Ugo Corsi

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I Compagni di Firenze

Memorie della Resistenza 1943 / 1944

Istituto Gramsci Toscano

1984

bandierarossa

UGO CORSI

Ugo Corsi è nato a Firenze nel 1913. Entrato a far parte dell’organizzazione clandestina comunista nel 1937, viene arrestato nel marzo del 1942 e liberato nell’agosto dell’anno successivo, dopo la caduta del fascismo. Durante la Resistenza è stato trai primi a dar vita al distaccamento garibaldino «Faliero Pucci » (Stella Rossa), poi ha ricoperto la carica di commissario politico della Brigata d’assalto garibaldina « Sinigaglia », che ha contribuito a fondare e a organizzare. Per l’attività partigiana è stato decorato della medaglia d’argento al valor militare e della stella garibaldina. Dopo la Liberazione, ha proseguito la sua attività politica nel PCI e ha inoltre ricoperto cariche direttive nell’ANPI. Attualmente è membro del Comitato Esecutivo della stessa associazione, e fa parte del comitato nazionale dell’ANPPIA.

 

 

 

Nel settembre 1943 Giuseppe Rossi era il responsabile del sindacato degli edili a Firenze. Era una copertura per poter lavorare e per avere un posto dove avvicinare tutti i compagni.

La sera dell’8 settembre noi eravamo ai sindacati; eravamo io, il Bertini, Otello Berti, Enzo Gandi, nella stanza di Rossi e lui non c’era. Tornò dopo cinque minuti e disse: Ragazzi, è scoppiata la pace! — proprio queste parole. La pace per noi non è solamente gioia, è la guerra contro i tedeschi. Quindi ognuno di noi deve mantenere l’illegalità, mantenere i contatti con il partito e pensare dove potersi sistemare. — Noi decidemmo che il contatto con il partito l’avrebbe tenuto Bertini da una parte e il Gandi da un’altra, io sarei andato ad abitare da una mia zia sopra Sesto, il Gianni da una parte, il Berti da un’altra, però il Bertini sapeva i nostri indirizzi e ci avrebbe fatto chiamare al momento opportuno.

La sera del 10 settembre tornai a casa; c’era una gran confusione da tutte le parti, io presi e andai con la mamma (mia sorella era già sposata) da questa zia vedova di un operaio della Richard-Ginori sopra Querceto e li sono stato fino al 20-22 settembre.

Venivo spesso a Firenze perché tramite mia sorella il Bertini mi mandava a chiamare; a volte avevamo degli appuntamenti nel cimitero di Sesto, a Quinto, e mi spiegava i contatti, etc… Fino a che la sera del 25-26 settembre mi dice di scendere giù perché dopo due o tre giorni avremmo dovuto partire; la destinazione non la conoscevo, anzi mi disse di dire alla mamma e a tutti i miei parenti che andavo a stare in una villa dove ci sarebbero stati un sacco di soldi, di persone, dove si sarebbe stati bene. Però capivo che lo dovevo dire agli altri questo. Che non era vero. Sono rimasto a Firenze due o tre giorni fino a che la sera del 3 ottobre siamo partiti. Avevamo appuntamento alle due in piazza Duomo, lato Misericordia, e, con il tramvai di Settignano siamo andati là in casa di un parente del Bertini dove ci siamo ritrovati in 9-10 persone. Lì, quando è arrivato il Gandi, si è conosciuta la destinazione, che era monte Giovi; non so chi decise la destinazione, non credo il partito. Anzi sul partito di allora bisognerebbe fare un discorso magari un po’ più approfondito, perché noi si dice il partito e si pensa alle federazioni. Il partito allora era Beppe Bassi, il Tagliaferri, Giotto Censimenti, Pucci Faliero, il Bruschi, il Borghesi. Ma era un partito che non aveva sede, che non si riuniva; facevamo delle piccole riunioni in qua e in là, in una casa o in un’altra. Poi era un partito che non aveva certo esperienza per fare la guerra partigiana e quindi anche le direttive che venivano erano direttive così, bisogna prenderle per quelle che erano, non era un partito con tanto di segretari.

Un partito fatto di uomini inesperti, molti usciti dalla galera, alcuni come il Saccenti, come il Sinigaglia erano già rientrati a Firenze, ma erano 20 anni che mancavano dalla città e non sapevano nulla. Probabilmente non l’avevano mai saputo cos’era il Mugello, quali erano le condizioni geografiche, non sapevano nulla di tutto questo.Allora il Gandi dice che bisogna andare a monte Giovi. Perché lì, dice, ci sono duemila soldati fra italiani e stranieri che sono armatissimi; noi andiamo lì e li mettiamo in condizione di agire, poi c’è un campo d’aviazione bell’e sistemato, tutti i giorni atterrano gli aerei che vengono dal sud e di lì piano piano si parte e si va via.

Fra i nove o dieci che dovevano partire, sei erano usciti di galera. C’ero io, il Gandi, il Bertini, Gianni Ungherelli, poi Italo Mercatelli, il Pevere e altri due o tre che non ricordo.

Ad ogni modo noi, ci si mise a discutere se era bene. C’è da tenere presente che noi non eravamo arrivati a monte Giovi, noi pensavamo ancora che lì ci fossero queste duemila persone e ci si mise a discutere se era bene che noi si andasse lì per portare via tutta questa roba oppure se non era meglio che si rimanesse sul monte Giovi a costituire una base e cominciare una guerra. Dopo un’ora di discussione o anche più, prevalse la tesi che dovevamo andare a monte Giovi e organizzare la guerra partigiana.

Ma di guerra partigiana noi non avevamo una conoscenza nemmeno teorica; ne avevamo sentito parlare da qualche slavo che era in carcere con noi ma anche questi erano molto restii a parlare della loro guerra partigiana anche perché avevano una posizione processuale che li faceva ritenere come accusati ingiustamente, quindi loro erano negativi e dei compagni di carcere erano molto restii a fidarsi.

La strada per andare a monte Giovi era molto lunga perché non è che si prendesse la strada maestra, si attraversavano tutti i piccoli poggi. Ci si mise due giorni e mezzo, camminando di notte perché avevamo molta paura. Paura di noi stessi perché non c’era nessuno, però noi credevamo di trovare chissà chi e in preda al timore di incontrare qualcuno scansavamo tutto.

Arrivammo a monte Giovi la sera del 5 ottobre e ci fermammo sul muricciolo della casa del contadino Loni che è in Sitriano. Noi non c’eravamo ancora resi conto del perché quando la gente ci vedeva scappava via e si faceva il vuoto intorno a noi. In questa casa di contadino invece si fece avanti il capoccia, un uomo che avrà avuto allora 75-80 anni e ci domandò chi eravamo. Il Gandi, che ci aveva portato a monte Giovi dato che da giovane andava a caccia lì e conosceva un certo Ballotta, chiese informazioni per rintracciarlo e Ballotta venne dopo una mezz’ora. Noi dicemmo che eravamo dei detenuti politici. Ballotta prese il Gandi a braccetto e andò via, noi si rimase seduti in quest’aia; andò a trovare quello che in paese contava ed era Aurelio Piani. Questo Piani venne da noi, capì molte cose, noi gli domandammo se era vera questa situazione dei duemila soldati, lui ci disse che non era vero nulla e disse: « Ora voi avrete fame, sarete stanchi e vi porto da mangiare ».

Prese un paniere, fece un giro tra i contadini e ci portò pane, noci e fichi secchi, un paio di fiaschi di vino e ci portò a dormire nella capanna di un contadino chiamato Grossi.

Dormimmo nel fienile, la mattina dopo venne lì e ci disse come era la situazione e ci spiegò anche il perché contadini facevano il vuoto intorno a noi: c’erano circa duecento, non duemila, prigionieri alleati. Prigionieri inglesi, americani, francesi, sudafricani, che il conte Spalletti aveva alloggiato su al Tamburino e questi prigionieri facevano dei lavori nei campi delle due fattorie. L’8 settembre, alla pace, i contadini e le persone di Acone, questi braccianti, questi calzolai e abitanti di Acone, fecero festa con questi duecento alleati e li liberarono dal campo sistemandoli un po’ in tutte le case di contadini.

