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27 Gennaio 1945 Giornata della Memoria Olocausto

 

 

Dachau

«Io, superstite di Dachau Ho giurato di raccontare l’orrore dei morti viventi»

Parla Parete, ex finanziere scampato allo sterminio

«Un inferno tra puzza di carne bruciata e suicidi»

27 gennaio 2011

GIORNATA DELLA MEMORIA OLOCAUSTO

«Il ginocchio nudo di una donna, fino a 20 anni, non l’avevo mai visto: le ragazze si coprivano con le gonne lunghe e le calze nere di cotone. La prima volta che l’ho visto è stato nel campo di concentramento di Dachau quando le Ss ci hanno fatto spogliare tutti insieme: uomini, donne e bambini. Eravamo appena arrivati dopo un viaggio di tre giorni e tre notti ammassati in carri bestiame». Ermando Parete, 88 anni, è un ex finanziere scampato all’orrore nazista: «Ho il dovere di parlare, l’ho giurato», dice nel giorno della Memoria. La sua testimonianza di sopravvissuto è affidata anche a un video su Youtube.

Ermando Parete è riuscito a resistere ai nazisti: nella sua casa di Pescara custodisce gli attestati dei presidenti della Repubblica, a cominciare da un documento di Sandro Pertini, controfirmato dal ministro dell’Interno Giovanni Spadolini. Parete, ricorda il primo giorno a Dachau?

«Dopo un rastrellamento a Udine, siamo stati buttati in carri bestiame e ci sono voluti tre giorni e tre notti per arrivare a Dachau: sempre in piedi, ammassati come animali. Non sapevamo dove stavamo andando: nessuno sapeva niente. Quando siamo arrivati, ci hanno fatto scendere dal treno e abbiamo sentito un odore forte di carne bruciata: pensavamo che i tedeschi stessero facendo la carne arrosto. Poi, abbiamo capito che era carne umana: non era odore, quella era puzza. C’erano sette forni crematori, accesi 24 ore al giorno. È incredibile quello che è successo dopo: ci hanno radunato in uno stanzone e ci hanno costretto a spogliarci tutti insieme, uomini, donne e bambini. Tutti nudi: vedere intere famiglie senza vestiti è stato indecente. Lì ho visto per la prima volta il ginocchio nudo di una donna: prima le donne portavano le gonne lunghe e indossavano calze nere di cotone. Il nylon non esisteva: è arrivato negli anni Cinquanta con gli americani».

Per lei Dachau è stato l’apice dell’orrore. Prima del 1944 cosa le è successo?

«L’armistizio dell’8 settembre 1943 l’abbiamo saputo quattro giorni dopo da un prete slavo: non c’erano i telefonini. Mi sono arruolato a 20 anni nella guardia di finanza e sono stato mandato a combattere in Jugoslavia. Dopo l’armistizio, mi sono unito ai partigiani per tornare in Abruzzo ma a Cimadolmo (Treviso) sono stato catturato e tenuto in una cella buia nei sotterranei del carcere di Udine. Da Udine, la partenza del viaggio verso l’orrore di Dachau. A Dachau sono stati deportati 10.362 italiani. Di questi 9.958 sono stati fucilati e bruciati nei forni crematori. I sopravvissuti sono stati 404 e tra questi ci sono anch’io».

Dopo l’arrivo a Dachau cosa è accaduto?

«Dopo lo spettacolo indecente dei corpi nudi, i tedeschi ci hanno diviso: gli uomini da una parte e le donne dall’altra. I bambini? Li hanno strappati dalle loro madri e quelle che hanno provato a tenerli legati a loro sono state uccise a pistolettate. In queste condizioni, siamo rimasti seminudi per giorni fino a quando ci hanno consegnato un pigiama. La nostra divisa: una casacca zebrata. Poi ci hanno preso i documenti e li hanno bruciati».

Ha perso il suo nome ed è diventato un numero?

«Io ero l’uomo numero 142.192, me l’hanno scritto su un braccio. Un marchio che una volta tornato a casa ho deciso di rimuovere. Ma a Dachau non si perdeva solo il nome: i tedeschi creavano dei morti viventi senza lasciare niente al caso. Lo sfinimento dei lavori forzati, la paura di andare ancora vivi nelle bocche dei forni crematori, l’arroganza dei kapò, l’ombra inquietante delle belve Ss: tutto ciò che rende l’uomo un semplice numero da aggiungere o da sottrarre al tabellone della morte. Ci sputavano in faccia: non capivamo i numeri gridati in tedesco dai soldati e se la prendevano con noi. Poi, sono cominciati i lavori forzati: io ero addetto ad aggiustare la ferrovia, togliere le campate di ferro danneggiate dalle bombe e mettere quelle nuove. Lavoravamo con gli zoccoli di legno ai piedi, anche con la neve e chi scivolava e non si rialzava veniva ucciso a bruciapelo: si ammazzava una persona per niente e non ho mai capito perché. Per noi italiani era peggio: eravamo considerati “It”, italiani traditori».

Le giornate erano tutte uguali e terribili?

«Sveglia tutti i giorni alle 4 e mangiavamo della brodaglia con le mani, una volta la mattina e un’altra la sera. La prendevamo direttamente dai bidoni della nafta: tutto quello che riuscivi a prendere con le mani, lo mettevi in bocca. Durante i lavori forzati, mangiavo l’erba che cresceva lungo i binari: era lattiginosa. Però, dovevo farlo di nascosto altrimenti mi avrebbero ucciso. Ai megafoni i tedeschi dicevano: “Non uscirete vivi da qui, passerete dai forni crematori”, “Nessuno di voi riuscirà a liberarsi”. Gli italiani della provincia di Bolzano ci traducevano le voci. Così molti si andavano ad ammazzare gettandosi sul filo spinato con l’alta tensione: non ce la facevano più. Altri si infornavano vivi. Non ho mai capito perché quando una persona non ce la faceva più a stare in piedi veniva picchiata a morte: ma a che serviva? Una volta, durante i lavori forzati, eravano tutti incatenati e la persona accanto a me è scivolata e non si rialzava: gli hanno sparato. Mi ricordo che la materia organica del suo corpo mi è finita addosso».

Lei è stato sottoposto a esperimenti scientifici?

«Sono entrato in una camera e ho visto una persona, non so se viva o morta. Non si poteva neanche chiedere. Mi hanno immerso in una vasca con ghiaccio. Era un test per verificare fino a che temperatura il corpo può resistere. Quando mi sono svegliato ero nudo, per terra, e non ce la facevo neanche a rivestirmi. Ero ghiacciato. In quel momento ho detto basta: mi vado a menare pure io».

Ha pensato di uccidersi?

«Mi sono messo a camminare con quegli stracci in mano e pensavo solo a come farla finita: se gettarmi sul filo spinato o andare verso i forni crematori. Poi, ho ripensato a mio padre, a una lite quando non mi voleva mandare a fare il soldato perché diceva che così sarei andato a morire. Ho riflettuto e mi sono detto: ma perché mi devo uccidere, morirò quando devo morire. E ho rinunciato: la gente buttata per terra mi chiedeva di resistere per raccontare tutto».

Lei si è trovato davanti a un plotone di esecuzione. Cosa ha pensato quando stavano per fucilarla?

«Erano le sei di sera del 29 aprile 1945 quando mi hanno portato alla fucilazione. Sentivo le scosse da tutte le parti del corpo e le sento ancora oggi: pensavo se avrei sentito dolore, chissà dove mi avrebbero colpito, se in fronte o al petto, se sarei morto subito oppure no. C’era anche lo scolatoio del sangue: quante volte ho dovuto pulire il sangue ghiacciato. Invece, non è arrivato nemmeno un colpo. Poi ecco una camionetta con i soldati americani. Io sono scappato e mi sono nascosto: avevo paura che, dalle torrette, i tedeschi avrebbero aperto il fuoco con i mitra. Invece, non è partito neanche un proiettile: i tedeschi si sono arresi e si sono lasciati uccidere. A terra c’erano cataste di cadaveri: un piazzale di morti e vivi, tutti insieme».

Ha pensato a un fatto miracoloso?

«Il 30 aprile è arrivato il cardinale Montini, il futuro papa Paolo VI, che ci disse che per noi italiani non c’era possibilità di rimpatrio e che dovevamo restare a Dachau ad aspettare. Fu Montini a mandare un telegramma alla mia famiglia ad Abbateggio per informare che ero ancora vivo: quel telegramma lo conservo ancora».

Decise di tornare a casa a piedi?

«Il primo maggio mi misi in cammino senza sapere quale direzione prendere. Un cammino di 37 giorni e 36 notti dormendo appoggiato agli alberi. Al confine gli americani mi diedero pane, cioccolata, gomme da masticare. Poi in Italia, più niente: nessuno ha voluto aiutarmi, la gente ti cacciava via. Mi ricordo che quando sono arrivato a Pescara, era giugno: ho visto il mare ma non c’era nessuno sulla spiaggia. Mi mancava solo una notte di cammino, sembrava incredibile: mi sono addormentato e mi sono svegliato bruciato dal sole. Quando sono arrivato ad Abbateggio pesavo 29 chili e settecento grammi: avevo i capelli tagliati a metà, la barba lunga, le unghie tagliate con i denti. Mi hanno fatto anche delle foto in quello stato ma mia madre le ha bruciate perché erano orrende: oggi vorrei riaverle, pagherei chissà quanto per mostrarle ai giovani. Appena tornato, non mi diedero da mangiare: due medici mi dissero che se avessi mangiato sarei morto. Misero un paio d’uova nell’alcol e, quando il guscio si sciolse, mi fecero bere quel liquido».

