La Borraccia Sinigaglia

LA “BORRACCIA SINIGAGLIA”

Mercoledì 21 giugno arrivammo sul S. Michele, dove erano organizzate le posizioni della III e IV compagnia della nostra Brigata, e ci accampammo a Casa al Monte, nei pressi di Gaville. Era nostro preciso intento rimanere lì solo per un paio di giorni, e poi tornare sulle nostre posizioni del Monte Scalari, dove era nostro compito sviluppare sempre più la guerriglia partigiana.

Fin dal primo momento che eravamo a Casa al Monte, in una riunione del Comando della Brigata, assente giustificato Giobbe, riunione allargata ai CM e CP della I II III e IV Compagnia, stabilimmo che la III e IV Compagnia avrebbero immediatamente intensificato le loro azioni, per disorientare il nemico, tenerlo impegnato, e dare a noi la possibilità di riorganizzare la I e la II Compagnia.

Il giorno dopo, giovedì 22 giugno, una pattuglia della III Compagnia sequestrò dieci quintali di grano, nella casa di un noto fascista  repubblichino di Gaiole in Chianti: una parte del grano venne distribuito gratuitamente alla popolazione. Quel giorno cominciai l’ora politica alla I e II Compagnia così:

“Compagni, oggi, il mondo è più piccolo. Una parte di noi, la migliore è morta, e noi ci sentiamo mutilati, feriti, con tanto dolore dentro! “Però, compagni, non possiamo rimanere a piangere sul nostro dolore, sulle nostre mutilazioni, sulle nostre ferite.

“Dobbiamo reagire, perché è il dovere che abbiamo di fronte ai nostri morti! “Dobbiamo riorganizzare, rafforzare la I e la II Compagnia, provate dall’attacco nazista di Pian d’Albero.

“Rafforzare la disciplina in tutta la Brigata. Una disciplina di ferro che però sarà un’autodisciplina, la più democratica perché ognuno di noi dovrà sempre rispondere a tutto il collettivo. “Con il compagno Gracco sto preparando un progetto di vita collettiva e di disciplina che metteremo tra tre–quattro giorni in discussione in tutto il collettivo. Una volta approvato, diventerà legge per tutti noi. Abbiamo pensato di dargli un nome: ‘Atto di responsabilità–Statuto della Formazione’.

“Credo che noi tutti dobbiamo, fin d’ora, avere più spirito di corpo, dobbiamo esser fieri, onorati e anche orgogliosi di appartenere alla Brigata d’Assalto Garibaldi A. Sinigaglia. “Dobbiamo sentirci onorati di stare in montagna, al servizio del paese, della Patria!“Passeranno gli anni e quando sarete padri e nonni, dovrete esser fieri, di poter dire ai vostri figli e ai vostri nipoti: anche io ho fatto parte della Brigata Sinigaglia, quella volta in quella battaglia c’ero anch’io!

“C’ero anch’io a Pian d’Albero, fummo sconfitti duramente, è vero, ma da lì imparammo a combattere e a sconfiggere il nemico! “Sì, compagni, noi fin d’oggi, dobbiamo colpire il nemico più duramente di prima, senza dargli il tempo di reagire!

“Dobbiamo colpire duro e per primi, sorprenderlo sempre, disorientarlo, frastornarlo, fargli capire che deve tornare a casa sua, perché qui in Italia, qua in Toscana, ci sono partigiani che combattono per l’indipendenza e la libertà.

“Questa non è terra di pascolo per le orde naziste! “A poche decine di chilometri da qui c’è Firenze, culla dell’arte e di civiltà, da dove il Rinascimento si è irradiato in tutta Europa e nel mondo intero. Noi compagni, dobbiamo diventare dei combattenti migliori e più duri, dobbiamo fare tutti un salto di qualità, per essere capaci di portare la bandiera della nostra Brigata, a sventolare là nei quartieri popolari di Gavinana, San Frediano, Santa Croce, ove riposano i padri della civiltà, dell’arte, della cultura e della politica! “Noi riusciremo perché nostro è l’avvenire!”

Poi, parlai piuttosto duramente, così come lo meritava, del fatto che il VCP addetto al Comando per gli studi, compagno Raspa, aveva di sua iniziativa rilasciato liberi i tre prigionieri tedeschi. Spiegai che nelle nostre file, non esistevano Padreterni, padroni di fare quel che gli passava per la testa. Il collettivo quindi, tutto all’unanimità, doveva criticare il compagno Raspa, al quale, per attenuanti riconoscevamo il suo esaurimento. Ad ogni modo, il fatto era grave ed avrebbe potuto comportare la fucilazione. Se il fatto si fosse ripetuto questa sarebbe stata la sua condanna.

Il compagno Raspa di fronte al collettivo doveva fare autocritica. Cosa che egli fece.

Quando l’ora politica ebbe termine, mi sembrò che nel collettivo tutto ci fosse un’atmosfera piuttosto buona, si stava per superare la demoralizzazione nella quale erano cadute, in special modo, la I e la II Compagnia.

Il giorno dopo, venerdì 23 giugno, sul tratto di strada Radda in Chianti–Badia, un distaccamento della III Compagnia assaltò una vettura tedesca, con a bordo due ufficiali paracadutisti germanici, alle dipendenze della divisione Hermann Goering. Gli ufficiali  rimasero nella vettura che venne abbandonata in modo da ostruire la strada in un punto piuttosto pericoloso.

Un camion tedesco, proveniente da Badia, e avente a bordo quindici soldati germanici, nel tentativo di scansare la vettura, precipitò nel sottostante burrone. Informazioni successive riferite dai nostri contadini, ci riferiranno di cinque morti ed il resto feriti, di cui sei in fin di vita.

In quella stessa giornata di venerdì 23 giugno, il Comando di Brigata e la I e II Compagnia, ripresero la marcia per ritornare nella zona di Monte Scalari. Sul S. Michele rimanemmo solo due giorni. Questa volta in testa alla brigata vi erano compagni pratici della zona, che ci riportarono con perizia alle nostre posizioni, senza incidenti.

Appena arrivati al nostro vecchio campo sorse il problema di cosa mangiare: non avevamo nulla. Garibaldi e Toro nel bosco trovarono un cavallo ammazzato nel combattimento di Pian d’Albero. Era rimasto al sole ed era pieno di vermi. I nostri due cuochi con dei pezzi di legno raschiarono quei vermi, poi tagliarono a pezzetti quel cavallo e lo misero a bollire nella grossa marmitta: ci fu per tutti un pezzo di carne.

Bologna e Truciolo fecero subito il pane, così si mangiò quel brodo e quel lesso, insieme al pane.

 

 

 

 

Nella tarda rata, dal Comando di Brigata, venne approvato all’unanimità   un “Piano per la liberazione di Firenze”, che dietro sua richiesta, il giorno dopo a mezzo di Segrè, inviammo al Comando unico Toscano del CTLN! Il piano era stato studiato e redatto dal nostro CSM compagno Gracco.

Sabato 24 giugno, giunse al campo il compagno Segrè, pioveva a dirotto, un pezzo della strada l’aveva fatto con Don Gino Bartolucci parroco di S. Cerbone, il quale l’aveva riparato col proprio ombrello. Segrè portò su da noi sei nuovi partigiani, doveva portare anche un colonnello e un generale ex prigionieri dei nazifascisti, che erano scappati dal campo di prigionia di Villa della Tana al Girone, ma i due anziani ufficiali arrivati ad un certo punto non ce la fecero più a camminare, così si fermarono nel bosco per ripararsi un po’ e tornare indietro per nascondersi presso certi loro parenti. La vita della montagna era molto dura, richiedeva il fisico in perfetto ordine; per di più quel giorno, come ho già detto, pioveva a dirotto.

Fra le sei nuove reclute, Segrè ci portò due compagni intellettuali, Mario Spinella e Paolo Benucci. I due erano scappati dalle mani dei nazifascisti che li avevano arrestati, poi erano andati in via Fra Giovanni Angelico, presso il compagno Giannelli, che in quella via aveva una piccola officina dove per la Resistenza si costruivano bombe, si riparavano armi ed altro. Il compagno Giannelli li presentò a Segrè e così poterono venire nella nostra Brigata.

Fu un buon acquisto; Mario Spinella col nome di battaglia Parabellum, insieme a Vittorio preparavano schemi di studio, vere e proprie lezioni per i partigiani che volevano approfondire la loro cultura. Parabellum, morto il russo Giovanni, nostro interprete per interrogare i tedeschi, lo sostituì in questo compito.

