Valerio Tosi – La battaglia per liberare Riva

Valerio Tosi

La battaglia per liberare Riva

Le campane della chiesa si misero a suonare furiosamente. Era il
segnale. Esco dalla cantina dei Santorum; la mamma vorrebbe trattenermi ma poi capisce.
Raggiungo l’oratorio: nella soffitta afferro un fucile e una bandoliera. Assieme ad un altro partigiano mi avvio verso la caserma, secondo il piano. Ci mettiamo a correre per evitare brutte sorprese lungo il viottolo fiancheggiato da alti muriccioli che ne darebbero scampo. Incontriamo altri compagni: i tedeschi sparano dalle finestre della caserma. Facciamo irruzione all’interno. Al
primo piano vediamo una decina di tedeschi allineati al muro con le mani alzate. Hanno paura, implorano pietà. I loro sacchi da montagna sono gonfi. Vengono aperti e vediamo orologi; braccialetti, anelli… Si torna in città. le vie che sboccano sulla piazza della Rocca sono presidiate dai partigiani. Riconosco gli amici. Vedo Dante Dassatti, il nostro comandante. C’è un momento di confusione quando un gruppo di armati a noi sconosciuto tenta di prendere il comando delle operazioni. Dante estrae la pistola, lo seguiamo
coi nervi tesi. Fortunatamente il capo dell’altro gruppo fa segno di sottomissione e l’azione può riprendere. I nostri colpi sono diretti verso «La Rocca» occupata da forze tedesche. Una delegazione di tre cittadini viene ricevuta dal comando tedesco per parlamentare. Passano i minuti. I tedeschi fanno sapere che se i partigiani non de‑
porranno le armi i tre parlamentari verranno fucilati. L’attacco alla Rocca viene sospeso, dei tre non si sa nulla. Quella notte nella città libera si dorme a casa. Arrivo a casa molto tardi: la mamma mi prepara qualcosa di caldo. Mi sfilo la pistola mitragliatrice [l’avevamo tolta di mano a un fascista travestito da partigiano e i compagni me l’avevano regalata]. Nell’appoggiare l’arma parte un colpo che trapassa il tavolo da cucina e finisce nel lavandino. La mamma trasale e io sono mortificato; avevo dimenticato il colpo
in canna e avevo dimenticato anche di mettere la sicura. Rabbrividisco al pensiero della tragedia che avrebbe potuto succedere.

II giorno dopo la situazione si fa drammatica. Gli alleati sono ancora in fondo al lago e forti contingenti tedeschi e fascisti si avvicinano alla città: si tratta di colonne corazzate. A­vanzano dal Brione e cercano disperatamente u­na via di fuga attraverso la piana di Riva. Le forze partigiane tentano la resistenza all’interno della città dove i mezzi corazzati hanno meno possibi­lità di manovra.

Mi trovo nella città vecchia in un quartiere che co­nosco bene assieme ai compagni con i quali sono cresciuto. Nei pressi di Porta S. Marco vedo mio pa­dre; la prigionia nelle carceri tedesche lo ha ridot­to male, mi sembra che stia quasi per cadere e cer­co di convincerlo a rifugiarsi in qualche casa.

Resistiamo a lungo negli ultimi quartieri del «Marocco» a ridosso della Rocchetti. Davanti a noi a non più di 60 metri i brigatisti neri ci spara­no dagli angoli delle vie. Non riesco a vedere gli effetti dei nostri colpi. Le raffiche di mitra fanno cadere calcinacci sopra le nostre teste. Vicino a noi un partigiano, operaio della Fiat, è colpito a un occhio e urla di dolore: alcuni compagni lo tra­scinano via. Qualcuno dice che ci sono partigiani morti. Ormai i fascisti ci sono addosso quando fi­nalmente viene l’ordine di sganciarsi.

Lasciamo le ultime case e mentre saliamo la montagna sentiamo i lugubri canti dei fascisti giungere a tratti dalla città.

Passiamo la notte in un cascinale, ci sono anche dei prigionieri tedeschi. La mattina dopo ci spo­stiamo con una breve marcia nella zona di Tenno. La strada che sale al paese è bloccata dai parti­giani; verso sera una colonna tedesca tenta di forzare il blocco. Vediamo dall’alto le macchine salire lentamente lungo i tornanti: aspettiamo che siano proprio sotto di noi e gettiamo le no­stre bombe a mano; il fracasso è infernale, le macchine tedesche sono in fiamme: una colonna di fumo nero si alza nel cielo.

Il giorno dopo si organizza la discesa in città . Rie­sco a salire sul camioncino; c’è anche la bandiera rossa. Entriamo cautamente nella città che sem­bra deserta; nei pressi della chiesa dell’Inviolata, sull’erba di un’aiuola giace un partigiano slavo con il petto squarciato da una raffica la scena è agghiacciante.

Nella piazza del comune sono allineati i fascisti rastrellati, i partigiani hanno il dito sul grilletto: interviene il comandante Dassatti che sospende l’esecuzione.

Il giorno dopo entrano in città le truppe canadesi; i soldati avanzano dondolandosi su due file ai lati della strada e ci guardano con sospetto. Non ricor­do per quanto tempo fu concesso ai partigiani di rimanere armati; forse non più di un mese.

Ricordo le notti di guardia a un magazzino di vive­ri nei locali dell’oratorio e i baci d’amore con la fi­glia dell’inquilino del piano di sopra. Ricordo il lungo abbraccio con il fratello Giorgio di ritorno dalla prigione, e l’arresto dei gerarchi fascisti di Riva. Toccò a me l’incarico di prendere il Gauleiter di Riva. lo trovammo in un rifugio del Brione in mezzo alla gente del luogo. Ero con il partigiano Ervino Betta, figlio di Augusto ucciso dalle SS il 28 giugno 1944.

Il tedesco non fece resistenza; mentre mi allonta­navo mi seguiva lo sguardo di rimprovero di My­riam, la figlia dagli occhi celesti, di cui ero segre­tamente innamorato.

Lungo la strada incrociammo un camioncino ca­rico di partigiani che si fermò; volevano il tedesco per fucilarlo sul posto; ci opponemmo risoluta­mente e lo scortammo al comando.

Venne l’ordine di consegnare le armi. Noi compa­gni scaricammo i caricatori contro dei poveri al­beri innocenti, poi nascondemmo le nostre armi automatiche, dopo averle amorevolmente in­grassate e fasciate.

Si tornò a scuola e poco tempo dopo tutti i fasci­sti vennero liberati.

Novembre 1945

Valerio Tosi [Partigiano Combattente Della Brigata Garibaldina «Eugenio

Impera»]

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Articolo tratto dal Settimanale “Il Manifesto 1995

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