Archivio mensile:aprile 2017
Pietro Gori – Inno del primo maggio
Inno del primo maggio
Pietro Gori
Vieni o Maggio t’aspettan le genti
ti salutano i liberi cuori
dolce Pasqua dei lavoratori
vieni e splendi alla gloria del sol
Squilli un inno di alate speranze
al gran verde che il frutto matura
a la vasta ideal fioritura
in cui freme il lucente avvenir
Disertate o falangi di schiavi
dai cantieri da l’arse officine
via dai campi su da le marine
tregua tregua all’eterno sudor!
Innalziamo le mani incallite
e sian fascio di forze fecondo
noi vogliamo redimere il mondo
dai tiranni de l’ozio e de l’or
Giovinezze dolori ideali
primavere dal fascino arcano
verde maggio del genere umano
date ai petti il coraggio e la fè
Date fiori ai ribelli caduti
collo sguardo rivolto all’aurora
al gagliardo che lotta e lavora
al veggente poeta che muor!
Pietro Gori – Inno dei Lavoratori
Pietro Gori
Inno dei Lavoratori
O proletari che braccio e pensiero
ai rei tiranni de l’oro vendeste
sorgete in armi pe’l giusto, pe’l vero
e sollevate le impavide teste.
Il vecchio mondo già crolla e ruina
e a l’orizzonte s’affaccia l’aurora
o idea ribelle cammina cammina
in armi su miserabili è l’ora!…
*
Su le fronti e in alto i cuori
e inneggiamo a l’uguaglianza
a la umana fratellanza
e a la santa libertà
*
Noi poggi e piani coi lunghi sudori
di bionde messi rendiamo fecondi
noi per il ventre d’ingordi signori
ci logoriamo scherniti errabondi
Noi fabbricammo i fastosi palagi
e avemmo a pena soffitte e tuguri
l’ozio dei ricchi ebbe giubilo ed agi
noi onta e inopia dei mesti abituri
*
Su le fronti e in alto i cuori
e inneggiamo a l’uguaglianza
a la umana fratellanza
e a la santa libertà
*
Ma troppo amara signori divenne
la rea bevanda e ci abbrucia la bocca
è colmo il calice l’ora è solenne
e la misura del pianto trabocca
All’armi, all’armi, fatidici araldi
e distruggiam questa esosa oppressione
avanti, o forti manipoli, o baldi
lavoratori a la gran ribellione!…
*
Su le fronti e in alto i cuori
e inneggiamo a l’uguaglianza
a la umana fratellanza
e a la santa libertà
*
Se ognora fummo pazienti e cortesi
sotto ogni vostra spietata minaccia
padroni onesti, pasciuti borghesi
venite innanzi e guardiamoci in faccia
È tanto tempo che oppressi sfruttati
mesti ingozzammo i dolori e le pene
ma ormai vedete ci siamo contati
siam forti e molti e spezziam le catene.
*
Su le fronti e in alto i cuori
e inneggiamo a l’uguaglianza
a la umana fratellanza
e a la santa libertà
*
Le vostre dame di porpora e d’oro
l’opera nostra solerte ha vestito
per voi creammo con rude lavoro
vasi e cristalli lucenti al convito
Ma sotto il vento glaciale del verno
le nostre donne son lacere e grame
martiri vive dannate a l’inferno
treman di freddo, sussultan di fame.
*
Su le fronti e in alto i cuori
e inneggiamo a l’uguaglianza
a la umana fratellanza
e a la santa libertà
*
Noi valicammo gli immensi oceani
sfidando l’ira di mille tempeste
e a voi recando dai lidi lontani
gingilli e stoffe di gemme conteste
E intanto voi con minacce e promesse
figlie e sorelle ci avete stuprato
e noi codardi con schiene dimesse
dovizie offrimmo a chi ‘l pan ci ha rubato.
*
Su le fronti e in alto i cuori
e inneggiamo a l’uguaglianza
a la umana fratellanza
e a la santa libertà
*
Quando sorelle saran le nazioni
e gli odi antichi travolti e distrutti
una famiglia di saggi e di buoni
godrà in comune il prodotto di tutti
Non più chi oziando s’impingui e divori
presso chi stenta fatica e produce
per tutti il pane il lavoro gli amori
non più tenebra ma scienza, ma luce.
*
Su le fronti e in alto i cuori
e inneggiamo a l’uguaglianza
a la umana fratellanza
e a la santa libertà
*
Non più padroni né servi ma destre
fraternamente tra uguali distese
ma idee d’amore d’alte opre maestre
ma menti sol d’umanesimo accese
E passerà su la libera terra
un soffio puro di calma e di vita
non più l’atroce canzone di guerra
ma gioia immensa ma pace infinita.
*
Su le fronti e in alto i cuori
e inneggiamo a l’uguaglianza
a la umana fratellanza
e a la santa libertà
*
E solo allor tra le splendide e pure
aure del giovine secol giocondo
al nostro piè getteremo la scure
per contemplare il tripudio del mondo
E con la fiaccola in alto cantando
l’inno intonato del giorno de le ire
tra gli splendori del dì memorando
saluteremo il lucente avvenire.
*
Su le fronti e in alto i cuori
e inneggiamo a l’uguaglianza
a la umana fratellanza
e a la santa libertà
Alfonso Gatto – Fummo l’erba
Alfonso Gatto
Fummo l’erba
Certo, certo, la gloria ch’ebbe un fuoco
di gioventù rimesta tra le ceneri
il suo tizzo orgoglioso, ma noi teneri
di noi non fummo, né prendemmo a gioco
*
la vita come un’ultima scommessa.
Noi, di quegli anni facili, all’azzardo
delle fiorite preferimmo il cardo
selvatico, le spine. Dalla ressa
*
del giubilo scampati al nostro intento
d’essere sole e pietra, nelle mani
segnammo la tenacia del domani
da scavare nel tempo. Nello stento
*
d’essere soli per vederci insieme
nell’eguale costrutto, fummo l’erba
che alla pietra nutrita si riserba
il suo cespo bruciato.
*
Dalle estreme radici,
nell’impervio ogni parola
salì di quanto a trattenerla c’era
l’ansia d’averla pura, seria, vera
nel segno da rimuovere la sola
vergogna d’esser detta.
Salvammo nell’asciutto, dagli inviti
della corrente, il carcere incantato,
la nostra sete che ci tenne uniti.
Per un grido da rompere, il creato
ancora è il suo costrutto ove s’ostina
l’asino, il cardo, il segno della spina.
Alfonso Gatto – Consiglio spassionato
Alfonso Gatto
Consiglio spassionato
Non date retta al re,
non date retta a me.
Chi v’inganna
si fa sempre più alto d’una spanna,
mette sempre un berretto,
incede eretto
con tante medaglie sul petto.
Non date retta al saggio
al maestro del villaggio
al maestro della città
a chi vi dice che sa.
Sbagliate soltanto da voi
come i cavalli, come i buoi,
come gli uccelli, i pesci, i serpenti
che non hanno monumenti
e non sanno mai la storia.
Chi vive è senza gloria.
Giorgio Bocca – Il Terrore nelle Città 1943 ( Parte Prima )
Giorgio Bocca
Il Terrore nelle Città
1943
( Parte Prima )
Gli italiani che stavano alla finestra hanno spesso rimproverato alla Resistenza di avere provocato la reazione tedesca e fascista e, spesso, la Resistenza ha cercato di negare, di spiegare, come se la sua funzione principale non fosse proprio quella, di provocare uno scontro armato, di dare una testimonianza concreta, di pagare in qualche modo il biglietto di ritorno alla democrazia. Così stando le cose non abbiamo alcuna difficoltà a dire in modo esplicito che la repressione fascista e i suoi strumenti principali, le Brigate nere del partito e la X’ MAS del principe lunio Valerio Borghese, nascono dall’azione partigima o almeno sono costrette da essa a un comportamento da guerra civile. Altri si occupano qui dell’esercito partigiano, a noi tocca parlare dei GAP o gruppi di azione patriottica.
