Luigi Sacconi

LUIGI SACCONI

Luigi Sacconi, nato il 28 febbraio 1911 a S. Croce sull’Arno, e professore ordinario f. r., di Chimica generale ed inorganica presso l’Università di Firenze. Fa parte del Partito Comunista Italiano dal 1937. Editore e redattore della « Unità » clandestina, uscita prima del 25 luglio 1943, durante la lotta di Liberazione è membro del Comitato clandestino di Agit-Prop, della redazione dell’« Azione Comunista », dell’« Unità », del « Combattente », oltre che gappista e membro del Comando Regionale delle Brigate Garibaldi. Primo responsabile dell’Agit-Prop federale dopo la Liberazione, quindi Condirettore del quotidiano del C.T.L.N. « La Nazione del Popolo » fino alla sua cessazione nel luglio 1947. Presidente dei Partigiani della Pace di Firenze. Membro del Comitato Provinciale dell’A.N.P.I. Accademico dei Lincei e socio di numerose altre Accademie. Fondatore e Direttore dell’Istituto per lo Studio della Stereochimica ed Energetica dei Composti di Coordinazione del CNR. Ha ricevuto numerose onorificenze e riconoscimenti scientifici.

bandierarossa

Nella modesta libreria di casa nostra era ben in evidenza un fascicolo di cui mio padre e tutti noi di casa andavamo profondamente orgogliosi: era una copia degli « Elenchi di opere la cui pubblicazione, diffusione o ristampa nel regno è stata vietata dal Ministero della Cultura Popolare », stampato a Roma nel 1940-XVIII da parte del Ministero dell’Educazione Nazionale. Esso, a pag. 39, accanto al nome in maiuscolo dell’autore, SACCONI Giuseppe, riportava gli estremi, titolo, tipografia, etc. di un opuscolo in cui quel temerario di mio padre denunciava pubblicamente le malefatte di due alti papaveri fascisti che venivano sfidati a dare querela.

Comincio da questo ricordo familiare perché oggi, coll’esperienza e la sensibilità di un adulto, è naturale che io riconosca quanto importanti siano stati per la mia formazione morale e politica le prime esperienze giovanili e l’educazione ricevuta in famiglia dai miei genitori, in primis dal mio babbo.

Mio padre, che proveniva da un’importante famiglia cattolica marchigiana, aveva compiuto per conto proprio il « gran salto », divenendo laico e socialista (« Tu sei la vergogna di Casa Sacconi » gli diceva un suo zio, il Cardinal Decano Carlo Sacconi). Chiamato ai primi del secolo dall’amministrazione « rossa » del Comune di S. Croce sull’Arno come maestro e poi Direttore didattico presso le Scuole Comunali, vi lasciava un ricordo di probità e dirittura morale che non si è ancora spento.

Alla mia nascita, nel 1911, egli non mi battezzò, come l’uso generale imponeva. Egli affermava di aver voluto agire così per rispetto al figliolo che, quando avesse raggiunto l’età della ragione, sarebbe stato libero di iscriversi a qualsivoglia religione.

Per rievocare le mie esperienze più antiche e più importanti (oggi si direbbe emblematiche), debbo cominciare dal 1919. Dicono, che invecchiando, la memoria diventa « ipermetrope » e deve essere vero, considerata la nitidezza di certi ricordi della mia infanzia.

Un fatto che ricordo chiaramente furono i moti per il caro-vita del luglio 1919. Tutte le botteghe del paese furono costrette, da un moto spontaneo delle « masse », a vendere le merci collo sconto del 50%. L’opinione pubblica, a quell’epoca, non vedeva di buon occhio i bottegai, piccoli « pescecani », arricchitisi a spese del popolo ed alle spalle dei combattenti. Purtuttavia mio padre proibì a tutti di casa di fare acquisti nei negozi a quelle condizioni. Più tardi ho capito quanta ragione avesse il mio babbo che riteneva moralmente disonesta e politicamente sbagliata quella campagna « spontanea » così apprezzata da Bombacci, da Mussolini e incoraggiata dai giornali borghesi.

