindi non vi è pericolo che vengano dati ad estranei.

La notizia che il comando alleato vuole disarmare i partigiani, noi compresi, si era propagandata e al comando era un continuo andirivieni. Si ascoltano i più strampalati propositi, ci affatichiamo io, Molli e altri, più coscienti, per fare opera di persuasione e di convinzione; se è vero o che facciamo circolare disarmati la maggioranza dei sappisti purtroppo qualcuno conserva la rivoltella, come alcuni casi successi dimostrano. Gli alleati mantennero la parola riguardo ai viveri e ci mandarono pane, carne, carne di maiale con fagioli in grosse scatole, cioccolato, sacchetti di farina, sale, carne di maiale al sugo e altra roba, sempre in grandi scatole, insieme con sigarette ecc. Il fatto che pochi erano i sappisti che si presentavano sia al comando della prima zona, che alle loro compagnie, e che quindi non venivano a ritirare le loro razioni di pane, ci fece decidere di distribuirle alla popolazione.

La quinta e la sesta compagnia si era disciolta trasformandosi in polizia urbana, manovali, edili, infermieri; alcuni si erano aggregati alla Sinigaglia.

Ci viene comunicato che il compagno Baggiani è stato ucciso da una cannonata in piazza Gavinana. Dei compagni ci accompagnano: tra questi Orazio Barbieri del comando Marte, che dalla parte ancora occupata percorrendo la galleria Vasariana, si era calato nella strada di qua d’Arno.

Il Barbieri venne da noi e ci dette le informazioni di quello che succedeva oltre l’Amo, e ci disse che era venuto per sollecitare gli alleati ad attraversare l’Arno o almeno perché qualche pattuglia passasse da dove era passato lui, per rendersi conto della situazione e provvedere. Ci disse che i tedeschi là erano pochi e con poco sforzo si potevano buttare fuori da Firenze.

Si fece accompagnare al comando degli alleati, che era sistemato dove prima c’era stato il comando dei tedeschi, e poi non si vide più.

In tutto questo periodo cannonate da una parte, cannonate dall’altra e la sera stessa del 5 o del 6, si ripeté a Villa Cora quello che era successo da noi. « Potente » era stato chiamato prima al comando degli alleati e anche lì fecero le solite storie, non volevano lasciare le armi ci fu una discussione molto forte e poi da ultimo fu stabilito quello che era già stato detto da noi, cioè le armi non depositate, ma tenute in caserma, e noi a disposizione delle forze armate alleate, le quali se avevano bisogno del nostro aiuto ci avrebbero impiegato come meglio credevano.

Poi uscì fuori che dei franchi tiratori- non ne volevano sapere: per eliminare i franchi tiratori gli alleati diedero facoltà di agire alla Sinigaglia e ad una compagnia mia ed io mi ricordo che insieme al Molli e ad un altro andai sui tetti in via S. Agostino attraversando un abbaino dall’abitazione del cognato del Molli. Si stette tutta la notte li si sentiva sparare, ma non si vedeva nulla e poco dopo rientrammo.

Però in quei giorni c’era « Potente » e gli alleati e noi si andava là per discutere proprio di una azione verso i franchi tiratori, un’azione più decisiva. Mi ricordo che mentre andavamo là, « Potente » veniva fuori, era insieme a un capitano canadese, io ero di qua della piazza e avevo con me un nipote di Rosai ed altri. All’improvviso una cannonata esplose vicino al gruppo di Potente: lui fu ferito, il capitano canadese anche e un nostro sappista era ormai morto, perché aveva proprio la testa spaccata.

« Potente » lo portarono all’ospedale militare di Ponte agli Scopeti in una valle. Ma tutti si pensava che non fosse niente perché la ferita che appariva peggiore era quella che si vedeva alla gamba; invece era stato preso all’inguine. La notizia della morte di « Potente » ci demoralizzò tutti, ci buttò un po’ giù e fu allora che conobbi bene Luigi Gaiani.

Perché Gigi lo avevo visto altre volte, ma aveva un altro nome, si chiamava Comaschi. Mi ricordo che dopo ha sposato una delle nostre staffette che era una intellettuale; noi eravamo più rozzi e ce ne accorgemmo subito che non veniva dalla « produzione ».

 

Poi successe che la mattina dell’11 ci diedero la facoltà di attraversare l’Arno. Mi ricordo che con una compagnia nutrita, perché si gonfiava strada facendo attraverso S. Frediano, si attraversò l’Arno alla pescaia di Santa Rosa; avevo un Thompson e avevo anche un tascapane stracarico di cartucce che mi spezzava la schiena. Allora mi sedetti, ma nel sedermi mi scappò un colpo, meno male che andò per aria, arrivò un militare alleato e mi mise il Thompson in sicura: forse pensava che non lo sapessi adoperare. Alla pescaia erano state fatte delle scalette di legno; si andò là, e ci mettemmo a marciare in fila indiana ai lati della strada vigilando le facciate dalla parte opposta. Non è vero che quando si attraversò, c’era la gente alla finestra in via Palazzuolo ad applaudirci; le finestre erano molto chiuse 1’11, quando si attraversò noi. Ci portarono poi in un edificio militare, non mi ricordo con esattezza quale era, dove fecero il concentramento di tutti; poi la mia compagnia andò sul Mugnone con altri, mentre noi comandanti si andò in prefettura.