Quindi in tutte le case dei contadini della zona, c’erano due, tre, a volte anche cinque prigionieri inglesi e americani. Non solo, ma ci dissero anche che c’era un lavoro fatto attraverso il partito d’azione, per far passare le linee a questi prigionieri alleati perché nessuno di questi aveva intenzione di sparare contro i tedeschi, non volevano perdere la loro caratteristica di prigionieri di guerra e cercavano la strada per ritornare alla libertà. Lì, mi disse, che a capo di questo comitato c’era il prete, don Brogi, che era in contatto con questo partito d’azione.

Allora noi, una volta venuti a conoscenza di tutte queste cose, si disse: « Qui la situazione non è quella per la quale eravamo partiti » però si capì che c’era la disponibilità di tutta la popolazione. Tanto è vero che in quei due o tre giorni in cui si fecero queste riflessioni e discussioni, si capiva e si vedeva da tutte le parti — una volta saputo chi eravamo — che la gente veniva a trovarci anche se noi non si era richiesto.

Allora, capendo che c’era questa disponibilità, si decise di rimandare giù a Firenze il Bertini e il Pevere e il Gandi per riferire al partito le condizioni. Li c’era la possibilità, non di organizzare duemila soldati che non c’erano, non di far cambiare idea a questi prigionieri inglesi e americani perché non ne volevano sapere, ma se si riteneva necessario, di organizzare una base partigiana.

Andarono a Firenze, stettero tre giorni, poi ritornarono su e ci dissero di rimanere sul posto. In quel momento, cominciammo il lavoro organizzativo.

Forse la nostra fortuna, a differenza di altre formazioni partigiane, è che noi non decidemmo subito di passare all’azione. Premetto che noi avevamo solamente tre moschetti, due pistole e cinque o sei bombe a mano balilla, quindi il nostro armamento era molto misero.Però avevamo due indirizzi dove poter procurarsi le armi subito: uno era al Ponte a Mensola, un deposito di armi che avevano recuperato 1’8 settembre, e uno lì a Pontassieve.

Prendemmo contatto tramite il PCI con il partito d’azione: venivano su Max Boris, il Fallaci, Bongianni di Borgo S. Lorenzo, il capitano Ghisdulic, che poi divenne il capitano della divisione Potente perché passò con noi. Prendemmo dei contatti, però il nostro lavoro iniziale era quello di organizzare la popolazione, di far capire quello che eravamo a fare lì. Dovevamo con la nostra azione cercare di coinvolgere il più possibile la popolazione nella guerra partigiana.

Fu lì che conobbi J. Busoní per esempio, che era sfollato con tutta la famiglia ad Acone e Busoni in quel periodo lo abbiamo adoperato per scrivere perché era l’unico che aveva la macchina da scrivere. Scrivevamo dei píccoli manifestini ricopiati poi a ciclostile per mandarli ai contadini, per far capire l’importanza della guerra di liberazione.

Una volta organizzata un po’ la popolazione facciamo la prima azione che è quella di prendere le armi al Ponte a Mensola. Gianni, Gandi, Bertini, partono con tre muli e con i conducenti del mulo, perché se ci davano i muli soltanto non saremmo arrivati a Firenze perché nessuno di noi aveva mai guidato un mulo. Al ritorno si imbattono in una pattuglia tedesca, loro sparano e la pattuglia tedesca scappa e loro tornano su a monte Giovi.

Nello stesso tempo avevamo contatto con Montemaggi che stava a Pontassieve e con R. Mattacchioni, un altro del comitato che si chiamava allora antifascista o interpartito di Pontassieve, non mi ricordo. Lui ci dice che aveva sotterrato due mitragliatrici nel cimitero di Pontassieve, in una tomba del cimitero insieme ad altre munizioni. Anche lì si parte, sempre con questi muli e questi conducenti, si va giù e si recuperano le armi.

Questo era verso la fine di ottobre, però noi non ersi varco pronti per attaccare, per fare un’azione, perché anche se il nostro armamento era migliorato era ancora poco e poi forse non eravamo maturi nemmeno noi.

Noi pensammo di non far vedere a tutti che passavamo armati e organizzammo una rete d’informazione fra i contadini. Bastava che un fascista dalla Rufina o dal ponte di Colonnole o da altre parti si avvicinasse per venire su, che noi eravamo subito avvisati.

Per le armi decidemmo di tenere le pistole che si potevano nascondere, invece le armi più pesanti le nascondemmo in una buca, in una grotta che conoscevano solo gli scalpellini, e lì le murammo ma bastava dare una botta per poterle prendere. Le tenemmo lì fino a fine anno. Tutto questo periodo che va dalla fine di ottobre, i due mesi di novembre e dicembre sono mesi di preparazione. Sono anche mesi in cui da Firenze non ci arrivavano disposizioni precise.

Come organizzazione interna avevamo creato il comandante e il commissario politico, sembrava quasi fossimo una formazione perché dal punto di vista burocratico eravamo a posto. Il comandante era Dante Caverni e il commissario ero io, poi c’era il vice-commissario che era Gianni, poi gli elementi che facevano il lavoro di massa e che erano il Gandi e il Bertini e che avevano una grande facilità di convincimento. Loro entravano in una casa e dopo due minuti gli avrebbero dato tutto.

Noi abbiamo questo tran-tran fino ai primi dell’anno. Con lo sbarco degli alleati ad Anzio ci fu una ventata nel paese e in montagna cominciarono ad affluire delle persone. Da undici-dodici che eravamo arrivammo a una quarantini4, e non solo: quelli che venivano su arrivavano anche con delle armi quindi ai primi di febbraio noi eravamo in condizioni di passare veramente all’azione. Dipendeva solo da noi. Fu allora che si scelse l’obbiettivo Vicchio e facemmo tutte le indagini per come fare. Era la punizione del maresciallo dei carabinieri: noi dovevamo solo far fuori questo maresciallo Luca Randazzo che era un fascista nel vero senso, un repubblichino. Era un maresciallo che diventò sottotenente proprio perché aderì alla repubblica e portava in Vicchio dei fascisti, faceva una serie di vessazioni continue, di rastrellamenti, etc…

Quando stavamo per passare all’azione viene su dal partito l’ordine di fermarsi, e viene su anche Ciro Fabbroni mandato dal partito per prendere contatti diretti con elementi del partito d’azione perché lì nel mese di febbraio sarebbe avvenuto un lancio di armi che poi sarebbe stato diviso fra noi e quelli del partito d’azione. Sicché dovemmo sospendere tutto perché la zona doveva rimanere tranquilla e non si doveva fare nessuna azione.

Allora aspettammo, e la sera mi pare del 16 o del 17 di febbraio — non mi ricordo bene — avvenne il lancio. In questi quindici giorni in cui avevamo aspettato avevamo conosciuto la parola d’ordine che per noi era « L’Arno scorre a Firenze » che era il messaggio di attesa. Poi c’era « Le foglie volano » che era il messaggio affermativo, voleva dire che in quella nottata si sarebbe fatto tutto. Ci accordammo col partito d’Azione.

Io andavo tutti i giorni in paese perché gli unici che avevano la radio erano Busoni e il prete per sentire i messaggi. Una volta sentiti questi messaggi si tornò su, quelli del partito d’azione cercarono di fare un po’ i furbi come avremmo fatto anche noi probabilmente; non ci dissero che c’era il lancio ma noi avevamo sentito la parola d’ordine, poi sentimmo l’aereo che cominciò a girare. Avevamo dato delle coordinate così: un triangolo grande che faceva Pontassieve, Borgo S. Lorenzo, Polcanto, poi uno più stretto e così via per arrivare al prato della capanna che allora era chiamato « La capanna di Scandelaia » ma noi la chiamavamo « La capannina degli slavi » perché dentro c’erano tre ufficiali slavi prigionieri.

Su questo prato accesero poi i fuochi e cominciammo a vedere i paracaduti che calavano, riuscimmo ad arrivare prima di loro sul campo di lancio, riuscimmo a recuperare parecchia roba, poi di comune accordo venne diviso. Il lancio era formato da trenta fusti di un quintale; c’erano, circa un centinaio di mitra, poi c’erano mi pare 30 mitragliatrici Brent quelle vicino ai fucili, mitragliatori più grandi tipo il nostro Fiat, c’era poi una grossa quantità di esplosivo, parecchie pallottole e poi c’era parecchio caffè sigarette e, calzini. Tutta questa roba dentro questi bidoni, questi contenitori, era rincalzata fra calzini, maglie altra altra roba che stava sopra che poi serviva anche per vestirsi.