Alcuni mesi dopo (il mio « marcatempo » mi ricorda che frequentavo la quarta elementare, quindi era il 1920) dalla piazza del paese dove era la nostra abitazione, osservavo coll’interesse proprio di un ragazzo il passaggio di una colonna di Guardie Regie, colle mostrine cremisi ed i loro bravi moschetti. Dal. gruppo di cittadini che stazionavano sulla piazza e nel corso si levarono le prime contumelie: « Carnaccia venduta! … » e simili. Quelli del primo camion non rilevarono le offese ed il camion proseguì la sua corsa; così fecero il secondo ed il terzo autocarro. Ma il quarto, sotto quella pioggia di cocenti epiteti, si fermò, ed i militi, scesi a terra, si misero a colpire i presenti, colpevoli o innocenti, coi calci dei fucili. Ricordo sempre un anziano e pacifico santacrocese che zoppicò per mesi, con una rotula rotta.

Un altro ricordo nitidissimo è legato alla data del 21 luglio 1921. Ero tornato in famiglia per le ferie estive (frequentavo il ginnasio di Pontedera) ed insieme a mia madre, nel primo pomeriggio di quella calda giornata estiva, costeggiavo il lato esterno della chiesa collegiata dove erano esposti i quadri del programma del cinema del paese. Non ricordo lo scopo di quella uscita pomeridiana. Ricordo benissimo che una conoscente, con accento preoccupato, fece, rivolta a mia madre: « O sora Adele, ha sentito cos’è successo a Sarzana? ». Era la prima volta che sentivo nominare quella città. Da mesi lo squadrismo si era scatenato in Toscana e quella notizia portava con se allarme e paura. Quando sono stato più grande ho capito che quella era la reazione di una donna del popolo, colpita sì da quel fatto di sangue, ma che aveva la speranza che l’esempio di fermezza di quel tenente dei carabinieri dal cognome tedesco convincesse quei vigliacchi o complici del governo a prendere le facilissime misure contro lo squadrismo.

Un altro episodio che si è indelebilmente stampato nella mia memoria avvenne nella tarda estate del 1922. Insieme a mio padre, come di consueto, mi trovavo nella Farmacia del paese, situata in piazza, proprio vicino al portone di casa nostra. All’interno vi era Quirino Vanni, cugino del farmacista e « capo » degli squadristi di S. Croce. Era reduce dalla « spedizione punitiva » che aveva messo a ferro e fuoco Livorno, nell’agosto precedente, e, sull’onda delle impressioni personali, diceva: « …Ma il più bello è coglierli a letto, nel sonno, e dargli una stilettata nella gola: fanno una smorfia, stralunano gli occhi e rimangono lì stecchiti ». Mio padre mi trascinò via con raccapriccio.

Riporto questi ricordi, ripeto, perché essi mi sono impressi indelebilmente nella memoria di me, ragazzo ovviamente non interessato particolarmente alla politica. In casa, è vero, circolavano i quotidiani acquistati da mio padre: l’« Avanti » ed il « Mondo » quello di Cianca, ma io vi leggevo le notizie sportive; il trionfo di Girardengo, dopo otto vittorie di tappa, nel Giro d’Italia del 1921; la vittoria di Brunero nel Giro del 1922, assente il « Campionissimo », vi apprendevo i nomi dei giganti del Tour, come Thys, Buisse, i fratelli Pelissier, etc. Ma anche Salgari, come è ovvio, assorbiva gran parte del mio interesse.

