Archivi categoria: Ricordi della Grande Guerra 1915 – 1918

Sisto Monti Buzzetti – E’ la prima notte che ho passato al fronte

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Sisto Monti Buzzetti
E’ la prima notte che ho passato al fronte
Col di Lana
Sisto Monti Buzzetti racconta battesimo del fuoco, vita in trincea, famiglia, mamma a Col di Lana (BL), dintorni il 24 marzo 1916
L’aspirante ufficiale Sisto Monti Buzzetti è al fronte con il 60° fanteria, la zona è una di quelle più famose per le cruenti battaglie che vi si combattono, è la zona del Col di Lana, le cui posizioni vengono alternativamente presidiate, come riferiscono i diari storici, dai due reggimenti della brigata Calabria
Cartolina Postale del 24 marzo 1916

Cara mamma, stanotte è stata la prima che ho passato al fronte. Ho dormito comodissimamente senza sentire punto freddo e pensare che mi trovavo oltre i 2000 m. Come vi dissi ieri, sono destinato alla 7ma compagnia e più precisamente al 4° plotone. Non ho veduto ancora nessun alleronese perché la maggior parte stanno al 3o battaglione mentre io sono al secondo. Ho già ricevuto l’entrata in campagna e quando fra qualche giorno andremo a riposo vi spedirò ciò che non mi abbisogna…

Cartolina Postale del 25 marzo 1916

Caro babbo, non so se avete ricevuto nessuna mia. Io ho scritto molte volte; appena vi giunge il mio indirizzo rispondetemi. Scrivetemi molto perché desidero di leggere molto. Questa notte sono stato per la prima volta in trincea. Te lo figuri, neh, tuo figlio davanti al nemico di notte mentre infuria la tormenta? eppure ti dico che non ho avuto freddo; e poi per la grandezza d’Italia sapremo sopportare ben altre cose…

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Cartolina Postale del 26 Marzo 1916 dalle terre irredente

Mia cara Vilge, ho già scritto a babbo e mamma ed ora mi rivolgo a te. Io possibilmente vi scriverò ogni giorno, ma non vi dovete allarmare se qualche volta mancherò alla mia promessa perché quando si è in trincea non si ha sempre la possibilità di potere scrivere. Farai intanto tanti saluti a Lola, a Filomena, a Eusebio e digli che faccia dei buoni fuochi e si riscaldi anche per parte mia, specialmente poi a Dario. Saluti a nonno, agli zii, a tutti . Tante cose all’Ada; come sta? cammina ancora? oppure sta sempre a divertirsi, a giocare a tombola? Si ricordi che l’ho sfidata a correre per quando ritorno e adesso mi alleno quassù.
Dopodomani o al più tardi il 29 andremo a riposo…

Cartolina Postale del 27 Marzo 1916 dalla trincea

Cara mamma, ti scrivo dalla trincea a poca distanza dal nemico. La giornata è splendida ed un sole veramente primaverile ci consola un po’. Dinanzi a questa estensione infinita di neve, in mezzo a tanta esuberanza di candidissima luce, su queste eccelse vette, a pochi passi dalle dolomiti mi sento grande; grande come immensa distesa di neve, grande come gli ideali della patria. Giunge di tanto in tanto qualche colpo di cannone, ma gli artiglieri nemici tirano male. Domani è il mio onomastico; attendo per oggi vostre lettere: le attendo ansiosamente; spero che stasera quando torno ai baraccamenti ne troverò…

Cartolina Postale del 28 Marzo 1916 dal fronte

Babbo mio, oggi è il mio onomastico. Come dissi ieri a mamma attendevo lettere ma la posta non è ancora venuta, spero che fra poco giungerà e possa avere qualche cosa di straordinario dagli altri giorni, come per festeggiarlo. D’altra parte ho pensato però anche a festeggiarlo, perché siccome oggi non sono ai posti avanzati ho mandato a prendere dello “champagne” per fare un po’ di festa con gli altri ufficiali della compagnia. Scenderemo a riposo il 31 ed allora vi scriverò lettere, poiché ora non ne ho la possibilità…

Cartolina Postale del 30 Marzo 1916 dal fronte

Cara mamma, ieri non ti ho potuto scrivere perché ebbi molto da fare in trincea. I signori austriaci tirarono i soliti “ta-pum” con i soliti effetti di far ridere molto. Però stanotte nel tornare dalla trincea ho passato qualche momento brutto, causa una orribile tormenta. Ma ora è più nulla. Attendevo da due giorni vostre lettere ma non ho ancora ricevuto nulla. La posta oggi non è ancora giunta; in essa spero che ci sarà qualche cosa. Domani a notte scenderemo a riposo. Allora ti scriverò lunghissime lettere. Quando scrivete, scrivete molto ma molto; ditemi tutto quello che accade costaggiù nella nostra Italia per la quale combattiamo…

Lettera del 31 Marzo 1916 dalle trincee

Caro babbo, oggi mi sono inteso per la prima volta fischiare le palle vicino. Stamane pareva che i signori austriaci l’avessero proprio con me. Mentre stavo ispezionando le vedette mi hanno tirato due fucilate l’una più vicina dell’altra. Non sono stato ad attendere la terza che molto probabilmente avrebbe avuto l’ardire di farmi la pelle; ma mi sono appostato dietro una feritoia ad attendere che l’audace nemico mostrasse la sua testa, per restituirgli quello che mi aveva mandato; ma ho atteso per un’ora inutilmente. Ebbene andrà per un’altra volta. Non ho ancora ricevuto vostre lettere e ciò comincia ad impazientirmi più delle pallottole tedesche. Stanotte scenderemo a riposo. Domani sera vi scriverò una lettera…