Paolo Benucci prese il nome di battaglia Fumo; era un uomo d’azione, e volle esser subito inserito in un reparto combattente, del quale poco tempo dopo, fu eletto CP di distaccamento. Il futuro avvocato era un tiratore eccezionale, sia con la pistola che con il fucile. Lo stesso Chimico, che era un tiratore di primo ordine, dichiarò: “È la prima volta che trovo uno che spara meglio di me! Fumo è proprio un fenomeno!” Al compagno Segrè, come ho accennato prima, consegnammo quel “Piano per la liberazione di Firenze” approvato all’unanimità il giorno prima, per consegnarlo al Comando Unico Toscano del CTLN.

Appena ritornata sul Monte Scalari, la Brigata aveva ripreso le posizioni occupate precedentemente, solo con alcune modifiche nella cintura di protezione. Una modifica fu questa: poiché ritenemmo pericolose le provenienze della Fattoria del Palagio, dove c’era quel comando di paracadutisti tedeschi, e le provenienze da Figline Valdarno, verso il settore di Pian d’Albero, fu messo un nuovo posto di blocco, sulla strada campestre di Pian d’Albero, che era poi una treggiaia, un po’ prima dell’inizio degli alberi, che un po’ più in là fiancheggiavano questa treggiaia.

Questa posizione tenuta dal nostro posto di blocco, armato di Bren, fucili e Sten, ci consentiva di controllare, sia quel sentiero che da Pian d’Albero va verso nord–est, che fiancheggiando per un certo tratto il Borro delle Forche porta a Casa gli Appinni, e di qui subito giù, alla strada carrozzabile che scendeva sia alla Fattoria del Palagio che a Figline, e sia quella mulattiera che da Pian d’Albero scendeva giù verso sud–est, e raggiungeva poi, più in basso, la stessa carrozzabile, che portava sia alla Fattoria del Palagio, ove c’era il comando dei paras, che a Figline Valdarno.

Di guardia al posto di blocco, appena arrivati, fu messo un nucleo composto da partigiani della vecchia Stella Rossa, perché con l’esperienza, il coraggio, la ferrea disciplina più volte dimostrataci, ci dava una certa  garanzia, soprattutto che da lì nessuno si sarebbe mosso, e le provenienze nemiche, in quel settore, sarebbero state controllate con diligenza e serietà.

Purtroppo, ad onor del vero, il posto era tetro, si trovavano a poche decine di metri, in linea d’aria, dalla casa e dal fienile di Pian d’Albero, e si sentiva ancora il puzzo di bruciato e di morte che appestava l’aria e stringeva la gola, il tutto accompagnato da un silenzio agghiacciante. Sembrava  che in quel tratto di bosco non ci fosse più nessuna forma di vita.

I partigiani di guardia a quel posto di blocco erano gli stessi di quel gruppo della Stella Rossa che quattro giorni prima, il 20 giugno durante la battaglia, erano arrivati fino alla casa e al fienile di Pian d’Albero e avevano visto tutt’intorno i nostri morti, i nostri feriti, tutto quel sangue e quel triste spettacolo.

Era una notte di luna piena, splendente, la casa ed il fienile bruciato, sfondato erano illuminati come da una luce spettrale. La luce lunare creava delle strane tinte e figure, la brezza notturna che lì soffiava sempre, muoveva le frasche degli alberi che creavano strani chiaroscuri, come delle figure d’esseri umani che si muovevano attorno ai due edifici.

Si può immaginare lo stato d’animo di quei nostri compagni partigiani: a notte inoltrata, tra quel sabato 24 giugno e domenica 25 giugno, un partigiano di quel posto di blocco, a nome di tutti i componenti corse a svegliare il Comando della II Compagnia.

Così Bastiano, Lella e Zuppa, si alzarono di scatto:

“Ma cosa racconti?… Si vedono i morti intorno alla casa?… Ma via, cosa ti è preso?”

“Venite a vedere se dico bugie…”

Corsero tutti e quattro, qualcuno disse: “Ora mi voglio fare una bella risata!” Però giunti sul posto nessuno rise. Perché si accorsero che veramente la luna, su quei ruderi bruciacchiati del fienile, e la vegetazione mossa dalla brezza notturna, unita alla memoria, che ricordava ciò che lì era successo, giocava brutti scherzi ai nervi.

Bastiano, Lella e Zuppa, decisero di arretrare il posto di blocco in modo che controllasse ugualmente la provenienza su Pian d’Albero, ma fosse più lontano dalla casa e dal fienile, in modo da non vedere più quei giochi di luci ed ombre.

Bastiano però non andò via da Pian d’Albero; mi mandò uno di quei ragazzi a svegliarmi. Corsi a Pian d’Albero, dove mi spiegarono cosa era successo. E così detti il mio assenso a quell’arretramento del posto di blocco. Pregai quei partigiani di non parlare a nessuno di ciò che era successo, perché tutti avevano i nervi a fior di pelle.

Infatti come dissi poi a Bastiano, anche lì al Comando di Brigata i partigiani che avevano il turno di guardia notturno, avevano fatto difficoltà a montare di guardia, perché vedevano i fantasmi dei loro compagni morti. Noi del Comando, che eravamo esentati dai turni di guardia, per quella notte eravamo montati lo stesso, proprio per dare il buon esempio.

Ricordo che Nonno montò di guardia insieme a Garibaldi, Vittorio insieme a Parabellum, io insieme a Fumo. Sembrerà strano, che uomini coraggiosi avessero di queste impressioni e certi comportamenti, ma la vita di lotta è fatta anche di queste cose, perché l’uomo è fatto di carne, di ossa, di acqua e di nervi.

Durante la giornata di quel sabato 24 giugno, una pattuglia della III Compagnia aveva catturato un camion tedesco nei pressi di Castelnuovo dei Sabbioni; i due sottufficiali a bordo furono giustiziati.

Domenica 25, lunedì 26, martedì 27, mercoledì 28 li adoperammo per riorganizzare in modo veramente serio, la I e la II Compagnia. In questa occasione, come avevamo annunciato nell’ora politica del 22 giugno, presentammo a tutto il collettivo partigiano il progetto di “Vita collettiva e di disciplina” che insieme a Gracco e con la collaborazione di altri compagni, come Gino e Giobbe, avevamo preparato proprio a correzione di una serie di difetti e debolezze che avevamo rilevato durante gli scontri di Pian d’Albero e dopo Pian d’Albero.

Intanto, per poter sviluppare dei concetti, avevamo fatto con l’aiuto di Vittorio, uno spaccato sociale dei componenti della Brigata Sinigaglia, subito dopo Pian d’Albero. Secondo questo documento i rapporti erano questi: 33% di operai metalmeccanici, 33% di lavoratori dell’artigianato, 20% di studenti, 7% di coloni, 7% di impiegati e tecnici.

Dalla comparazione con le percentuali, che erano state fatte una ventina di giorni prima di Pian d’Albero, notammo una sensibile diminuzione dei contadini, e un considerevole incremento di operai del settore industriale, che passarono al primo posto a fianco dei lavoratori artigiani.

La contrazione della percentuale dei contadini, dipese dal fatto che essi erano l’elemento sociale più sensibile alle influenze contingenti e stagionali. In un primo tempo i giovani coloni si presentarono numerosi sotto la pressione della chiamata alle armi, delle razzie e dei rastrellamenti nazifascisti, preferendo condividere la rischiosa sorte dei partigiani, e costituire così una specie di guardia armata, contro le violenze nemiche alle persone e alle cose più care. Con l’avvicinarsi della mietitura, nacque il desiderio di raggiungere la propria casa per i lavori stagionali.

Tuttavia, la particolare cura dedicata all’elemento contadino da parte nostra, con una propaganda intesa, sia a chiarire i motivi profondi della lotta, sia a suscitare l’emulazione nei riguardi degli altri elementi della formazione, gettò semi sicuri per il diffondersi di una più larga e consapevole simpatia per la causa partigiana, e per il rafforzarsi di un profondo spirito di resistenza nelle campagne vicine  Del resto i partigiani stessi furono impiegati nella raccolta delle messi, per aiutare in questo modo le famiglie contadine provate dalle rappresaglie.

Le ragioni dell’aumento degli operai ebbero origine, invece, nel fatto che nella città e nei centri industriali della provincia, la resistenza economica e politica, aveva costretto, e indotto molti operai, a perseverare nella battaglia contro il nazifascismo, passando così ad agire nel diverso terreno della guerriglia.

E infatti gli operai divennero la salda spina dorsale della Brigata Sinigaglia, che fra l’altro, come abbiamo già più volte detto, ebbe la ventura di contare nelle sue file un nutrito gruppo di militanti antifascisti, molti dei quali reduci da una lunga prigionia.