Quando nascono questi GAP e perché nascono? I GAP sono organizzati dal partito comunista, prima che da ogni altro, per una ragione molto semplice: il partito comunista è il partito antifascista che ha la maggior tradizione di guerra rivoluzionaria. Alle sue spalle ci sono le esperienze fatte in ogni parte del mondo dalla Terza internazionale, c’è una dottrina, una pratica. Non a caso i comunisti di Padova pensano di organizzare un GAP già nel luglio dei 1943, prima della guerra partigiana; non a caso il partito ha, fra i suoi quadri, uomini come Baroncini, Garemi, Lizzero, Rubini, esperti di guerriglia nelle città. Fa bene il partito comunista
a formare i GAP sin dai primi mesi della Resistenza? Certamente sì. Il terrorismo deve penetrare nelle grandi città non solo per ragioni militari e politiche ma per una elementare moralità rivoluzionaria. Se si accetta il principio morale e rivoluzionario della ribellione armata contro la legalità iniqua, bisogna arrivare al terrorismo cittadino, non si può ammettere che la resistenza sia divisa, che esistano zone alpine o quartieri periferici, operai in cui essa si svolge con i lutti e i danni, mentre al centro delle città, nelle zone dei ricchi si formano come delle enclaves tranquille in cui possono vivere senza danni gli oppressori. La lotta è senza quartiere e senza confini; tocca tutti, arriva dappertutto.
La scelta comunista sulle prime è contrastata dagli altri partiti: alcuni dì essi, come il liberale, hanno legami troppo stretti con la borghesia agiata per accettare che essa venga coinvolta nella lotta più aspra; oppure come il democristiano hanno remore di natura religiosa, il clero non ha ancora deciso se approvare o meno la lotta armata sulle montagne, non è il caso di proporgli subito quella nelle città; quanto a socialisti e azionisti cercano di guadagnare tempo, non sono pronti come i comunisti a organizzare le squadre. Ma si tratta di una opposizione tattica, con il passare del tempo anche socialisti e azionisti parteciperanno alla guerriglia urbana.
All’inizio ogni GAP è formato da non più di quattro persone; i vari GAP non hanno comunicazioni fra di loro, comunicano solo con il comando centrale; ogni GAP ha la sua staffetta, esclusiva. Presa, torturata, potrà confessare solo un indirizzo, solo quattro nomi. Il deposito degli esplosivi, il laboratorio degli artificieri sono sconosciuti ai GAP; quando il comando decide un’azione fa sapere al GAP in che luogo e in che ora troverà il necessario: le bombe, le biciclette, le armi. Queste sono le regole da cui si parte, poi ovviamente nella pratica italiana ci saranno meno preoccupazioni e meno segretezza.
Ma vediamo l’attività dei primi GAP. A Torino li comanda Anteo Garemi; le prime azioni, quasi contemporanee, sono del 22 novembre: due gappisti in bicicletta aprono il fuoco sui tedeschi di guardia alla stazione di Porta Nuova; pochi minuti dopo esplode una bomba lanciata da Garemi in un locale di via Nizza pieno di tedeschi. Altre azioni in ottobre con la cattura del console Giordina. Ma cattura no e fucilano Garemi e il gappismo torinese è praticamente distrutto fino a gennaio.
A Milano Rubini e Busetto organizzano numerosi GAP, le azioni di sabotaggio si infittiscono a Lodi, a Taliedo e il 18 dicembre il terrorismo giunge nel cuore di Milano. Tre gappisti ricevono istruzioni precise: si trovino alla tale ora in via Bronzetti, passerà un tale in divisa fascista, uscirà da un ufficio posto al tale numero. I tre eseguono, e solo a cose fatte vengono a sapere di aver ucciso il federale fascista di Milano
ALDO RESEGA
federale fascista di Milano. Fu ucciso in via
Bronzetti il 18 dicembre del 1943 da tre gappisti
che solo a cose fatte vennero a sapere di
aver eliminato un gerarca.
Altri due GAP entrano in azioni durante i funerali, nel fuggi fuggi dopo i primi colpi il feretro rimane abbandonato in mezzo alla strada.
I gappisti di Bologna si muovono a dicembre guidati da Ilio Barontini; a Genova agiscono soprattutto in appoggio agli scioperi operai; a Roma agiranno più tardi nella stagione del grande terrorismo. Nel gennaio del ’44 Torino conosce le imprese incredibili di Giovanni Pesce e il sacrificio di Dante di Nanni e di Giuseppe Bravin; a Firenze opera Sinigaglia. I fascisti chiedono vendetta, il partito la affida alla Brigate nere. La prima organizzazione armata fascista antipartigiana è creata dal federale di Milano Vincenzo Costa; ai primi del giugno 1944 egli forma un reggimento federale in cui inquadra 1500 fascisti; non è, sia ben chiaro, che nei mesi precedenti i fascisti abbiano subìto gli attacchi partigiani; dovunque ci sono state rappresaglie, punizioni, uccisioni, ma affidate agli squadristi, o demandate ai tedeschi. Solo nel giugno si pensa a una reazione organica, globale.
II segretario del partito Alessandro Pavolini ha già fatto questa esperienza in Toscana, poco prima che essa fosse liberata dalle divisioni angloamericane: a Firenze, a Pisa, a Livorno le formazioni regolari della repubblica fascista, la Guardia nazionale repubblicana, l’esercito di Graziani si sono sciolti come neve al sole: hanno tenuto invece le squadre di azione, composte dai fascisti duri, fanatici. Bisogna mobilitarli, armarli contrapponendo all’organizzazione ribellistica uno squadrismo di tipo nuovo.
Pavolini è un uomo intelligente, egli sa che il fascismo ha prodotto un pessimo esercito dopo aver organizzato uno squadrismo efficiente. I fascisti, quelli veri, si legano più alla tradizione faziosa dell’Italia medioevale che non a quella dei grandi eserciti post rivoluzione francese; non sono fatti per la guerra « grossa », ma per quella urbana o delle spedizioni punitive. « Gli italiani » scrive Pavolini « non temono il combattimento e quelli che sono fedeli al duce lo sono per davvero. Non amano però essere chiusi in caserma, inquadrati, irreggimentati… Il movimento partigiano ha successo perché il combattente nelle file partigiane ha l’impressione di essere un uomo libero. Egli è fiero del suo operato perché agisce indipendentemente e sviluppa l’azione secondo la sua personalità e individualità. Bisogna quindi creare un movimento antipartigiano sulle stesse basi e con le stesse caratteristiche. »
Mussolini è d’accordo e scrive di suo pugno: « Data la situazione, che è dominata da un solo decisivo supremo fattore, quello delle armi e del combattimento, decido che a datare dal l’ luglio si passi dalla attuale struttura politica e militare del partito a un organismo di tipo esclusivamente militare. Dal 1° luglio tutti gli iscritti regolarmente al Partito fascista repubblicano, di età fra i diciotto e i sessanta anni, costituiscono il Corpo ausiliario delle camicie nere, composto dalle squadre di azione. Il segretario del partito attua la trasformazione dell’attuale direzione del partito in ufficio di stato maggiore del Corpo ausiliario. Non ci saranno gradi ma soltanto funzioni di comando. Il corpo sarà impiegato agli ordini dei capi di provincia ». L’annuncio ufficiale previsto per il 21 giugno viene rinviato perché nello stesso giorno è apparso su La Stampa di Torino un articolo di Concetto Pettinato dal titolo « Se ci sei batti un colpo » di critica verso l’immobilismo del partito; l’annuncio della costituzione delle Brigate nere potrebbe sembrare una affrettata risposta. Si preferisce così notificare la decisione ai capi delle provincie che penseranno a loro volta a comunicarli al partito. Il capo della provincia milanese nel suo comunicato parla per la prima volta di « brigate in cui saranno immessi tutti i fascisti iscritti al PFR » e per la prima volta usa il termine « Brigata nera ».