Rocco Egidio de Bonis – Una scheggia nel piede

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Una scheggia nel piede

Decima battaglia dell’Isonzo

Rocco Egidio De Bonis racconta combattimenti, assalti, bombardamenti, feriti, morti, orrori a monte Ermada (TS) il 5 giugno 1917

Ferito sul Santa Maria nel settembre del 1915, il sottotenente Rocco Egidio De Bonis trascorre un periodo di convalescenza terminato il quale, guarito e promosso tenente, torna al fronte al comando di una compagnia del 69° fanteria, Brigata Ancona. Con il nuovo reggimento trascorrerà molti mesi relativamente tranquilli in trincea in Vallarsa, in Trentino, finché nel giugno del 1917 arriva sul Carso proprio mentre si scatenano le ultime offensive della Decima battaglia dell’Isonzo. De Bonis viene nuovamente ferito

La nottata è trascorsa tranquilla. Il nemico, che era deciso a puntare su Monfalcone, avrà rinunziato a proseguire nella sua grande offensiva.

Abbiamo riposato un po’ raccolti nelle mantelline, fra i morti austro-ungheresi ed italiani.
All’alba mi reco al Comando del III° Battaglione per invocare il cambio per i miei soldati, che hanno combattuto senza tregua per molte ore, fino all’esaurimento. Il campo della lotta è di uno squallore indescrivibile. La simulacro di sentiero, tutto sconvolto, che conduce al ponte di Duino, è coperto di cadaveri, tanto che non resta spazio per camminare, senza calpestarli. Sono i morti del 69° Fanteria, caduti in fila; stanno come se attendessero l’ordine di sollevarsi per avanzare, ma non si rialzeranno mai più! Fra loro è il …. Tenente Carmelo Gullà che ha le braccia rigide e strette intorno al collo dell’attendente. Questi trasportava al posto di medicazione il superiore che aveva un femore sfracellato, ma una raffica di mitragliatrice li ha entrambi fulminati. Chi lo avrebbe mai predetto, quand’erano sperduti per il mondo che sarebbero caduti abbracciati e con il loro sangue avrebbero bagnata e fatta santa la stessa zolla? Qual orrido spettacolo! Vi sono ancora feriti che chiedono aiuto. La via dolorosa, che può chiamarsi via della morte, ha termine oltre il Debeli Vrh.

Al comando apprendo la morte dell’aiutante maggiore in I a, capitano Pelosi e del tenente Donzelli e mi riferiscono che gli ufficiali feriti sono numerosi. Mi si promette il cambio. Sorbo un bicchiere di cognac ritorno fra i miei fanti.

Nella tregua squallida della mattinata  li guardo questo uomini: sono disfatti dalla stanchezza, dal sonno e di due nottate perdute, dal fuoco continuo e da una giornata di attacchi e contrattacchi. Hanno sguardi febbricitanti, volti pieni di dolore e spaventati, come se si fossero svegliati da un sogno di fantasmi paurosi e sotto l’impressione di un incubo.

L’artiglieria nemica alle 9 ripiglia il fuoco. I nostri rispondono con tiri di controbatteria. Verso le 10 una scheggia di granata mi colpisce al piede destro. Mi medico alla meglio e mi faccio trasportare al posto di medicazione, che è situato nei meandri del ponte di Duino. Nell’interno, che è tutto un labirinto di cunicoli e piccoli corridoi, sono sistemati posti di soccorso di altri reggimenti. Il medico mi presta la sua opera meritoria alla pallida luce di una candela. Egli è il consolatore di tutti, colui che, in zona defilata, al riparo di una roccia , in una caverna, ha il potere di mitigare il male e molte volte allontanare la morte. Missione magnifica, piena di umanità e di amore! Al fianco gli siede il cappellano. Anch’egli nei tristi momenti è il confortatore pietoso; il credente ferito viene animato; il candidato alla morte trova un aiuto nell’intraprendere l’eterno e doloroso viaggio.

Tento di farmi medicare sollecitamente, perché, in quest’ambiente di aria greve e mefitica, mi sento soffocare. Nel continuo viavai di feriti sento gridare, imprecare, chiedere aiuto; fra tanti supplicati ed eretici è uno spettacolo tragico; è una scena infernale con urli e carni maciullate.

E’ un frastuono di voci in tutti i dialetti d’Italia; è un focolaio di piaghe doloranti che ricevono le prime medicature, come la manna celeste, per uscire, poi, da questa specie di laboratorio con le membra e la testa fasciate; e le bende bianchissime hanno un risalto visibile sulle divise e sulle facce terrose. Molti muoiono qui. Quelli che abbisognano di urgenti operazioni, vengono trasportati agli ospedaletti da campo, anche di giorno; i meno gravi e  i leggieri aspettano le ore notturne. Molti feriti alle gambe sono seduti per terra, con le spalle poggiate al muro viscido. Un morto, con un largo squarcio nel petto, ha reclinato il campo, come il Nazareno sulla croce.