E il giorno dopo si è riposato?

«Il giorno dopo, da Abbateggio, mi sono rimesso in cammino: mia madre aveva fatto un voto e così sono andato con lei, a piedi, al santuario del Volto Santo di Manoppello. Nel 1985 sono

tornato a Dachau con mia moglie Assunta, da poco scomparsa, e con mio figlio Donato».

Da allora lei racconta l’orrore. Perché?

«L’ho giurato ai miei amici di Dachau: mi dicevano “tu sei giovane, devi resistere. Salvati e racconta a tutti l’inferno di qui dentro”. E così faccio: è una missione, il dovere della memoria. Quando vado nelle scuole, i ragazzi quasi si arrabbiano con i professori: mi dicono che studiano Giulio Cesare ma che non sanno quasi niente di quello è successo durante la Seconda guerra mondiale. È commovente parlare con i ragazzi e abbracciarli».

L’orrore non l’ha abbandonata, vero?

«Sono passati più di sessanta anni ma devo dormire con una luce accesa e, a volte, anche un aereo che sfreccia nel cielo mi fa svegliare di soprassalto e pensare che qualcuno mi voglia sparare

Ringrazio “Il Centro Pescara”

odium parit morten

Odium parit mortem, vitam progignit amor

("l’odio produce morte, l’amore genera vita").

Helga Schneider e le testimonianze delle donne nei bordelli nazisti

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Testimonianze

La prostituzione nei bordelli nazisti: il toccante tema di cui ci parla “La baracca dei tristi piaceri” di Helga Schneider

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Helga Schneider e le testimonianze delle donne nei bordelli nazisti

Ci sono fatti storici talmente ripugnanti e vergognosi da essere lasciati in un cassetto il più possibile. Uno fra questi? Le violenze sessuali subite dalle donne  nei bordelli nazisti. Un fenomeno di scarsa considerazione da parte della ricerca storica, forse ostacolata dal silenzio delle vittime.

Una tematica poco conosciuta, amara da raccontare ma necessaria per capire fino a che punto si possa essere spinto l’essere umano.  Argomento che a  lungo  è stato un dramma taciuto, soprattutto in Germania. Solo negli ultimi decenni siamo venuti a conoscenza di ciò che è accaduto all’interno dei cosiddetti “Sonderbau”, i bordelli nazisti dei lager.

Una testimonianza a tale riguardo arriva dal romanzo “La baracca dei tristi piaceri” di Helga Schneider, scrittrice tedesca, ma naturalizzata italiana, che ci colpisce al cuore per il suo taglio amaro e toccante.

Il sesso forzato come strategia del nazismo

Nel 1943 Himmler, capo supremo delle SS,  prende la fulminante decisione di far allestire dieci bordelli nazisti nei più grandi campi di concentramento, primo fra tutti il Sonderbau di Buchenwald, per contrastare la crescente diffusione dell’omosessualità. L’idea del bordello ottiene fin da subito un immediato successo e i prigionieri-clienti accorrono numerosi, nonostante le loro condizioni psichico-fisiche disperate. Quasi disumane.

Il bordello è vietato agli ebrei e ai prigionieri di guerra sovietici, pertanto è frequentato principalmente da coloro che svolgono compiti di sorveglianza all’interno del lager (decani o kapò). Viene naturale domandarsi come potessero quelle ombre di uomini avere ancora energia per avere rapporti.

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Le donne destinate ai bordelli nazisti non erano ebree, ma tedesche, polacche o bielorusse al di sotto dei 25 anni, per la maggior parte reclutate nel lager femminile di Ravensbruck, dove si scelgono le prigioniere più giovani e più presentabili, in seguito a visite mortificanti da parte degli uomini delle SS. Appena arrivate al Sonderbau, subiscono delle iniezioni per renderle sterili, ma non è detto che funzionassero per tutte . Coloro che rimangono gravide, sono costrette ad abortire nel giro di pochissimi giorni in condizioni aberranti e senza anestesia.

Helga Schneider ci racconta che le ragazze-prostitute alloggiano nella casa di tolleranza , all’interno del proprio campo di concentramento, dove  godono di igiene, di cibo, di una camera con il letto, nonché di un piccolo salario. Tra di loro non ci sono sentimenti di sorellanza  o di solidarietà. Vengono sorvegliate dalle tracotanti guardiane SS, che si profumano di Chanel numero 5 e sono vestite di tutto punto.

Le donne devono essere presentabili, truccate e sempre con il tacco alto, con la divisa su cui ognuna ha appuntato il proprio numero, in attesa dei loro clienti. I prigionieri-clienti arrivano sempre con l’aria un po’ stordita, ma con gli occhi lucidi. Passano in rassegna le candidate con un misto di incredulità ed eccitazione, identificandosi nell’ingannevole immagine di una virilità ripristinata. Una sorta di virilità che fino a quella sera sembrava essersi perduta per sempre.

I prigionieri pagando due marchi, che vanno nelle tasche dei nazisti, hanno a disposizione  un massimo di 15 minuti di piacere. L’atto sessuale deve avvenire in posizione sdraiata e non possono conversare con le donne. Il bordello sta aperto tutta la settimana, inclusa la domenica e le feste; solo in caso di un discorso del Fuhrer alla radio la porta sarebbe rimasta chiusa.

Molti detenuti , subito dopo il rapporto,  muoiono con lo sguardo immobile e gli occhi iniettati di sangue. Una testimonianza che arriva dalle pagine di La baracca dei tristi piaceri” della Schneider.  Di come  il senso dell’umano è stato violato durante il regime di Hitler, di come il valore assoluto della vita e della dignità dell’individuo è stato brutalmente calpestato dai nazisti.

Quando l’attività al Sonderbau rende le meretrici ormai alcolizzate, esaurite, sfiancate e malate, queste vengono rispedite al lager di origine, dove finiscono per essere sfruttate ulteriormente come cavie negli esperimenti sadici dei medici delle SS, o inviate ad Auschwitz per l’eliminazione.

I copiosi stupri da parte dell’Armata rossa su migliaia di civili, gli abusi commessi dalle SS su internate nei vari campi di concentramento, la prostituzione forzata nei lager, sono esempi ripugnanti di violenza sessuale perpetrata su migliaia di donne innocenti, vittime degli uomini, delle leggi e della Storia.

Moltissime donne dopo il ’45, schiacciate dall’umiliazione e dal trauma psichico, non hanno avuto la forza di denunciare la loro tragedia. Hanno preferito tacere per paura di essere giudicate e discriminate. Le poche testimonianze storiche che abbiamo, come quella della scrittrice Helga Schneider, sono l’esempio calzante di coraggio. E dobbiamo omaggiare tutte quelle “eroine” che hanno saputo fare i conti con la dura realtà subita, e andare avanti

Nella Mascagni – Per anni ho avuto l’incubo delle torture in quelle celle

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Testimonianze

La testimonianza di Nella Mascagni, ex deportata nel Lager

Per anni ho avuto l’incubo delle torture in quelle celle

Quelle esperienze non si dimenticano, rivivono incessantemente in noi in ogni particolare, addirittura in ogni sfumatura. Si è ucciso, ma non si è ucciso sistematicamente al campo di Bolzano. Era un campo di passaggio, la merce umana era destinata a centri di scientifica criminalità ben più perfezionati nelle tecniche di utilizzazione del corpo umano, vivo o morto. Ma la fame più nera era fame anche qui, le torture a coloro che erano ritenuti più pericolosi o in grado di far conoscere notizie preziose per i nazisti, anche qui erano torture, efferate, indicibili.

Mi viene a mente una poesia che Mario Tobino ha dedicato all’eroico Mario Pasi, giunto all’impiccagione, forse già morto per le feroci torture, il 10 marzo 1945 a Belluno: «Lo impiccarono -, dice Tobino, – dopo sevizie che non ho piacere si sappiano».

Erano le sevizie che avevano fatto scrivere a Pasi, in un pezzo di carta che si conserva, «Compagni mandatemi del veleno, non resisto più». Anch’io non ho piacere che si sappiano quelle sevizie, non voglio ripeterle. Io sono stata solo picchiata, tante volte. Ma ricordo i compagni e le compagne delle celle che tornavano da interrogatori al corpo d’armata sfiniti, tumefatti, incapaci di aprire bocca, persino di gemere.

E ricordo la paura infinita, incontrollabile, paralizzante, troppo favorevolmente alimentata dallo stato di prostrazione totale, nient’altro che la conseguenza della fame. Una paura che si esaltava di una terribile componente psicologica: la imprevedibilità di quel che poteva avvenire, delle reazioni dei nostri aguzzini, capaci di divertirsi con le trovate estemporanee, le più impensate. Come non ricordare l’inventiva del maggiore Schiffer, capo della Gestapo, pronto a offrire una sigaretta, a fare un, complimento, a pestare dl botte, a ordinare la tortura? Come non avere davanti agli occhi il biondo alto Stimpfl, SS aggregato alla Gestapo, la cui ferocia ben è ricordata dal nostro caro Luigi Emer, il comandante "Avio"? Impossibile far uscire di mente i due criminali Otto e Mischa, i quali agivano come padroni di vita e di morte sui confinati nel blocco delle celle. Rientravano di notte in preda agli effetti allucinanti dell’alcool, e per tutti noi erano incubi indicibili; poteva toccare ad ognuno di conoscere la loro violenza che si affidava al massiccio bastone o al nerbo di bue;

Erano giovanissimi, Otto e Mischa, esseri asociali reclutati da precoci esperienze di perversione. Agivano di loro prevalente iniziativa, o erano facile strumento in mano di volontà più raffinatamente perverse? Come rispondere a domande di questo tipo, che allora, nello stato di angoscia in cui ci trovavamo, neppure ci si dava il caso di porre.