Infine ai primi di Novembre del 1922 (ero a casa per le ferie, prima di ricominciare la terza ginnasio), dopo i giorni di pioggia dirotta che avevano forzato le camicie nere del luogo a bivaccare al riparo delle grondaie prima di « marciare » su Roma, assistetti al trionfo fascista, nella piazza principale del Paese. Nel palco, proprio sotto le finestre di casa nostra, fra una selva di bandiere e di gagliardetti, avevano preso posto i « maggiorenti » del Fascio locale, il Centurione (o Console) Quirino, col fratello Rino, futuro Podestà, il Nistri collo scudiero « Pacchero »; etc. Tutti i lavoratori del paese, incolonnati tre per tre, dovevano sfilare davanti al palco. Quello che mi colpì fu che, all’imbocco della piazza, prima di entrarvi, tutti quei cittadini, fra i quali certamente gli eroi che avevano vuotato i negozi comprando a metà prezzo dai proprietari impauriti, quelli che se l’erano presa stupidamente con i poveri « cafoni » irreggimentati fra le guardie regie, alzavano il braccio nel saluto romano ed in quella posizione percorrevano in circolo tutta la piazza, sfilavano sotto il palco, davanti ai vincitori e, sempre a braccio teso, giravano a destra e si allontanavano dalla parte di Castelfranco.

La morale amara di quegli anni la tirava mio padre: « Il massimalismo è stato il babbo del fascismo » diceva. Mio padre era un riformista forse più « a destra » di Turati. Negli anni ’19-20, ad esempio, gli sembrava ovvio che i socialisti partecipassero al governo per fare quelle riforme che la borghesia impaurita avrebbe concesso, e poi, nel ’21-22, dessero la fiducia a qualsiasi governo purché garantisse di mettere fuori legge le squadracce fasciste. Egli condannava come folle e suicida la politica del « soli contro tutti », dell’opposizione preconcetta consistente, (per adoperare la sferzante profezia di Mussolini) « nel nullismo fuori e nella cagnara dentro il Parlamento ». Quella politica capace solo di spaventare la borghesia ed anche i benpensanti, (la maggioranza silenziosa, diremmo oggi) e di provocare, proprio grazie al passivo favore di quest’ultima, quella « controrivoluzione preventiva » che in effetti si realizzò. Ma quella era una politica basata sul buon senso, che neppure Turati, Treves, etc. ebbero il coraggio di praticare « perché », dicevano « le masse non li avrebbero seguiti », e poi perché « la liquidazione della guerra doveva essere fatta da coloro che l’hanno voluta ».

A Firenze, dove ci trasferimmo nel 1924, mio padre faceva parte della cerchia dei Professori Mariotti (il vecchio), Bruni, etc., coi quali si incontrava spesso al Caffè delle Giubbe Rosse. Proprio davanti a quel Caffè fu aggredito due volte dai fascisti nel 1925 perché « pericoloso sovversivo ». Imprigionato alle Murate nel luglio di quell’anno, sfuggì agli eccidi dell’ottobre (il nostro appartamento venne visitato proprio una di quelle notti) riparando con tutta la famiglia a Empoli, presso il Prof. Fucini.

Così, pur senza ricevere nessun esplicito imbonimento politico, si formarono spontaneamente in me quelle corrette convinzioni morali e politiche che mi sono state sempre di guida nella vita.