Il 26 luglio tutti i giornali pubblicano il decreto del duce e Pavolini lo commenta alla radio: « Vi parlo stasera da una caserma del Piemonte dove sono affluiti i reparti della prima Brigata nera mobile, al comando del segretario del partito. In tutta l’Italia repubblicana le Brigate nere si organizzano. »
In tutti i capoluoghi di provincia si svolgono i riti marziali e luttuosi, vedove in gramaglie consegnano le fiamme nere di combattimento ai brigatisti che indossano la nuova divisa: berrettino nero da sciatore, giubbetto nero sopra maglione nero, pantaloni grigioverdi alla zuava. Benedizioni dei gagliardetti, appello dei caduti e il nuovo lugubre canto: « Le donne non ci vogliono più bene / perché portiamo la camicia nera / hanno detto che siamo da catene / hanno detto che siamo da galera ».
La vicenda delle Brigate nere potrebbe anche avere un suo fascino crepuscolare, romantico, se non ne facessero parte individui di ogni risma, decorati di guerra e donne esagitate; mascotte di quattordici anni e legionari di settanta; opportunisti trascinati dal dovere di ufficio e fanatici.
Le Brigate nere, costituite per combattere la Resistenza armata, non andranno più in là delle operazioni poliziesche cittadine; le poche volte che si avventureranno a combattere i partigiani in campo aperto subiranno ingloriose sconfitte; in una lo stesso segretario dei partito sarà ferito al sedere, ingloriosissima ferita. Molto meglio delle Brigate nere combatte la X’ MAS la cui storia però è completamente diversa e che ci riporta all’8 settembre e alle prime scelte di campo.
La X’ MAS prende il suo nome dalla flottiglia comandata dal principe Junio Valerio Borghese. Costui, aristocratico, antitedesco per educazione, antifascista nel senso che non condivide certi gusti plebei del fascismo, forma, per un distorto sentimento di orgoglio, il più fidato e, in ultima analisi, il più fascista dei corpi armati speciali della repubblica di Salò.
In teoria definire fascista o antifascista un uomo come Junio Valerio Borghese è piuttosto difficile: diciamo che si tratta di un avventuriero reazionario il quale scambia per amor di patria la difesa di privilegi feudali, come il fare o il dichiarare una guerra personale. E così che nasce la X’ MAS. Borghese fa il seguente ragionamento: « Non voglio subire l’umiliazione della resa, dunque non mi consegno agli anglo-americani ma rimango armato, con i miei, nella caserma della X’. E poi? La scelta, certamente, è stretta, si dovrà in qualche modo collaborare con i tedeschi, ma a deciderlo sarò io, mantenendo la mia autonomia ».
Fine 1°parte tratta
“La storia Illustrata”
Arnoldo Mondadori Editore
Luglio 1974
Giorgio Bocca – Il Terrore nelle città 1943
Giorgio Bocca
Il Terrore nelle città
1943
( 2)
A ben guardare dietro questa filosofia sommaria di Valerio Borghese c’è anche la convinzione che a un principe di tanto nome tutto è consentito, persino di costituire nel secolo ventesimo una compagnia di ventura. La conclusione è che il 14 settembre 1943 Borghese si presenta a La Spezia al comandante di vascello tedesco Berninghaus e stipula il suo patto di alleanza con il Terzo Reich: ai cento uomini rimasti con il comandante se ne aggiungono presto altri, la X’ apre uffici di arruolamento in ogni città, la sua propaganda
arditesca colpisce i giovani: presto 4000 marò sono alle armi.
«Voleva fin dagli inizi » scriveranno i suoi biografi « che la X’ fosse italianissima, per togliere ai giovani di trincerarsi dietro una scusa politica per non fare il loro dovere. » La distinzione tra politica e dovere è sempre stata una specialità dei regimi autoritari, ciò che vogliono lo ottengono o come adesione ideologica o come adempimento di un dovere non meglio specificato.
Siamo a una edizione, in piccolo, del petainismo: no agli stranieri, no ai partiti politici, alleanza con il tedesco ma temporanea, per forza maggiore, il pensiero fisso alla patria di domani liberata dai politicanti corrotti e governata non si sa bene da chi, forse da una oligarchia di tipo veneziano.
La X’ si compone di tre sezioni; quella Mare è affidata al capitano Arillo, di quella Terra si occupa direttamente il principe, che sorveglia anche la terza, Informazioni. La canzone della X’ racconta la sua trasformazione da marinara a terrestre:
«Vittoriosa ad Alessandria / Malta Suda e Gibilterra /
vittoriosa già sul mare / ora pure sulla terra / vincerai ».
Con preciso riferimento alle imprese compiute dai mezzi di assalto della X’ MAS nel corso della guerra contro la flotta inglese.
Per la guerra terrestre si formano i battaglioni
«Barbarigo », « Fulmine », « Freccia », « Valangá », « Sagittario » e «Lupo », i quali potrebbero aumentare di numero e dare alla X’ una indiscussa supremazia militare nella repubblica di Salò se non intervenissero le gelosie dei partito e le diffidenze di Graziani. Si ottiene così che il principe prima sia destituito dalla carica di sottosegretario alla marina e poi addirittura arrestato in seguito all’accusa che « ha un numeroso servizio di informazioni, svolge attività non nota
E agisce di sua iniziativa ». Ma i tedeschi intervengono in suo favore, e ogni desiderio tedesco è un ordine.
Ma che tipo di guerra terrestre conduce la X? Una prima idea dei principe è di creare una ridotta italiana al confine fra Venezia Giulia e Jugoslavia: fra tante assurdità del fascismo repubblicano sembra un proposito concreto. li tentativo abortisce, i tedeschi non lo gradiscono, essi hanno praticamente annesse al Reich le province orientali ribattezzate Adriatisches Kustenland, Borghese se ne stia con i suoi al di là dei Tagliamento, se proprio vuole mandi a Trieste due piccoli reparti, simbolici.
Secondo progetto: riportare un reparto italiano « sul campo dell’onore » cioè al fronte. A febbraio del 1944 il battaglione « Barbarigo » viene schierato ad Anzio in località Fogliano, ma bastano due mesi a convincere i tedeschi che è meglio destinarlo all’unica guerra che è in grado di combattere, la repressione antipartigiana.
Non è la guerra ambita dai marò e il comandante lo sa talmente bene che fa dire: andremo a rastrellare in valle d’Aosta reparti gollisti. Si tratta invece di partigiani del Canavese che catturano alcuni marò e fanno cadere in una imboscata il capitano Bardelli segnando l’inizio di una lotta feroce. La guerra partigiana spezzetta la formazione e attribuisce ai comandanti minori autonomie larghissime. « I vari dirigenti dei gruppi » dice un rapporto segreto pervenuto a Mussolini « invece di esaltare la figura del comandante Borghese hanno legato gli uomini a loro stessi al punto che conoscono solo gli ufficiali del loro gruppo. La rivalità dei gruppi è qualcosa di veramente sconcertante. »
Un quarto proponimento di Borghese si manifesta nell’autunno del 1944 quando si incomincia a pensare a resistenze estreme in qualche ridotta alpina. « Faremo del Piemonte il nostro Alcazar » dice Borghese, ma evidentemente esagera; nel Piemonte c’è una forza partigiana almeno cinque volte più numerosa e agguerrita della X’, l’attività della quale crea più guai che aiuti ai tedeschi, come riferisce il capo della provincia di Torino a Mussolini: « Il comandante Borghese effettua guerra indipendente et incurante operazioni belliche germaniche provincia Aosta creando serie difficoltà. Secondo comando germanico principe Borghese aveva tentato farsi riservare fascia confine svizzero senza collegamento alcuno con altre forze italiane e germaniche. Ad Aosta
tutti concordano nei seri dubbi sulla fedeltà del Borghese alla repubblica sociale italiana et temono sorprese. »
Verso la fine della guerra Borghese tornerà alla prima idea, farà agli anglo-americani questa proposta strabiliante: stiano fermi dove sono per consentire alla X’ di portarsi a difesa di Trieste; il duce finisce con il mettere la X’ alle dirette dipendenze di Graziani con il quale si arrenderà nei giorni della insurrezione di aprile.