Recuperata la roba con una serie di discussioni riusciamo a dividerla perché ognuno di noi cercava di fare la parte del leone, a noi toccarono 48 mitra, a loro 52. Di questi 48 mitra, 16 li mandammo a Firenze e 32 rimasero alla formazione.

Va tenuto presente che in tutto questo periodo la formazione cresceva continuamente, crescevano anche gli uomini che avevano una certa esperienza. Il nostro era anche un lavoro di organizzazione di tutti questi gruppi di sbandati. Noi li avevamo incorporati, avevamo creato una formazione e, subito dopo il lancio, arrivammo ad essere 80-82 con 60 persone armate di tutto punto.

Da tenere presente che nel lancio, oltre a quello che ho detto, c’erano anche un centinaio di bombe a mano, quelle bombe che chiamavamo « le pine »: quindi eravamo in condizione di passare all’attacco.

Per dire il grado di organizzazione che avevamo, da monte Gioví partivano una volta alla settimana dei carri che portavano giù il carbone, le fascine, perché allora per scaldarsi e per far da mangiare ci voleva il carbone. Attraverso questi carbonai mandammo a Firenze i mitra, le munizioni e anche il plastico.

Se noi vogliamo dare valore anche alla nostra organizzazione, alla nostra capacità, credo che bisogna mettere in risalto quello che hanno fatto i contadini. Vale a dire che noi li non saremmo vissuti nemmeno un giorno senza loro appoggio, se non ci avessero insegnato ad accendere il fuoco perché non è solo il darci la roba, ma insegnarci a farla. Noi vivevamo in quei boschi, facevamo da mangiare bevevamo, perché ci avevano insegnato loro. Ci avevano insegnato dove trovare l’acqua, ci avevano detto che quando c’è quella piccola spaccatura in qualche posto ci doveva essere l’acqua, la sorgente, e bastava scendere da quella parte e lì si sarebbe trovato l’acqua senz’altro.

Questa è la differenza fra noi e le altre formati per esempio quelle del partito d’azione, che non avevano permanenza continua in montagna appunto perché avevano imparato e non avevano avuto l’appoggio che avevamo avuto noi per poter vivere.

Arriviamo fino alla fine di febbraio, avevamo gia in ponte questa grossa azione di Vicchio la quale naturalmente cominciava a diventare più grande anche perché a Vicchio sapevano cosa si pensava e di conseguenza non erano più cinque carabinieri, ma c’erano dieci militi fascisti dentro la caserma dei carabinieri e c’era una caserma dentro la scuola di Vicchio dove c’erano una trentina di fascisti. Sicché l’azione di Vicchio diventava un’azione grossa.

D’altra parte ci viene da Firenze l’ordine di attaccare proprio Vicchio, di fare un’azione grossa, di occuparlo, di non limitarsi solo a giustiziare un fascista come era stato fatto a Borgo S. Lorenzo. Doveva essere una grossa azione perché bisognava portare via da Firenze delle forze, perché a Firenze si stavano organizzando gli scioperi e bisognava concentrare sul Mugello parecchie forze. Allora ci invitano, sempre tramite il partito, a prendere accordi con la formazione Checcucci che era a Gattaia sopra a Vicchio. Tramite sempre il compagno Fabbroni abbiamo un incontro: da una parte io, il Berti e Dante Caverni, dall’altra parte viene Passerini, Bernini Brunetto e Ceccuti Olinto che erano il commissario, il capo di stato maggiore e il comandante della formazione Checcucci di Gattaia.

Decidiamo così l’attacco per il 6 marzo, si decidono in questa riunione anche le modalità dell’attacco. Avevamo già fatto delle ricognizioni sul posto e dicemmo: — Te attacchi la caserma della milizia in Piazza Giotto dove c’è la scuola, noi attacchiamo la stazione, facciamo i blocchi per la strada che viene da Dicomano sulla strada che viene da Borgo S. Lorenzo, la stazione delle ferrovie, la stazione delle poste e telegrafi, e la stazione dei carabinieri —. Poi decidemmo anche le staffette, le parole d’ordine per incontrarsi, l’ora dell’attacco perché eravamo ai primi di marzo.

lo, Brunetto, Berti e Cecco ci si doveva trovare accanto di monumento in Piazza Giotto. Parlando così sembra che fossimo degli esperti invece non era vero, tanto è vero che credevamo di arrivare lì e di sorprenderli tutti. Invece li cose andarono in modo diverso, noi eravamo un po’ faciloni » anche perché avevamo avuto delle esperienze raccontate non fatte. Per esempio Guidotti Danilo (Timo) che aveva attaccato la caserma dei carabinieri di Polcanto, lui aveva estratto la pistola, loro avevano alzato le braccia e basta

Era successo anche a Lazio dai carabinieri tli Dicomano che erano stati disarmati, ma c’era stato probabilmente un accordo oppure non avevano volontà di combattere contro questi ragazzi tanto è vero che molti passarono poi dalla nostra parte.

Quindi arrivammo a Vicchio credendo di sorprenderli. Arrivammo giù e la sorpresa fu questa, che appena ci videro arrivare, un po’ anche loro presi dalla paura, cominciarono a sparare.

Quello che fu la cosa più importante in questa battaglia, non è solo la vittoria, ma soprattutto il fatto che nessuno scappò quando cominciarono a sparare. L’80% dei nostri compagni, tutti noi praticamente, era-la prima volta che sparavamo, e nessuno scappò. L’attacco alla ferrovia fu facilissimo. La nostra pattuglia, formata da 5 partigiani, sorpresero i due militi di servizio. Uno di questi cercò di sparare prima ma venne freddato subito e l’altro alzò le manie venne fatto prigioniero.

Sul blocco stradale non arrivò nessuno né dall’una né dall’altra parte, mentre alla stazione dei carabinieri cominciarono a sparare. Lì rimasero feriti quattro partigiani, uno era il Mercatelli Italo che era stato in carcere con me a Fossano e che era uno dei primi che era partito e rimase ferito proprio dalle schegge di una bomba a mano.

Rimase ferito uno della Rufina e altri due compagni. Poi, il maresciallo dei carabinieri che era quello che li teneva ad un certo punto riuscì a scappare da dentro perché non lo trovammo. Sarà scappato attraverso i tetti questo eroe che rastrellava i contadini e i carabinieri, e i militi che erano lì dentro, non avendo più questa guida e anche per l’effetto straordinario delle bombe, che oltre a spezzare quello che c’era nel raggio di trenta metri, facevano un rumore d’inferno, si arresero.

I carabinieri vennero spogliati, tolta la divisa, portate via tutte le armi e rinchiusi nella guardina mentre i militi che erano di guardia vennero portati su con noi. Gli mettemmo tutte le cassette di munizioni sulle spalle, poi piano piano li avviammo verso monte Giovi.

Li nostra formazione aveva raggiunto un po’ tutti gli obbiettivi ed era quindi lecito cercare di « smammare » perché poteva arrivare un treno di fascisti o poteva succedere qualsiasi cosa, ma la formazione di Brunetto, la Checcucci, non aveva ancora finito con la caserma della milizia.

I fascisti erano scesi nel sottosuolo e si erano chiusi con la botola, pensando che prima o poi sarebbero andati via e loro avrebbero potuto uscire. Erano 19 o 20 lì dentro, e noi naturalmente arrivammo tutti sul posto. Premetto che alla discesa su Vicchio il comandante Dante Caverní che era stato fino ad allora comandante e che aveva preso parte all’elaborazione del piano, alla vigilia dell’azione disse che si sentiva male e non venne. Perciò venne allontanato e si fece immediatamente comandante il Berti. E proprio il Berti lasciai alla caserma, e tornai su per organizzare i partigiani e portarli verso monte Giovi. Lascio al Berti le nostre due staffette, Passerini e Pipone, che erano due partigiani di Vicchio che conoscevano le strade.