Anche i lavoratori artigiani, elemento sociale tradizionale nella Toscana, e in particolare a Firenze, si dimostrarono partigiani coscienti, coraggiosi e disciplinati.

Gli intellettuali infine, in gran parte studenti, giunsero in montagna, spinti dai vari motivi, tra cui, predominanti l’influenza esercitata sul loro animo dall’eco delle imprese dei patrioti, e dalla persuasione, facilitata dalla più matura educazione storica e politica, della necessità morale, di  assumere un atteggiamento responsabile, per salvare dalla estrema rovina il Paese! Notevole fu il fatto, che la quasi totalità di questi studenti ed intellettuali, aveva origine da famiglie di lavoratori e della piccola borghesia.

A titolo indicativo, in modo da poter fare un quadro più largo, e completo su questo argomento, nella III e IV Compagnia,  l’elemento operaio predominò sempre, in modo ancor più netto che nella I e II Compagnia. Nella V Compagnia, furono invece prevalenti i partigiani di origine contadina.

Quel martedì 27 giugno introdussi io la relazione.

Parlai della necessità di estendere sempre più la democrazia nel collettivo, dove ognuno poteva parlare, proporre, votare. Parlai dell’emulazione fra i compagni, come di una cosa indispensabile per rafforzare tutta la Brigata.

A questo scopo spiegai che noi ogni giorno avremmo affisso ad un albero del Comando e a quelli dei Comandi di Compagnia, due comunicati staccati l’uno dall’altro, dattiloscritti dall’ufficio Comando, che aveva due macchine da scrivere. Questi due comunicati avrebbero avuto due concetti diversi, nel primo comunicato, chiamato “lavagna bianca”, sarebbero stati elogiati tutti   quei compagni che, il giorno precedente, avevano svolto lodevolmente i compiti loro assegnati: portare l’acqua, turni di guardia, comportamento nelle azioni di guerriglia, rapporti con i compagni ecc.

Nell’altro comunicato, chiamato “lavagna nera”, oltre a criticare certi compagni, per essersi comportati indisciplinatamente durante il turno di guardia, o durante una marcia, o un’azione di guerriglia, si comminavano le punizioni del caso. Punizioni che nel collettivo noi proponemmo nella seguente misura:

– D’ora innanzi, colui al quale scapperà un colpo d’arma da fuoco, sia al campo che durante le marce per portarsi sul luogo delle azioni di guerriglia, o al ritorno da queste, sarà iscritto sul foglio dei comunicati delle punizioni e dovrà rimanere per due ore legato al palo sotto il sole.

– Le sentinelle, sia di giorno che di notte, saranno sempre due per ogni posto di guardia, in modo che se ci fosse da avvisare il capoposto di avvistamenti e comunicazioni varie, una andrà ad avvisare il capoposto l’altra rimarrà a fare la sentinella e ad osservare gli eventuali pericoli.

– Le sentinelle non dovranno parlare tra loro, sia di giorno che di notte, altrimenti verranno individuate dal nemico e neutralizzate.

– Se da una nostra ispezione, troveremo sentinelle che parlano tra loro, dopo la loro autocritica davanti al collettivo e la loro iscrizione sul comunicato chiamato “lavagna nera”, dovranno rimanere per due ore legati al palo sotto il sole.

– Le sentinelle non si dovranno muovere, finché non sarà arrivato il cambio. Se il cambio ritardasse si rimarrà di guardia, non si andrà a sollecitare il cambio. Il capo posto saprà lui come provvedere.

– Senza la parola d’ordine e la conoscenza della controparola, nessuno si potrà far riconoscere dalle sentinelle.

Poi proseguii:

“Anche se vengo io, o Gracco, Gino, Giobbe, Moro, voi dovete tener puntate le armi contro di noi, chiederci la parola d’ordine e le ragioni della nostra presenza lì da voi.

“Se non lo farete sarete puniti, il collettivo deciderà caso per caso le punizioni da dare.

“Ricordate che, quando siete di sentinella, avete nelle vostre mani la vita di tutti i vostri compagni.

“Quando non sarete di sentinella starete tranquilli, perché saprete che ci sono di guardia compagni, che con scrupolosità, vegliano sulle vostre vite.

“Quando si è di servizio al posto di blocco, uno solo lascia il posto per venire a riferire novità, chiedere rinforzi od altro.

“Anche nel posto di blocco vige l’ordine di star zitti, di stare in silenzio, per non farsi individuare dal nemico, che ha buon orecchio e sa fare la guerra.

“Se nel posto di blocco si parla, le diverse voci si fanno sentire dal nemico, e quindi quel posto di blocco viene aggirato, scansato, ed è come se non esistesse più.

“Quindi, anche in questo caso, chi viene trovato a parlare verrà punito con l’iscrizione sulla lavagna nera e due ore legato al palo sotto il sole.”

Lessi e commentai altri punti, che ora non ricordo, concludendo con queste precise parole:

“Compagni, ricordatevi che non è buono il CM o il CP, o il caposquadra, capoposto, che lascia correre, che non fa applicare la disciplina, quello è un cattivo CM, un cattivo CP, un cattivo caposquadra, o capoposto, che va subito cambiato, nell’interesse di tutta la nostra collettività.”

La discussione che seguì fu ampia e profonda e tutti furono d’accordo con l’approvare tutto ciò che avevamo proposto.

Fu questo un passo molto importante per il rafforzamento di tutta la nostra Brigata. Un passo che darà veramente buoni frutti.

Fin da sabato 24 giugno, Segrè ci aveva portato un piano per liberare Firenze, redatto dal Comando Militare del CTLN.

In questo piano ci veniva ordinato di schierarci con tutta la Brigata, quasi mille uomini, formando una linea dal Ponte a Ema al Galluzzo, dovevamo bloccare i carri armati delle retroguardie naziste.

Noi potevamo avere munizioni per un’ora e mezzo e poi?

Ed inoltre, le nostre sparatorie anche quelle con le mitragliatrici cosa potevano fare contro i carri armati?

Applicare quel piano voleva dire distruggere la Brigata e far distruggere senza pietà i centri abitati di Ponte a Ema e Galluzzo.

Così nel Comando di Brigata, su proposta di Gino, all’unanimità respingemmo quel piano perché inattuabile, e mandammo il nostro piano che avevamo elaborato nel comando di Brigata.

Noi volevamo rimanere partigiani, con la nostra guerriglia partigiana.

Il 26 giugno Segrè ci portò lì al Comando il compagno Gastone, dirigente nazionale del PCI e ispettore regionale delle Brigate Garibaldine per la Toscana il quale, saltando tutti i convenevoli, chiese a noi cinque del Comando perché avevamo respinto il piano inviatoci il 24 giugno a nome del CTLN.

Risposi a nome di tutti che le ragioni erano scritte e anche sottoscritte nella risposta che avevamo inviato.

Ci disse subito che eravamo dei presuntuosi, ed il fatto di aver compilato e inviato un piano per liberare Firenze lo dimostrava.

“Non sapevo che la collaborazione e la democrazia avessero cambiato nome e che ora si chiamassero presunzioni”, risposi io.

Gastone con la sua figura robusta, col suo gesticolare, sembrava un accusatore in un grande processo. Era un grande compagno con un grande passato rivoluzionario.

Noi invece, comunicammo che saremmo arrivati a Firenze attraverso diverse vie di comunicazione, senza sacrificare i nostri partigiani e i cittadini nelle località, così com’era scritto in quel pazzesco piano che ci avevano inviato e che molti pensarono che non fosse neanche frutto del CTLN. Il nostro modo di combattere sarebbe rimasto quello partigiano: attaccare, colpire e ritirarsi, per andare a colpire altrove.

Quando nell’agosto 1944 combattevamo dentro Firenze, il colonnello Niccoli, CM del CTLN, riconobbe che si era fatto bene a respingere quel piano.

Noi, a prescindere da chi l’avesse fatto, ne comprendemmo subito l’inattuabilità.In montagna dove eravamo noi o dove ci saremmo spostati con quasi mille uomini con tutte e sei le compagnie, c’era la possibilità di occultarci,ma al Galluzzo e a Ponte a Ema no. Dove eravamo noi, con l’accordo che avevamo fatto con le fattorie, si poteva dar da mangiare a mille uomini, ma al Galluzzo e a Ponte a Ema come si faceva ad alimentarci?In queste due zone faceva la fame anche la popolazione civile.

Ci dicevano che si doveva attaccare e fermare i mezzi corazzati tedeschi della retroguardia nazista, ma con che cosa? Attaccarli sì, andava bene, era il nostro compito, che già svolgevamo, ma per fermarli non avevamo né la capacità né i mezzi. Si poteva gettare qualche bomba Molotov, rompere qualche cingolo dei carri armati con il solito lungo bastone ove sulla cima si fosse fatto una specie di palla col plastico C4, con detonatore, ma poi cosa si poteva fare?