Diciamo dunque che le due formazioni più ideologiche della repubblica di Salò, le Brigate nere e la X MAS, hanno un peso relativo nella repressione del movimento partigiano. Le grandi stragi, le più sanguinose sconfitte partigiane sono opera dei nazisti. La prima avviene in Val Casotto dove regna il militare Enrico Martini detto Mauri, personaggio mitico del partigianato piemontese. Mauri comanda i partigiani come un ufficiale di stato maggiore, fa dei piani, concepisce delle strategie, prevede che il nemico attaccherà con mille uomini. Ma il comando tedesco ne manda seimila, i partigiani sono accerchiati, 50 muoiono in combattimento, 150 catturati saranno quasi tutti fucilati. Altra grossa sconfitta quella della Benedicta. Il terreno è di mezza montagna, fra Piemonte e Liguria, con bosco scarso e scarsissimi rifornimenti; il movimento operaista ligure non è riuscito a fondersi con i contadini piemontesi, i quadri sono modesti. Seppure avvertiti in tempo del grande rastrellamento che si prepara, non prendono alcuna precauzione, non allontanano neppure dalla zona i 140 partigiani disarmati, le reclute dell’ultima ora. I tedeschi salgono da Voltaggio, da Campomorone, da Serravalle; c’è fra i partigiani un gruppo di ex-prigionieri russi, esperti di faccende militari. Insistono perché le forze partigiane si sgancino fin che si è in tempo, ma non vengono ascoltati. Appena il nemico attacca lo schieramento eterogeneo e discontinuo è il caos, si rompono i collegamenti fra gli autonomi e i garibaldini, in ventiquattro ore l’accerchiamento è compiuto. Se le formazioni partigiane fossero esperte la situazione sarebbe comunque recuperabile: di notte un reparto partigiano addestrato passa dovunque. Ma nessuno si sgancia, i ragazzi si lasciano prendere dal panico, alla Benedicta vanno a chiudersi come topi in una grotta dove i tedeschi li catturano. Settantacinque sono fucilati sul posto. La strage continua: i pattuglioni tedeschi (che usano i fascisti solo come guide e come interpreti) continuano a fucilare, 150 partigiani in totale vengono finiti, altri fatti prigionieri. Un simile disastro è avvenuto sulle montagne di Bassano del Grappa sul finire del ’43. I fascisti parlano molto del partigianato ma lo combattono poco. Essi conoscono bene la situazione partigiana, hanno spie in ogni valle, spesso dentro le bande; dei resto il partigianato non può nascondersi, deve occupare i villaggi di montagna e le voci corrono facilmente, arrivano agli orecchi degli informatori. Però al momento in cui le informazioni passano dalle spie alla autorità politica esse vengono manipolate e quasi sempre ingigantite a fini politici e militari: per avere delle giustificazioni, per ottenere armi, aiuti.
Mussolini al convegno di Klesseim, nell’aprile del 1944, parla di 60.000 uomini armati di tutto punto mentre non sono che la metà.
1 fascisti conoscono anche il paesaggio politico della Resistenza; anche se sui loro giornali li descrivono come« banditi e ladri comuni », sanno le diversità che esistono fra garibaldini autonomi e giellisti, anche se preferiscono definirli genericamente come « badogliani » o « sovversivi ». Risulta comunque dai documenti che il fascista vive nel terrore della presenza partigiana, della forza partigiana e che lo confessa.
Dice Pavolini ai fascisti di Cuneo nel marzo del 1944: « Voi vedrete arrivare qui, bene equipaggiati, bene armati gli uomini della nostra ripresa che finalmente, con i camerati germanici, libereranno a poco a poco le nostre vallate e scioglieranno la cintura di ferro che assedia la bella Cuneo ». Ma a maggio il comandante provinciale della G.N.R. di Torino Spallone riferirà da Torino: « Abbiamo l’impressione di essere assediati ». E da Pesaro gli fa eco il comandante della Guardia nazionale: « Compio il dovere di prospettare la estrema gravità della situazione nella quale è caduta la provincia di Pesaro in virtù della simultanea attività sviluppata dalle bande ».
Che i fascisti siano sulla difensiva e subiscano dovunque la presenza partigiana lo si capisce anche dalla loro propaganda. Conoscendo la diffidenza dei giovani per il partito, tutte le formazioni militari puntano sull’onore e sul patriottismo generico. Dice o si fa dire a un ragazzo: « Pochissime parole per spiegare le mie idee e il mio sentimento. Sono figlio di Italia di anni 21. Non sono di Graziavi e nemmeno di Badoglio ma sono italiano e seguo la via che salverà l’onore dell’Italia ».
Poi interviene la lode dell’azione: l’importante è battersi, reagire comunque alla disfatta, non stare alla finestra attendendo da altri la ricostruzione della patria. Per confondere i giovani si cerca di mettere sullo stesso piano partigianato armato e combattentismo fascista. Naturalmente non si nominano i partigiani e non si fanno accenni espliciti alle loro formazioni ma si lascia capire che, in un campo come nell’altro, ci sono giovani che appartengono alla aristocrazia delle armi e che è la stessa cosa stare con gli uni e con gli altri, l’importante è di prendere un’arma e di combattere.
Non si esita a ricorrere alla propaganda ipnotica che predica la vittoria contro ogni previsione logica, che parla di armi segrete. Si cerca di toccare il sentimento popolare italiano, la sua antica paura delle invasioni moresche: « Oltre il Garigliano », dice Mussolini in uno dei suoi primi discorsi, « non bivacca soltanto il crudele e cinico britannico, ma l’americano, il francese, il polacco, l’indiano, il nordafricano e il negro. Voi avrete quindi la gioia di far fuoco su questo miscuglio di razze bastarde e mercenarie ».
Sui bollettini della Guardia nazionale appariranno citazioni inventate dal « Nigger post » organo inesistente (i bravi fascisti ignorano che il termine nigger in America è altamente spregiativo e che non verrebbe mai usato da un foglio di propaganda militare), citazioni di poesie che sentono lontano un miglio la cultura umanistica della nostra provincia: « O di Sicilia desiati fiori, brune fanciulle dai procaci seni… ».
Ma soprattutto bisogna opporre al mito partigiano quello di un fascismo che resiste nei territori occupati dal nemico. Nel novembre del 1943 si inventa una fantomatica «radio Muti » che, a sentire i fascisti, trasmetterebbe da località imprecisate del Sud: con quale apparecchiatura non si sa, evidentemente potentissima, se la sua voce arriva al Nord come emessa da una stazione di Torino o di Milano, come di fatto avviene nella realtà.
Nell’inverno del 1944 il ridicolo trucco viene adattato a un personaggio fantomatico: « lo scugnizzo », « il giovanissimo ufficiale italiano » scrivono i giornali di Salò « che semina lo sgomento e il terrore nelle retrovie dell’invasore. Questo nostro soldato, la cui figura è un simbolo, non dà tregua al nemico. Nei boschi e nelle montagne dell’Italia occupata le pattuglie della fede agli ordini dello scugnizzo scrivono le più vivide pagine dell’eroismo italiano ».
Non manca, si intende, il ricatto del terrore. I bandi fascisti promettono ora perdono e ora sterminio anche dei parenti. Senza riuscire a trattenere _nelle città i ragazzi che vogliono salire alla montagna e senza farne scendere quelli che già vi operano.