Berti ebbe un’idea, chiamiamola « geniale ». Lui cominciò a battere con una mazza sulla botola dicendo « Arrendetevi se no noi mettiamo delle mine e facciamo saltare tutto ». Loro cercarono di mercanteggiare e dissero « Noi ci arrendiamo se ci salvate la vita »; al che il comandante della Checcucci, Brunetto, disse che andava bene. I militi allora uscirono fuori tutti a mani alzate, vennero incolonnati e presi dalla Checcucci e così verso mezzanotte, l’attacco era iniziato alle otto, noi abbandonammo il paese per ritornare alle nostre formazioni. Portammo con noi i quattro militi che avevamo preso nella caserma mentre i quattro partigiani feriti li lasciammo nella canonica di S. Martino di Vicchio dal prete Donativi a mezza strada fra Vícchio e il Tamburino. I prigionieri li lasciammo nella capannina di Scandelaia pensando di interrogarli giorno dopo. Appena arrivato, io parto subito alla ricerca di un medico per i ragazzi rimasti feriti e scendo ad Acone alla villa Renzetti dove abitava un medico, mi pare capitano medico chirurgo, che era scappato l’8 settembre e stava lì in casa sua.

Lo prelevai verso le 4 del mattino, gli dissi quello che volevo e lui venne volentieri, si mise gli scarponi, portò con sé un cane, e tutte le volte che abbiamo avuto bisogno lui è sempre venuto.

Questa fu l’azione su Vicchio, e fu questa azione che fece di noi dei partigiani.

Da persone che avevano organizzato prima il partito con quelle forme che ormai sono note, noi diventammo degli organizzatori militari con tutti` i limiti e con tutta la inesperienza che avevamo. La gente ci chiamava le stelle rosse, perché l’unica cosa che ci era rimasta di rosso era una stella che portavamo sul cappello, erano le stellette della marina, stellette di stoffa che le donne di Acone ci avevano tinte e cucite, e così ci prendemmo quel nome, per quanto noi ci si volesse chiamare Faliero Pucci in onore del compagno che era morto nel pistoiese.

La formazione dunque aveva ormai 100 persone tutte armate dopo l’azione di Vicchio. Il partito ci disse però di spostarci perché monte Giovi era ormai una base organizzata e la nostra presenza rischiava di rovinare tutto il lavoro fatto nei tre mesi, se noi fossimo rimasti lì la nostra presenza che era ormai conosciuta, avrebbe prima o dopo provocato un grosso rastrellamento che avrebbe messo in forse tutto.

L’ordine ci fu comunicato attraverso il nostro compagno che faceva da spola sue giù; era il compagno Pevere Giovanni che aveva il contatto con il partito e che scendeva giù tutte le settimane a Firenze dove stava due giorni. Questo perché era il compagno meno conosciuto perché fino all’8 settembre era stato militare, poi era un ragioniere alla Cassa di Risparmio, era orfano di guerra, quindi era copertissimo, era rimasto fuori dall’arresto di tutto il nostro gruppo. Era una persona di grossa fiducia e nello stesso tempo aveva delle grosse coperture e quindi era l’unico che potesse andare. Non ho mai saputo con precisione con chi avesse contatto a Firenze, ma l’unica volta che mi ha portato a Firenze, ho avuto contatto con Gaiani il quale era in contatto diretto con il partito.

Verso il 25 marzo ci si spostò verso il Falterona e naturalmente in tutto questo periodo viene fatto tanto altro lavoro.

Quando noi dovevamo andare via i contadini non furono d’accordo, forse qualcuno avrà avuto anche paura, ma dopo l’attacco su Vicchio, si sentivano anche protetti da noi. C’era stato tutto un lavoro fatto contro la consegna della roba agli ammassi, io firmavo tutti i buoni di requisizione. Naturalmente queste erano requisizioni fittizie perché la parte del contadino non l’abbiamo mai toccata e anche la parte del padrone se non ne avevamo bisogno, si distingueva da padrone a padrone, non secondo le idee ma secondo le possibilità, da una fattoria al proprietario solo di un piccolo fondo.

Poi c’è una cosa che è rimasta, forse l’unica. I contadini quando facevano l’olio o altro facevano tre parti: questa è nostra, questa del padrone, questa dei partigiani e cioè accantonavano. In tutte le case dei contadini noi avevamo olio, farina, grano, fagioli, patate, che era la parte che loro deliberatamente ci destinavano. Quando dicevano partigiani, non erano i partigiani di G.L. o di altre formazioni che si fossero presentati, ma erano i partigiani della Stella Rossa.

Quindi noi non abbiamo mai dovuto pensare agli approvvigionameni a monte Giovi e non solo, loro avevano stabilito i turni per chi ci macinava il grano, chi ci faceva il pane, chi ci dava il latte, chi il formaggio, dove dovevamo andare a prendere le patate, venivano i contadini e ci dicevano tutto quello che dovevamo fare. Queste decisioni erano il frutto del lavoro che noi avevamo iniziato ad ottobre, questa rete, questo lavoro di coinvolgimento nella guerra di liberazione delle forze locali dei contadini.

Forse a monte Giovi avevamo avuto una grossa fortuna, che i contadini erano disponibili a questo lavoro, ma devo dire che un po’ di merito è anche nostro. La composizione sociale del nostro gruppo dei primi era prevalentemente operaia, c’era un vetraio che era il Gandi, tre argentieri io il Bertini e il Pieraccioli, un impiegato Giannini e due militari che non avevano una professione ben definita per quanto fossero operai anche loro.

La formazione si ingrossava con gli abitanti di paesi di Borgo S. Lorenzo, Vicchio, Dicomano, qualcuno della Rufina e qualcuno di Pontassieve, ma erano tutti operai, contadini, qualche bracciante, solamente uno studente di Sagginale. Per il resto, persone che avessero fatto di più della quinta elementare mi pare ce ne fosse uno o due nella formazione: fino a che non fummo circa ottanta la composizione sociale era questa.

Noi avevamo una maniera di reclutare nella zona, in più veniva da Firenze qualcuno inviato dal partito tramite questo Pevere e questi in genere erano operai o della Galileo o del Pignone o qualcuno giovane della zona del Ponte alle Mosse perché era quella la zona dove venivano reclutati elementi da mandare nella nostra formazione. Ma la composizione sociale non è mai variata, si può dire fino n tutto il Falterona, fino alla fine di aprile. Solo con l’apporto della formazione del Ferri che veniva da Vaiano abbiamo avuto anche degli intellettuali: uno era Aristo Ciruzzi, poi c’era Fantoni uno dei ceramisti, architetto, poi c’era Zeffirelli il regista che allora si chiamava Stoppa e basta, e anche un altro intellettuale. Rimasero con noi solo una decina di giorni perché arrivarono ai primi di aprile, incapparono tutti nel rastrellamento del Falterona e loro ritornarono giù a Firenze.

Quando partimmo da monte Giovi per avvicinarsi al Falterona, era perché il Falterona era più isolato, era più difendibile secondo il partito di Firenze, e poi volevano concentrare tutte le formazioni in una unica e grande.

Dovevamo prendere accordi con le formazioni della Romagna per creare un grosso comando. Probabilmente quello che stava riuscendo a fare Armando nella zona di Montefiorino dovevamo farlo noi dalle parti delle Alpi della Luna, il passo della Calla, etc…

Quindi il tentativo di avvicinarsi a queste formazioni aveva anche come obiettivo questo lavoro, non solo quello di togliere le formazioni da punti vulnerabili e meno difendibili ma creare un grosso centro di formazione.

In realtà i fascisti stavano preparando le basi per rastrellare perché c’è da tenere conto che quella zona, forse noi l’abbiamo capito dopo, interessava noi ma interessava anche i tedeschi perché c’era la linea gotica.

Noi non sapevamo che i tedeschi volevano organizzare la linea gotica, e quindi tendevano a liberarla, non solo dai partigiani, ma anche da tutto il resto. Infatti noi vedevamo un continuo afflusso di forze tedesche specie dalla parte di Arezzo, di Stia che andava su verso il passo della Calla.