Il capitano medico mi visita, mi riscontra una profonda lesione al tallone del piede destro. Procede ad un’accurata disinfezione, mi benda e mi affida ai portaferiti, con l’incarico di trasportarmi fuori dell’officina di Vulcano. Vengo collocato a ridosso del ponte in attesa delle ombre della sera

Traggo e Ringrazio

L’Espresso e Finegil editoriale con

l’Archivio diaristico nazionale

di Pieve Santo Stefano
LA GRANDE GUERRA 1914-1918
I diari raccontano

Paolo Ciotti – Le prime cannonate non si dimenticano

Paolo Ciotti

Le prime cannonate non si dimenticano

Paolo Ciotti racconta bombardamenti, battesimo del fuoco a Ghertele (VI) il 30 maggio 1915

La marcia verso il confine italo-austriaco del 116° fanteria termina la notte del 30 maggio: ufficiali e truppa, dopo aver percorso alcuni chilometri, sono a breve distanza dal nemico.

Arriviamo al Ghertele verso le quattro del mattino. La truppa bivacca vicino a Casare Baitle, proprio sotto al Monte Verena, che spara a fuoco accelerato. Avanti a noi l’azione è sostenuta anche questa volta dalla Brigata Ivrea. Noi siamo di rincalzo e attendiamo gli eventi. Ma come dimenticare quegli istanti? Il rombo del cannone, che sentiamo per la prima volta vicino, mette a tutti – e perché nasconderlo? – brividi di terrore addosso.

Ma l’azione purtroppo non riesce. Scendono dalla linea gruppetti di soldati, e allora è un accorrere dei nostri presso di loro per attingere notizie, le quali sono sempre peggiori e fanno supporre che noi dovremo presto sostituire la truppa in linea. Due disertori austriaci transitano lungo la via, e allora altro accorrere di soldati. Passa pure un tenente del 162° con pochi uomini: Dice che è impossibile avanzare perché il nemico reagisce violentemente col fuoco!

Ludovico Caprara -Le cariche di Pozzuolo

Le cariche di Pozzuolo

Ludovico Caprara racconta paura, combattimenti a Pozzuolo del Friuli (UD) il 30 ottobre 1917

Il reggimento di Ludovico Caprara, Genova Cavalleria, nei giorni della disfatta di Caporetto non si ritira, ma avanza e attacca. A cavallo, caricando i tedeschi e gli austriaci. È la battaglia di Pozzuolo del Friuli del 30 ottobre 1917.  La mattina Genova e l’altro reggimento di cavalleria che carica con lui, Novara, contano quasi mille uomini. La sera sono in meno di cinquecento. Oggi la brigata di cavalleria dell’esercito italiano si chiama Pozzuolo del Friuli e il 30 ottobre è la festa della Cavalleria.

Notte fatale!

Un motociclista si ferma davanti al portone e grida: “Genova…….

Un ordine della 2.a Brigata, niente di straordinario; purtroppo era l’ordine più tragico che mai.

Sveglia generale e all’armi a tutti i reparti. All’alba si inizia la marcia indietro, rifacciamo la stessa strada percorsa pochi giorni prima, a rotta di collo si raggiunge Oderzo, Ponte di Piave e il 26 ottobre siamo di bel nuovo a Pravisdomini dove ci fermiamo per due giorni, cosa è mai successo? Si parla di una forte offensiva austriaca, ma chi può mai pensare a tanta catastrofe.

[…] La sera del 29 ottobre 1917 arrivai a Trivignano, si distribuì la biada ai cavalli. Il Genova al completo era in attesa di ordini, la notte passai vicino al focolare acceso assieme ai compagni dello Stato Maggiore. La tristezza si leggeva in ogni sguardo.

Ecco l’alba, i pochi rimasti di borghesi fuggono all’impazzata, poveri disgraziati non saranno giunti sul Tagliamento che hanno trovato la morte o la prigionia!

“Genova”è sparpagliata nei cortili

L’ordine è arrivato:

Attaccare e sacrificarsi!!

Ci sono diversi cavalli senza cavalieri e ciclisti senza macchine, benissimo! Si monta a cavallo e fra questi anch’io, sono però disarmato e senza speroni. Non so con quale reparto mi intrufolai ma ricordo che era una cavallina che non si fermò mai di trotterellare spossandomi enormemente. Passammo per l’abitato di Lestizza e ora non ricordo più per filo e per segno.

A trotto e galoppo ci disponemmo in una brughiera in prossimità di Pozzuolo del Friuli. Vista la malaparata mi portai verso lo Stato Maggiore. Il caro compagno Marchesini Erasmosi levò uno sperone e me lo diede ma nel mettermelo mi cadde e dovetti scendere da cavallo per raccoglierlo.

Poco distante c’era l’attendente del capitano Montagnani con un cavallo sottomano e con la sciabola appesa alla sella. Me la feci dare e rimontai a cavallo con uno sperone e con la sciabola. I maresciallo dello S.M. Bornati e Montruccoli osservavano la mia triste situazione. Di botto il capitano Montagnani mi apostrofa e mi fa restituire la sciabola al suo attendente, non so con quale criterio poi volle che la sciabola rimanesse appesa ad al povero addosso ad un cavallo sottomano, cioè di riserva.