Quando, dopo il conseguimento della maturità classica, nel 1928 intrapresi gli studi universitari, mi si presentò lo scoglio dell’iscrizione al G.U.F. Tale iscrizione non era obbligatoria, ma il clima di intimidazione e di conformismo era irresistibile. Provate un pò a chiedere in giro, ai vecchi laureati, chi di loro non fu iscritto al GUF e ascoltate le risposte: « Ma erano iscritti tutti », sarà il leit-motiv. E ciò è verissimo. Io personalmente non ho mai conosciuto nessuno fra gli universitari, che non indossasse la camicia nera colle spalline azzurre degli iscritti ai Gruppi Universitari Fascisti. Poi venne la norma che rendeva obbligatorio indossare la camicia nera per poter sostenere gli esami universitari, ed io non l’avevo… Per le firme mandavo dai professori mia madre, adducendo una mia malattia. Ancora più difficile era frequentare le esercitazioni, stando a diretto contatto coi compagni di corso, tutti iscritti, naturalmente. Il laboratorio di chimica qualitativa, ad esempio, lo frequentai dal Dott. Casati, al laboratorio provinciale d’igiene, in Via del Parioncino. In definitiva impiegai dodici anni, invece dei prescritti quattro (ora sono cinque) per laurearmi in Chimica. Ma oggi posso ricordare, non oso dire con orgoglio, ma se mi permettete, con intimo compiacimento, che non indossai mai la camicia nera né mi feci imbrancare nelle adunate oceaniche per osannare il duce ed i suoi discorsi. E se è pur vero che tanti giovani, poi dimostratisi ottimi antifascisti, furono iscritti al G.U.F. e spesso gareggiarono in camicia nera nei Littoriali (fece questo perfino un figlio del martire Amendola … ) io posso sommessamente affermare che chi resistette nel rifugio si comportò meglio. Non parlo poi di tanti Maestri di allora, come i Professori Calamandrei, Einaudi, etc. che giurarono tranquillamente fedeltà al regime (il secondo anche come accademico dei Lincei) e di tutti gli altri uomini di cultura che collaborarono al Bargello, Primato, il Riccio, l’Universale, il Selvaggio, etc. facendo spesso la cosiddetta fronda che consisteva spesso, in sostanza, nell’invocare il ritorno del « santo manganello ». Più tardi ho letto con commozione alcune righe scritte (la Salvemini: « Chi in Italia, per anni, non cedè mai deve essere ricordato con riconoscenza ed ammirazione maggiore di chi emigrò ».

Ben presto cominciai a « sentire » che quella linea di condotta non era sufficiente. Mi rendevo conto che continuare a resistere passivamente al fascismo, sia pure al prezzo della radiazione dalla vita attiva, mentre il favore verso il regime, vittorioso in Abissinia, era ormai generale, non bastava. Bisognava fare qualcosa di positivo ed unirsi a quel piccolo esercito di antifascisti più attivi e decisi che erano appunto i comunisti.

Era il 1937 ed io frequentavo la casa di un’amica di famiglia, ostetrica in Via Gioberti, dove potevo ascoltare le trasmissioni di Radio Mosca e di Radio Barcellona che davano anche le notizie sulla guerra di Spagna. Là conobbi uno del Partito che era appunto a caccia di nuovi adepti per il Partito Comunista. Si chiamava Mario Gorini, e lavorava in un calzaturificio. Dopo i primi cauti approcci ci incontrammo più volte. Da lui ricevetti « Il Manifesto dei Comunisti » di Marx ed Engels, riprodotto nel volume di Antonio Labriola « Discorrendo il Socialismo e di Filosofia » Editore Laterza. Seppi poi che quel libro, procacciato da Corsi e Montelatici, circolava fra i nuovi compagni.

Ben presto Mario mi presentò ad un altro studente universitario, Paolo Tincolini, che completò la cellula. Facevamo regolari riunioni con ovvia circospezione perché l’OVRA era ben funzionante e le riunioni in locali pubblici, come bar, caffè, etc. erano impensabili. Ci trovavamo allora in località periferiche, come Careggi, Trespiano, etc, e discutevamo la situazione politica, anche alla luce di quanto filtrava attraverso le radio clandestine, i periodici specializzati come « Relazioni Internazionali », etc. Affinché i giovani d’oggi capiscano quanto scarsa fosse la libertà che si poteva godere sotto il « bonario » regime fascista, posso ricordare alcuni titoli dei libri che circolavano fra noi in gran segreto, e che erano altamente clandestini: « Il Tallone di ferro », di Jack London, « A l’ouest rien de nouveau »,di Remarque (non tradotto in italiano), insieme ai più dichiaratamente « sovversivi » come « Clartè » e « Staline » di Henry Barbusse, « L’armèe rouge », etc.