Prima che il rastrellamento iniziasse, noi, sempre su ordine del partito, cerchiamo di arrivare in Romagna per prendere accordi con i comandanti di Faenza, Forlì, etc. Con loro ci dovevamo trovare il 9 aprile a Ritracoli che sono tre case passato il passo della Calla, dato che lì vicino c’era anche il campo di lancio delle formazioni della Romagna.

Noi partiamo la sera perché dobbiamo camminare tutta la notte attraverso la foresta di Campígna e la mattina all’alba siamo in vista del Passo della Calla.

Siamo fermi alla casa cantoniera, quando da Stia — da lì si vede la strada che da Stia porta al Passo della Calla — notiamo un continuo andirivieni di carri armati tedeschi. Mandiamo una pattuglia e si vede che il Passo della Calla era ormai sbarrato, occupato, e allora piano piano si indietreggia.

Appena si ritorna da questa spedizione e si mettono al corrente le altre formazioni che è impossibile arrivare in Romagna, loro ci dicono che hanno ucciso due ufficiali delle SS e che gli hanno preso, oltre alle armi, due carte topografiche.

Esamíniamo, le carte topografiche di quella zona, vediamo che è segnata la direttrice di un rastrellamento che la divisione Hermann Góring, il quale era in riposo a Stia, avrebbe iniziato la mattina seguente.

Cominciammo naturalmente a pensare sul da farsi, eravamo in tutto 135 persone armate abbastanza bene ma avevamo al massimo tre ore di fuoco, avevamo dei muli, le possibilità di vivere ma se venivamo attaccati non potevamo resistere più di tre ore.

Decidiamo di fare tesoro di queste carte topografiche, di queste direttrici di marcia, e si inizia la manovra di ripiegamento.

Durante tale manovra camminammo cinque o sei giorni — noi si camminava di notte riposandoci di giorno mentre i tedeschi camminavano di giorno e stavano fermi la notte — girando intorno a parecchi paesini da S. Leolino, Bucigna, Vierle, Pian dei Fossi, Pian della Marcora.

A Pian della Marcona attraversiamo la Consuma e la notte fra il 15 e il 16 si va verso Monte Mignaio, da lì a Secchieta e da Secchieta usciamo fuori dal rastrellamento.

Per fortuna non avevamo perso nemmeno un uomo, avevamo dovuto sotterrare in alcuni punti le mitragliatrici pesanti che non potevamo portare, avevamo regalato i muli a dei contadini perché ci davano noia, però c’era un fatto, Alcune pattuglie che avevamo mandato a vedere, forse per difficoltà a rientrare, non erano rientrate, forse i tedeschi facevano paura.

Insomma la nostra formazione, da 95, escluse le altre formazioni aggregate, si era ridotta a 40 unità. Alcuni mancavano perché avevano avuto difficoltà oggettive, altri perché questo rastrellamento aveva fatto veramente paura. C’era da aver paura, perché erano 3.000 i tedeschi che ci attaccavano da quella parte, e i tedeschi sapevano fare i rastrellamenti. Non erano come i 50 repubblichini, che non ci facevano nessuna paura, i tedeschi si sdraiavano per terra, strisciavano come serpi e poi proteggevano la persona che attaccava.

Per esempio arrivavano su un crinale dove piazzavano due mitragliatrici e iniziavano a sparare battendo il crinale davanti; nello stesso tempo loro, i tedeschi, strisciavano a terra e arrivavano fino a quel punto. Quando arrivavano lì iniziavano a sparare loro con le armi automatiche portatili mentre salivano quelli dietro. Così era continuamente, e via via quello che trovavano era distrutto e incendiato: quindi non era facile non aver paura; se qualcuno andava via non dobbiamo dargli del fifone o altro.

Poi c’era un’altra cosa che creava apprensione.

Fino ad allora la nostra formazione aveva avuto tutte vittorie, le cose che avevamo previsto di fare le avevamo fatte, non un passo falso, quindi c’era anche una fiducia esagerata verso di noi, verso i comandanti. Quella era la prima volta che loro ci vedevano preoccupati, non sapevamo che pesci pigliare, anche se sono convinto che noi si fece del nostro meglio non perdendo nessuno, però questa figura del commissario capacissimo che capiva tutto fu molto ridimensionata.

Questo nostro comandante che è costretto a sotterrare le mitragliatrici, che si oppone al fatto che uno rimanga lì a sparare, perdeva di credibilità. Quella credibilità che fino allora ci aveva messo al di sopra di tutti; tornammo ad essere degli uomini comuni che la sconfitta ridimensiona.

E poi voglio evidenziare anche un’altra cosa, il senso di colpa per il fatto che ci furono 220, 230 persone che morirono fra i civili anche se noi dicemmo a queste persone, a questi contadini, di scappare.

Sicché anche vedere queste stragi fece il suo effetto. Ora sappiamo che i tedeschi erano lì, non solo per fare il rastrellamento, ma anche per pulire una zona dove i tedeschi volevano organizzare quella linea gotica che poi organizzarono. Ma questi giovani di 20 anni che erano con noi, vedere queste cose! E allora ecco perché la nostra formazione da 90 persone diventa di 40.

Il 16 aprile, quando noi riusciamo dopo questa lunga rincorsa dei tedeschi ad attraversare la Consuma lì al Pian della Marcora e scendere al Monte Mignaio, senza che ce ne accorgessimo eravamo già fuori dalla zona rastrellata dai tedeschi e dai fascisti.

Ci si attesta su di un piccolo poggio di fronte a Monte Mignaio, era mattina verso le 5 e ancora non aveva fatto giorno. Ci si riunisce fra il Ferri, io, Gianni, insomma i capi della formazione, e si decide che bisognava stabilire chi andava a cercare un po’ di roba da mangiare perché avevamo finito tutte le riserve.

lo e Ciapetti Viscardo, che era un po’ l’intendente della formazione, partiamo per andare verso Prato a cercare qualcosa da mangiare. Dopo una mezz’ora di cammino sentimmo sparare. Rimanemmo sorpresi perché varcando la Consuma, ritenevamo di avere distanziato i tedeschi. Si seppe dopo, si seppe la sera che una formazione comandata dal tenente Volpi che noi conoscevamo perché era di Gavinana, la mattina del 16 aprile, in Secchieta, mentre noi attraversavamo la Consuma per sganciarsi dal rastrellamento, era stata attaccata dai fascisti. Ma questo lo sapemmo dopo.

Fu in quel momento che la formazione si scisse, temendo di non essersi sganciata dal rastrellamento. Il Ferri riprese i suoi uomini, quelli che rimanevano, e partì mentre quelli rimasti si sganciarono subito da questo poggio e si incamminarono verso Bagni di Cetica, Cetica e Pratomagno. Quando io e il Ciapetti ritornammo, non trovammo più nessano; solo una donna ci disse di non andare lassù perché`, diceva, a Monte Mignaio alto c’erano i fascisti. Questi fascisti erano quelli che tornavano dall’azione di Secchieta, e io e il Ciapetti eravamo distanti 200 metri da loro.

Ci dissero che i partigiani che erano lassù avevano preso la strada di Pratomagno. Noi camminammo tutto il giorno e la sera raggiungemmo i nostri compagni che erano vicini al Crocione di Pratomagno. Dormimmo due o tre ore nella neve, scendemmo giù verso la Rocca Ricciarda e lì, stanchi, cominciammo a fare i conti della nostra formazione. Nel giro di quindici giorni, da 145-150, eravamo ridotti a 40 persone.

Rimanemmo fermi alla Rocca Ricciarda per una settimana fino a quando non decidemmo di mandare il nostro compagno a Firenze per prendere contatto con l’organizzazione. Il nostro compagno arriva a Firenze e trova un terreno già predisposto contro di noi perché tutte le persone che, in modo o in un altro erano andate via dalla formazione, arrivati a Firenze avevano detto che non esistevamo più, che quelli che come loro avevano avuto fortuna erano scappati e andati a Firenze, gli altri erano tutti morti. Quindi ci piangevano tutti, e il Pevere dovette faticare molto per dimostrare che non eravamo morti.