Il colonnello Bellotti (al comando del reggimento Genova Cavalleria durante la battaglia di Pozzuolo del Friuli, il 29 e 30 ottobre 1917, n.d.r.) che ispezionava le truppe vide le mie vicissitudini e non mi disse nulla. Restai così per poco, reclamando e sorte di Dio. Poco distante era il Generale Emo e avvicinandosi al Genvoa gridò W il Re!

Avanziamo a lento passo in linea spiegata.

Le pattuglie nemiche non saranno che a 100 metri.

Il maresciallo Bornati Vincenzo dello S.M. mi dice di mettermi in coda o magari di fare una galoppata sullo stradone e raggiungere il carreggio dove ci sono delle lance anzi, anzi, mi dice: Se vedi Patron (il conducente della domatrice del colonnello) digli che non si facesse rubare l’involto che ho messo dentro la cassetta della domatrice del colonnello.
Tutto questo avviene mentre alla nostra ala sinistra crepitano le mitragliatrici nemiche. Son preso dal turbine delle evoluzioni, né il cavallo vuole uscire dalle file e né riesco a trattenerlo per portarmi in coda. Un razzo nemico si alza da poche decine di metri. Il nostro squadrone mitraglieri entra in azione in uno sforzo supremo e pieno di rassegnazione grido coi presenti il fatidico “Savoia”

Cosa sia mai avvenuto non lo so dire, perché non lo ricordo? Figlio mio credo che il quadro assurdo mi abbia stordito, ti dico solo quadro orrendo, orrendo. Un crepitio così gremito e un fischiar di proiettili c’era tutt’intorno. Lascio un po’ di spazio se mi ricorderò in appresso.

Il mio cavallo era furibondo, avevo le mani graffiate e sanguinavano anche dalla faccia. Ricordo una galoppata lungo la scarpata mentre si svolgeva l’immane carnaio. Il mio cavallo, immagino ora, probabilmente era facilmente straripato lungo la scarpata che fiancheggiava la strada e non poteva più risalire a causa della ripida scarpata quindi mi trovai a poter osservare che i carreggi a migliaia lungo la strada erano completamente abbandonati perché i conducenti erano chissà dove. Ora ecco un’altra pausa non so niente e per quanto abbia fatto per potermelo ricordare.

Verso l’imbrunire a cavallo, ma col cavallo a passo stanco mi avviavo forse senza meta ma venni a trovarmi nella piazza di Mortegliano. Ivi era gremita di carreggi di tutte le armi e così anche alcuni carro del mio “Genova Cavalleria”.Se non erro il sergente Franzetti mi domandò notizie del Reggimento, notizie che gli diedi esortandolo a fare “dietro front” con i carri perché era inutile inoltrarsi; è bene sapere che sia l’inoltrarsi che con il voltare indietro era cosa assolutamente impossibilissima a causa delle strade ingorgate di migliaia di carri fermi.
Ora mi trovo senza notizia alcuna nei pressi del ponte di S.Vito al Tagliamento.

La scena dei fuggiaschi è indescrivibile, donne, bambini vecchi piangendo e imprecando trasportano le misere masserizie di casa, i soldati sono indifferenti e sembrano ubriachi le strade che conducono al Ponte sono gremite, il ponte, poi, è letteralmente bloccato dalla folla di pazzi in terrore.

Mi allontano perché se ben ricordo mi sembra che andai a scegliere un altro ponte per passare all’altra riva. Mi sembra che mi fermai anche un po’ a riprendere fiato io e il mio cavallo.

Un tremendo scoppio mi fece presagire che il ponte era saltato in aria con tutta la gente sopra, il fiume rigonfio in piena avrà cancellato tutto.

Ora mi ritrovo in una strada quasi silenziosa e non sono più solo, sono assieme al caporal maggiore Dell’Orto di Milano, nel mio stesso Regg.to. Dove mai l’ho incontrato? Marciamo uno dietro l’altro a passo lento e siamo verso sera. In ogni piccolo ponte è minato e i soldati del Genio ci ordinano di scendere e portare i cavalli a mano, cosa che facciamo. A notte alta io e Dell’Orto ci fermiamo nel paese di Morsano al Tagliamento, bussiamo ad una casa facciamo accendere il fuoco, mangiamo polenta rifocilliamo i cavalli e facciamo un pisolino vicino al fuoco. Sono le ore 3 del mattino notte scurissima, decidiamo di ripartire e avvisiamo i padroni che ci hanno ospitato di abbandonare al più presto la loro casa; al loro allarme restiamo indifferenti e ci allontaniamo verso dove? Dell’Orto non so più dove mi abbia accompagnato perché ora non ricordo altro. Conoscevo benissimo le strade e al mattino del 31 ottobre 1917 mi trovai seduto sull’orlo della strada a qualche chilometro da Pravisdomini. Ero così malconcio e stanco e fui attratto da scalpitio di cavalli, mi voltai, mi alzai e vidi con sorpresa il Colonnello Bellotti di “Genova”, lo stendardo del Reggimento e poche decine di soldati di Genova Cavalleria; io li guardai fissi, mi rivolse qualche parola che non capii e lessi in tutti gli sguardi con sgomento indescrivibile, sgomento della sconfitta non di “Genova” ma del disastroso ripiegamento dell’esercito italiano.

Eccomi col resto del Reggimento negli stessi locali e nello stesso paese ove eravamo partiti al completo, eravamo partiti al pomeriggio del 26 ottobre, 5 giorni prima!