Noi tutti capimmo che Gastone teneva quell’atteggiamento per scavare dentro ognuno di noi, per vedere se le nostre decisioni erano state dettate da indecisioni, paure, vigliaccheria. Non potevamo accettare quel piano, ingannando noi stessi e i nostri compagni. Quel piano era insensato, non teneva conto delle diverse realtà che noi conoscevamo benissimo, era, se così si può dire, un piano disumano, che condannava a morte centinaia e centinaia di partigiani e di popolazione civile.

E non era per alterigia, così come ci accusò Gastone, che noi al posto di quel piano avevamo inviato un nostro piano, redatto da tutto il Comando. Noi con quell’invio, non volevamo offendere la suscettibilità di nessuno, né nel partito, né nel CTLN. Noi eravamo abituati a fare delle critiche costruttive, perciò nel respingere il piano inviatoci, ci era sembrato più che naturale accompagnarlo con un altro piano, da noi elaborato, che prevedeva continui attacchi contro le retroguardie naziste, e le linee della nostra discesa su Firenze, per liberarla, prima che fosse liberata dagli eserciti alleati. Nel far ciò, ci sembrava di aver agito come buoni partigiani e buoni comunisti.

Ma ora ascoltando le dure parole di Gastone, non si era più né dei buoni comunisti, né dei buoni partigiani. Gino contrastò punto per punto Gastone, dichiarando con forza che noi non volevamo mucchi di morti da far pesare sul piatto di una determinata bilancia e quindi, non potendo fermare le retroguardie naziste, così come ci veniva richiesto, le avremmo più volte attaccate sul terreno scelto da noi e non al Galluzzo, Ponte a Ema e Grassina, come veniva richiesto sul piano che ci avevano inviato.

Saremmo arrivati a Firenze attraverso diverse vie di comunicazione, senza sacrificare i nostri uomini e i cittadini nelle località, così com’era scritto in quel pazzesco piano che ci avevano inviato.

Quando presi la parola io, per sostenere quanto giustamente aveva detto Gino, il compagno Gastone mi interruppe più volte con parole provocatorie, che ci volevano far apparire come dei paurosi o addirittura vili. Gli risposi che il nostro comportamento era quello che aveva ordinato il generale Cadorna con il suo comunicato rivolto a tutta la Resistenza.

Rimasi veramente male e anche deluso, che un dirigente del partito di quel livello, si comportasse caparbiamente così, usando quei toni offensivi alla nostra dignità di combattenti.

Tutti si espressero come noi, Giobbe addirittura disse che il piano realizzato da noi era un buon piano, che andava discusso con il Comando della Brigata Lanciotto, perché c’erano molte cose che andavano bene a tutte e due le Brigate.

Quando finimmo la riunione, Gastone rimasto isolato a sostenere le sue idee, rimase molto male, e mi sembrò che si sentisse molto a disagio. Nelle prime ore del pomeriggio ritornò via con Segrè e nel salutarci fu molto brusco e freddo. Si vedeva molto bene che, nonostante tutto, non aveva mutato le proprie convinzioni.

Mercoledì 28 giugno, attraverso la radio, apprendemmo con piacere che le truppe angloamericane, superate le pendici meridionali delle Colline Metallifere, e le sponde del lago Trasimeno, raggiungevano lungo la costa tirrenica Cecina, e all’interno Siena ed Arezzo.

Sul versante Adriatico, l’VIII Armata britannica, marciando su un terreno estremamente disagevole e particolarmente propizio all’azione ritardatrice operata dai tedeschi, segnava con la propria avanzata una linea che correva tra Città di Castello ed Umbertide, a sud di Gubbio per Gualdo Tadino, Camerino e Fermo, fino alla costa. I settori di maggiore asprezza della lotta erano quello di Cecina, sulla costa tirrenica, quello intorno a Macerata che veniva investita da ovest attraverso Tolentino, e da sud–est lungo la litoranea sulla costa Adriatica, e soprattutto la valle dell’Arno nella zona centrale del fronte italiano. Il fronte di guerra si avvicinava sempre di più. Il nostro spazio di movimento si restringeva, fra poche settimane o addirittura giorni ci saremmo trovati sulla linea del fronte germanico.

Giovedì 29 giugno, la III Compagnia sequestrò notevoli quantità di riso alla Società Mineraria Valdarnese, e l’obbligò ad una distribuzione di quindici giorni di viveri di riserva a tutta la popolazione, in previsione di una generale requisizione ed asportazione tedesca. Il fronte di guerra era ormai vicino ed i reparti tedeschi si accampavano sempre più frequenti e numerosi nella nostra zona. La vita dei partigiani si faceva ancora più snervante e faticosa. I tedeschi ora, con l’avvicinarsi del fronte erano dappertutto, e come le cavallette, dove passavano anche quando non trovavano i partigiani, distruggevano e rubavano quello che potevano: macchinari, cuoio, pellami, metalli, gomma, stoffa, generi alimentari e bestiame. Colonne di camion stracarichi di ogni merce viaggiavano verso nord.

I gerarchi fascisti, elementi della GNR e dei battaglioni Mussolini, compreso il battaglione Muti, fuggirono al nord, prima ancora della ritirata tedesca. Essi gareggiavano con le SS tedesche, nel depredare la popolazione. Si adattarono a tutto, dalle biciclette, ai portafogli, agli anelli, alla catenina d’oro della prima comunione, agli orologi, spille, tutto quanto poteva aver valore. Erano dei veri vandali, dei banditi da strada.

Sempre giovedì 29 giugno, in località Le Corti nei pressi di Castelnuovo dei Sabbioni, la nostra III Compagnia distribuì settanta quintali di riso e ventitré quintali d’olio d’oliva, sottratto agli ammassi, in ragione di un chilogrammo a famiglia, dietro il pagamento globale di quindici lire. Con il ricavato della vendita, vennero sovvenzionate le famiglie dei più poveri sfollati.

Quel giovedì al nostro campo arrivò l’omnibus dell’albergo Excelsior di Firenze, guidato dal vecchio compagno di partito Gino Salimbeni, autista di piazza. Sull’omnibus aveva portato tre balle di scarpe, alcuni pentoloni e cinque nuovi partigiani, fra i quali un carabiniere di vent’anni, che quando nel tardo pomeriggio il compagno Gino partì con la bicicletta che aveva portato da Firenze sull’omnibus per far ritorno a casa, gli consegnò un pacchetto vuoto di sigarette Macedonia Extra sul quale aveva scritto:

“Mamma sto bene! W l’Italia”.

“Portalo alla mamma”, gli disse, “abita in via della Vigna Nuova.” Il compagno Gino una volta a Firenze, consegnò quel messaggio umano a quella madre.

Il compagno Gino Salimbeni, che svolgeva la sua attività di autista di piazza a Firenze, era in contatto con il compagno Ricciolo e con il compagno Mario Cavallini di Gavinana, ed era pure a contatto con il compagno Vittorio Tozzetti, che in quel periodo dell’occupazione nazista, era autista sull’omnibus dell’albergo Excelsior che era stato adibito a trasportare gli uomini della Feld Gendarmeria tedesca, che dormivano nell’albergo Excelsior; ogni mattina andavano portati, con quell’omnibus, a Rovezzano dove prestavano servizio.

Il compagno Tozzetti si rammaricava di quel servizio col compagno Salimbeni, e così parlando nacque l’idea.

Così la mattina fissata dai due, il compagno Tozzetti, dall’albergo portò gli uomini della Feld Gendarmeria a Rovezzano, poi da Rovezzano con l’omnibus scarico, si fermò a Varlungo dove presso il compagno Cioccia, autista di piazza pure lui, caricarono le tre balle di scarpe e i pantaloni che erano in casa di Cioccia, oltre ai cinque nuovi partigiani. Quando furono per partire si accorsero che c’era poco metano, allora Tozzetti propose di andare a fare il pieno. Andarono a farlo al distributore di piazza Leon Battista Alberti.

Con i documenti della Feld Gendarmeria tedesca, Tozzetti si fece fare il pieno e rimise in moto. Sui viali all’altezza delle Follie Estive, Cioccia e Tozzetti scesero, quest’ultimo andò a nascondersi in un posto da lui ritenuto sicuro, per non essere arrestato dai tedeschi. Gino Salimbeni portò fino al nostro Comando quell’omnibus, che ci fece molto comodo come ufficio.Quando nel luglio presso di noi prenderà sede il Comando della Divisione, Potente farà di quell’omnibus l’ufficio e sede del Comando di Divisione.