Raccontò tutto quello che era successo ma già era uscito, specie sulla stampa del partito d’azione, il fatto che eravamo tutti morti. In effetti morti ce ne erano stati tanti sul Falterona, ma non erano della formazione Faliero Pucci. Erano magari i morti della Checcucci, i morti delle formazioni romagnole che erano state agganciate durante il rastrellamento, e soprattutto i morti erano quelli della popolazione di Vallucciole, della zona, i quali vennero fucilati dai tedeschi.

Ma noi non avevamo avuto nemmeno un ferito. Allora il partito, la Divisione Garibaldi, ci danno la disposizione di scendere verso Figline esattamente a Campo Vamperti a Castelfranco di Sopra, e da lì abbiamo di nuovo il contatto diretto con il partito. Viene su Rocchi Umberto insieme a Segré e a Barneschi Pasquale, che erano tre staffette del comando regionale delle Brigate Garibaldi, e ci dicono di stare ancora fermi lì e poi avrebbero trovato il modo di farci attraversare l’Arno e di mandarci a rinforzare una formazione sulle pendici di Monte Scalari.

Dopo nemmeno due o tre giorni torna su il Rocchi, questa volta accompagnato da un certo Sommazzi Ivo detto « il nano » che era il capo delle squadre d’azione di Figline Valdarno e insieme a lui c’era un certo Merciai Azelio che poi divenne anche sindaco di Figline dopo la liberazione. Con loro stabilimmo data e modalità per attraversare l’Arno; noi rimanemmo un po’ sorpresi perché credevamo di attraversare il fiume dove c’era meno acqua, al guado, mentre il Sommazzi ci disse che potevamo attraversare il ponte perché lui era d’accordo con i tedeschi.

Eravamo un po’ dubbiosi su questo accordo con i tedeschi di guardia sul ponte, comunque la sera verso le dieci viene il Sommazzi e ci dice che è l’ora di passare. Noi da Castelfranco di Sopra scendiamo verso Figline, arriviamo sul ponte e lui ci dice di aspettare un minuto. Noi eravamo tutti in fila, con le armi, e per le strade dei campi non avevamo incontrato nessuno. Lui va avanti, si sente un tonfo, poi:

— Via, alla svelta!

Lui era andato lì, aveva acceso una sigaretta a questo tedesco, lo aveva pugnalato e buttato in Arno.

Noi attraversiamo di volata il ponte, capiamo allora ciò che era successo e anche quale era la natura dell’accordo fra i « senza paura » di Figline e i tedeschi, e si continua a camminare fino a che i tedeschi ci rincorrono perché scatta l’allarme. Sentiamo che ci inseguono e si cammina tutta la notte arrivando la mattina a Badia Montescalari dove si conosce Gino Garavaglia e altre persone della sua vecchia formazione detto « il gruppo fantasma ». Ci portano su di un poggio sopra Badia Montescalari, mangiamo un pasto regolare per la prima volta dopo quindici giorni. Anche questo giorno fu doloroso per noi, tre nostri ragazzi, forse i più giovani e anche i più spigliati e i più eroici Adriano Gozzoli, lo Zuppa e il Lella, si fermarono in paese. Forse dall’euforia di avere scampato tanti pericoli, si levarono le scarpe per lavarsi i piedi in un trogolo dove le donne lavavano i panni. La disgrazia fu che in quel momento passò il maresciallo dei carabinieri di Sira da che prese prigioniero il Gozzoli che venne portato a Firenze e fucilato in Fortezza dopo 5 o 6 giorni.

Si può dire che quello fu il primo morto che noi avemmo, fu una morte dolorosa perché nella formazione c’erano anche i suoi parenti, i suoi cognati come il Farulli, e poi questo ci prese in un periodo di impotenza perché se questo fatto fosse successo dieci giorni prima, forse noi avremmo avuto la forza di liberare questo ragazzo prima che lo portassero a Firenze.

Camminando nella notte successiva, andammo a finire verso S. Donato in Poggio per ritrovare un’altra formazione nostra, quella di Giminiani. Una volta arrivati lì dovevamo definire la nostra faccenda perché noi non eravamo più nulla, eravamo solo un gruppo che non sapeva più definirsi. Fu in quell’occasione che scesi a Firenze per la prima volta da quando ero salito. A Firenze ebbi dei contatti, era il 2 o il 3 maggio del ’44; mi ricordo perché il giorno prima c’era stato il bombardamento.

Arrivai nella zona di Gavinana, venni alloggiato in casa di un compagno di Via del Paradiso e la mattina dopo mi presentano il Pallanti Gino il quale mi fa avere un colloquio con Censimenti Giotto che era ancora a Firenze. Il Censimenti mi porta dal responsabile della delegazione toscana, cioè il Comaschi che poi seppi essere il Gaiani Luigi. Il Gaiani sapeva già che avevamo sotterrato delle armi sulla Consuma, e mi disse che bisognava ritornare a recuperare queste armi.

Dai suoi discorsi capii che nei nostri confronti non c’era più fiducia di prima: eravamo gli uomini che avevano subito una disfatta e, anche se eravamo vivi, non rappresentavamo più quello che rappresentavamo il mese prima. Forse anche perché nel momento in cui noi eravamo rincorsi dai tedeschi, altri che per fortuna erano fuori avevano cercato di consolidare le loro organizzazioni come Potente sul Monte Giovi che era stato fermato in tempo; Potente e Bruschi non solo poterono continuare a consolidare la propria organizzazione, ma poterono anche recuperare tutti quelli che venivano via dal Falterona. A noi comunque dissero che se volevamo potevamo fonderci con il gruppo del « fantasma », altrimenti dovevamo riattraversare l’Arno, ritornare su Pratomagno e di lì andare verso le Alpi della Luna, verso la Romagna, le Marche.

Io ritorno su e si comincia a parlare di queste cose, la fiducia reciproca era sparita per tante altre ragioni, i nostri nervi erano a fior di pelle, eravamo diventati magrissimi, e nella zona dove ci trovavamo non potevamo rimanere. Ritorniamo verso Badia Montescalari e qui si trova una novità: in quei due o tre giorni erano arrivati dei compagni da Firenze fra cui Danilo Dolfi, il Boltrini Libero che poi si chiamò Ciccio, Fiorello che poi diventò anche sindaco di S. Croce sull’Arno, insomma in quella zona la delegazione toscana stava cercando di raggruppare uomini per riorganizzare una formazione facendo pernio, visto che noi non eravamo disponibili, sulla formazione di Gino Garavaglia e altri.

Quando arrivammo lì ci fu una grossa decisione da prendere, discutemmo, e decidemmo di rompersi. La parte più grossa sarebbe andata via, io sarei rimasto lì perché, dato che andavo troppo d’accordo con quelli di Firenze, ero diventato la pietra dello scandalo. Secondo loro quelli di Firenze non capivano nulla, secondo me bisognava dargli fiducia. Ad ogni modo ci si divide, loro fanno un tentativo di andare via: erano circa una ventina e in testa c’era il vecchio comandante, Berti Otello e il Gianni, ma mentre cercavano di riattraversare l’Arno vennero presi in una mezza imboscata e dovettero tornare. Nel frattempo noi eravamo già un gruppo di una cinquantina dato che una ventina erano del gruppo vecchio del « fantasma » ed erano arrivati altri 15 o 20 di Gavinana. Eravamo quindi cresciuti, avevamo già costituito il comando ed avevamo già dato il nome alla formazione: Brigata Sinigaglía. Il comandante era il Caravaglia che era il comandante del « fantasma », e il commissario politico era Danilo Dolfi, Giobbe, vice-commissario Gianni, vice-comandante il Berti Otello, capo di stato maggiore il Donati Luciano che era un vecchio partigiano.

Siamo ai primi di giugno e io ero in attesa di andare via perché ero stato nominato vice-commissario politico della formazione Caiani, però rimasi lì come semplice partigiano fino al 20 di luglio, circa un mese e mezzo ».

In questo periodo la formazione cresce, si comincia ad organizzarla secondo i sistemi vecchi, a distaccamenti, per esempio Badia Montescalari, Casa a Monte, Casa Mora, Pian d’albero e altri.

La Casa al Monte era un po’ più alta e lì c’era il comando di divisione e un distaccamento a disposizione del comando, poi c’erano le staffette che da questa Casa al Monte andavano a tutti i piccoli distaccamenti. In quei giorni si era poi intensificato in maniera notevole il lavoro politico di modo che noi avevamo avuto dei rapporti con Incisa, Figline, Greve.