Al nostro arrivo a Pravisdomini si intensificano le emigrazioni verso l’interno, il parroco come una papera e tutto giulivo consiglia ai suoi fedeli di fare fagotto, man mano che passano soldati di cavalleria li fermiamo e radunati così eccomi di nuovo a cavallo assieme ai resti di 4 Reggimenti 4°, 5°, 13° e 20°, verso Pordenone.

Giuseppe Lucarelli – Si è sparato a un ginocchio

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Si è sparato a un ginocchio

Giuseppe Lucarelli racconta autolesionismo a Saletto (UD) il 9 luglio 1915

9 luglio. Alle 5 suona la sveglia. Dopo pochi minuti udiamo in vicinanza un colpo di fucile. Accorriamo verso il punto della detonazione e troviamo il soldato di sentinella al parco seduto su di un carro che si lamentava non poco. Il fucile giaceva per terra e la baionetta tolta da questo, abbandonata più lungi. La canna del fucile è calda ancora. È il Sold. Bisceglia Felice; ha il ginocchio forato dalla pallottola del proprio fucile. Sottoposto il Bisceglia ad un interrogatorio e tenuto anche conto del carattere stravagante, risulta essersi egli ferito per esimersi dal servizio militare. Venne tosto trasportato all’ospedale di Saletto.

Otello Ferri – Si mangia con appetito, di fronte ai cadaveri

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Si mangia con appetito, di fronte ai cadaveri

Otello Ferri racconta bombardamenti, morti, feriti, cibo, orrori, vita in trincea a San Floriano del Collio (GO) il 21 aprile 1916

Una serata piacevole, con musica di organetto, è appena trascorsa a San Floriano del Collio in provincia di Gorizia, dove sono dislocati i pezzi di artiglieria ai quali è addetto anche Otello Ferri.

21 aprile 1916

L’ allegria della sera fu scontata dalla nera giornata del 21. Alla mattina, ben si capiva che eravamo in Aprile per il sonno che ci tratteneva a rimanere coricati, ma questo veniva subito annullato quando qualche fischio si faceva udire vicino a noi. Il tenente Rizzo mi ordinò di fare i coperchi per i fornelli della cucina e il porta mestoli. Presi due asce e cominciai a segare, il rumore prodotto dalla sega non mi fece sentire il sibilo di un proiettile in arrivo, ma sentì bene lo scoppio che fu fortissimo, in un momento fummo circondati dal fumo. Per prudenza lasciai tutto e andai in grotta. Era scoppiata a pochissimi metri da me, ne arrivarono parecchie altre con lo scopo di rompere la strada per intralciare il traffico dei carri e camion, che in gran quantità venivano alla notte per portare legname, munizioni, viveri, ecc… Sembrava tutto spento e calmo, volli andare al buco dove era caduta la granata per vedere se trovavo qualcosa; proprio mentre raspavo per terra, ecco che di nuovo un diavolo fischiava in aria e il suo ruggito rabbioso cresceva più si avvicinava a terra.

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Un drachen balloon, 1917 (fondo Arturo Busto)

Per me era inutile fuggire, rimasi in quel posto con rassegnazione, ma la fortuna ancora una volta mi fu alleata, ma non lo fu per certi altri poveri ragazzi. Difatti il grosso obice cadde proprio sopra al baraccone ove vi erano dentro più di un centinaio di soldati. Per metà il baraccone crollò seppellendo parecchi feriti che non erano riusciti a fuggire. Dopo poco vedemmo parecchie coppie di soldati portare fuori i primi morti e feriti, quest’ultimi venivano portati al posto di medicazione in una baracca distante 60 metri. La disdetta ancora non era appagata, un altro fischio e scoppio si fecero sentire, cadendo ove i feriti si medicavano; un saldato che era andato a vedere questi e che se ne stava con la gavetta in mano, fu lanciato con nostro raccapriccio a 10 metri di altezza, ricadendo a terra come uno straccio, rimase ucciso sul colpo. Intanto la pasta in acqua era pronta, carne non si poteva mangiare a causa della vigilia. Incredibile raccontarlo ai borghesi ignari della guerra, ma si mangiò con appetito, anche se questo se ne andava ogni qual volta si rivolgeva lo sguardo ai cadaveri, distesi sui sassi con la faccia coperta da sacchi, e con i vestiti strappati da dove ancora sortiva il sangue fumante. La prima granata cadde dove Amedeo dormiva quando era qua. La seconda per poco non offese il mio nuovo compagno Betti, che più tardi venne a trovarmi, raccontandomi la brutta sorpresa toccatagli, di essersi trovato all’atto dello scoppio con un uscio sul groppone. Più tardi ci lasciammo, mentre i Drachen Ballon si abbassavano in lontananza, scomparendo dietro le prime alture di sbarramento del Friuli. Dopo aver avvisato la sentinella che mi svegliasse alle 3.00, mi coricai assieme ai miei tre compagni di casa. G. Brutto.