Sempre in quegli ultimi giorni di giugno, portato da Segrè con un gruppetto di nuove reclute, arrivò il cappellaio di via S. Antonino; era stato fascista durante il ventennio, ma non aveva fatto del male a nessuno, perciò lo accettammo nella nostra vita collettiva. Poiché era piuttosto anziano, Vladimiro gli dette un incarico nel magazzino, così era dispensato di andare a fare delle azioni, oppure lunghe marce per prendere la farina, prelevare l’olio ed il vino, ecc.

Venerdì 30 giugno, in tutte le miniere del Valdarno, Castelnuovo dei Sabbioni, Meleto, Cavriglia, S. Barbara, Massa, i lavoratori delle miniere scesero in  otta aperta contro l’invasore, mettendosi apertamente in sciopero. Fu un’iniziativa molto grave per le autorità nazifasciste e per la loro economia di guerra. Si trattava di avere in sciopero i duemila minatori del più importante giacimento lignifero dell’Italia continentale. Il giacimento era formato da due lenti principali, divise fra loro da un sollevamento dei terreni. La lente di Castelnuovo dei Sabbioni e quella di Allori, S. Donato, cui si accompagnavano altre lenti minori.

Le due maggiori, secondo certi accurati controlli di quell’epoca, racchiudevano oltre cento milioni di tonnellate di combustibile solido, ossia lignite. Molti altri milioni di tonnellate si trovavano in zone del tutto staccate. Si avevano così le zone lignitifere di Gaville, Carpineto, Poggio Avane, Pian di Calle, Gora, Borro a Gozzi. Queste miniere di lignite venivano sfruttate in modo irrazionale e con mezzi primitivi, con grande sfruttamento del personale che veniva a trovarsi sempre in pericolo di vita.

Solo dopo la guerra, e per la precisione dopo il 1955, queste miniere verranno organizzate con i più moderni ed efficaci mezzi. Sarà per questo nuovo sviluppo tecnico di estrazione, che la “Selt Valdarno” in compartecipazione con la “Società Romana di elettricità” allo scopo di utilizzare quest’importante bacino minerario, costruiranno la centrale termoelettrica “Santa Barbara”.

La nostra III Compagnia di comune accordo con il nostro Comando, protesse lo sciopero generale e si organizzò per difendere la vita di quei  duemila lavoratori delle miniere. I tedeschi, esasperati dall’intensificazione della guerriglia partigiana, erano furiosi più che mai: quei minatori, nonostante i bandi e le feroci minacce, non solo si erano rifiutati di presentarsi all’organizzazione Todt per andare a lavorare nelle miniere germaniche, ma erano scesi addirittura in sciopero.

La situazione era molto tesa; c’era da aspettarsi di tutto. Vivevamo quelle ore in stato di permanente “preallarme”. Il nemico che avevamo davanti era di una ferocia senza pari, era più che certo che da qualche parte avrebbe sfogato la sua rabbia e la sua follia.

In quell’ultima decade di giugno, inviato dal partito, arrivò fino a noi il giovane compagno Aldo Fagioli, che fu fermato ad un nostro posto di blocco. Il compagno Fagioli come egli stesso in seguito raccontò, fu fermato da un energumeno vestito da tedesco, che non parlava l’italiano e che aveva un fucile tedesco: questi lo fece mettere a sedere su un pezzo di legno, solo allora Fagioli si accorse, che non era un soldato ma un partigiano, un russo, era Vassili, il duro Vassili. Dal posto di blocco chiamarono Vittorio che conosceva già il compagno Fagioli, Vittorio lo portò da me.

Fagioli mi parlò delle sue esperienze nel primo nucleo partigiano, a

Roveta, a Mantignano e a S. Donato, insieme a Faliero Pucci, Bruno Fanciullacci e Cesare Massai, poi mi parlò della sua attività di gappista. Si stabilì subito un certo affiatamento, e l’aria di sospetto che inevitabilmente aleggiava nell’aria quando arrivava una nuova recluta, venne subito eliminata. Ad ogni modo per il fatto che era arrivato da solo al nostro accampamento, senza essere accompagnato dalle normali staffette come Segrè, mandai a chiedere informazioni all’organizzazione di partito a Firenze.

Concordammo con Aldo Fagioli il suo nome di battaglia, che fu Fagiolo. Con Vittorio, Fagiolo raggiunse la parte centrale dell’accampamento del Comando, e rimase meravigliato nel vedere in pieno bosco una vera e propria caserma, con tanto di fureria, di cucina, di magazzini, di ospedale. Vedere che la nostra forza organizzativa era anche una forza militare, lo rese molto contento. Da un po’ di tempo giungevano al Comando notizie che nella zona di Fonte Santa operavano alcuni banditi che si facevano passare per partigiani.

Operavano contro i contadini, depredandoli, armi alla mano, di tutti i generi alimentari. Gino e Giobbe avevano ricevute notizie che nella zona di Fonte Santa operava una piccola formazione, comandata da un certo Stinchi. Era questa l’organizzazione di quei banditi? Le notizie non erano precise.

Sabato 1° luglio, Gino chiamò il CM Bafforado, il CP Fumo e Lotar, tutti dirigenti del I distaccamento della I Compagnia. A questi compagni Gino disse che era giunto il momento di finirla con quegli elementi, che a Fonte Santa si erano dedicati al banditismo. Così, si dovevano recare a Fonte Santa e catturare questo Stinchi e i suoi uomini. Non dovevamo correre inutili rischi, se quelli avessero fatto l’atto di resistere, li dovevano ammazzare tutti sul posto!

“Non state a rischiare”, ripeté Gino, “sparate a vista, tanto son loro…”

Fumo, Bafforado e Lotar andarono a preparare i loro uomini, mentre stavano mimetizzandosi,  on teli di tenda, frasche d’albero ed altro; io ed Otto, allora CM della I Compagnia, prendemmo da una parte Fumo, esponendogli le nostre perplessità e preoccupazioni, nel senso che non fossero troppo precipitosi, perché non eravamo sicuri che questo Stinchi fosse il capo di questi banditi. Questa poteva essere una giovane e seria formazione partigiana, e i banditi potevano essere di un altro gruppo.

Anche lo stesso Fumo e gli altri due compagni Bafforado e Lotar avevano avuto le nostre perplessità. Quindi, di comune accordo, fu deciso che loro non sarebbero ricorsi all’uso delle armi, ma avrebbero fatto di tutto per portare quella piccola formazione su in brigata, dove poi avremmo chiarito le cose. Dall’altro lato erano nella nostra zona, quindi dovevano dipendere da noi, a tutti gli effetti. Così quelle due squadre partigiane, partirono per compiere quella missione. Strada facendo trovarono Apo, che saputa la cosa, fece le nostre stesse raccomandazioni.

Otto, Gracco ed io per essere meglio informati, mandammo una staffetta a Ricciolo chiedendo informazioni su Stinchi e la sua formazione. Quando la staffetta il giorno dopo tornò, ci portò ottime informazioni su Stinchi e i suoi ragazzi. Intanto Fumo, Bafforado e Lotar con i loro uomini, individuato Stinchi  e i suoi ragazzi, l’accerchiarono nel silenzio più assoluto. Poi, individuata una sentinella, mandarono un partigiano come loro staffetta porta–ordini, per dire che il CM del distaccamento della Stella Rossa voleva parlare con il CM Stinchi, di questioni che riguardavano la loro comune lotta.

La sentinella mandò una staffetta a trasmettere quel messaggio a Stinchi. Stinchi, ascoltato il messaggio, si fece portare fin lì il messaggero della Stella Rossa, questo per principio, perché non si fidava e poi anche perché, come imparammo in seguito, faceva collezione d’armi, così fu tentato di disarmare quel giovane partigiano che aveva uno Sten nuovo fiammante.

Poi ci ripensò; forse è davvero un partigiano della Stella Rossa, non è un fascista. Ad ogni buon conto, poiché fidarsi è bene non fidarsi è meglio, prese quattro dei suoi migliori uomini, e armatosi di mitra seguì quel partigiano con quel bello Sten, fin fuori dalla cintura di sicurezza stabilita dalle sue sentinelle, per incontrare quel comandante della Stella Rossa.

Fumo, Bafforado e Lotar erano ancora  acquattati dietro ad un fico con le loro mantelle mimetizzate. Fumo uscì dal nascondiglio e si presentò come CM del distaccamento Stella Rossa, presentandogli gli altri due compagni graduati. Stinchi, a sua volta, si presentò come il CM del distaccamento di Fonte Santa. Fumo, tanto per cominciare la conversazione, disse: “Tu Stinchi, mi sembri un bravo ragazzo, in ogni modo, vorrei sapere, un po’ come la pensi, chi sei, qual è il tuo programma?”