Prendemmo anche contatto con il 113° battaglione del genio che era ad Incisa e prendemmo la decisione di far disertare tutti gli italiani di questo battaglione, che erano tutti d’accordo mentre i tedeschi no. Combinammo quindi un’azione per il 12 giugno, riusciamo ad andare vicino alla zona isolando i tedeschi, si spara sui tedeschi e circa 600 persone disertano e vengono in montagna. Portano quelle poche armi che hanno e tutta la roba. Parecchi, quasi 300, si avviano verso la propria casa e circa un centinaio rimangono con noi; la nostra formazione al 14 di giugno è sulle 350-400 persone perché dalla città continuano a venire.

C’è da considerare che gli ultimi di maggio c’era stato il bando Graziani che aveva spinto i giovani a venire su. In quel periodo, fra il 10 e il 15 giugno, vennero su anche Gracco il chimico, Spinella, Fumo: loro erano stati liberati dal carcere poco tempo prima mentre Gracco veniva dalla guardia di finanza dove aveva disertato. Questa è la situazione che abbiamo verso il 16 di giugno che si protrae fino al 20. Bisogna spiegare, per capire la battaglia di Grand’Albero come era la formazione; grosso modo era rimasta sempre, la stessa vale a dire con le stesse strutture, la stessa vita interna, anche se l’ora politica veniva divisa dalla riunione del collettivo.

Mi spiego, il collettivo era quello fatto da tutti i compagni e si riuniva solo una volta ogni tanto, quando c’erano delle novità o delle cose grosse per dare un indirizzo a tutta la formazione: era il partito che si riuniva. L’ora politica invece veniva fatta tutti i giorni dal commissario o di brigata, o di compagnia o di distaccamento, tutti i giorni ci doveva essere un’ora in cui quello parlava delle cose attuali, generalmente di cose che venivano da Firenze e che poi erano ritrasmesse.

Grosso modo la formazione, anche se era raddoppiata come numero, era rimasta questa, l’organizzazione interna era la stessa, il mangiare era lo stesso. Il mangiare lì si faceva da tre contadini che erano quello della Casa al Monte, quello della Casa Mora e quello di Pian d’Albero. Noi facevamo le nostre requisizioni dai contadini e si portava la roba in queste case, il pane andavano a farlo i nostri partigiani; per esempio c’era uno di Vercelli, uno che si chiamava Garibaldi che era della Romola, ed erano loro che andavano nella casa del contadino con la nostra farina a fare il pane. Il pane veniva poi portato su con la treggia che ci davano i contadini, o i contadini stessi della zona lavoravano insieme a noi per dividerlo, per portarlo ai vari distaccamenti. Molto spesso erano gli stessi partigiani dei distaccamenti che andavano sul posto a prenderselo. Per quanto riguarda la carne veniva cucinata sul posto, ogni singolo distaccamento se la cucinava da solo, magari si comprava una mucca o un vitello da un contadino, si macellava. Poi magari il vitello lo pagavano la metà e per l’altra metà facevamo il buono al contadino.

In sostanza, la parte dei contadini la lasciavamo sempre a loro e l’altra parte si requisiva.

Per quanto riguarda le azioni, quando si divenne tanti, bisognava mandare fuori delle pattuglie sempre in movimento perché era anche più pericoloso, e venne istituita una cosa che si chiamava la caccia libera. Mandavamo fuori la sera delle pattuglie che dovevano stare fuori 4 ore, e loro non erano vincolate a nessun tipo di azione, dovevano improvvisare.Se gli capitava di trovarsi davanti un camion tedesco dovevano attaccare se gli sembrava il caso, insomma avevano autonomia di poter attaccare, era una « caccia libera ». In quel periodo avevamo sette o otto pattuglie tutte le notti che giravano per tutta la zona, scendendo verso Figline, verso Greve, Incisa, Rignano, che facevano non solo il controllo per vedere i mezzi che passavano, ma potevano anche attaccare.

La sera del 19 giugno pioveva e vennero su da Gavinana una quarantina di ragazzi che ci avevano mandati per fare i partigiani; pioveva fortissimo quindi non si potevano portare alla formazione e si portarono alla capanna di Grand’albero. Durante la notte, una nostra pattuglia della caccia libera, incrocia una camionetta tedesca, mi pare fosse una 1100 mimetica, con sopra tre ufficiali. Naturalmente ammazzano i tre ufficiali e prendono la camionetta. L’errore forse — non si saprà mai se l’errore grosso fu questo —è che loro pensarono di non bruciare la camionetta, ci montarono sopra, e per la strada arrivarono fino a Grand’Albero.

Al comando di questi tedeschi che erano alla Palagina, sulla strada di S. Andrea, vale a dire la strada che da Figlíne porta a Greve, non videro tornare né la macchina né gli ufficiali. I tedeschi si misero a cercare, e vedendo le impronte delle ruote della macchina, arrivarono la mattina verso le 5 di fronte alla casa di Grand’Albero. Ammazzarono la sentinella che era lì, l’allarme venne dato dal Balena che era sul tetto, cominciarono a sparare. Dei 50 che erano su nella capanna alcuni riuscirono a scappare, gli altri furono uccisi sul posto, e 20 furono presi e portati giù.

Solo 19 perché uno ce lo rimandarono in mutande dicendoci che, se noi gli riconsegnavamo gli ufficiali tedeschi, loro avrebbero liberato tutti i partigiani. Gli ufficiali erano morti ormai, e allora i partigiani vennero impiccati: fra loro tre della famiglia Cavicchi, il vecchio Norberto di 78 anni, uno dei figlioli Capoccia Giuseppe, e il ragazzo piccino, Aronne.

Dopo questo fatto da 400 ci riducemmo a 140, perché bisognava considerare che molti di questi ragazzi erano lì da poco, da quindici giorni, alcuni anche da tre giorni, e queste cose fanno impressione. Rimasero i vecchi partigiani, rimasero anche parecchi giovani, però diminuimmo.

La formazione fu divisa in due compagnie, e si continuò. Nella notte, per salvare la formazione, si esce dalla zona facendo un gran giro, per dare l’illusione ai partigiani di uscire da quel cerchio di fuoco. Dopo tre giorni ritornammo nella zona, e praticamente si riorganizzò la compagnia. Riprendemmo in quel periodo contatto con due compagnie, una di Gaville Meleto e l’altra di Castelnuovo dei Sabbioni, la Chiatti e la Castellani che vennero incorporate nella nuova formazione diventando la III e la IV compagnia. Questa è la forza con cui più o meno la Senigallia arriva fino al 7 luglio.

Il 7 luglio c’è la formazione del comando divisione. Il comando divisione viene formato dal comandante della Lanciotto che diventa comandante di divisione cioè Potente, il commissario della Sinigaglia che era Giobbe che diventa commissario della divisione Potente, il comandante della Sinigaglia diventa vice-comandante cioè il Garavaglia, e il vice-commissario della Lanciotto diventa il vice-commissario.

Verso il 20 luglio io, per ordine di Potente, dovetti passare alla Lanciotto con l’incarico di commissario della IV compagnia. Non ero entusiasta di venire via, ma una volta arrivato alla Lanciotto mi trovai subito bene anche perché erano tutti ragazzi.

La IV compagnia era forse una delle migliori della Lanciotto, erano quasi tutti di Sesto e si conoscevano, erano vecchi partigiani alcuni dei quali venivano senz’altro dalla formazione di Lanciotto Ballerini. Gente che aveva fatto anche la prima battaglia di Valibona, che erano stati dall’altra parte di Vicchio con Brunetto, sicché era una formazione ben organizzata e anche ben armata perché aveva ricevuto dei lanci su Pratomagno.

Devo dire anche una cosa, quando io arrivai alla formazione venni ricevuto in pompa magna perché ad aspettarmi c’erano Potente e il Bruschi, e forse perché sapevano dei miei trascorsi.