Gino Ricceri – Carissima madre

"Carissima madre, ancora mi trovo vivo"

Cesare, detto Gino, Ricceri racconta paura, morti, combattimenti, mamma, famiglia a Porte del Pasubio il 4 luglio 1916

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Carissima Madre
Con molta impressione ti scrivo queste due righe per farti sapere che ancora mi trovo vivo per buona fortuna ed in ottimo stato di salute. Cara Madre vengo ad annunziarti che ieri giorno 3 dopo un gran bombardamento alle ore 11 precise abbiamo iniziato l’avanzata che dopo un breve scambio di fucilate ci anno fatti andare all’assalto non puoi credere in quel momento il mio cuore cosa mi faceva. Dunque andati all’assalto abbiamo fatto diversi prigionieri quattro mitragliatrici ed altro materiale da guerra. Cara Madre non ò potuto fare a meno di non piangere quando ò veduto quei bei giovani che come me si trovano in queste brutte condizioni più inpressione e stata quella nel vedere gran numero di feriti e anche diversi morti dove senza avvedersene a qualcuno passavamo di sopra più lamenti che facevano straziare il cuore nel vedere tante giovani vite così massacrate. Cara Madre mi sono di già visto perso perché ancora non si parla di cambio e nel medesimo tempo sono spesse volte che me la sono cavata a pulito. Come ti annunziavo in una mia antecedente che avevo avuto notizie da Riccardo e che tutto ti dicevo quanto esso mi mandava a dire ed io subito gli risposi ed attendo nuovamente da lui risposta per sapere come si trova più quando tu mi rispondi anche tu fammi sapere notizie in proposito di lui. Cara Madre credi che qua su questi altissimi monti ancora perdura la sete e la fame e per buona fortuna il giorno tre abbiamo potuto mangiare qualche scatoletta dei viveri dagli Austriaci lasciati.
Altro non mi prolungo con la speranza di tornare tra voi salvo o prima o dopo. Cesso di scrivere perché ancora non sono tornato nel mio primiero stato con queste impressioni.
Saluta tutti chi ti domanda di me saluta tanto le sorelle più ricevi i più cari ed affettuosi saluti tuo figlio Gino

Gino Frontali–Una bomba fra due uomini

Una bomba tra due uomini

Gino Frontali racconta bombardamenti, feriti, morti, orrori a Ponte del Pissandolo (BL) il luglio 1915

Il sottotenente medico Gino Frontali descrive un bombardamento e gli effetti che provoca.

Lo scoppio era lacerante come un grido di ferocia sovrumana e dava una certa emozione a carattere viscerale. La ventata di uno di questi scoppi fu sufficiente a gettare a terra Frattari, il mio caporale di sanità mentre discorreva in piedi con me seduto.
Le prime vittime furono due portatori di filo spinato, che trasportavano a spalla il rotolo infilato sopra un paletto. Il proiettile doveva essere scoppiato fra l’uno e l’altro perché aveva asportato la parte posteriore del cranio scucchiaiandone buona parte del cervello a quello che stava davanti e la faccia, un braccio e una gamba a quello che stava  di dietro. Ambidue erano anneriti come da fuligine e agitavano i loro corpi moribondi in un viscidume vermiglio. D’allora in poi il mio lavoro subì delle recrudescenze ad ogni colpo che cadeva in pieno sulla nostra truppa naturalmente priva di ricoveri blindati. Consumavo in poche ore le mie riserve di medicatura e rimanevo un po’ stordito dalle grida dei feriti che s’affollavano impazienti davanti al posto di medicazione. Medicai anche qualche artigliere ferito leggermente da schegge di rimbalzo. Perché il medico degli artiglieri se ne stava a S. Stefano ed arrivava in automobile, chiamato per telefono, invariabilmente quando i suoi feriti erano già medicati.

Nicola Simone – Mezzo quintale di patate

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Nicola Simone

Mezzo quintale di patate

Nicola Simone racconta prigionia, fame, cibo, torture a Samorin, Slovacchia il 29 aprile 1918

Catturato sulla Bainsizza durante la disfatta di Caporetto, Nicola Simone viene condotto al campo di concentramento di Somorja, l’attuale Šamorín in Slovacchia. I controlli sui prigionieri sono blandi e la fuga sembra possibile.