 

Io non fui fra quelli che discutevano e mentre ero lì in prefettura e si sentiva sparare perché i tedeschi erano in piazza S. Gallo, sul Mugnone; io non presi parte a questi scontri, ci andarono delle compagnie della Sinigaglia.

Questa è stata tutta la mia avventura militare; azioni grandi la prima zona non le ha avute, ha avuto qualche scaramuccia. La gente, però, era scatenata contro i fascisti. Mi ricordo di Roboamo Poli, che era il babbo del bambino ammazzato in piazza Tasso: non si riusciva a fermarlo. Di casi di gente che è stata fatta fuori perché ritenuta una spia dei fascisti ce ne sono stati diversi. Qualcuno, come una maestrina del Galluzzo, penso di averla salvata. Infatti quando presi questa ragazza fortunatamente c’erano gli alleati, fra i quali un ufficiale, e la consegnai a loro perché altrimenti la facevano fuori e, poverina, era accusata perché come maestra insegnava il fascismo, voleva i bambini in divisa, magari era stata tra quelle più rigide; però, oltre a questo, non aveva altre responsabilità. Fu data la caccia anche alle persone da cui poi sono andato ad abitare io, le Rosselli. La mamma era tedesca, era vedova e aveva tre figlie, una era interprete al comando della gendarmeria tedesca e per questo le fu dato la caccia. La salvò il prete di S. Ilario a Colombaia — questo l’ho saputo dopo — e il contadino accanto, perché le fecero ricoverare in un istituto di suore cattoliche.

Nei momenti caldi, quando non si è ancora attraversato l’Arno, mi pare, vengono delle informazioni, secondo le quali in una di quelle due strade che sboccano in piazza Romana, un consigliere fascista, Federzoni, mi pare, era stato portato in un portone. A gran voce e con furore i presenti vogliono andare a prenderlo e vogliono che sia subito giustiziato. Con Molli e Bastianoni si riesce a ristabilire la calma solo quando mi prendo l’incarico di andare personalmente a prelevarlo, due partigiani vengono con me. Siamo armati di pistola, portiamo il bracciale tricolore, segno di riconoscimento. Si va. Ci presentiamo al portone segnalatoci: era un vasto ambiente che la brigata Rosselli della divisione G.L. aveva scelto come caserma. Al partigiano che era sulla porta chiedo di parlare con l’ufficiale di servizio. Il piantone vuol sapere chi siamo; i miei compagni si agitano, alzando la voce e reclamano il gran consigliere fascista, compaiono altri partigiani della Rosselli; mi qualifico, mostro i tesserini mentre l’ambiente si sta riscaldando. Ecco che dal lungo corridoio si fa avanti un ufficiale di marina, dice di essere il comandante della brigata partigiana lì acquartierata, comandante Rangoni, mi dice. Gli faccio presente la ragione della nostra visita. Mi risponde che il membro del gran consiglio Federzoni è stato arrestato da lui e che soltanto lui consegnerà l’arrestato alla polizia degli alleati. Era molto deciso. Capisco l’antifona; il membro del gran consiglio fascista Federzoni, grazie al Rangoni, è al sicuro. Era ovvio che né io, né i due partigiani al mio fianco, né la stessa brigata avremmo impiegato la forza per impossessarci del fascista prigioniero del comandante Rangoni, nonché ufficiale di marina. In verità al mio ritorno fu suggerito di fare un colpo di mano insieme alla brigata Sinigaglia, ma poi prevalse il buon senso e si lasciò perdere la questione.

In quel periodo i comandanti e i commissari politici delle SAP, in generale, erano sicuramente comunisti, compagni già provati e quasi tutti condannati dal Tribunale Speciale, mentre i semplici componenti delle SAP non potrei dire se erano comunisti, socialisti, democristiani o apartitici: non si chiedeva la loro fede politica, si chiedeva solo la loro disponibilità a lottare contro i fascisti o i tedeschi. Ufficialmente ho conosciuto il Conti Siro come socialista, ma certamente ci saranno stati altri socialisti. Questo convincimento mi viene dal fatto che alla richiesta fattami dagli Alleati di un partigiano deciso a farsi paracadutare al nord, il partigiano scelto — Lamberto Matteucci — l’ho ritrovato dopo la Liberazione come attivo dirigente del PSI.

 

Si deve ricordare anche il Fronte della gioventù che mi pare avesse due squadre nella zona di Gavinana erano a contatto con « Ricciolo » che aveva il comando di tutta la zona ed in pratica faceva molto da sè, malgrado avesse come vice-comandante il Raffaello Puccini, che come vice-comandante comandava poco.

Lascia un commento