Ebbi allora una bella impressione — io non ero abituato a certi personaggi —, Potente mi stupì perché non era stato in carcere, aveva sempre fatto il militare e nello stesso tempo, sentendolo parlare, mi sembrava davvero un compagno. Non solo, ma mi accorsi che aveva una qualità: era curioso, una curiosità eccezionale. Lo vidi, mi portò lui alla IV compagnia e mi presentò a tutti i compagni.

All’inizio ci fu una certa diffidenza verso di me che poi passò nel giro di un paio di giorni e quindi si potette veramente lavorare bene insieme. Potente l’ho rivisto solo la sera del 30 luglio quando venne a portarci l’ordine di scendere a Firenze.

Partimmo la sera del 31 luglio verso le dieci, attraversammo l’Arno con tutta la compagnia, camminando lungo la ferrovia che da Pontassieve porta a Firenze.

Era di notte. I nemici non ci vedevano perché sapevamo anche camminare, strisciare quando era il momento, Anche andare gattoni, tanto è vero che per fare pochi chilometri ci mettemmo circa quattro ore e mezzo: era un cammino molto lento e parecchio guardingo.

Arriviamo sulla strada ed entriamo dentro la scuola « Giovanni da Verrazzano » a Capodímondo. Naturalmente credevamo che tutto fosse predisposto, invece per entrare dovemmo rompere il vetro di una finestra ed andammo subito nel sottosuolo lasciando di sopra le sentinelle. Erano circa le tre ed aspettavamo che facesse giorno. Noi non avevamo nulla e quindi andammo a cercare l’acqua. La mattina verso le dieci ci portarono qualcosa da mangiare perché eravamo 220 persone affamate, la III e la IV compagnia più il capo di stato maggiore della brigata che era il Mongolo e il commissario della brigata che era il Bruschi, e il vice-comandante Lazio.

Prima delle dieci viene ad aprire la scuola il custode perché forse, con il fracasso che avevamo fatto la notte, lo avevano avvertito. Lui vede solo una decina di persone —era insieme alla moglie — quelle che erano sopra. Noi non lo volevamo mandare via, poi mandammo via la moglie e poi lui. La sera, verso le 4 o le 5, quest’uomo torna e ci porta un chilo di pere che ci dividemmo fra tutti, mangiammo una pera in tre. Ci disse però che non potevamo stare lì.

Attraverso i muri dei villini, colpiti dai bombardamenti, arrivammo verso quell’officina che si chiamava allora « Tipografia Rinascimento del Libro ». Lì c’era spazio, c’era un grande cortile con un pozzo al centro, e ci si sistemò lì.

Il tempo passava, verso il 5 (noi salivamo sempre sul tetto per vedere) arrivarono la mattina presto i resti della brigata Caiani che erano stati attaccati ai Tre Pini. Loro si erano divisi, una parte aveva attraversato l’Arno ed era andata verso Rovezzano con Tarzan, e una ventina con il Brunetto vennero recuperati e portati da noi a ingrossare le file: diventammo così 250.

Nello stesso tempo arrivò a fare permanenza, dopo che saltarono i ponti, ad aspettare il momento dell’insurrezione ed anche a darci disposizioni precise, il delegato toscano della brigata Garibaldi che era Francesco Leone, e che a Firenze aveva il nome di battaglia di Gastone. Lui stette tre o quattro giorni, ci dette alcune indicazioni di carattere politico, e insieme facemmo il piano di quello che avremmo fatto appena usciti fuori.

Abbiamo ricevuto la visita del Montelatici, di Beppe Rossi, insomma tutti i capi di Firenze venivano lì in quei momenti. Avemmo l’incarico di occupare il Comune, la casa del fascio, la stazione e la Fortezza, e la tipografia de « La Nazione »: questi erano gli incarichi avuti per il momento dell’insurrezione.

La mattina dell’11 agosto — il suono della Martinella lassù non lo sentivamo — dopo un quarto d’ora, mezz’ora, vediamo arrivare Beppe Rossi che dice:

— È l’ora!

Noi usciamo fuori, però la popolazione era già nella strada, aveva sentito della Liberazione. Noi, fra due ali di pubblico, arriviamo in Via dell’Agnolo, dove allora c’era il circolo Dante Rossi, e lì ci fu il primo comizio perché era pieno di gente e noi buttammo il Mongolo sulla terrazza del Dante Rossi e lui disse quattro parole. Da lì poi scendiamo fino al Palazzo Vecchio, lo occupiamo, e lì verso le 7 della mattina sappiamo della morte di Potente.

Mi ricordo, che ci si schierò davanti alla scalinata e Gastone commemorò Potente. Mandammo poi il distaccamento di Corsinovi subito al casone ferrovieri, metà della compagnia venne mandata alla Fortezza e si fermarono alla caserma della Guardia di Finanza in via Faenza, tutta la III compagnia rimase con noi per occupare la stazione.

Alla stazione però c’erano i tedeschi, e lì iniziano i combattimenti per la Liberazione di Firenze. Questo è lo schieramento che si ebbe quel giorno: tutta la Sinigaglia con la I e la II compagnia della Lanciotto era oltrarno, di qua c’erano le squadre di azione cittadine e due compagnie della Lanciotto più una compagnia della III Rosselli.

I combattimenti si svolsero dentro la stazione, alla Fortezza, al Casone Ferrovieri, dentro la Manifattura Tabacchi che era terra dei tedeschi, alle Cascine che era terra di nessuno, praticamente. I combattimenti continuarono, spostandosi verso il nord della città, per tutto agosto.

  1. la biografia di ugo corsi dovrebbe essere aggiornata mi risulta che sia ,putroppo, deceduto da tempo.Ho conosciuto Ugo perché fratello di mia zia Oretta e compagno di mio padre(partigiano) che militare a roma assistette al suo processo.presso il tribunale speciale

  2. noemi passerini

    io sono la figlia di passerini nome di battaglia ricciolo capo distaccamento della brigata lanciotto che oltre a pertacipare ala liberazione di Vicchio ha partecipato a quella di Firenze e Bologn a e solo ora che è morto ho cominciato a leggere i libri sulla lotta partigiana in cui trovo spesso il suo nome ,mi commuovo e mi dispiace non avergli chiesto tante cose che ora vorrei sapere , ragazzi se avete dei padri o dei nonni che hanno fatto queste gesta eroiche fatevi raccontare tramandiamone la memoria ai nostri figli tra non molto la loro generazione sarà finita e quello che hanno fatto non va dimenticato siamo fieri di loro della loro scelta che fu l’unica giusta Noemi figlia di Passerini Luigi “Ricciolo” !medaglia al merito ed una al valor militare classe 1925

  3. Galatioto Ninni Salvatore

    Sono il figlio di Gaspare Galatioto, n. a Partinico 1908 e m. a Palermo 1962, Maresciallo dell’Aviazione. Nell’aprile del ’44 da Subbiano con altri 13 giovani, prendeva la strada delle montagne, nel Pratomagno tra il Casentino e il Valdarno. Notato subito da “Potente” (Aligi Barducci) e altri Capi partigiani, veniva inquadrato nella Divisione “Arno”, come Comandante del 1° Distaccamento della 1^ Divisione della 22^ Brigata d’assalto Garibaldi “Lanciotto”, operando in località Uomo di sasso e dopo a Gastra. Nome di battaglia: Comandante “Zeta”. Combatté nei durissimi scontri di Cetica, al passaggio della Consuma, a Monte Giovi, a Villa Magna, e fu tra i primi ad entrare in Firenze e alla testa dei suoi uomini partecipò al rastrellamento dei franchi-tiratori nazifascisti nei quartieri d’oltrarno, suscitando l’ammirazione di tutti. Oltrepassato l’Arno, prese parte a tutti i combattimenti, fino al 15 agosto nei durissimi scontri nei pressi della stazione ferroviaria, facendosi ancora una volta notare per il valore e il coraggio. Fino allo scioglimento della Divisione Potente, continuò ad occuparsi degli uomini della 1^ Compagnia.
    Fu molto amico di Ugo Corsi e di Danilo Dolfi. Conservo il Diploma di Medaglia Garibaldina, con la medaglia, la stella a cinque punte su coccarda tricolore, il bracciale del C.T.L.N. e il fazzoletto rosso, nonché tutti i documenti originali che ha lasciato. Purtroppo quando è morto, io non avevo ancora compiuto 16 anni!

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