Intanto il duce aveva dato la pugnalata alla schiena alla Francia e l’anno dopo, il 21 giugno 1941 Hitler aggredì l’Unione Sovietica. Quella notte la polizia fascista esegui parecchi arresti fra di noi. Così Mario Gorini, insieme a Tagliaferri ed altri furono arrestati. Benché picchiato brutalmente, Mario non rivelò nessun nome dei suoi compagni di cellula. Gettatosi da una finestra per sfuggire alle percosse, si fratturò il bacino e dovette essere ricoverato in ospedale. Ma, grazie alla sua forza d’animo ed al suo coraggio nel non tradire i compagni, noi della cellula rimanemmo nell’incognito e fummo salvi.

Intanto la guerra procedeva verso il suo epilogo. Fra la primavera del 1943 io e Tíncolíní ritenemmo che i tempi fossero ormai maturi per azioni importanti, in particolare per la pubblicazione di un giornale. Da Rodolfo Siviero ottenni un finanziamento di duemila lire, circa due milioni d’oggi. Insieme ad altri compagni che frattanto erano venuti a far parte della cellula, Enzo Locatelli ed Aldo Bramanti, zinco-tipografo di Via Frà Bartolommeo, compilammo il primo numero di un giornale intitolato un poco provocatoriamente « Rivoluzione ». Fu stampato in Via Guelfa, da Dall’omarino, tipografo sicuramente incosciente, visto che tutto l’apparato poliziesco del regime era ancora in piena efficienza. Ne furono tirate duemila copie che distribuimmo opportunamente. Esso raggiunse anche i compagni in prigione, per esempio a Civitavecchia ed a Reggio Emilia.

Non era un capolavoro di editoria, ma fu l’unico giornale (forse insieme a l’Unità dell’Alta Italia) ad essere pubblicato prima del 25 luglio.

Intanto avevamo preso contatto col funzionario del Partito operante a Firenze, « Pietro » Roncagli. Egli ci suggerì di aggiungere il sottotitolo « l’Unità » al nostro giornale di cui uscirono in totale tre numeri. Nel terzo, pubblicato ai primi d’agosto, chiedevamo con forza la liberazione dei compagni ancora in carcere. Questa liberazione avvenne poco dopo e noi conoscemmo così il Federale designato dal « Centro » di nome « Giovanni », cioè Giuseppe Rossi, scarcerato proprio allora. Era un funzionario, già esule a Parigi ed a Mosca, dove aveva anche insegnato alla Scuola del Partito. Dalla metà di settembre venne a dormire a casa mia, essendo i miei sfollati all’Antella. Fece ciò per ragioni di sicurezza, « perché » egli mi diceva « l’appartamento di Osello è come un porto di mare in cui non ci si può mai sentir sicuri ». Cenavamo insieme, ed io gli preparavo delle minestre di riso, di cui in casa avevamo imboscato qualche chilo, condite senza grassi ma con volgari acciughe che solo a ricordarle, dopo 39 anni, mi si rovescia lo stomaco dal disgusto. Ormai neanche il razionamento funzionava più e lo spettro della fame si faceva sempre più minaccioso.

Il compagno « Giovanni » mostrava un’interessante, duplice personalità: era in fondo una pasta d’uomo, buono ed ingenuo, ma, quando prendeva un atteggiamento ufficiale, « di partito » rivelava un duro « stalinismo », oggi diremmo, entro il cui schema egli si era forgiato nell’ambiente di Mosca.