Giorgio Bocca
Tratto da ”Storia Illustrata”
Arnoldo Mondadori Editore
Luglio 1974
La banda Carità di Taina Dogo 1 parte Firenze
La banda Carità di Taina Dogo
1 parte Firenze
Il «Gazzettino» del 26 settembre 1945, riferendo sull’apertura del processo celebrato alla Corte Straordinaria d’Assise di Padova contro la banda Carità, cosi diceva:
La fosca attività che per lunghi mesi ha gravato, con un alone di ossessionante mistero, sulla vita padovana, nell’ultimo periodo dell’oppressione nazifascista ad opera della tristemente famosa banda Carità, dietro le vecchie mura del Palazzo Giusti di via San Francesco, si è stamane ravvivata di sinistra luce nella prima giornata di udienza al processo contro un gruppo di componenti, i principali della sbirraglia prezzolata al servizio del nemico invasore.
Aveva avuto inizio quel giorno, dopo un’inchiesta istruttoria condotta dal Pubblico Ministero Aldo Fais, il giudizio pubblico dell’operato della banda Carità, assente tra gli imputati il principale responsabile, Mario Carità, sorpreso nel sonno da due soldati americani all’Alpe di Siusi ed ucciso mentre tentava di afferrare la pistola che teneva a portata di mano. Sul banco degli imputati sedici uomini e tre donne, quasi tutti toscani. Chi erano? Quali colpe erano loro attribuite? Dove e come avevano agito prima di insediarsi nell’ottobre del 1944 nel Palazzo Giusti di Padova? Il clima di disgregazione politico-morale della repubblica fantoccio di Salò ha certamente favorito lo sviluppo di quei gruppi d’azione paramilitare, le cosiddette bande di tortura, in cui istinti degeneri, desideri di vendetta, ambizioni paranoidi dei singoli si manifestavano con atti di efferata crudeltà. È pertanto nel quadro degli avvenimenti storici verificatisi in Italia dopo 1’8 settembre, che va ricercato l’ingranaggio che ha permesso all’informatore fascista Mario Carità di assumere un incarico poliziesco ufficiale e di servirsene con tanta insensata criminalità attraverso la banda di tortura da lui organizzata con i peggiori elementi di Firenze, servendo di esempio allo stesso Pietro Koch.
Verso la metà di settembre del 1943 Ricci, tornato in Italia, con l’incarico di comandante della nuova milizia, da Rastenhurg dove si era incontrato con Mussolini, aveva aperto il reclutamento con risultati modesti, ma sufficienti per far nascere nelle varie regioni le sezioni di partito, ricostituite dai relitti del vecchio regime. E, come Ricci e Pavolini, segretario del nuovo Partito Fascista Repubblicano, erano di origine toscana, cosi questa regione divenne automaticamente la base delle nuove organizzazioni fasciste. A Firenze si ricostituisce rapidamente la XCII legione della milizia, con gli ex fascisti che in Toscana erano rimasti fedeli al regime dopo la bufera del 25 luglio. I tedeschi, poco propensi a credere alle capacità organizzative, militari e politiche del nuovo governo fascista, ne prendono le redini, affidando a Rahn il comando politico dell’Italia, a Kesselring e· a Rommel quello militare, a Wolff il comando delle SS e della polizia. In virtù di questo potere, Wolff organizza la distruzione dei primi nuclei di resistenza degli antifascisti, attribuendo alla nuova milizia funzioni poliziesche più che militari. A Firenze, appunto con un tale tipo di incarico, comincia a far parlare di sé Mario Carità. Già confidente politico della Questura, egli si era presentato subito dopo 1’8 settembre alle nuove autorità tedesche ed era entrato alloro servizio come ufficiale di collegamento con l’esercito nazista. Dopo qualche settimana, lascia tale incarico al ten. Giovanni Castaldelli, un ex prete, ed assume col grado di maggiore il comando del costituendo Reparto Servizi Speciali (RSS) dipendente dalla XCII legione. Per espletare le sue nuove funzioni, Carità stabilisce una prima sede in via Benedetto Varchi; si trasferisce in novembre nella Villa Malatesta in via Foscolo, e infine, nel gennaio del 1944, in quella che sarà la Villa Triste di Firenze, in via Bolognese 67. Contemporaneamente organizza altri uffici in diverse zone della città (Hotel Savoia, Hotel Excelsior), passando da una sede all’altra con itinerari e macchine diverse, accompagnato sempre dal suo autista personale, Antonio Corradeschi, e da due militi armati di mitra, e utilizzando spesso un’autoambulanza come copertura. La sua abitazione privata è un lussuoso appartamento in via Giusti, già proprietà di un ebreo. Attorno a sé raccoglie rapidamente 200 uomini, espressione di un’umanità viziosa e violenta. Divisi in gruppi, essi assolvono a servizi precisi: stato maggiore (del quale fa parte in un primo tempo anche Pietro Koch), guardie personali del maggiore Carità, amministratori, addetti ai corpi di reato, informatori, spie, addetti ai rastrellamenti e alle spedizioni punitive. Quest’ultimo gruppo si fraziona in squadre, che ben presto diventano famose: tra queste, la squadra Perotto, detta «squadra della labbrata », la squadra Manente o «degli assassini », e la « squadra dei quattro santi» (N. Cardini, A. Natali, V. Menichetti e L. Sestini). Così organizzata, la banda Carità prende l’appellativo di Ufficio di Polizia Investigativa (UPI) della Guardia Nazionale Repubblicana di Firenze. Ne fanno parte fin dall’inizio, oltre Corradeschi e Castaldelli, parecchi di coloro che vedremo poi nell’autunno del 1944 nel Palazzo Giusti di Padova o in via Fratelli Albanese a Vicenza: V. Chiarotto (capo guardia personale di Carità), T. Piani e Massai (guardie personali di Carità), G. Faedda (amministratore), A. Sottili (addetto ai corpi di reato), A. Fogli (informatore), U. Cialdi (spia), F. Bacoccoli (rastrellamenti e spedizioni punitive), ecc. Affiancando, nelle sue funzioni investigative, le SS tedesche e pur dipendendo ufficialmente da esse, la banda Carità, come altri organi fascisti, conduce una specie di guerra privata contro le forze della Resistenza, esasperando la violenza della lotta con atti di dissennato sadismo. Nel corso dei processi celebratisi a Padova e, più tardi, a Lucca, sono emersi raccapriccianti testimonianze sui mezzi di tortura usati per estorcere delle confessioni ai prigionieri. Ma di questo si parlerà più avanti. Qui saranno elencati solo i fatti più gravi emersi a carico di Carità e dei suoi sgherri relativamente al periodo toscano. "Alloro arrivo a Padova sorpresero la Resistenza veneta con l’esperienza acquisita dell’uso di metodi inquisitori di sapore medioevale. È probabile tuttavia che considerazioni di opportunità come l’imminente fine della guerra, l’inevitabilità della . sconfitta tedesca e la possibilità di utilizzare i prigionieri come moneta di scambio, abbiano contenuto l’elenco dei morti fra i prigionieri caduti nelle mani della banda Carità a Padova e di Vicenza.