Stinchi rispose: “Io sono comunista!”

Fumo allora parlò con Stinchi di quei tristi figuri, che si facevano passare  per partigiani, e che invece depredavano i contadini. Stinchi spiegò che era un gruppetto, capeggiato da uno che si faceva chiamare Canapaio. Anche lui gli aveva dato la caccia, per catturarlo, ma fino a quel momento gli era sfuggito.

Fumo gli spiegò che come piccola formazione, doveva dipendere dalla nostra Brigata e Stinchi fu d’accordo, anzi felice.  Stinchi lasciò lì provvisoriamente i suoi uomini e seguì Fumo per venire a prendere disposizioni dal Comando di Brigata.  Quando arrivarono su da noi incontrarono Chimico, che da molti anni conosceva Stinchi, così Chimico presentò subito il gruppo di Stinchi:

“Devi venire a far parte della I Compagnia, con me!”

Fumo venne subito da me e insieme andammo a parlare con Giobbe. Fumo era arrabbiato, perché gli avevano dipinto un bandito e questa era invece una persona per bene, che dava come noi la caccia ai banditi. “Per non poco me lo fate uccidere.” Tutto fu chiarito. Stinchi il giorno dopo sarebbe andato a prendere i suoi uomini ed avrebbe, come squadra, fatto parte della I Compagnia. Lui sarebbe stato il CM di quella squadra.

Gino disse: “Dio bono, non sono mica infallibile! Credevo fosse lui!” Prima che Stinchi partisse per andare a prendere i suoi uomini lo presi da una parte e parlammo di molte cose. Era un uomo di una intelligenza pronta, di una scaltrezza acuta. Rimanemmo d’accordo che al suo vecchio campo si sarebbe trattenuto qualche giorno  per dare la caccia al Canapaio. “Prima di tornar qui lo devi catturare”, gli dissi, “adopra la tua astuzia, tendigli la rete…” Dopo tre giorni Stinchi tornò su da noi con tutti i suoi uomini e le sue abbondanti armi.

Aveva catturato Canapaio e i suoi quattro cialtroni che lo seguivano. Aveva disarmato tutti. Poi tenuto conto che Canapaio aveva dei figli, una famiglia numerosa, fu mandato a casa coi suoi compagni, con la minaccia che, se si fosse fatto vedere in giro, sarebbe stato fucilato sul posto. Canapaio in effetti non mise più il naso vicino ad una casa di contadini.

Noi della Brigata Sinigaglia facemmo un bell’acquisto a prendere con noi Stinchi ed i suoi uomini. Era una squadra affiatata e coraggiosissima, Stinchi poi, aveva un coraggio eccezionale, un combattente di prim’ordine. Era pure un tiratore favoloso, addirittura meglio di Chimico e Fumo. Questa sua capacità verrà da me, in particolare, molto utilizzata. Ritornando a quel sabato 1° luglio, mentre Fumo, Bafforado, Lotar e i loro uomini andarono a Fonte Santa per trovare Stinchi, la I e la II Compagnia, rimesse in piena efficienza, iniziarono il loro nuovo ciclo operativo.

Una squadra al comando di Gracco, con Nick, Jan, Leopardo, Romola,  Picche, Vipera, sette in tutto, è inviata verso la Capannuccia, a 7 km da Firenze. Durante la notte, la squadra si portò nei pressi di un bivacco tedesco. Leopardo e Nick collocarono e fecero saltare una mina sotto il ponte d’accesso al campo nemico, mentre Gracco e Picche col Bren, sistemato sopra una forcella di un pioppo, aprirono contemporaneamente un violento fuoco, accompagnato dal fuoco degli altri compagni, contro una trentina di tedeschi ubriachi. I nazisti, anche per il loro stato di ubriachezza, rimasero sorpresi e reagirono disordinatamente, sparando all’impazzata. L’operazione si svolgeva nel mezzo di due Comandi tedeschi, perciò per tempo provvedemmo a tagliare i collegamenti telefonici.

La nostra squadra, ripiegando incolume, interruppe un’altra linea telefonica da campo, in modo da impedire che i vicini presidi tedeschi potessero concordare una rapida azione. I tedeschi ebbero degli automezzi danneggiati e perdite non precise di uomini.

Sempre quel sabato 1° luglio, la Radio Libera ci informò che con un’avanzata fulminea l’Armata Rossa aveva liberato Minsk, Vilna, Lvov, Stanislao, Bialystok, Arzemusl, Yaroslav, Brest–Litovsk. Tutti noi fummo felici. I russi cantarono inni di guerra.

Al mattino successivo, domenica 2 luglio, i tedeschi presero venti contadini in ostaggio e affissero nei paesi limitrofi un manifesto minaccioso, con espresso riferimento alla nostra azione. Subito noi catturammo un milite della GNR e tramite lui avvisammo quel Comando tedesco, che se loro non avessero rilasciato quegli ostaggi, avremmo fucilato tutti i prigionieri tedeschi da ora fino alla fine della guerra.

I venti ostaggi, a sera vennero rilasciati, per tema di una nostra contro rappresaglia.

Una seconda squadra attaccò sul Passo del Sugame un camion germanico, carico di fusti benzina. Il mezzo prese fuoco ed esplose sotto il lancio delle nostre bombe e raffiche di Bren. L’autista rimase ucciso, l’altro tedesco,  enché ferito, riuscì a sfuggirci, imboscandosi.

Domenica 2 luglio Segrè e Capino ci portarono due compagni di lotta, di rilievo, uno era un uomo di circa sessant’anni, l’altro era un giovanottone atletico dal quale s rizzavano salute e allegria. L’uomo anziano aveva come nome di battaglia Colonnello, e Segrè ci disse che era un colonnello di Stato Maggiore del nostro esercito giù nel sud Italia, l’altro, il giovane, si faceva chiamare Caronte. I due erano venuti, per conto della Delegazione delle Brigate d’Assalto Garibaldi, a fare un’ispezione alla nostra Brigata nella previsione di organizzare una forte Divisione Garibaldina.

I due erano simpaticissimi, e divenimmo subito amici. Gli facemmo ispezionare i nostri reparti, la varia dislocazione, i posti di blocco, i nostri servizi, rimasero molto soddisfatti e ci fecero un sacco di complimenti, riconoscendoci meriti che noi non sapevamo di avere.

Ma in definitiva chi erano questi due ufficiali?

Caronte non era altri che il S.tenente Renato Rocchi, del 6° Reggimento bersaglieri. Dopo lo sfascio dell’8 settembre, Renato Rocchi, che si trovava con il suo reparto a Faenza, tornò a casa a Firenze. Nei giorni in cui si teneva nascosto a Firenze, conobbe il Colonnello di fanteria Attilio Bertorelle, che era nascosto in Borgo la Croce per non essere catturato dai nazifascisti. I due si misero d’accordo per passare il fronte di guerra e per mettersi agli ordini del governo legale del sud, che fino dal 13 ottobre 1943 aveva dichiarato guerra alla Germania nazista.

Presero il treno fino a Chiusi, poi abbandonato questo, attraverso boschi e strade di campagna non battute, si diressero in direzione sud–sud est, e dopo con  marce a tappe forzate e dopo varie avventure, riuscirono a passare il fronte tedesco ed entrare in contatto con gli alleati angloamericani, nei pressi di Venafro, in provincia di Campobasso. Era il 4 novembre 1943.

Passato il fronte il Colonnello e Caronte si presentarono subito alle autorità militari italiane, del nuovo risorto esercito italiano. Caronte venne assegnato ad un raggruppamento di bersaglieri che doveva raggiungere il fronte a fianco degli alleati.  Con tale reparto Caronte combatté con il I contingente italiano del generale D’Arpino a Montelungo.

Il Colonnello, al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, nella sede di Brindisi, dove fu mandato come addetto allo S.M., chiese più volte l’onore di combattere alla testa di un grande reparto. Gli venne promesso che in caso se ne fosse presentata la possibilità, data l’esiguità delle forze italiane ammesse al combattimento, se ne sarebbe tenuto conto.

Visto e capito che le cose marciavano lentamente, chiese ed ottenne di guidare una “missione” in territorio occupato dal nemico, per collaborare nelle più rischiose e precarie condizioni, alla guerra clandestina, con i partigiani. Ottenuto il permesso, il Colonnello chiamò a sé Caronte, spiegandogli che si doveva operare in territorio occupato in diretto contatto radio con l’Italia libera. Caronte accettò con entusiasmo.