Il 29 aprile mi venne in mente di scappare anche dal campo a rischio d’essere sparato dalle sentinelle, presi per compagnia un giovane romano guardia di finanza per essere compagno di ventura ma questo mi portò poca fortuna, non era tanto esperto come volevo io, ma intanto ci spingemmo e si scappò via di sotto ai fili spinosi.
Di quei tempi uomini per poter lavorare le campagne non c’erano, facevano tutto le donne e qualche vecchio ed il resto si trovavano tutti in guerra, quando si vedeva un giovane come noi che eravamo prigionieri dissutili… Così ci capitò sottocchio un paesello disperso in quelle rupe ci fermammo per cominciare a guadagnare qualcosa da mettere sotto i denti. Infatti dopo poche case ci affacciammo a domandare da mangiare, oppure lavoro, si affacciò subito una signorina sulla ventina aveva i genitori ma erano vecchi decrepiti, faceva tutto lei in quanto ai lavori di campagna, così come ci vide si allegrò tanto che ci fece entrare nella sua abitazione, ci ospitò con tanta accoglienza con mangiare e fuoco da riscaldarci perché faceva ancora freddo; dopo che si finì di mangiare allora ci portò alla sua campagna per farci scavare le patate, noi cacciavamo le patate e lei se li trascinava a casa; in un batter d’occhio si sentì una diceria che erano arrivati i Gent’armi in quel villaggio; la signorina sparì e non si fece più vedere presso di noi; ci vedemmo disorientato in quel momento, non si lavorò più, anzi, quando più si faceva notte, i civili tutti venivano ad avvisarci: scappate viache sono arrivati i gent’armi, ma dove scappare? nelle campagne vicine? Non ci conviene allontanarci dopo aver lavorato tutto il giorno; lasciammo le vanghe e andammo alla casa della signorina, la cercammo in casa sua ma non c’era; stavano soltanto i due vecchi ma loro non sapevano dove era andata la figlia, ci sedemmo dietro la porta aspettando che si ritirasse: niente. Si seppe dagli altri che qualche agricoltore che li bisognasse aiuto di uomini si doveva fare domanda al governo per avere uno o due prigionieri, perché voleva sapere chi e quando ne avesse in consegna con Documenti; questo non c’era e (la Signorina) se la diede a nascondersi non sappiamo dove, così passammo il tempo dietro alla casa quando ad un tratto si vide arrivare un gent’armi di quello: scalzo, senza giacca, senza berretto, che sembrava uno scugnizzo, portava in mano una piccola bacchetta – quello fu mandato da persone che non vogliono farsi i fatti loro –, ci intimò di parlare russo, non sapevamo rispondere, ci parlò ungherese, peggio; il tedesco, niente, alla fine ci dichiarammo italiani e allora c’intimò di seguirlo assieme. Allora mi messi a rapporto dicendo: noi siamo stati a lavorare alla padrona di questa casa e ci spetta la paga. Ci rispose: "Bene, me la vedo io…", si prese il numero di casa e ci portò via in una casa privata che la dovevamo stare tre giorni; in questo frattempo dovevano andare esplorando e raccogliendo di tutti i prigionieri che potevano [tutti i fuggiaschi che erano scappati dal concentramento]. La sera, tanto fece la spia, fin quando la signorina tornò, allora il gendarme venne da me e mi portò da Lei che alla nostra presenza non poteva dire che non ci conosceva, così ci pagò tutto a patate e ci diede più di mezzo quintale da poter mangiare in questi tre giorni che dovevamo stare in quella casa.
In quel stesso giorno il mio compagno, cioè il finanziere, mi lasciò quel po’ di roba che possedeva volle tentare la fuga e male gli venne: se ne andò, ma nell’uscire dal paese fu visto da spie che avevano i gent’armi; questi riferirono subito a questi insegnando anche la strada che lui prese. Non fece in tempo a prendere la macchia del bosco vicino che fu preso. Non parlo di come lo consarono…

Giovan Battista Garattini – Torturati e uccisi dagli austriaci

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Giovan Battista Garattini

Torturati e uccisi dagli austriaci

Giovan Battista Garattini racconta prigionia, fame, freddo, cibo, pidocchi, morti, nemici, odio, torture a Marchtrenk, Austria il novembre 1917

Giovan Battista Garattini è prigioniero a Marchtrenk, in Austria. Dopo un primo periodo trascorso come attendente di un ufficiale nel campo di concentramento riservato ai graduati, viene trasferito in quello destinato alla truppa, nel quale le condizioni di vita risultano ancor peggiori. Garattini descrive le violenze e le privazioni che subiscono i soldati italiani. 