Il 10 dicembre 1943 un gruppo di partigiani scende dalla montagna a Firenze e uccide il comandante fascista Gino Gobbi. Il giorno seguente viene organizzata una rappresaglia e Carità ordina la fucilazione di 10 ostaggi; solo per il pressante intervento di autorità fasciste, il numero sarà ridotto a cinque. Il 12 febbraio 1944 cade a Firenze Alessandro Sinigaglia, capo dei GAP. Arrestato in una trattoria dalla squadra dei « quattro santi », tenta la fuga; Cardini spara e lo uccide. II 22 dello stesso mese compaiono davanti al Tribunale Militare Straordinario cinque giovani accusati di renitenza alla leva. Carità, che assiste al processo, induce i giudici, di cui era amico, di condannarli a. morte. La sentenza viene eseguita il giorno stesso a Campo di Marte: Carità dà il colpo di grazia. Il l° marzo, durante lo sciopero generale organizzato dai CLN, il più grosso sciopero effettuato nell’Europa occupata, le maestranze della Manifattura Tabacchi di Firenze avevano incrociato le braccia. II Carità, accompagnato dal prefetto Manganiello, che provava verso di lui rispetto e timore, entra nella fabbrica e, con i suoi sgherri, distribuisce pugni e calci alle donne che gli oppongono, davanti alle macchine ferme, tutto il loro disprezzo. Il 30 aprile Bernasconi, Masi, Cecchi e Gramigni uccidono a Carmignano Bruno Cecchi, noto antifascista. Lo stesso giorno Sottili ed Elio Cecchi arrestano a Firenze Gino Cenni mentre esce dalla sua abitazione in Lungarno del Pignone, e in auto si dirigono verso la località « Canonica ». Qui lo fanno scendere e gli sparano a bruciapelo sul collo lasciandolo ferito molto gravemente. Il 1 maggio una spia fascista si presenta ad Anna Maria Enriques Agnoletti, chiedendo rifugio. Il giorno dopo Anna Maria è arrestata e sottoposta per settimane a torture dai tedeschi e da Carità. Sarà ospite della Villa Triste di via Bolognese fino al giorno della sua fucilazione, eseguita il 12 giugno. Avrà per compagni alcuni dirigenti di Radio Cara scoperti mentre trasmettevano da un’abitazione di piazza D’Azeglio. La sera del 19 dello stesso mese quattro uomini armati (Corradescru, Cecchi, Massai e un altro) si introducono nell’abitazione della signora Maria Koss in via de’ Tavolini 2 a Firenze, dove erano convenuti il sottotenente Vincenzo Vannini, Franco Martelli e Rocco Caraviello per studiare il modo di liberare alcuni partigiani ricoverati nell’Ospedale Militare di Firenze. La Koss e tutti i partecipanti al convegno, arrestati, vengono condotti in via Bolognese, ad eccezione del Caraviello, ucciso subito dopo l’arresto in un vicolo dietro piazza della Signoria ed abbandonato cadavere nel Chiasso del Buco. La sera stessa, dopo sevizie e sommari interrogatori dei prigionieri, sono tratti in arresto anche il fratello del Caraviello, Bartolomeo, e la moglie Maria Tenna. Nelle prime ore de1 21 giugno, la Koss, la Tenna e il Vannini sono condotti in macchina nella Val Terzollina. Il Vannini riesce a fuggire, ma le due donne sono freddate con una raffica di mitra. Qualche ora più tardi il Martelli e Bartolomeo Caraviello con un altro prigioniero, Edgardo Savoli, subiscono la stessa sorte nei pressi del Campo di Marte. Infine, nella notte tra il 6 ed il 7 luglio Carità uccide Carolo Griffoni, noto antifascista fiorentino, dopo averlo derubato di portafoglio e gioielli.
Nel frattempo l’offensiva alleata di maggio a Cassino. lo sfondamento della seconda linea difensiva tedesca sul Garigliano, ed infine l’entrata in Roma di Clark e di Alexander, costringono Pavolini a ordinare il ripiegamento dei reparti della GNR di Firenze nell’Italia del Nord. Carità decide di abbandonare la Toscana. Lascia a Firenze una squadra dei suoi, comandata da Giuseppe Bernasconi, un ex galeotto che aveva subito 16 condanne per truffa e che aveva partecipato anche alle imprese di Pietro Koch a Roma. Mentre per le strade di Firenze, all’avvicinarsi degli Alleati, infuria la repressione fascista, la squadra Bernasconi cattura in piazza Tasso un gruppo di gappisti. Torturati in via Bolognese, vengono fucilati la notte del 21 luglio alle Cascine. Lasciando Firenze il 7 luglio – secondo la deposizione rilasciata dal capitano Ferdinando Bacoccoli, comandante il distaccamento di Vicenza, a Bruno Campagnolo il 3 maggio 1945 nelle Carceri di Vicenza – la banda Carità porta con sé il frutto di diverse rapine: 55 milioni rapinati alla Banca d’Italia di Firenze, il tesoro della Sinagoga, preziosissimi quadri trafugati da una galleria d’arte, mobili e altri oggetti di provenienza ebraica.
1 parte
Tratto da
RITORNO A PALAZZO GIUSTI
TESTIMONIANZE DEI PRIGIONIERI DI CARITÀ A PADOVA (1944-45)
A cura di Taina Dogo Baricolo
La Nuova Italia Firenze
Edizione 1972
La banda Carità – Taina Dogo – 2 parte Padova
La banda Carità di Taina Dogo
2 parte
Padova
Questo « tesoro» ricompare, secondo la deposizione rilasciata da Umberto Usai il 5 maggio 1945 dopo il suo arresto, nella storia delle ultime giornate del distaccamento di Vicenza, quando Carità darà l’ordine di caricare sui camion in fuga le grandi casse sigillate e j sacchi di documenti che non era stato possibile distruggere, nel tentativo di portarli con sé in Germania.
Fuggito da Firenze, Carità raggiunge Bergantino, un paese sul Po in provincia di Rovigo, luogo d’origine dell’aiutante Giovanni Castaldelli, e vi si stabilisce, continuando ad operare come comandante dell’Ufficio di Polizia Investigativa (UPI) di Firenze. In tale veste partecipa a rastrellamenti, arresti, interrogatori in collaborazione con le forze di polizia della zona. Bergantino è considerata «sede di riposo» in attesa di una più adeguata destinazione e sistemazione. Per questa ragione e per la brevità della « vacanza », non sono emersi crimini gravi a carico della banda. Da segnalare un fatto che getta luce sulla psicologia e sui « valori morali» di questi avventurieri. In località Casaleone il farmacista del luogo era stato scoperto in possesso di armi; durante la perquisizione eseguita nella sua abitazione, il denaro e i gioielli scomparvero. L’autore del furto, il sottotenente Manzella, aveva condotto quindi il farmacista a Bergantino sottoponendolo a torture. Qualche giorno più tardi, lo stesso Manzella organizzò, dietro compenso in denaro, la fuga di un membro del CLN di Milano, il maggiore Argenton, precedentemente arrestato dalle Brigate nere di Mantova e poi trasferito presso Carità. Successivamente, fatti e particolari relativi al furto ai danni del farmacista e alla fuga del maggiore Argenton essendo venuti alla luce, una commissione d’inchiesta aveva deciso di deferire il sottotenente Manzella al Tribunale Militare. Temendo di essere coinvolto come corresponsabile delle azioni di ManzelIa, Carità decide di sopprimerlo. Su questa oscura vicenda così riferisce F. Bacoccoli:
Egli (Carità) acconsente alla nostra richiesta di far passare alle camere di sicurezza di Rovigo il Manzella, ordinando a me, al capitano Gentili e al sottotenente Faedda di scortare l’ufficiale. Poiché era da aspettarsi un tentativo di fuga da parte dell’ufficiale incriminato che era fra l’altro dotato di molta astuzia e di una forza erculea, viene dato l’ordine ad altri militi di appostarsi per misura di sicurezza preventiva. A tergo dell’ufficiale vi era anche un tale Ciulli, comandante della Brigata nera di Bergantino, ex appartenente al reparto Carità in Firenze. Da notare che il Ciulli prima di scortare il Manzella fu chiamato dal maggiore Carità col quale ebbe un breve e segreto colloquio. Giunta la scorta con l’ufficiale arrestato nei pressi delle camere di sicurezza, il sottotenente Manzella con un atto di impeto fa per scagliarsi sul Ciulli .. Questi però gli scarica. addosso alcuni colpi di pistola che lo feriscono gravemente. Il ferito Invoca il maggiore Carità. io corro a chiamarlo. Intanto si dispone per una macchina che accompagni il ferito al più vicino ospedale. Il maggiore Carità si reca presso il Manzella, ha con lui un breve colloquio a quattr’occhi. Ne esce esterrefatto. Alcuni uomini mi hanno poi riferito che il maggiore Carità avrebbe parlato ancora appartatamente col Ciulli. Giunge la macchina, il ferito viene caricato e accompagnato a Trecenta (ospedale civile) sotto la scorta di Valentino Chiarotto, Otello Carlotti e il Ciulli. Al ritorno della macchina da Trecenta è stato raccontato che il ferito sarebbe vissuto alcune ore in ospedale, dopo di che sarebbe deceduto. Tuttavia alcuni miei uomini di sicura onestà, Lanei e Fontanelli, mi dissero più tardi che il Manzella sarebbe stato finito con due colpi di pistola alla testa, mentre veniva portato in macchina all’ospedale di Trecenta, per volere di Carità, che temeva troppo le eventuali confessioni dell’ufficiale ferito.