Queste missioni venivano addestrate ed organizzate dal nostro SIM, in collaborazione con l’“Intelligence Service”, sotto l’egida del governo legale italiano; spesso c’era pure lo zampino dell’altro servizio inglese, ovvero la “Special Force”, e il suo parallelo americano “Office Strategic Service”.

Così Caronte, come ufficiale subalterno, partecipò ad un corso speciale di addestramento in Puglia, inerente all’uso delle armi alleate, esplosivi vari, addestramento particolare per il sabotaggio a ferrovie, strade rotabili, ponti, tralicci elettrici e così via. Non gli fu insegnato nessun elemento di radiotelegrafia, perché la missione avrebbe avuto un radiotelegrafista esperto, e solo lui, per ragioni di sicurezza, doveva conoscere il codice segreto di trasmissione e ricezione.

Dalla Puglia il gruppetto capeggiato dal Colonnello Attilio Bertorelle, composto da cinque uomini, con tutta segretezza, per timore del controspionaggio tedesco e fascista, fu portato in aereo a Tunisi, poi da Tunisi, sempre in aereo in Corsica, nei pressi di Bastia, in attesa di una notte scura adatta all’ultimo balzo verso l’Italia occupata. Il punto dello sbarco in Toscana venne accuratamente studiato.

Caronte, che era pratico della costa che si affaccia sul Tirreno, suggerì un punto che si trovava nei pressi di Castiglioncello, e precisamente tra Castiglioncello e Quercianella, punto roccioso, dove si trovava sulla roccia una scaletta, che dal mare porta sulla via Aurelia. Aerei alleati da ricognizione, compirono rilievi fotografici sulla zona suggerita da Caronte. Le informazioni risultarono esatte e il luogo era veramente adatto allo sbarco.

La missione per la Toscana era così composta: Capo della Missione “Est”: Colonnello Attilio Bertorelle; capitano dei Bersaglieri Montanari; S.T. Renato Rocchi; due radiotelegrafisti: soldati semplici con una radiotrasmittente ciascuno. La missione si divideva in due gruppi, e i compiti furono così suddivisi: la missione “ERT”, comandata direttamente dal colonnello Bertorelle, col S.T. Rocchi e il radiotelegrafista Franco, avrebbe operato nella Toscana del Nord, con punto di gravità Firenze.

La missione “NAR”, comandata dal capitano Montanari, con l’altro radiotelegrafista, avrebbe operato nella Toscana del Sud, con punto di gravità Siena. Per la partenza furono riforniti di abiti civili, denaro, documenti falsi e pistole, Caronte ad esempio, divenne Alberto Mazzini. Nella buia notte, senza luna del 17/3/44, a mezzo di un MAS furono così portati nei pressi della località della costa designata per lo sbarco. Il MAS, si fermò a circa trecento metri dalla costa e lì furono messi in acqua quattro battellini di gomma, adatti allo sbarco, ove presero posto i cinque componenti della missione, e sei–sette soldati inglesi armati di mitragliatori.

Difficile fu posare i piedi sulle rocce della costa, dato che grossi erano i cavalloni che andavano ad infrangersi sulle rocce, infine, dopo grandi sforzi i soldati inglesi riuscirono a sbarcare e, tirati a secco i canotti, si appostarono per proteggere lo sbarco della missione; appena questa pose piede sulla terra italiana, i soldati inglesi risalirono frettolosamente sui canotti e scomparvero nel buio della notte, in direzione del MAS.

In un primo momento, in quel buio pesto, Caronte ebbe un po’ di smarrimento, per ritrovare la scaletta, poi facendo uno sforzo di memoria, la trovò e d’un balzo furono sulla via Aurelia. Lì, le due missioni si divisero, una andò in direzione di Firenze, l’altra in direzione di Siena. Si divisero subito, anche per cautela, per non cadere tutti nelle mani del nemico.

A Firenze, in un primo tempo, si nascosero presso conoscenti e amici del Colonnello. Tutto il gruppo ERT, una volta che fu stabilito il contatto con la SAP del PCI della IV zona e precisamente con il CM Danilo Pilati e col VCM Renato Rocchi, si sistemarono in via Aretina, all’altezza di Varlungo presso un parente di Giovanni Pesci.

Sfortunatamente per tutti, nel quadro della pur minuscola spedizione, qualcosa di molto importante non funzionò: il radio collegamento con Monopoli, centro d’informazione situato in Puglia (Sud–penisola Salentina), retto in collaborazione dall’Intelligence Service e dal SIM. Nel mese di aprile, Franco, il RT, da via Aretina scrisse ai propri genitori e alla fidanzata, che si trovavano nel Nord Italia. I genitori e la ragazza vennero a Firenze e portarono via Franco, che non si fece più vedere.

La radiotrasmittente la lasciò lì, nel quartiere di via Aretina, ma senza il cifrario rimase inservibile. Chiaramente il RT Franco si comportò vilmente, e fece bene il Colonnello Bertorelle a denunciarlo e dargli la caccia dopo la Liberazione; ripescato presso un Distretto Militare, processato, venne condannato a quindici anni di carcere militare.

Non è mio compito fare qui la storia della missione Bertorelle, ho fatto alcuni cenni per far capire chi erano Caronte e il Colonnello che per conto della Delegazione delle Brigate d’Assalto Garibaldi, quella domenica 2 luglio erano venuti ad ispezionarci, in vista della costituzione di una Divisione Garibaldina.

A sera se ne andarono soddisfatti, elogiandoci e chiedendoci in via teorica qualche consiglio. Forse lo fecero per vedere fino a che punto era la nostra preparazione. Gli chiesi se aveva qualche suggerimento da darci. Mi rispose franco e deciso: “Su questi monti voi ci state in seicento, io non riuscirei a starci più d’una giornata, con dieci dei miei soldati. “Sono stato con voi nelle varie compagnie e distaccamenti, e all’ora del rancio ho visto distribuire le razioni di cinquecento grammi di pane a testa. “Il pane è apparso lì come per miracolo. Non ho visto magazzini, forni, né reparti di sussistenza; come avviene tutto questo?”

Il Colonnello aveva ragione, perché quello che aveva visto era il risultato di un lungo lavoro, non solo fatto da noi, ma fatto ancor prima che noi giungessimo su questi monti. Quel pane prima di esser tale era stato grano, sottratto alla consegna e agli ammassi nazifascisti, poi trasformato in farina ed infine in pane, cinquecento grammi per seicento razioni, cioè tre quintali di pane al giorno. Questo comportava tutta una rete capillare di contadini, che con le loro tregge eran venuti con noi a requisire quel grano. Poi altre tregge e contadini per portare dai nostri magazzini segreti quel grano ai mulini, dove molinari amici lo trasformavano in farina. Da lì, sempre su tregge contadine, quella farina andava portata nelle due o tre case dove si faceva il pane, sotto l’occhio vigile di Bologna, e una volta che quella farina era diventata pane, ancora i nostri contadini, con le loro tregge portavano quel pane alle varie compagnie e distaccamenti partigiani.

Era necessaria tutta una rete organizzativa di contadini, tutto un esercito silenzioso, che quasi non si vedeva, che lavorava per noi giorno e notte. Ma com’era possibile tutto questo? Il fatto è che la Resistenza non è nata l’8/9/1943, ma è nata col sorgere stesso del fascismo.

Con la difesa delle organizzazioni operaie e contadine dall’assalto  delle squadracce fasciste. Con la difesa delle Cooperative, delle reti capillari dei Sindacati e dei partiti, con la difesa dei propri principi e delle proprie idee, contro coloro che vollero instaurare una dittatura, che distruggeva tutto quello che era stato conquistato con la lotta, dalle masse lavoratrici.

La Resistenza è stata dunque l’organizzazione, per vent’anni, di cellule clandestine comuniste e dell’antifascismo, per dare la coscienza di resistere. Quindi, quando noi arrivammo ad organizzare le formazioni partigiane, alle nostre spalle avevamo un patrimonio di valori, costituito dal sacrificio di Matteotti, Gobetti, Gramsci, Don Minzoni, e dei fratelli Rosselli.

Avevamo migliaia di antifascisti e comunisti condannati dal Tribunale Speciale, migliaia di confinati, migliaia di perseguitati nelle fabbriche, sui campi, nelle scuole, nelle Università, in ogni settore della vita di ognigiorno.

Su “Aula IV”, pubblicazione che raccoglie le sentenze del TS, le condanne per vent’anni si sono susseguite in modo continuo. Indubbiamente questo sottolinea i successi dell’OVRA (Organizzazione Vigilanza Repressione Antifascista), ed errori e debolezze da parte dell’antifascismo, ma sta ad indicare anche che ci furono figure di antifascisti, veri animatori, responsabili e militanti, che con il loro comportamento permisero una continuità della lotta, nonostante cadute, arresti e condanne.