Qualche suo pensiero e suggerimento mi lasciava a volte perplesso ed interdetto. lo mi aspettavo che le prove di attività date dalla nostra cellula lo avessero ben disposto. Ma non sembrava così. Secondo lui noi « intellettuali » avremmo dovuto cessare ogni attività clandestina per preparare con calma l’uscita dopo la liberazione di un quotidiano indipendente, diceva lui, come « Ce Soir » a Parigi. Scoprii allora, con molta amarezza, che noi laureati o giù di lì, che fino ad allora ci eravamo creduti uguali agli altri compagni dotati di titolo di studio inferiore, e come veri compagni eravamo stati trattati, eravamo invece dei compagni di Serie B, indegni della pericolosa attività clandestina intrapresa prima e dopo 1’8 settembre. Una volta, dopo il solito pasto a base di riso malcondito, Giovanni mi disse testualmente: « Vedi Gigi, io non sono settario, e dissento dagli altri compagni: per me, dopo la liberazione, un rappresentante degli ‘ intellettuali’ (e dagliela!…) nel Comitato Federale ci deve entrare ». Fortuna che lui non era settario come gli altri… Comunque le sue vedute circa l’esistenza nel partito di una particolare categoria di « intellettuali » prevalsero ed un rappresentante di quella categoria (Roberto Martini), come tale, fu davvero chiamato a far parte del Comitato federale.

Nell’ottobre 1943, visto il mio recente impegno e la mia esperienza nel campo della stampa clandestina, Giovanni mi chiamò a far parte del Comitato clandestino di Agit-Prop. C’erano Fosco Frizzi, e Orazio Barbieri. Più tardi si aggiunsero Romeo Baracchi e Romano Bilenchi. Il Comitato di Agit-Prop. si riuniva in un appartamento di Via dei Cerchi, lasciato libero dal compagno Benci, troppo compromesso. Il Comitato provvedeva alla stampa del mensile « L’Azione Comunista » fondata da Spartaco Lavagnini, eccezionalmente dell’« Unità » e di tutto il materiale di propaganda, volantini, manifesti, avvisi, appelli, etc. che si riteneva opportuno pubblicare. Tutto veniva stampato nella tipografia di Bindo Maccanti, in Via del Palazzo Bruciato.

Fra i manifesti ed i volantini rimasti nel mio archivio il più antico risale al dicembre 1943. In esso si invitavano i cittadini a disertare i locali pubblici il 12 dicembre 1943, per commemorare e dimostrare solidarietà con i dieci cittadini fucilati per rappresaglia contro l’esecuzione ad opera degli antifascisti del famigerato colonnello Gobbi. In un altro, i Partiti Comunista e Socialista incitavano allo sciopero generale del marzo 1944. Altri manifestini erano indirizzati agli Agenti di Pubblica Sicurezza a cui si diceva: « Siate soldati della patria, non sbirri! ». Un manifesto si rivolgeva ai giovani renitenti alla leva invitandoli ad unirsi ai partigiani. Un altro era indirizzato ai lavoratori della Todt, l’organizzazione del lavoro coatto, responsabile della morte di milioni di lavoratori sotto il motto: « Arbeit macht frei » cioè « Il lavoro rende liberi ».

C’erano poi manifestini dedicati alle donne, alle operaie, alle impiegate, perché urlassero il loro: Basta! Altri volantini si rivolgevano ai sinistrati; altri ancora agli agricoltori ed ai contadini invitandoli a non consegnare il grano ai tedeschi. In un altro, dopo il 6 giugno 1944, si annunciava l’apertura del secondo fronte in Normandia.

C’era anche un volantino per i soldati, sottufficiali, ufficiali (nominati proprio in questo ordine antigerarchico).

Riconosco infine due manifesti, frutto della mia… versatilità politica. Il primo era intitolato SCEGLIETE e poneva l’alternativa: Se non vi muoverete sarete alla mercè dei tedeschi che distruggeranno le vostre case, etc. Se vi muoverete, organizzandovi nelle Squadre di Azione patriottica, etc. sarete salvi. In fondo sembrava semplice.

Infine un manifesto indirizzato al Maresciallo Kesserling mi dicono sia ancora ricordato fra i vecchi compagni che vi hanno trovato, insieme all’accento di una disperata dignità, anche qualche pregio letterario.