Ricoverati in luride baracche, parecchie delle quali sconnesse, tanto che dalle fessure vi entrava il gelido vento di quei  luoghi e la pioggia, su quella paglia polverizzata e completamente infettata da parassiti, parecchi infelici dai volti emaciati, con corpo scheletrito od enfio, colle stimmate proprie e terribili della fame, privi ormai di quella poca forza che sarebbe bastata loro per rizzarsi, stavano sdraiati coll’abbandono proprio dei morituri, volgendo attorno lo sguardo ebete, cogli occhi socchiusi ai quali la vita sembrava ormai mancare.
Di quei disgraziati, (ridotti in tali condizioni, dopo solo un mese di prigionia) ve n’era già una forte percentuale. Gli altri, quelli a cui ancora bastava la forza di camminare, la più parte cogli abiti a brandelli, colla mantellina e col cappotto bucati, o semplicemente con un pezzo di coperta sulle spalle, colle scarpe rotte, oppure privi di scarpe e coi piedi fasciati da cenci, luridi, intirizziti dal freddo, cogli occhi infossati, gironzolavano tra quei ricoveri, dai quali usciva un fetore insopportabile, dando l’impressione triste di scorgere in ognuno  di loro l’allegoria della miseria più squallida e della fame più terribile! Era, né più né meno, che una caterva di infelici condannati a languire e morire di stenti!
E quella scena sommamente triste, sotto un cielo plumbeo, fra il soffiare del vento che intirizziva, su di un terreno coperto di ghiaccio.
A quegli infelici, la fame, indubbiamente, aveva tolto il senno, e lo si poteva arguire dalle azioni inconsulte che commettevano. Era uno spettacolo straziante vedere uomini sui vent’anni , camminare curvi alla ricerca di erba e di radici, sulle quali si precipitavano per arrivare prima di un compagno vicino, estirparle e portarsele alla bocca, senza nemmeno curarsi di una sommaria lavatura, ed ingoiarle!
Questa lugubre scena si ripeteva ormai con tale frequenza, che, cosa indescrivibile  ma purtroppo vera, il Comando del Campo, per evitare che si rovinasse oltre il terreno, già tutto a buche e fossette, ordinò ai sorveglianti di impedire che continuasse?! E così  quei selvaggi colla soddisfazione di aver trovato un pretesto nuovo per sfogare liberamente il loro odio, giravano col nervo in mano in cerca di qualche prigioniero, intento ad estirpare  erbe per percuoterlo senza pietà e godere nel vederlo contorcersi!
In qualunque ora, poi, si potevano vedere dei prigionieri intenti a levare dalla cassa delle immondizie, posta fuori della cucina, le bucce delle rape e qualsiasi altro rifiuto che, dopo aver semplicemente strofinato sui pantaloni, masticavano con voluttà pazza. Alcuni, più arditi attendevano il carrello della spesa (che correva su binari a scartamento ridotto) in località adatta all’assalto, ed appena giungeva, carico di rape fradicie e di qualche kilogramma di patate annerite, il tutto in ragione di qualche decina di grammi per convivente, si lanciavano su di esso, non curandosi della scorta di austriaci, armati dell’indivisibile nervo, che menavano a destra e a sinistra come forsennati.
Questi nervi, della lunghezza di circa un metro, grossi all’impugnatura come un bastone comune e terminanti a punta, saranno per i reduci della prigionia, il simbolo e lo sprone dell’odio eterno contro i loro aguzzini, che senza ombra di umanità, usavano per un nonnulla, anzi a solo scopo di vendetta e per sfogare il loro odio selvaggio.
Vidi un sergente austriaco nel bagno del campo. Al quale era addetto, percuotere incredibilmente, dei disgraziati nudi e per quella canaglia, il contorcersi di quegli infelici, sotto quelle percosse, mentre avrebbe fatto sudar freddo per lo sdegno contro quell’aguzzino, ogni animo appena sensibile, era motivo di gioia. E’ incredibile, ma vero, il fatto che svegliandoci al mattino ci accadeva di trovarci vicino ad un cadavere, mentre a pochi passi, magari un altro agonizzante!
Quanti miseri al mattino si sollevavano dal giaciglio per chiedere visita medica, facendosi segnare sulla lista degli ammalati e morivano più lentamente, senza un lamento, quietamente come se si addormentassero, prima dell’ora di recarsi a subirla! E poi, a che giovava essere ricoverati all’ospedale, quando non esistevano medicine ed il vitto era uguale a quello che veniva distribuito in baracca?
Chi crederebbe che agli ammalati si dava da mangiare, come a noi, i rifiuti delle barbabietole Da zucchero, oppure rape a pezzi colle bucce ancora infangate e bollite semplicemente nell’acqua senza condimento e spesse volte senza neppure il sale? Chi crederebbe che gli ammalati stessi, recinto dell’ospedale gironzolavano in carca di radici d’erba? Chi crederebbe che i falegnami, addetti al campo, non facevano in tempo a costruire le casse da morto? Chi crederebbe che dalle baracche, tutte le mattine uscivano dei cadaveri? E chi mai potrebbe lontanamente immaginarsi il nostro stato d’animo, nell’assistere a tutte quelle scene, mentre si soffriva un languore impressionante allo stomaco, mentre si sentivano venir meno le forze e si prevedeva la nostra fine simile a quella, più o meno vicina, a colla sicurezza terribile compendiata nell’adagio implacabile: ”Oggi a me, domani a te!”? una notte, un infelice ridotto agli estremi, coi piedi congelati e ravvolti in cenci, dovendo necessariamente uscire dalla baracca, faceva sforzi inauditi per trascinarsi, ma fu costretto ad abbandonarsi al suolo a pochi passi dalla porta, rimanendo esausto nella neve, battendo i denti dal freddo intenso e gemendo continuamente con voce fioca. Ma i suoi lamenti non vennero uditi e chi li intese non vi fece caso, poiché in quelle tane, l’udire dei lamenti, non era cosa nuova , e poi, chi più, chi meno, erano tutti in condizioni pietose. Dopo qualche ora, due militari austriaci, piuttosto anziani, adibiti quali pompieri del concentramento e comandati quella notte, di vigilare nell’eventualità di incendi, ispezionando il campo, passarono davanti alla baracca e scorsero il disgraziato che, ormai assiderato, non aveva più nemmeno la forza di lamentarsi. In men che non si dica, i due bruti, dopo aver ingiunto bruscamente al poverino di alzarsi e ritornare in baracca, non ottenendo risposta si scagliarono su di lui malmenandolo e percuotendolo finché  trascendendo sempre più, imbestialiti come iene, finirono coll’ammazzarlo con un colpo di picconcino alla testa…!! Non aggiungo commenti, perché guasterebbero!….L’indomani venne inscenata dal Comando di Concentramento, una specie di inchiesta; gli assassini subirono una specie di interrogatorio… e tutto finì in breve, com’era da prevedersi…! Purtroppo è storia, e cito nomi di compagni che potranno testimoniare: Sergente di Artiglieria da Fortezza Perosa Guglielmo, da Latisana, caduto prigioniero sul Forte di Monte Festa – Caporale Varisco Andrea, del 35° Fanteria, da Milano (credo abiti in via Paolo Sarpi. Il numero non lo ricordo)- Sergenti dei Bersaglieri Fiordigiglio Vincenzo, da Roma-Sergente Manservigi Francesco del 35° Fanteria, da Bologna-;degli altri non rammento i nomi, ma tutti i prigionieri presenti al Concentramento in quell’epoca (credo sui primi di Febbraio)  si ricorderanno indubbiamente quel triste fatto.