Quando la linea di resistenza tedesca sull’Appennino tosco-emiliano mostra i segni di una profonda usura, Carità decide che è giunto il momento di cercare riparo più a Nord. Dapprima sceglie Vicenza e invia il maresciallo Linari ad organizzare la nuova sede. Ma poi, accogliendo l’invito del prefetto Menna, preferisce trasferirsi a Padova, pur mantenendo la filiale distaccata di Vicenza. Carità si insedia, alla fine di ottobre del 1944, in un palazzo di proprietà dei Conti Giusti del Giardino, in via San Francesco 55. Nel frattempo Umberto Usai organizza la sezione di Vicenza, il cui comando sarà affidato in un primo tempo al tenente Bruno Bianchi e più tardi al capitano Ferdinando Bacoccoli. Alla fine di novembre la sezione è pronta a funzionare, con una trentina di uomini collegati ai vari organi di polizia fascisti e tedeschi del Vicentino. Una villa di via Fratelli Albanese serve da sede ufficiale e da carcere; gli interrogatori si svolgono in una villa vicina, requisita al prof. Potoschnig. A Palazzo Giusti in Padova Carità ricostituisce rapidamente il reparto. Un’ala dell’imponente edificio viene usata per gli alloggiamenti suoi, delle sue due giovani figlie e della cinquantina d’uomini che l’hanno seguito dalla Toscana. Al piano terra le cucine. Il lavoro sì svolge nella sezione più rappresentativa dell’edificio. I prigionieri appena arrestati vengono ammucchiati nel salone. In quattro salotti sono sistemati gli uffici dove si svolgono gli interrogatori. Le vecchie scuderie, trasformate in piccolissime celle senz’aria, vengono chiamate dai detenuti, per la disposizione a castello dei tavolacci, « la nave ». Anche le soffitte, dove una stanza è adibita ad infermeria, servono per la custodia dei prigionieri. La banda Carità è pronta a funzionare. La posizione ufficiale di Carità è di « Comandante supremo la pubblica sicurezza e servizio segreto in Italia: reparto speciale italiano ». La corrispondenza porta la dicitura in italiano ed in tedesco ed è sotto firmata da un ufficiale tedesco delle SS; porta il timbro della SSN e Carità si firma « S.S. Sturmbannfuhrer ». Palazzo Giusti diverrà nel giro di poche settimane la Villa Triste dei partigiani veneti.
In ottobre la guerra, che sembra avviata alla fine, si arresta sulla linea gotica; Alexander nel suo proclama del 13 novembre invita i patrioti italiani a cessare ogni attività per prepararsi ad affrontare l’inverno che si preannuncia molto duro. Il rifornimento di viveri e di armi si fa critico. Le sorti della guerra e le nuove disposizioni di Kesselting, relative ad un rastrellamento globale dell’Italia del Nord, danno nuova forza alla banda Carità, di fronte alla quale la Resistenza veneta viene a trovarsi nel momento psicologico e organizzativo più difficile. Molti partigiani, buttatisi allo sbaraglio in autunno, sono già segnalati e braccati dalle polizie locali, sono già « bruciati » come si diceva allora. Palazzo Giusti comincia ad ergersi come un’ombra nera nel pensiero di molti uomini della Resistenza. Vengono compiuti i primi arresti. Così Giorgio Bocca nella sua Storia dell’Italia partigiana, rifacendosi alle testimonianze raccolte presso l’Istituto Storico della Resistenza di Padova, parla di Carità e di Palazzo Giusti:
La banda si sistema a Padova in Palazzo Giusti, nell’ufficio e la caserma, e il luogo di vizi e di ferocie inconfessabili. Vi si fa uso di droghe, il sangue e gli urli dei prigionieri sono anch’essi droga; il piacere sadico di veder soffrire si mescola alla paura, a volte anche a un senso di rimorso, di rimpianto: il prete spretato Castaldelli visto, da uno dei prigionieri, mentre si prende il viso fra le mani e geme come una bestia ferita. Ma il pentimento non dura, nessun rimorso è decisivo, nessuno ce la fa a togliersi dall’impatto di sangue e di orrore in cui si ritrova ogni mattina quando riprende gli interrogatori degli arrestati … Una vicenda nota in tutti i luoghi di tortura: il carnefice che si trasforma in protettore, la vittima che legge sul suo volto, nei suoi occhi, un barlume di pietà e vi si attacca; il carnefice assapora questi momenti, si sente Quasi buono e magnanimo, ma ecco proprio qui si rinnova la perfidia, il piacere di troncare la speranza nascente, di ricominciare il ciclo, fino alla fine del mondo. … Carità entra in una sala di tortura mentre i suoi sono al lavoro: .. Ma no, cosa fate. dice, ma gli fate male •. il torturato si volge a guardarlo come un salvatore, lui si avvicina. Ma è pallido questo ragazzo, su bisogna fargli coraggio ». E gli rovescia sul viso le sue dure mani, e mentre picchia si esalta, si eccita, è sopra la vittima, urla. . .. Ma è con le donne che ci si sfoga meglio: « Non sai niente? Dici che non sai niente? Ci avevo una zietta cosi che mi raccontava le favole, lurida puttana •. «Ecché, troia, ci ho scritto qui in fronte sali e tabacchi? ». Che risate a vederle confuse e avvampate se le costringono a denudarsi. Poi gli spengono le sigarette accese nel ventre, o le mettono a ponte su uno sgabello, gambe in giù da una parte, testa in giù dall’altra, in modo che non possano schermirsi. … Certe notti nel silenzio, quando si ode solo il gemito di qualche sofferente, uno dei torturatori torna a visitare le sue vittime e cerca il discorso, interroga, sembra voler riannodare un colloquio umano:
Vuoi una sigaretta? Su, non aver paura, dillo pure cosa pensi di noi ». La vittima tace, il colloquio non è piu poso sibile, il violento Baldini che lo capisce, esce fuori con la sua risoluzione da disperato: «Si, un giorno forse mi farete la pelle, ma intanto sono io che comando •. … Fino alla fine, dietro la violenza che è diventata un vizio: far passare scariche elettriche nei genitali, strappare le unghie con le pinze, mettere al lavoro i picchiatori ebeti che bevono e mangiano mentre bastonano, passare le notti ubriachi ballando nel salotto accanto alle celle in modo che i prigionieri ascoltino.