Certo la criminalità non si esauriva nei due bestiali guardiani del blocco celle. E sufficiente che io ricordi un episodio tra i tanti che mi si affollano nella mente: l’incontro sconvolgente che feci con Tea Palman di Trecchiana, in provincia di Belluno. Io ero stata trasferita nella sua cella il giorno dopo che Tea era rientrata al campo dopo alcuni giorni di permanenza nei sotterranei del corpo d’armata: lunghi interrogatori e torture l’avevano ridotta in condizioni disperate; il suo corpo era stato martoriato dalle percosse. Feci del mio meglio per alleviare, più con il conforto che con altro, le sue sofferenze. Divenimmo amiche, ci confidammo le nostre esperienze di lotta.

E come non ricordare le tristi condizioni di Quintino Corradini. Era stato ferito in uno scontro a fuoco a Molina di Fiemme. Soffriva indicibilmente per una gamba rotta. Era riuscito a fasciarla alla meglio. Null’altro era possibile per Quintino. Mi adoperai per giorni e giorni a sorreggerlo nei brevi periodi quotidiani di uscita all’aria aperta, ad aiutarlo come mi era possibile. "Fagioli" -  questo il suo nome di battaglia – denuncia ancor oggi i segni di quelle ferite che si dovevano rimarginare solo per la giovane età.

Avevo saputo che nel blocco celle qualche tempo prima del mio arrivo erano state uccise con getti d’acqua gelata (in pieno inverno) e con sevizie d’ogni genere madre e figlia ebree, di nome Voghera. Il giorno di Pasqua veniva finito con fredda ferocia un giovane friulano, Bortolo Pissuti, a cui Egidio Meneghetti doveva dedicare versi commossi: «No voi morir, no voi morir», aveva implorato per tre giorni Bortolo, «tri giorni l’à ciamado la so mama». Così ricorda il compagno dl campo Meneghetti, che la notte di Pasqua rammenta di aver udito «un sigo stofegado in rantolar» . «L’è Pasqua. De matina. E lu l’è en tera longo, tirado, duro come el giasso, ocio sbarado nella facia nera, nuda la pansa, co la carne in basso ingrumà de sangue rosegà. Nela pace de Pasqua tase tuti. Imobili, e nela cela nera tase el pianto del Bortolo Pissuti».

Così, Egidio Meneghetti, che mi ha voluto bene come una figlia, al quale sono rimasta unita ed affezionata come ad un padre.

Ricordo Dal Fabbro e Gilardi, sottoposti a torture che ancora una volta non voglio dire perché non ho piacere che si sappiano, Ada Buffulini, sempre calma, con tutti prodiga di cure; colui che doveva essere mio suocero che stava per essere ucciso perché nella indicibile confusione degli ultimi tempi era stato scambiato per l’uomo che doveva divenire a guerra finita mio marito. Ed ancora Senio Visentin, tanto forte di carattere, che avevo conosciuto, così volitivo nel comportamento di resistente; don Daniele Longhi, sereno al punto di saper pronunciare un pacato e rassicurante discorso da buon pastore il giorno in cui ci fecero ammassare dinanzi al blocco con le mitragliatrici puntate, e noi aspettavamo, senza più connettere, il momento fatale.

Ed "Avio": nel corso di un’azione in Val di Fiemme era stato gravemente ferito, catturato, torturato. Avevano infierito nelle piaghe aperte del suo corpo, che doveva conservare la dura impronta della menomazione. Enrico Pedrotti, l’indimenticabile "Marco", composto e dignitoso, senza mai un cedimento. Longon non l’ho conosciuto. Sono entrata in campo dopo la sua uccisione, avvenuta il 31 dicembre 1944 nelle celle della Gestapo al corpo d’armata; e ancora Mario Leoni, Aldo Pantozzi, l’avvocato Loew.

Le mie impressioni, i miei ricordi sono carichi di tensione. L’angoscia e il terrore, che ho patito al campo, al blocco celle, sono stati duri, lancinanti. Questi ricordi si devono far conoscere soprattutto alle giovani generazioni. Non si deve dimenticare.

Non sono controllata e distaccata come Ada Buffulini. Per anni ho avuto incubi notturni di SS, di facce feroci della Gestapo, di maggiori Schiffer che bastonavano mentre le segretarie indifferenti fumavano. Non è stato possibile. Quando la mia mente va all’una o all’altra cella da me abitata, sento l’incubo indicibile del tre metri per uno e mezzo, quanto approssimativamente era la loro paurosa ristrettezza. Non potersi muovere, rimanere per ore e ore, di giorno, di notte, costretta in uno squallido giaciglio, col pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere il giorno dopo, da un momento all’altro, con l’angoscia per le sofferenze di mia madre, di mio padre. Nel 1944 mi avevano presa e rinchiusa nelle carceri di Trento: ero stata certo male, avevo avuto paura, ma non ho conosciuto, nemmeno lontanamente, il clima allucinante del blocco celle.

Perché ho accettato di dire nella più cruda semplicità, come si affollano nella mia mente, queste cose? Ne ho sentito una sorta di dovere morale. Ho sempre cercato di far sapere a quante più persone possibile, a quanti più giovani possibile, che cosa ci hanno dato il fascismo, il nazismo. Ho raccontato e racconto queste mie modeste, limitate ma intense esperienze perché so che come quelle di tutti coloro che hanno avuto la ventura di partecipare alla Resistenza, possono e debbono essere il supporto, la premessa, lo spunto per riflettere, per ragionare su quegli eventi; intenderne il significato, per capire le forze che allora si sono misurate, le forze della barbarie" della disumanità, del terrore scientificamente promosso, al servizio di interessi esattamente costituiti; ma di contro a queste le forze, le classi, i movimenti politici, ideali, religiosi, che hanno saputo tenere alto il senso della vita, hanno fatto proprio il concetto dell’uomo che è uguale al suo simile, che costruisce il proprio destino nella esaltazione dei valori creativi, nei valori della libertà, della cultura, della ricerca al servizio dell’umanità.

Nella Mascagni

Adriano Ossicini – Quando il morbo di K salvò ebrei e aiutò i partigiani

Quando il morbo di K salvò ebrei e aiutò i partigiani

La vicenda ricostruita da uno dei protagonisti, lo psichiatra Adriano Ossicini. Al morbo, inventato, la stessa iniziale di Kappler e Kesserling

Antifascismo Democrazia Memoria

Un nome inquietante per una malattia infettiva, devastante e mortale, talmente contagiosa da richiedere, per chi ne era affetto, l’isolamento in un padiglione clinico specializzato. In realtà, il morbo di K non esisteva, venne inventato dal primario e da un medico di un ospedale di Roma per nascondere ebrei e partigiani durante l’occupazione nazifascista.

A decenni di distanza quel nosocomio, il Fatebenefratelli, sull’isola Tiberina proprio di fronte al ghetto capitolino, ha ricevuto il titolo di “Casa di Vita”. La vicenda è stata ricordata da uno dei protagonisti, lo psichiatra Adriano Ossicini, 96 anni, combattente della Resistenza, già senatore, e nel libro di Pietro Borromeo, figlio di Giovanni, allora primario della struttura, riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” nel memoriale Shoah Yad Vashem. Nel documentato volume pubblicato da Fermento nel 2007 (una recensione è disponibile sul sito dell’ANPI http://www.anpi.it/libri/123/il-giusto-che-invento-il-morbo-di-k) si ricostruiscono i fatti. (http://www.lastampa.it/2016/06/21/multimedia/italia/il-dottor-ossicini-cos-ho-salvato-gli-ebrei-durante-le-persecuzioni-irWI1r2T921jmTEm25tB2K/pagina.html)

Siamo nell’ottobre 1943. Le SS hanno deportato verso i campi di sterminio le famiglie ebraiche residenti nel ghetto. Alcune persone sono riuscite a scampare alla razzia e vengono nascoste al Fatebenefratelli dove lavorano Borromeo e il giovane medico Ossicini. Si temono però le delazioni: in cambio di denaro, le spie sono disposte a segnalare alle SS i nomi dei conventi e degli ospedali che danno rifugio a ebrei e partigiani. Così aiutati dal Priore dell’Ordine ospedaliero, il polacco Fra’ Maurizio Bialek, il primario e il suo assistente inventano il morbo di K, prendendo anche in giro i tedeschi con l’attribuire alla malattia la lettera K, la stessa iniziale dell’ufficiale Herbert Kappler e del generale Albert Kesserling. Sistemano i finti malati, un centinaio, in un reparto e negli scantinati approntano una radio trasmittente per comunicare con i partigiani laziali. Inoltre, Borromeo e Ossicini procurano documenti falsi ai perseguitati che, dichiarati morti per il morbo, vengono poi nascosti in altre strutture cittadine. Le SS si presentano al Fatebenefratelli, ma le cartelle cliniche con la descrizione della malattia sono talmente perfette che per la paura si astengono dal fare irruzione. Nel dopoguerra, il prof. Giovanni Borromeo verrà insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare per i meriti nella Resistenza. L’attività partigiana costò ad Adriano Ossicini la prigione e le violenze di nazisti e fascisti. Oggi rievoca l’occupazione con un motto: «Bisogna cercare di essere dalla parte giusta, sempre».