Eccolo:

Maresciallo Kesserling!

dopo averci spogliato di tutte le nostre ricchezze, di tutte le nostre industrie, di tutti i nostri averi, dopo aver deportato ed ucciso migliaia di nostri fratelli, dopo averci privato dell’acqua, del gas, della luce, del tram, delle autoambulanze ed ogni altro servizio pubblico ed igienico, dopo aver distrutto fabbriche, mulini, edifici publici, condannandoci così ai tormenti di un’esistenza men che bestiale, ecco che ora tu hai la spudoratezza di asserire che tu ed i tuoi nazísti vi siete comportati « correttamente » verso di noie accusi Alexander e gli Inglesi, che hanno rispettato per quanto possibile la nostra città, di esser la causa di ogni nostra sciagura.

Ora poi, come ultima misura per conferire in pieno a Firenze il carattere di città aperta, hai piazzato cannoni su tutti i nostri colli, stai minando ponti, viadotti, strade, opere pubbliche, hai fatto sgombrare dalla popolazione interi quartieri, e ti prepari a fare dei Lungarni e di tutta Firenze una trincea ed un bastione per resistervi ad oltranza, votando così alla distruzione noi e la nostra meravigliosa città, perché tu e quel boia di Hitler possiate campare un giorno di più.

Ebbene: dinanzi a questa triste sorte che tu ci prepari, non ci resta che vender cara la pelle, e se Firenze deve esser distrutta per la tua criminale volontà, allora noi faremo in modo che la rovina della nostra città siano la tomba per quanti più tedeschi potremo seppellirci.

Tu vuoi la nostra vita, o Kesserling: ebbene noi la difendiamo!

La Federazione del Partito Comunista Italiano.

Spesso quel materiale, immagazzinato in Via dei Cerchi, serviva anche da sgabello per noi redattori che ormai avevamo fatto un po’ di abitudine a vivere nel pericolo. Giacché chi legge ora questa rievocazione deve sapere che, sotto l’occupazione tedesca e la Repubblica sociale, tale attività, che implicava tante possibilità di essere scoperti quante erano le copie del materiale stampate e fatte circolare, non era affatto pacifica e sicura. Dei bandi ben precisi dell’occupante avvertivano che il semplice possesso di stampa sovversiva era punito coll’immediata pena di morte. E ciò, a dire il vero, non era poi troppo fuori luogo, quando si ricordi che quasi ogni copia stampata portava il motto usuale: « Morte agli occupanti tedeschi ed ai loro lacché fascisti ». Il momento più pericoloso era quando gli articoli venivano portati in tipografia, che, nel frattempo, poteva essere stata scoperta dai tedeschi o dai fascisti, la cui inaspettata presenza vicino alle macchine tipografiche avrebbe rappresentato davvero per noi una brutta sorpresa. Lo seppero bene i compagni Spinella e Melas che furono scoperti. Il primo scampò fortunosamente all’internamento a Carpi ed oltre. Il secondo, ammalato di tubercolosi, morì.

Ma il Comitato di Agit-Prop. si riuniva anche in altri luoghi, ad esempio in Via Paisiello, in Via Ghibellina, in Borgo S. Croce, a casa mia, in Via Gíotto al 33. La riunione di luglio, in Via Borgo S. Croce, fu presieduta da « Paolo Silvati » (Roasio) inviato dal « Centro » a dirigere il Partito in vista dell’imminente insurrezione.

Il periodico l’Azione Comunista, che usciva almeno una volta al mese, non era poi fatto troppo male, considerata anche la situazione eccezionale nella quale veniva redatto e stampato. Uscito per la prima volta dopo l’agosto 1943, il 7 novembre era già al quarto numero e poteva permettersi di commemorare il ventiseiesimo anniversario della Rivoluzione russa (sic), celebrata in un titolo a piena pagina. Nell’interno riportava articoli, ovviamente elogiativi, sul lavoro, l’arte, l’urbanistica, la costituzione etc. dell’Unione Sovietica. Cominciavano le corrispondenze dalle fabbriche e vi era stampata una lettera aperta a Mirko Giobbe, inviso direttore del giornale « La Nazione » di allora.