Intanto sotto la costante pressione angloamericana i tedeschi continuavanoa ritirarsi. Era una ritirata lenta, ordinata: dove passavano i tedeschi passava la morte.Il Feldmaresciallo Kesserling impose con rabbia e con forza che il nemico fosse contrastato duramente per permettere di approntare lungo la Linea Gotica, le imponenti difese, destinate a bloccare il fronte per diversi mesi. Non a caso vennero impiegati nel massacrante lavoro sugli Appennini, migliaia di uomini, molti dei quali, per non dire, la stragrande maggioranza, vennero rastrellati nelle varie città toscane.

Il Feldmaresciallo Kesserling, nell’imporre l’ordine che l’avanzata nemica fosse contrastata a lungo, disse pure che la ritirata tedesca doveva essere una “ritirata aggressiva”, così come risulta da documenti trovati addosso a soldati e ufficiali tedeschi da noi uccisi in combattimento. I risultati di quell’ordine, di quella “ritirata aggressiva” si videro subito.

Con quell’ordine i soldati e ufficiali nazisti, si sentirono più che mai autorizzati a sfogarsi sulla gente e sulle popolazioni che incontravano lungo la loro ritirata.

A Gubbio fucilarono quaranta persone, a Cortona presero trentotto ostaggi, li chiusero in un essiccatoio di castagne, che fu minato e fatto saltare con la gente dentro.

A Biforco, presso Chiusi della Verna, un uomo di trentasette anni, Aldo Lusena, e sua moglie, ebrei fuggiti da Firenze, mentre i tedeschi si avvicinavano, soffocarono sotto un cuscino la loro bambina Bianca Maria di due anni, e poi si svenarono.

A S. Pancrazio di Bucine, i tedeschi circondarono il castello, arrestarono settantaquattro uomini, li spinsero in una cantina; li fecero uscire uno alla volta: li uccisero tutti.

A Civitella della Chiana i tedeschi bussarono alle porte delle case, fecero uscire gli uomini e li mitragliarono. A sera gli uomini erano quasi tutti morti, i cadaveri raccolti furono centosessantuno.

Nella nostra zona, lunedì 3 luglio a Villa Grotta nella zona di S. Giustino Valdarno, quarantasette uomini furono uccisi, sotto i loro corpi rimasero immobili una decina di feriti, che emersero dalla orrenda catasta quando i tedeschi se ne andarono.

Martedì 4 luglio, una pattuglia partigiana della I Compagnia gettò sopra un camion tedesco, sui tornanti dell’Ombuto, una “borraccia Sinigaglia”.

La “borraccia Sinigaglia” era stata una trovata del nostro artificiere Frana, che con l’aiuto di Gino aveva riempito delle borracce dell’esercito con il plastico C4, poi avevano messo un detonatore e un pezzo di miccia alenta combustione, con un’autonomia di cinque–sei secondi. Le avevano provate contro gli automezzi tedeschi sulle rotabili da noi controllate e il risultato era stato ottimo, in quanto a più di un tedesco aveva spezzato laspina dorsale, con altre ferite interne, spesso mortali, mentre anche gli automezzi avevano riportato gravi danni.

Così, anche quel 4 luglio sul tornante dell’Ombuto, l’effetto della “borraccia Sinigaglia” fu devastante. Il camion rimase immobilizzato ed i tedeschi rimasero senza vita.

Intanto lo sviluppo della situazione richiedeva il coordinamento, su di un piano generale, di tutte le azioni di guerriglia partigiana. A questo proposito, dalla Delegazione Toscana per i distaccamenti e le Brigate d’Assalto Garibaldi, venne deciso di costituire una Divisione Garibaldina, composta dalle Brigate Lanciotto, Sinigaglia e Caiani.

La Brigata Fanciullacci, quarta Brigata della Divisione Garibaldina, a quel tempo era ancora in fase d’organizzazione.

Quel martedì 4 luglio venne costituito il Comando di Divisione, che si stabilì presso la Brigata Lanciotto che operava nel Pratomagno; e la Divisione venne chiamata Arno. Comandante della Divisione Arno fu nominato un giovane ufficiale partigiano, già CM della Brigata Lanciotto, amato e considerato dalla totalità degli uomini per le sue capacità, il suo coraggio, le sue infinite risorse, e la sua bella figura di combattente.

Si chiamava Aligi Barducci, Potente era il suo nome di battaglia.

Il grosso della Brigata Sinigaglia, ed il suo Comando, rimase dislocato  ed operante nella zona del Monte Scalari, data la grande importanza di quel sistema montano, mentre le altre Compagnie, la III e la IV rimanevano operanti, nella zona del Monte S. Michele (Massa, Cavriglia, Meleto, Castelnuovo dei Sabbioni), e la V operava nella zona del Chianti, tutte e tre costantemente collegate con il Comando di Brigata a mezzo di staffette.

In relazione alla costituzione delle Divisioni l’organico delle Brigata Sinigaglia veniva così corretto:

CM: Gracco (Angiolo Gracci)

VCM: Moro (Marino Sgherri)

CP: Gianni (Sirio Ungherelli)

VCP: Nonno (Isaia Torricini)

VCP: Raspa (Giotto Censimenti)

VCP: Vladimiro (Sergio Farulli)

Capo di Stato Maggiore: Bastiano (Luciano Donati)

Vice capo di Stato Maggiore: Chimico (Giovanni Meoni)

Alfiere della Brigata e Responsabile per gli Studi: Vittorio (Mario Gorini)

Responsabile per le requisizioni: Vladimiro (Sergio Farulli)

Responsabile cucine: Garibaldi (Arduino Rabiegi); Toro

Gli altri ufficiali addetti al comando erano:

Cap. Medico dell’E.I. : Alì (dr. Domenico Ventura)

Dirigente Servizi Sanitari, Medico in II: Dottore (dr. Filippo Stanghellini)

Interprete d’inglese e tedesco: Parabellum (Mario Spinella)

Responsabile acquisto viveri, rifornimenti, requisizioni e alloggiamenti:

Zio (Viscardo Ciapetti)

Responsabile staffette del Comando: Fagiolo (Aldo Fagioli)

Addetto alle informazioni: Giulio (Giulio Marconi)

Staffette del Comando di Brigata: Alvaro (Farulli), Picche (Renato Tarchiani),

Vecchio, Romola

Furiere: Tom

Responsabile cucina: Toro

Responsabile sartoria: Palermo

Il comando di compagnia era così composto:

CM I Compagnia: Otto (Sergio Donnini)

CP I » : Spartaco (Libero Boldrini)

Gigi (Luigi Pieraccioli)

CM II » : Pinocchio (Mario Bottini)

CP II » : Lella (Giordano Cubattoli)

CM III » : Nello Vannini

CP III » : Libero Santoni

CM IV » : Guelfo Billi

CM V » : Ugo Zei

CP V » : Sebastiano Simonetti

Il giorno 4 luglio costituimmo la Divisione Arno che al completo risultò

così:

Comando di divisione:

CM: Potente

CP: Giobbe

Capo S.M.: Colonnello Bertorelle

CM: Gino

VCP: Edoardo

Ufficiali addetti al Comando:

Riccardo Gizdulich

Renato Rocchi (Caronte)

Leonardo Di Domizio (Medico)

Alessandro Pieri (Amministratore)

Annunziato Lombardo

Sergio Silla

Roberto Pardini (Ardito)

Pasquale Filastò (Apo)

Sergio Bacherini

Brigata d’Assalto Garibaldi “Lanciotto”:

suddivisa in quattro compagnie dislocate una all’Uomo di Sasso, con distaccamenti

ai varchi di Reggello e Gastra, tre nella zona di Gastra.

Brigata d’Assalto Garibaldi “Sinigaglia”:

suddivisa in cinque compagnie dislocate due sul Monte Scalari, due sul

Monte S. Michele (Chianti, la quinta sul S. Donato che dal 9 luglio si sposterà

presso il monte Bernardi.

Brigata d’Assalto Garibaldi “Caiani”:

suddivisa in quattro compagnie dislocate una a Pianscaglioni (Casentino),

una a sud–est del crocione di Pratomagno, due nella zona di Monte Giovi.

* * *

In quei giorni del mese di luglio, inviato da Ricciolo del quartiere di

Gavinana, a mezzo staffetta arrivò Enrico Bugli, fratello di Frana.

Aveva diciassette anni e quindi non aveva obblighi militari, ma essendo

un attivissimo diffusore della stampa comunista, Ricciolo, capito

che il giovane era in procinto di essere arrestato lo inviò su da noi.

Fu un ottimo acquisto sotto ogni punto di vista.

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