Tratto da

Patria Indipendente

Anonimo – Domani sarà triste

 

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Anonimo
Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi sarò contento,
a che serve essere tristi, a che serve.
Perché soffia un vento cattivo.
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani.
Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento,
e ad ogni amaro giorno dirò,
da domani, sarà triste,
Oggi no.

 

Poesia di un ragazzo trovata in un Ghetto nel 1941

 

Thomas Toivi Blatt–Testimonianze

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Testimonianze

Thomas Toivi Blatt

è nato in Polonia nel 1927. Deportato assieme alla sua famiglia, appena adolescente, nel campo di sterminio di Sobibor, partecipa alla rivolta dei prigionieri del 1943 e sopravvive, fortunosamente, nascosto nella Polonia occupata dai nazisti, fino all’arrivo dell’Armata Rossa. Nel secondo dopoguerra emigra negli Stati Uniti, dove vive attualmente. È diventato lo storico del campo a cui ha dedicato due libri, inediti in Italia, Sobibor. La rivolta dimenticata e Dalle ceneri di Sobibor. L’intervista è stata curata da Ruggero Taradel e Barbara Raggi. Una versione ridotta è uscita il 27 gennaio 2006 su Repubblica in occasione della Giornata della memoria. Questa è la prima pubblicazione integrale.

Conversazione con Toivi Blatt a cura di Ruggero Taradel e Barbara Raggi 8 gennaio 2006

Desidera iniziare questa conversazione parlando dell’inizio dell’occupazione?

Quando la guerra iniziò, avevo dodici anni. Ricordo che quando i tedeschi arrivarono a Izbica, mio padre disse: «Adesso voi ragazzi passerete per un’altra guerra». Ricordava la prima guerra mondiale, ovviamente. Izbica era uno shetl, una cittadina molto ortodossa, con una popolazione molto povera ma vivevamo pacificamente con i nostri vicini cristiani. Non c’erano grandi problemi. Quando i tedeschi arrivarono, all’inizio le cose non andavano così male, perché la lingua degli ebrei era l’yiddish, che deriva dall’antico tedesco e così eravamo in grado di comunicare con i soldati. Noi ragazzi passavamo vicino agli acquartieramenti, ci davano caramelle e cioccolata, se pulivamo gli stivali, ci davano un paio di sigarette. Dopo un po’ di tempo arrivarono dei tedeschi di altro tipo: gente alta, vestita di nero, con la testa di morto come emblema sul berretto. Erano SS, le forze speciali. E tutto cambio. Nel villaggio fu creato un ghetto. Un ghetto a quell’epoca era un modo per uccidere gli ebrei. Non c’era modo di andarsene, dove si poteva andare? Mio padre pensava di scappare a Est, in Unione Sovietica, ma poi la via di fuga fu chiusa. Dopo questo, rimanemmo lì, semplicemente aspettando. Nel 1942, nella famosa conferenza di Wannsee, fu stabilito un nuovo programma, segreto, chiamato operazione Reinhardt. Il punto non era se uccidere o no gli ebrei ma come farlo nel modo più efficiente. Sino a quel momento venivano portati in un bosco, o in una gola, e uccisi con le mitragliatrici ed era usurante per i soldati, non era un metodo efficiente. Con questa conferenza si voleva accelerare il processo, e fu deciso di organizzare un apparato di Stato con il Ministero della Propaganda, il Ministero dei Trasporti per farlo più efficientemente. Il risultato di Wannsee fu l’operazione Reinhardt. Furono costruiti tre campi: Belzec Sobibor e Treblinka. Era un modo completamente diverso di uccidere, era un processo industriale. La gente arrivava senza sapere nulla, scopriva le camere a gas quando era troppo tardi. Si trattava di un metodo efficiente: nei diciotto mesi di esistenza dei campi, furono uccise più persone che ad Auschwitz. Circa 700.000 a Treblinka, altre 700.000 a Belzec, 250.000 a Sobibor. In tutto, circa 1.600.000 persone.

Cosa avvenne prima dell’arresto e della deportazione?

Nell’ottobre del 1942 mia madre mi chiese di andare in camera sua e mi disse: «Toivi; devi andare in Ungheria». «Ungheria? dov’è l’Ungheria?» Per me Izbica era il centro del mondo. Avevo sentito parlare delle grandi città, dove nelle case l’acqua si poteva far uscire dai muri. Dove vivevamo, se si voleva l’acqua si prendeva un secchio e si andava a un pozzo primitivo. Questo era il mio villaggio e adesso mia madre mi diceva che dovevo andare in Ungheria. La gente cercava un modo per

salvarsi. C’erano retate dopo retate e le persone catturate venivano mandate nei campi di Sobibor e Belzec. Più tardi arrivarono trasporti dall’Olanda, dalla Francia e dalla Germania per riempirei i vuoti che la deportazione aveva lasciato a Izbica. In questo periodo gli ebrei ungheresi vivevano in pace. Alcuni polacchi dicevano che ci potevano far arrivare clandestinamente in Ungheria. Così mia madre pagò per farmi includere in un gruppo che partiva quella notte. Mia madre disse «Toivi, questo è l’unico modo per andar via». Le risposi: «Mamma, hai sentito le voci? dicono che un gruppo è stato portato al confine con l’Ungheria, li hanno fatti camminare per una mezz’ora nella foresta e, a un certo punto, il leader polacco ha detto: “bene, siete in Ungheria, per fortuna è andato tutto bene. Adesso firmate le lettere che dicono che siete arrivati, così che le vostre famiglie possano pagarci”. Dopo aver firmato le lettere/Dopo la firma delle lettere, sono stati ammazzati». Lei replicò: «Toivi, è vero ci sono voci, ma se rimaniamo qui saremo uccisi; forse le chiacchiere non sono vere. Devi decidere tu». Così ci pensai per un minuto o due e dissi: «mamma, vado». Allora prese un foglietto di carta me lo diede raccomandandomi: «Questa è la tua nuova identità, scordati il tuo nome. Adesso ti chiami Waldemar Ptaszek, sei un ragazzo cristiano». Tre giorni prima un ragazzo cristiano era morto e avevano cancellato l’atto di morte. Alle due di notte mangiammo, l’ultima cena, dicemmo addio a tutti e qualche minuto dopo ci diedero dei biglietti ferroviari. Nell’oscurità raggiungemmo la stazione, il treno arrivò, saltammo sull’ ultimo vagone ed eccoci in viaggio verso l’Ungheria. Ma non ce l’avremmo fatta. Nel mio libro, ometto alcune cose, perché sono difficili da credere, sembrano fantasie. Adesso le dico una cosa che non ho raccontato. Ero seduto nel vagone, nel buio. Era notte. Una donna polacca si avvicina a me e dice: «Questo ragazzo, questo qui, sono sicura che è ebreo». Mi domando ancora perché venne da me. La risposta potrebbe essere in un errore che avevano commesso i miei genitori: mi avevano vestito bene, avevo le scarpe lucide non come un viaggiatore qualunque. Comunque, la mattina dopo presi un altro treno e nel vagone c’era una bellissima ragazza, con capelli ricci e neri, occhi scuri. Per chi cercava ebrei poteva apparire sospetta: stava girata verso il finestrino, fissando il panorama. Quando passò il conduttore a controllare i biglietti lei si voltò. Probabilmente fu riconosciuta dagli altri viaggiatori come ebrea, perché alcuni minuti dopo arrivò la polizia ucraina, le chiese i documenti e la portò via. A quel punto commisi un errore. Avevo quattordici anni allora, era spaventato, sudavo, avevo il sudore negli occhi, non sapevo cosa fare, così presi un giornale e pretesi di leggere. Ma intorno a me erano tutti eccitati: «Oh, hanno preso quell’ebrea! Forse ce ne sono altri». Io ero l’unico che faceva finta che non fosse successo niente. Il giornale mi fu strappato di mano, e mi ritrovai di fronte un gendarme. Avevo meno di quindici anni, quindi non dovevo avere una foto sul documento. «Qual è il tuo nome?» «Waldemar Ptaszek». Mi guarda, controlla i documenti: «Tu sei ebreo» «No!» «Sei ebreo!» «No!» »Sei ebreo!» « No!». La mia bocca diceva no, ma la mia faccia diceva sì. A quell’epoca, in Europa, tutti gli ebrei erano circoncisi. Avevo cercato di fare qualcosa per correggere il danno – a volte lo chiamo danno – con dello spago, con una pietra. Non servì. Era tutto gonfio. Ero ebreo, mi portarono via. Finii in una cella e, dopo un po’ di tempo, mi riportarono a Izbica.

Come si svolsero i fatti relativi alla retata e alla deportazione a Sobibor?