Tratto da
RITORNO A PALAZZO GIUSTI
TESTIMONIANZE DEI PRIGIONIERI DI CARITÀ A PADOVA (1944-45)
A cura di Taina Dogo Baricolo
La Nuova Italia Firenze
Edizione 1972
Il salone – Taina Dogo Parte 3
Il salone di Taina Dogo
Parte 3
Prima della guerra Palazzo Giusti lo conoscevo appena: uno dei numerosi palazzi antichi di cui è ricca la mia città. Ma lo devi cercare nella stretta e ondulante via in cui si affaccia, per ammirarne la nobile e severa architettura. Ora il numero 55 di via San Francesco è diventato un punto d’orientamento geografico e mentale. Alzando lo sguardo alle piccole finestre delle soffitte, mi par sempre di scambiare un messaggio d’intesa con qualcosa di me rimasto dietro a quelle persiane non più aperte da quando Carità le fece sprangare, bontà sua, per proteggerci dal freddo . . Ci siamo dati convegno li, nel 25° anniversario della Liberazione, per ricordare i nostri Morti, anche quelli scomparsi dopo il 1945, che sono molti rispetto al numero dei sopravviventi. Varcato il portone di Palazzo Giusti si accede in un grande androne chiuso da una vetrata che dà sul giardino. A destra lo scalone ampio e luminoso. Lo ricordavo benissimo: ora manca solo la lapide che Carità aveva fatto murare tra le due finestre con l’elenco dei suoi morti. . Al primo piano, il « salone ». L’inattesa suntuosità del vasto ambiente mi stupisce. ~ davvero una bella sala delle feste con ricchi tendaggi, molti specchi e grandi lampadari accesi. Allora erano spenti, le finestre nude e i vetri rotti. Gli specchi? Certamente c’erano, ma non li ricordo. Il nostro «salone» era diverso: immenso, vuoto, freddo e buio. Non ricordo di averlo visto illuminato dalla luce del sole: sempre in penombra. Eppure anche allora il sole deve aver brillato. Dalle finestre che danno sul giardino, cerco gli alberi. Ma oggi è un giorno d’estate e sono verdi, non spogli e ischeletriti come in quel lontano gennaio quando sembravano morire della nostra pena. Là in fondo a sinistra, il «mio» angolo, semibuio. Da. , . quell’angolo la notte spingeva avanti la sua ombra che lasciando cancellava i rettangoli chiari delle finestre, inghiottiva tutti dividendoci e lasciandoci soli. Il salone diventava allora vasto deserto, buio, come il buio deserto degli incubi infantili, in cui avverti la paura di un pericolo non definito, ma presente. Improvvisi squarci di luce violenta si confondono nella mia memoria con le grida dei compagni torturati. Luci e urla che ferivano l’oscurità e la nostra mente, venivano sempre da un lato del salone, dove si aprivano gli usci dei locali usati dagli inquisitori: gli «uffici ». Poi buio, silenzio, qualche rantolo. Le prime notti l’oscurità appariva vaporosa per il riflesso della neve. Eravamo in pochi allora, raccolti accanto alle finestre centrali su due stretti divani. Inutilmente cercavo di cogliere un messaggio nello sguardo dei miei compagni. Tutti .distaccati, freddi, quasi ostili. Avevo cercato una parola amica, e questa era venuta da un giovane che mi sedeva accanto che io credevo un condannato a morte. Lo rividi giorni dopo salire lo scalone ed entrare senza scorta negli uffici: era una spia di Carità. Poi quel messaggio umano che cercavo, giunse inaspettato. Una notte avvertii un lento muoversi di passi che si avvicinavano. Poi silenzio. Mi giro e una mano mi accarezza i capelli mentre una voce calma dice: « Anche tu qui! Coraggio, cara, sii brava! •. La riconosco subito ed è come il concludersi di un lungo discorso iniziato pochi anni prima sui banchi del liceo, quando il nostro professar Zamboni aveva cominciato la sua lezione di filosofia con queste parole: «Ragazzi, oggi Hitler ha occupato l’Austria ». E, cancellata dai suoi occhi quell’espressione bonaria che noi gli conoscevamo, aveva preso a leggere un brano di Croce. L’aula era piccola e luminosa, e le sue parole, afferrate dalla nostra mente di adolescenti, avevano stimolato l’intuizione di una calamità che sovrastava il mondo, facendo germogliare nelle nostre coscienze il seme dell’antifascismo. Ed ora la stessa voce, nel buio salone di Palazzo Giusti, si rivolgeva solo a me, affettuosa e ferma: «È solo un momento difficile. È giusto che sia cosi ». Più che l’incertezza per il futuro o la paura del dolore fisico o della morte, mi turbava quell’aspetto violento della natura umana, che non ero preparata ad affrontare. Le poche parole di Zamboni, in cui avevo avvertito un’ansia controllata e la volontà di non cedere, mi aiutarono, in quel fluttuare del pensiero nel dormiveglia inquieto per il freddo e la stanchezza, nel silenzio dei miei compagni, a trovare una ragione della mia presenza nel salone.
Il 7 gennaio il salone si era rianimato alle luci dell’alba. Gli uomini di guardia passavano rapidamente dagli alloggi agli uffici. Nonostante il pesante « lavoro» notturno svolto da Carità e dai suoi sgherri, l’attività aveva ripreso frenetica quel mattino. Si avvertiva nell’aria qualcosa d’inquietante, che noi cercavamo invano di interpretare. Sembrava che si fossero dimenticati di noi. Solo Corradeschi, nel suo vestito nero e con la smorfia più sprezzante del solito, passandoci accanto, s’era fermato un attimo dicendo: « Tra poco vedrete il vostro Renato! ,.. Sapevo chi era Renato e con quanto coraggio e abilità stava lottando. Era l’uomo astuto e imprevedibile, che volevano nelle loro mani, vivo o morto. Nessuno poteva ancora immaginare quanto funesto per la Resistenza veneta sarebbe stato quel 7 gennaio 1945. La neve caduta abbondante nei giorni precedenti, aveva imbiancato gli alberi del giardino e i tetti di via della Pieve. Il cielo era coperto e la sera era scesa presto. C’era una strana calma nel salone, come nei momenti che precedono il formarsi di un ciclone. Poi, un brusio di passi affrettati, un correre confuso e molte voci: avevano portato Renato colpito a morte e, con lui, molti altri, i migliori, caduti nella rete di appostamenti tesi dagli sgherri di Carità. Alcuni di essi vengono spinti negli uffici e solo più tardi ne sappiamo i nomi: Meneghetti, Ponti, Casilli, Martignoni, Palmieri ecc. Il salone si riempie di uomini, donne di ogni età. Con loro dei sacerdoti e persino un ragazzetto.
Cominciano subito gli « interrogatori », proseguono notte e giorno. Le grida dei prigionieri, i loro volti tumefatti, lo sguardo allucinato di alcune donne che hanno subito ogni sorta di ingiurie, si mescolano alle urla eccitate degli inquisitori in un’atmosfera da incubo. Quanti giorni, quante notti il salone è stato stretto nella morsa del dolore, della paura, della pazzia? Non lo so. Alla fine – è un mattino – mi guardo attorno: i divani sono disposti a cerchio; siamo in molti e tra noi riconosco degli amici. Vedo alla mia sinistra Meneghetti con le mani livide chiuse nelle manette troppo strette. È senza occhiali e guarda lontano, oltre il giardino. La sua figura eretta e il suo volto nobile sembrano racchiudere tutto il significato di quanto ciascuno di noi ha dato in quei giorni. Tutti, io credo, abbiamo perduto qualcosa in quella tragica esperienza; ma non ne siamo usciti vinti. L’inquietante alternarsi del dolore e della paura si è placato alla fine in un disteso sentimento di profonda comprensione umana, che supera i limiti degli ideali entro i quali avevamo agito fino allora. Il momento più difficile è passato; i pensieri si ricompongono e possiamo cominciare a guardarci sorridendo.
Tratto da
RITORNO A PALAZZO GIUSTI
TESTIMONIANZE DEI PRIGIONIERI DI CARITÀ A PADOVA (1944-45)
A cura di Taina Dogo Baricolo
La Nuova Italia Firenze
Edizione 1972
“25 Aprile 1945”
“25 Aprile 1945”
“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”.
Dal discorso alla radio in cui Sandro Pertini proclama l’insurrezione generale a Milano. Era il 25 aprile 1945.