Quando arrivai, mio padre -era ancora vivo allora- mi disse che mentre ero via, c’era stata una retata e che il nostro villaggio era stata dichiarato Judenrein. C’erano due parole durante la guerra che facevano tremare gli ebrei: una era Akcja, retata, l’altra era Jundenrein. Quest’ultima era una sentenza: ogni ebreo doveva lasciare la città. Chi rimaneva veniva ucciso. Judenrein, Judenrein… C’era stata una retata ma alla stazione la Gestapo aveva deciso che c’era bisogno di lavoratori per la conceria, ce n’era una molto grande nel paese. Alcuni potevano ancora rimanere per produrre cuoio. Mio padre e mia madre erano stati inclusi nel gruppo. Ricordo una conversazione nel laboratorio: «Non ci uccideranno, forse ammazzeranno i vecchi, ma noi siamo specialisti, le forze armate hanno bisogno di cuoio, non ci uccideranno».

Poi rammento quel giorno terribile, il 28 aprile 1943. Un colpo di fucile mi svegliò, corsi alla finestra e l’intera cittadina era circondata da soldati. Capii che questa era la fine. Mi portarono fuori. Mi spinsero in un gruppo di cinquanta persone. Capii che questa era la fine. Dove potevo andare, cosa potevo fare? Accanto a me c’era un soldato addetto alla nostra sorveglianza, che cercava di accendersi una sigaretta. Accese un fiammifero, il vento lo spense, un altro fiammifero, si spense anche quello. Sollevò il bavero del cappotto per proteggersi, e si voltò. «Questo è il momento» pensai e sgattaiolai via. Mi ritrovai nel gruppo delle persone, dei cristiani, che osservavano la scena. Mi guardai attorno e vidi un ragazzo, il mio amico, Janek Knapczyk. Era un amico, era stato molte volte a casa mia. Gli dissi: «Per favore, Janek, salvami!» E lui: «Certo, corri al fienile». Non lontano da casa sua c’era un fienile. Corsi lì ma l’entrata era chiusa. Una donna polacca cominciò a gridare: «Scappa via, Toivi, scappa! Janek sta arrivando!». Janek sta arrivando? Perché dovrei scappare? Anzi pensai: «Bene, così mi aprirà la porta del fienile. Perché la donna è così spaventata?» Mi voltai, e capii: il mio amico stava arrivando con i gendarmi e così mi presero. Mi riportarono al mercato. C’erano soldati con le mitragliatrici. Arrivarono dei camion con i tetti di iuta. Cominciarono a muoversi nella direzione di Sobibor. C’era ancora una speranza perché tra Sobibor e Izbica, che distano circa venti chilometri, c’erano due campi di lavoro. Prima superammo il primo campo, Osowa, adesso il prossimo campo era Trawniki… c’era un lungo tunnel, lungo, e ricordo un “oh…” quando superammo il secondo campo: ora era sicuro, la prossima fermata era Sobibor. Dopo circa venti minuti il convoglio si fermò: era Sobibor. Ci dissero di scendere: questo posto era così segreto, che ai soldati che ci avevano portati lì fu ordinato di andarsene immediatamente.

Come le apparve il campo?

Ci trovammo di fronte al cancello. C’era un lungo recinto erboso, verde, ma capii più tardi che era filo spinato intrecciato a fronde e rami. Non vi si poteva guardare attraverso e vidi l’ingresso su cui stava scritto: SS Sonderkommando. C’era poi un ingresso più piccolo, per i trasporti via treno. Il cancello si aprì. Sapevo che Sobibor era un luogo d’omicidio. Che fosse un luogo per uccidere, questo era ovvio…ma non sapevamo come ammazzavano le persone. Alcuni dicevano con il gas, altri con l’elettricità, altri ancora con il vapore. Così, un posto del genere, mentre si aprivano i cancelli, lo immaginavo come l’inferno. Con persone vestite di stracci che scavavano buche, fiamme ovunque. Un’immagine nera, nera. Il cancello si aprì, si chiuse dietro di noi; mi guardai attorno e non riuscivo a credere ai miei occhi: era un bel villaggio. Sulla sinistra c’erano delle graziose villette, ben curate. Sulla destra c’era un binario con una finta, piccola stazione ferroviaria. Non era lì per gli ebrei polacchi, che sapevano. Era per gli ebrei provenienti dall’Olanda, dalla Francia, che sino all’ultimo minuto, fino alle camere a gas, non seppero che sarebbero stati uccisi. C’era la voce di questo tedesco, Frenzel. Iniziò a gridare «Donne e bambini da una parte, uomini dall’altra”. Così dissi addio a mia madre, cosa che fu molto dolorosa per me. Il giorno prima le avevo chiesto se potevo bere del latte e lei mi aveva detto sì. Ma di non berne troppo «Perché, Toivi, domani è un altro giorno». Adesso era il momento di dirsi addio e invece di baciarla e abbracciarla come stavano facendo tra loro altre persone, le dissi: «Vedi, mi avevi detto che domani era un altro giorno.» Come se volessi accusarla di non aver mantenuto una promessa. «È tutto quello che hai da dire ora?» chiese. Ci separammo e lei si avviò verso la camera a gas, come scoprii dopo. Intanto Frenzel cominciò a dire che aveva bisogno di un falegname e di un meccanico. Vede, nei campi della morte non c’erano selezioni ma ogni tanto, ogni due o tre mesi, quando il numero dei prigionieri diminuiva, per suicidi o altro, prendevano qualcuno dai nuovi trasporti come rimpiazzo. [Pochi giorni prima settantadue ebrei olandesi erano stati uccisi per un tentativo di fuga N.d.R.]. Quando il mio trasporto arrivò avevano bisogno di falegnami, lustrascarpe Io avevo 15

anni…un ragazzino come me poteva solo andare a scuola. Cosa potevo fare? Pregai Dio che mi salvasse e ancora penso che la mia volontà, in qualche modo, raggiunse il tedesco. I nostri occhi s’incontrarono. «Dio, fa che scelga me». Lui disse: «Vieni, piccolo». Fui incluso in un gruppo di quaranta persone per lavorare a Sobibor.

Potrebbe parlare dell’organizzazione del campo?

Che le posso dire? La meccanica di Sobibor era semplice e rapida. Tremila persone arrivavano con il trasporto, alle otto di mattina e lasciavano il loro bagaglio al binario. Ricevevano subito la promessa che sarebbe stato restituito e veniva detto loro di accertarsi che i nomi e gli indirizzi segnati su ciascuna valigia fossero esatti. Un altro tedesco teneva un discorso, scusandosi per le difficoltà dei tre giorni di viaggio dall’Olanda ma adesso, diceva, erano finalmente arrivati. Era tempo di fare una doccia per ragioni sanitarie, e per la doccia era necessario spogliarsi. Quando cominciava a uscire il gas, invece dell’acqua, qualcuno avrà pensato per un attimo a un malfunzionamento delle docce. Troppo tardi. In venti minuti erano tutti morti. Questo era tutto il processo. Ci usavano per selezionare il vestiario: c’erano montagne di vestiti. Vestiti da uomo con vestiti da uomo, abiti da donna con abiti da donna, occhiali con gli occhiali…bisognava svuotare tutte le tasche, soldi con i soldi. Documenti, fotografie e libri venivano portati via per essere bruciati. Questo era il lavoro, in breve.

Come nacque l’idea della rivolta?

Quando il mio trasporto arrivò, la rivolta del ghetto di Varsavia era già iniziata, e le notizie arrivavano anche a Sobibor. Gli ebrei reagiscono, combattono, bruciano carri armati tedeschi. Questa fu la prima scintilla. La resistenza era possibile. Ma noi, ebrei polacchi, non avevamo le risorse necessarie, non avevamo mai imbracciato un fucile. Quando i tedeschi occuparono i territori orientali dell’Unione Sovietica, gli ebrei del ghetto di Minsk furono deportati a Sobibor. C’era molto lavoro e selezionarono settanta deportati per aiutarci. Tra queste settanta persone c’erano dei militari. Gli ebrei polacchi formarono un comitato, comunicarono con i russi, tra cui c’era un ufficiale, e tre settimane dopo, vi fu la rivolta…e fuggimmo.

Riguardo alla rivolta e alla fuga, quali sono i suoi ricordi più vividi?

Avevo solamente paura di essere ferito. Di essere preso ed essere bruciato vivo. Speravo di essere ucciso immediatamente. Quando cominciò la fuga, corsi verso l’ingresso principale, perché sapevo che lì non c’erano mine. Sobibor era il solo campo di concentramento o sterminio o ghetto, dove tutto attorno vi fossero mine. Quando mi trovai vicino all’ingresso, vidi Frenzel e un altro tedesco. Ci spararono addosso. Fuggi tra le pallottole e cominciai a correre verso un altro punto del recinto di filo spinato. Fortunatamente in quel punto c’era un solo recinto di filo spinato. Sobibor aveva una tripla recisione di filo spinato ma in quel punto c’era un corridoio per le guardie che attraversava due dei recinti. Avevo due recinti di filo spinato alle spalle, e uno solo che mi divideva dalla libertà. Un uomo arrivò con un’ascia e cominciò a fare un buco. Cercammo di passare attraverso il foro; le guardie alle torri ci videro e cominciarono a spararci. Alcuni di noi caddero, altri misero una scala sul recinto per scalarlo. Proprio quando stavo passando attraverso il buco, il recinto, sotto il peso di quelli che lo stavano scalando, cedette. E questo fu terribile per me, perché rimasi schiacciato sotto gli altri. Cercai di muovermi ma le spine mi bloccavano, tuttavia questo mi salvò perché i primi a scappare furono fatti a pezzi dalle mine. Finalmente mi sfilai il cappotto e corsi via. Questa non è la fine della storia, perché successivamente fummo intrappolati da un fattore polacco che ci sparò addosso. In effetti, scherzando, posso dire di avere tre compleanni: uno per quando sono nato, il secondo per quando fuggii da Sobibor, il 14 ottobre 1943, e il terzo per quando il fattore mi sparò e sopravvissi. [Toivi ha ancora oggi una pallottola nella mascella. N.d.R.]

Nel suo libro lei parla di Sasha, l’ufficiale russo che reincontrò in Russia, dopo la guerra. Giocò un ruolo importante nella rivolta?

No, no…il suo ruolo non fu così importante. Eravamo già stati traditi una volta, mentre organizzavamo la rivolta quindi, questa volta, limitammo al minimo il numero di persone. Eravamo in otto a preparare il piano. Più tardi fummo in dodici, a svolgere le diverse funzioni. Io dovevo chiamare i nazisti per attirarli nelle baracche e quando arrivavano gli altri li colpivano con le accette. Sì, eravamo dieci o dodici. Altri simpatizzavano, ma non erano attivi. Tutti assieme, non eravamo più del dieci per cento dei prigionieri e, siccome nel campo c’erano circa seicento persone, eravamo meno di sessanta. Ricordo che durante il 14 ottobre, sapevo che i tedeschi erano già morti, ma dovevamo recitare il nostro ruolo, come ogni altro giorno, dovevamo stare in fila marciando verso il Lager I, vicino alle cucine. Rimasi scioccato nel vedere quanta gente stava in fila per il caffé. In fila per il caffé, capisce? Il motivo per cui giocammo un ruolo, io e altri due ragazzi, fu perché eravamo i più giovani. I tedeschi ci usavano mandandoci a destra e a manca, e avevo sempre una scusa per essere in giro. Ricordo che quel giorno non riuscivo a distogliere l’attenzione dai traffici delle guardie ucraine. Dalla campagna arrivava frutta. Non ne avevo bisogno, ne avevo, ma volevo vedere come si sviluppava la cosa…bisognerebbe scrivere un altro libro sulla psicologia della sopravvivenza a Sobibor.

Nel 1983 lei ha intervistato Karl Frenzel, l’Oberscharfürer SS che mandò a morire la sua famiglia. Quali furono le circostanze di quest’ incontro?

Nel 1966 andai in Germania per testimoniare contro Frenzel, che era accusato di aver ucciso con le proprie mani trenta persone, e di essere stato complice nell’uccisione di altre cinquantamila. Fu condannato a sette ergastoli ma, dopo sedici anni e mezzo di prigione, il suo legale trovò delle discrepanze nelle deposizioni di due testimoni. Ottenne un nuovo processo. Per la sua durata, fu rimesso in libertà. Dovetti andare per tre giorni a Hagen per la testimonianza. In quel momento, Frenzel viveva a un angolo della strada, io avevo preso alloggio all’altro. In quel periodo stavo scrivendo il libro Sobibor. La rivolta dimenticata. Non era la mia biografia, riguardava i metodi, l’organizzazione del campo. Avevo delle domande. Ne scrissi quindici su un foglio di carta e chiesi a un mio amico tedesco, Gunther: «Per favore, vai da Frenzel, è a questo hotel, cerca di ottenere delle risposte». Lui si avviò. Cinque minuti dopo ricevetti una telefonata nella mia stanza: «Toivi, ti vuole parlare di persona». Non sapevo cosa fare, le ginocchia cominciarono a tremarmi. Mi rendevo conto dell’importanza del momento, ma sapevo che se fossi andato e gli avessi parlato, i miei stessi amici mi avrebbero puntato il dito contro: «Come hai potuto? Quest’assassino, come hai potuto parlargli?» Ma poi pensai: «Io non ci sarò più, i miei amici non ci saranno più, Frenzel non ci sarà più. Ciò che rimane è il documento per le future generazioni». Non m’interessava che fosse giustiziato. M’interessava che testimoniasse, così che il mondo potesse sapere, per il futuro, del pericolo del terrorismo, della dittatura, del nazionalismo. Questa è la cosa importante. Decisi di andare. Ci vollero circa quattro ore. Non ero interessato a Frenzel, sapevo cosa aveva fatto, l’avevo visto con i miei stessi occhi. Io volevo capire il background delle persone, la famiglia, i figli, cosa erano prima della guerra, dopo la guerra. E così decisi di andare. Ricordo che lo incontrai nella hall dell’albergo. Aprii la porta. C’era un tavolo, con un boccale di birra. Lui si alzò, batté i tacchi come deve fare un ufficiale e mi tese la mano, che ovviamente non strinsi. La mia prima domanda fu: «Si ricorda di me?» E lui mi disse: «No, eri un ragazzino». Una ben strana risposta. Così parlammo: di un suo fratello studente in teologia, poi mi disse che andava in Chiesa non tutte le domeniche, ma ogni due settimane sì. Cercò persino di raccontarmi che aveva una ragazza ebrea

che poi era andata via a New York. Ad un certo punto gli chiesi: «Quanti ebrei hanno ucciso a Sobibor?» E lui mi disse «È troppo». Mi è poi stato chiesto: «Non avevi paura a parlargli?» Non ero spaventato, perché cosa poteva farmi adesso? Ma in un altro senso, ero spaventato, avevo paura, nel guardare lui e nel vedere altre persone passare per la hall, sembrava un buon nonno. Non è vero che le persone non cambiano. Era una persona che sembrava, come me come lei. Questo mi faceva paura, questo mi spaventa, che date le giuste circostanze sociologiche, economiche o altro, le stesse persone, le stesse brave persone possano…la nostra cultura può spezzarsi in un attimo. Nessuno conosce se stesso, questo è ciò che ho imparato e questo è ciò cui mi tengo stretto. Di questo avevo paura, nel guardare Frenzel. La sua normalità. Più tardi mia moglie andò a trovarlo a casa sua, voleva vedere dove viveva. Era a casa con sua moglie a Francoforte. Frau Frenzel chiese a mia moglie se voleva vedere le camere da letto. Praticamente la spinse dentro una stanza e chiuse subito la porta. Mia moglie vide che c’era un uccellino che volava lì dentro La signora Frenzel si scusò per aver chiuso la porta ma altrimenti l’uccellino sarebbe volato fuori. Mia moglie le chiese perché non lo tenesse in gabbia, lei rispose:«Oh, mio marito non lo permette, non vuole che l’uccellino stia in gabbia, non gli piace».

Quale fu la reazione dei tedeschi dopo la rivolta? Fu un evento che provocò una forte impressione tra i nazisti.

Il 2 agosto ci fu una rivolta anche Treblinka, ma nessun tedesco fu ucciso, solo degli ucraini. La nostra fuga fu un grande shock per i tedeschi. Come risultato della fuga da Sobibor, tre settimane dopo uccisero settantamila persone a Majdanek. Tre settimane fa ho ricevuto una e-mail. Un certo signor Wullbrandt desidera sapere alcune cose su suo nonno. Quando morì lui aveva solo sei anni e non sapeva nulla. In seguito aveva chiesto informazioni ai genitori, ma senza ricevere vere risposte. Aveva trovato il nome sull’indice del mio libro Sobibor. La rivolta dimenticata, e sperava di avere informazioni da me. Così, chi era Wullbrandt, il capitano Erich Wullbrandt? Dopo la rivolta Frenzel aveva chiesto aiuto: Wullbrandt arrivò con la polizia di sicurezza e uccise tutti gli ebrei rimasti a Sobibor.

Lei ha raccontato della reazione d’incredulità di un sopravvissuto ad Auschwitz alla presentazione a Varsavia del film “Fuga da Sobibor”, perché non riusciva a riconoscere nelle immagini la sua esperienza. Cosa può dire della sua esperienza nel campo della morte?

Prima di tutto, ero un ragazzino e ricordo che quando Frenzel mi selezionò, e venni spinto nel campo, non ci fu tempo per adattarsi. Si era immediatamente gettati nell’ingranaggio. Una sensazione terribile. L’istinto, l’istinto di sopravvivenza gioca un ruolo importante. Mai arrendersi. Quando ci penso adesso, mi chiedo cosa mi sia successo, com’è potuto succedere. Vede, se il giorno prima di arrivare a Sobibor mio padre fosse morto, o mia madre, sarebbe stato terribile, avrei pianto disperatamente. Ora, in venti minuti avevo perso tutta la mia famiglia, E non piansi. Non ci pensai nemmeno. Perché se avessi pianto i tedeschi avrebbero visto le lacrime, non avrei potuto camminare, sarei stato ucciso. Questo pensavo: sopravvivere, sopravvivere. Questo era il punto. A dire il vero, forse perché ero giovane, non immaginavo mai che avrei potuto essere ucciso. Era qualcosa che succedeva ad altri.

Nelle conferenze che lei tiene in tutto il mondo proponendo la sua testimonianza, c’è una domanda che secondo lei il pubblico dimentica di farle?

C’è una domanda che non fanno: non mi chiedono dei miei sentimenti verso Dio, perché non dico mai direttamente che sono agnostico. Poiché racconto che a quel tempo pregavo, immaginano che io preghi anche adesso. Cerco di non parlare di religione, parlo soprattutto di fascismo, nazionalismo… e cerco di non toccare questi argomenti religiosi, non siamo pronti per discussioni del genere, almeno secondo me. Alcuni mi chiedono «Perché gli ebrei?» E io spiego che l’antisemitismo, almeno secondo me, ha tre elementi. Il primo, il più importante, è il pregiudizio religioso: quando andavo a scuola ricordo che mi chiamavano “assassino di Cristo”. Poi ci sono le circostanze politiche e sociali. In Polonia, prima della guerra, c’era una grave crisi, di cui si dava la colpa agli ebrei. Il terzo, ugualmente importante, è la gelosia…. la cristianità in se stessa non è antisemita, ma l’interpretazione di certi ecclesiastici può essere antisemita.

Cosa pensa dei negazionisti?

Non so se si tratti di antisemitismo o no. Ma il punto è che i negazionisti hanno un lavoro più facile del mio. Ciò che io racconto sembra trovarsi al confine con la fantasia, al limite delle cose cui si può credere; invece loro raccontano cose facilmente comprensibili. Possono far passare il loro messaggio con facilità: “È una menzogna, è falso” e così via.

All’inizio del suo libro “Dalle ceneri di Sobibor” lei cita le parole di un altro sopravvissuto, Herz Cukerman, che dice “Sopravvivere a Sobibor non significa essere vivi”…

Questo è molto interessante, perché, vede, io sono ancora lì, e ho ancora sogni. I sogni sono così reali, così complicati. Non pensavo che i sogni potessero essere così. In molti ho una possibilità di fuggire ma non la sfrutto e poi è troppo tardi. In uno di questi sogni i nazisti mi dicono: «Và fuori, a comprare carta per stampe fotografiche, e poi torna qui». Mi lasciano uscire e io penso: «C’è un modo per scappare?» In due ore c’è l’appello e mi dico: «Vediamo se riesco a raggiungere la stazione, ci vogliono venti minuti». Poi per prendere il treno ci vuole un’ora e un quarto, scoprono che non sono tornato, fermano il treno, e io ritorno a Sobibor, ritorno sempre a Sobibor, non c’è modo di andarsene. I sei mesi che ho passato a Sobibor possono essere moltiplicati per molte, molte volte. Io sono ancora lì. Alcuni sopravvissuti non vogliono parlare di tutto ciò. Siamo sopravvissuti, abbiamo avuto figli, e nipoti, e questo va bene, ma io non posso allontanarmi, non riesco ad andare via da lì.

Lei pensa che mantenere viva, e presente, la memoria di ciò che è successo per le future generazioni possa aiutare a prevenire il ripetersi di simili eventi?

No, non credo possa aiutare a prevenire. Non credo si possa prevenire. Penso che almeno, questa volta, siamo consapevoli di cosa possiamo aspettarci; che quando saremo condotti a delle camere a gas mascherate da docce, sapremo che le docce potrebbero essere qualcos’altro. Sapremo che cultura e civiltà possono infrangersi, che possono succedere cose terribili. Questa è la mia speranza. Le racconto una cosa. Un anno fa ho parlato a un’università. Ci sono sempre provocatori, che siedono nelle prime file. Nella prima fila sedeva un ragazzo, con una grande svastica tatuata proprio qui [indica il braccio sinistro. N.d.R.]. Appena ebbi finito di parlare, si alza in piedi e dice: «Mister Blatt, prima dichiaravano che ad Auschwitz hanno ucciso tre milioni di ebrei. Adesso scopriamo che ne hanno uccisi un milione e duecentomila». «E allora – ho risposto – chi lo ha accertato? Gli ebrei, a Gerusalemme, con lo Yad Vashem lo hanno accertato. Hanno trovato i registri dei trasporti e hanno rifatto le somme. La storia si auto corregge, occorre mantenere il senso della prospettiva». Insomma, un mese dopo il professore mi telefona: «Mister Blatt, glielo devo dire: ieri, lo stesso studente è entrato in classe, aveva una maglietta a maniche corte, e con mia grande sorpresa la svastica è sparita». Almeno un ragazzo, almeno ho raggiunto questa persona. Ma il punto è questo. Non possiamo prevenire. Queste cose sorgono in Ruanda, o da altre parti, e la gente si uccide l’un l’altra. Dovremmo sapere è che non c’è limite all’ingegno, alla crudeltà e alla malvagità umana.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Le faccio subito vedere cosa intendo fare.[Prende una foto dal suo archivio. N.d.R.] Questa casa, vede questa casa? il Kommandant viveva qui…è ancora dipinta di verde, è ancora dello stesso colore. Intendo acquistarla dal contadino che ci vive adesso. Questo è terreno del campo di Sobibor. Non è importante per nessuno. Questa è l’ultima cosa che voglio fare. Comprare la casa da questa persona e farne un museo. Perché è da queste finestre, che il comandante di Sobibor ha guardato un quarto di milione di persone andare a morire.

La casa è ancora intatta?

Sì è intatta.

I campi di concentramento nazisti — Testimonianze Orali

I campi di concentramento nazisti — Testimonianze Orali
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Ruth Webber
Data di nascita: 1935, Ostrowiec, Polonia
Ruth descrive una brutale punizione nel campo di Ostrowiec [Intervista: 1992]
— US Holocaust Memorial Museum – Collections
Testo
Ho visto molta gente morta attorno a me, ovunque, e credo che quando vedi così tanti morti alla fine non ti fa più così tanta impressione. Una volta, mentre ero nel lager di Ostrowiec, mi trovavo nel… insomma, nella latrina, che era all’angolo di una grande area nel centro del campo. Era circondata dalle baracche, che erano sui due lati e la latrina era a uno degli angoli. E io ero lì dentro e… ecco… improvvisamente sento una gran confusione e tutti vengono spinti nelle loro baracche, perché era lì che dovevano andare e io rimasi bloccata nella latrina. Allora, salii sul water e guardai fuori attraverso la finestrella in cima alla porta; ciò che era accaduto era che alcune persone avevano cercato di scappare ed erano state prese. Credo che fossero ferite e si sentivano anche degli spari. Presero circa, credo, quattro persone per scavare delle fosse proprio al di là del filo spinato che chiudeva il campo. Poi portarono quelle persone, che avevano cercato di scappare, e a cui avevano già sparato, ma che non erano ancora morte, e obbligarono gli altri Ebrei a seppellirli, anche se non erano ancora davvero morte. Loro pregavano di non venire sepolti, che erano ancora vivi e che dovevano fare qualcosa per ucciderli, prima. Ma non fecero nulla, li seppellirono vivi. E loro dovettero farlo, altrimenti quei poveretti che erano stati scelti per seppellirli… altrimenti sarebbero finiti ammazzati anche loro. Quella fu un’esperienza molto traumatica per me. Sento ancora le loro grida.
Ruth aveva quattro anni quando i Tedeschi invasero la Polonia e occuparono Ostroviec. La sua famiglia fu obbligata a trasferirsi nel ghetto e i Tedeschi sequestrarono lo studio fotografico del padre, anche se gli venne permesso di continuare a lavorare al di fuori del quartiere. Prima che il ghetto venisse liquidato, i genitori di Ruth riuscirono a trovare un nascondiglio per sua sorella e un impiego per loro in un campo di lavoro fuori dal ghetto. Anche Ruth venne poi nascosta, alternativamente all’interno del campo o nei boschi che lo circondavano. Quando anche quel campo di lavoro venne liquidato, i genitori di Ruth vennero separati. Ruth venne mandata in diversi campi di concentramento prima di venire definitivamente deportata ad Auschwitz. Dopo la guerra, Ruth visse in un orfanotrofio di Cracovia fino a quando poté riunirsi a sua madre.

I campi di concentramento nazisti — Testimonianze Orali

    I campi di concentramento nazisti — Testimonianze Orali

    Doris Greenberg
    Data di nascita: 1930, Varsavia, Polonia
    Doris descrive la procedura cui venne sottoposta all’arrivo a Ravensbrueck [Intervista: 1990]
    Chapters
  • Chapters
    — US Holocaust Memorial Museum – Collections
    Testo
    Quando ci portarono nei bagni, eravamo sicuri che saremmo morti. Ne eravamo convinti.Così pensammo che avevamo avuto l’occasione di prendere il veleno, mache ormai non ce n’era più, e ci dicemmo che probabilmente non ci sarebbe voluto molto a morire, con il gas. Beh, fummo veramente sorpresi quando l’acqua cominciò a uscire dai tubi e noi…noistavamo davvero sotto la doccia. C’era persino questo sapone grigiastro che sembrava pietra pomice, ma era meno duro; e niente gas. Allora noi facemmola doccia e poi uscimmo dall’altra porta dell’edificio e lì ci diedero delle uniformi a righe; e allora capii perchéavevamo pensato di prendere il veleno prima di entrare là dentro: perché ogni gruppoche era entrato prima di noi, una volta usciti ci sembrava fossero scomparsi perché, in effetti, non li riconoscevamo più. Erano stati rasati e obbligati a indossare quegli abiti a righe. Così, anche a noivennero dati questi vestiti…e ci davano delle misure che non avevano senso: alcuni…alcuni grandi e grossi ricevevano uniformi minuscole. Altri, piccolini, ce l’avevanogrande. Ma almeno eravamo vivi. Poi, ognuno ebbe il suo numero e untriangolo e venne assegnato a una baracca. Quando entrammo nella nostra vedemmo sulle pareti delle scritte in ebraico, nomi, messaggi… Moltierano in Yiddish, che io non conoscevo, ma Pepi sì e lei midisse che erano nomi. Allora li lesse ad alta voce e così capii….Io non sapevo leggere né scrivere [l’Yiddish] e lei mi disse che c’eranomessaggi molto molto commoventi, spezzavano il cuore, con i nomi delle persone; per esempio, uno diceva "siamo stati qui, siamo stati gli ultimi, prima di voi. Dite agli altri diricordarsi di noi". Era molto triste .
    I Tedeschi invasero la Polonia nel 1939 e istituirono il ghetto a Varsavia nel 1940. Dopo che i suoi genitori furono deportati, Doris si nascose con sua sorella e altri parenti. La sorella di Doris e uno zio vennero poi uccisi e poco dopo lei apprese che anche i suoi genitori erano stati trucidati; più tardi, sua nonna si suicidò. Doris venne fatta uscire di nascosto dal ghetto e visse poi lavorando come cameriera e cuoca, fingendo di non essere Ebrea, ma venne alla fine deportata anche lei, nel campo di concentramento di Ravensbrueck. Al loro arrivo nel campo, Doris e il suo amico Pepi pensarono di uccidersi ingoiando del veleno, ma poi decisero di non farlo.
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    Testimonianze di superstiti

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    Testimonianze di superstiti 

    II

    Testimonianza raccolta dal prof. Carlo Schiffrer di Trieste dall’interrogatorio di un amico superstite:

    «Egli vide un milite delle SS di statura gigantesca che stava conducendo per mano nel secondo cortile davanti alle prigioni, un bamberottolino bruno e ricciuto (certo un ebreo) che zampettava appena. Il bambino incespicò e cadde in avanti: il milite lanciando una bestemmia lo colpi al capo col tacco del suo scarpone. La testa scoppiò letteralmente. Ad anni di distanza quell’amico non riusciva a liberarsi dall’incubo del tonfo provocato dalla povera testolina…».

    (Carlo Schiffrer, "La Risiera". Trieste, 1961).

    Inizio

    ALBINA SKABAR di Rupingrande (Trieste)

    Dopo essere stata denudata, appesa per le trecce a una trave e bastonata fino a svenire, venne cacciata nella cella numero 7. «Di notte, ricorda, sentivo urla terribili, specialmente di quelli che si trovavano nelle prime celle e venivano portati fuori. Ricordo la voce disperata di una donna: diceva di es sere di Gabrovizza e urlava che le SS le avevano ucciso il figlio nella culla. C’era anche una certa Olga Fabian, di un paese del Carso che ora appartiene alla Jugoslavia. C’era una signora di 67 anni, che abitava a Trieste in via Milano: urlava continuamente di essere innocente. L’odore di capelli bruciati era terribile. Ogni tre giorni aprivano le celle e lasciavano che ci lavassimo il viso con un po’ d’acqua in un catino. Quell’acqua del catino doveva servire per tutte. Dopo la guerra sono tornata una volta in Risiera, e sono svenuta».

    (Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Ricciotti Lazzero).

    Inizio

    GIORDANO BASILE di Rovigno d’lstria

    «Subimmo ogni sorta di sevizie e maltrattamenti. Non potrei dire a quanti interrogatori fui sottoposto. Come conseguenze ebbi una frattura all’occhio destro e alla spalla destra e subii pure una infiltrazione polmonare, oltre alla depressione generale di tutto l’organismo, depressione dalla quale non ho potuto riprendermi ».

    (Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

    Inizio

    DARA VIRAG di Fiume

    «Dietro il garage c’era un passaggio un po’ stretto. Ho fatto alcuni passi in quel vicolo che girava intorno al locale del forno e una delle guardie. il vecchio Fritz, mi ha urlato: "Non lo faccia mai più, non lo faccia mai più!". Era il maggio del 1944. Sulla base di cemento del camino spuntava un filo d’erba. Pensai che forse era il segno di quelle povere anime dissolte. In marzo si sentivano grida anche di giorno (gridavano anche le SS). Erano urla di dolore, tutti capiscono quando qualcuno urla per il dolore. Ma confesso che non riuscivamo a comprendere chiaramente queste atrocità: dovevamo pensare a vivere e avevamo sempre paura. Dopo un anno così, anche un chiodo che cada sul pavimento scatena un brivido. Se sento il rumore d’uno scarpone sul selciato, adesso, ancora, dico spaventata: "Vengono"».

    (Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Bicciotti Lazzero).

    Inizio

    BRUNO PIAZZA di Trieste

    «Dovetti sdraiarmi sul tavolato […] ma ero stato fortunato, mi spiegò la sentinella, perché tutti quelli che finivano là dentro venivano prima bastonati […]. Incominciarono a parlare le voci della notte. Dal bunker accanto al mio udii un uomo che mi chiamava piano: "Sono sepolto vivo da 40 giorni, non posso respirare, ho sete. Dammi una sigaretta. Forse stanotte sarò fucilato. Fammi fumare l’ultima sigaretta […]". E subito dopo dall’altra parte una voce di donna: "Ne ammazzano ogni notte qualcuno. Li portano nel cortile e poi li ammazzano con un colpo alla nuca. Dopo ogni sparo i cani urlano […]. Siamo tutti partigiani".

    (Dal libro "Perché gli altri dimenticano" di Bruno Piazza – Ed. Feltrinelli, Milano, 1956).

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    ANTONIETTA CARRETTA nata a Lignano, abitante a Genova

    «Mi misero in un grande camerone, composto di piccole celle. In una di queste rimasi oltre un mese senza lavarmi, pettinarmi ed altre cose assolutamente necessarie in modo particolare per una donna. Non solo d’igiene non si poteva parlare, ma neanche della più elementare forma di pulizia. Il mangiare ce lo portavano dal Coroneo. Nelle celle queste distribuzioni venivano fatte dai mongoli. Le condizioni psichiche e morali erano tremende. Ero in un continuo stato di terrore di essere ammazzata da un momento all’altro. Dopo circa dieci giorni portarono vicino alla mia cella una signora ebrea di nome Olga che abitava a Servola. La notte stessa l’hanno ammazzata. Quando vennero a prenderla, la poveretta piangeva e supplicava; le SS rispondevano con la massima brutalità. Così accadeva tutte le notti. Le celle di giorno si riempivano e di notte si svuotavano. Prima di essere bruciati li ammazzavano con un colpo d’arma da fuoco, perché sentivo gli spari, oppure con un colpo di mazza. I forni crematori erano lì vicino, a pochi metri di distanza dalle nostre celle… Per non far sentire i colpi d’arma da fuoco, mettevano in moto dei motori di camion, o facevano suonare musiche allegre».

    (Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

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    ANTE PELOZA di Vele Mune (Istria)

    «lo ero nella cella n. 8, solo, nel buio. Mi mancava l’aria. Solo nel soffitto c’era un piccolo foro per l’aria e la luce. Ci passavano il cibo attraverso la finestrella della porta, che altrimenti restava sempre chiusa. Nella cella c’erano molti ratti. Di pomeriggio e di sera sentivo quasi in continuazione le urla della gente e delle grida in croato, sloveno e italiano. Per il cortile andava su e giù un carro armato oppure un’auto blindata e faceva un grande rumore sì da coprire le grida alla libertà e le urla sconvolgenti. Allora sapevamo che i nostri compagni venivano trascinati in crematorio. Quando faceva scirocco e non c’era vento il fumo fetido entrava anche nelle celle. C’era un tale tanfo di carne umana bruciata che quasi non si poteva respirare e sconvolgeva lo stomaco».

    (Testimonianza raccolta da A. Bubnic)

    Inizio

    CARLO SKRINJAR di Trieste

    «Le urla delle donne e degli uomini duravano anche tre o quattro ore. Finiva un urlo e poco dopo ne cominciava un altro. Molte notti andarono avanti così. Vicino a me, in cella, c’era un giovane di diciott’anni dai capelli ricciuti. Non ricordo il suo nome. Per lo spavento imbiancò in tre giorni. Dalla mattina alla sera tardi si sentivano aprire e chiudere i cancelli. Chi guardava da qualche spioncino avvertiva: "E’ arrivato un autocarro…". Verso le otto di sera c’era un periodo di silenzio, poi cominciavano le urla. Noi eravamo convinti che stessero trascinando i condannati dal cortile verso la zona del forno. Si sentiva la guardia che veniva a tirar fuori la gente dalle celle, e la gente che urlava finché la voce spariva nel nulla. Il giovane dai capelli ricci tremava e balbettava: "Adesso tocca a noi". Eravamo terrorizzati. Sento ancora quelle grida rauche ».

    (Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Ricciotti Lazzero).

    Inizio

    LUIGI JERMAN nato a Capodistria, abitante a Trieste

    «Essendo impiegato presso la raffineria di S. Sabba, ebbi più volte occasione di passare per ragioni di lavoro lungo il pontile, dove i soldati tedeschi portavano i sacchi delle ceneri dei cadaveri che venivano bruciati nei forni crematori della Risiera. Ho potuto vedere nel fondo del mare molte ossa umane, resti cioè di cadaveri che non poterono essere completamente bruciati».

    (Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)