Il numero 7 del 13 gennaio 1944 commemorava il 20° anniversario della morte di Lenin, di cui veniva ripor tata una grande fotografia. All’interno comparivano le prime notizie sulla lotta partigiana e veniva pubblicata la lettera di Concetto Marchesi, Rettore dell’Università di Padova. Un articolo portava nel titolo tutto un programma; « Non basta leggere, bisogna assimilare! ». Purtroppo, prima che quel tono cattedratico passasse in disuso dovevano trascorrere quasi tre lustri…

Il numero del 3 febbraio 1944, insieme ad un voto di plauso alle conclusioni del Congresso di Bari che aveva votato a favore di un Governo popolare (ma senza i monarchici, però…) riportava un mio lungo articolo intitolato: « Colloquio col capitalista », in cui, sfogando la mia fede socialista troppo a lungo repressa, terminavo con queste parole: « Capitalista, il sistema ideale è il comunismo: esso ti annienterà »! Bindo, secondo le mie indicazione editoriali, aveva abbondato in carattere neretto che spiccava sul corsivo di tutto il testo. Quell’articolo era stato letto ed approvato dal compagno Giovanni, che sfoggiò per l’occasione un sorrisetto maligno. Quel pezzo, infatti, che si staccava dall’omogeneità di tutti gli altri articoli, incentrati solo sulla « lotta patriottica » e simili, ebbe vasta eco fra i compagni: i più lo approvarono perché volevano che ci si caratterizzasse di fronte agli altri partiti e si ricordassero le nostre mete ultime; ma ci furono altri che dissentirono non sul suo contenuto, ma sull’opportunità della sua pubblicazione. Il secondo numero di febbraio commemorava Spartaco Lavagnini con un grande ritratto a centro pagina. Il mio contributo consisteva in uno stelloncino intitolato « Vogliamo morire? » in cui si incitavano le donne a dimostrare contro la fame e le privazioni imposte dall’occupante tedesco.

Nel numero 5, del 4 aprile, si sottolineava il successo dello sciopero generale del marzo. Il successivo numero di maggio commentava favorevolmente l’iniziativa di Togliatti-Ercoli per la formazione di un ministero di unione popolare, comprendente anche la corrente monarchica. La svolta di Salerno cominciava ad agire. Il numero del 19 giugno commentava l’avanzata delle forze alleate ed incitava all’insurrezione popolare; quello del 29 giugno vedeva le Brigate Garibaldi all’offensiva. In seconda pagina, nel Bollettino delle azioni dei GAP e dei SAP, vi era un mio contributo, questa volta non colla penna, ma con mezzi più drastici di cui parlerò in seguito.

A luglio, d’intesa coni compagni di Roma liberata, pubblicammo un numero dell’Unità con notizie consistenti dal Fronte partigiano e da quello dei GAP.

Poi venne l’emergenza e si aprì un nuovo capitolo. Ma torniamo alle normali attività di partito.

Visto il numero abbastanza sensibile degli intellettuali « attivi » il Partito aveva deciso, nell’autunno inoltrato 1943, la formazione di un Comitato intellettuali di cui, per un certo periodo fui messo a capo. C’erano Tincolini, Musco, Roberto Martini, Sandro Susini, Melas e pochi altri, ma tale comitato, della cui opportunità noi interessati non eravamo ben convinti, non funzionò effettivamente mai. La difficoltà di far funzionare i circoli di cultura e simili si sono ripetute poi anche quando fu cessata l’attività clandestina.

In marzo, sfruttando l’altra tipografia col compagno Aldo Bramanti, pubblicammo il primo ed unico numero dell’organo del Comitato Cittadino, intitolato « Lotta operaia ». Io ne fui il redattore capo. Mi ricordo che scrissi l’articolo di fondo in cui citando un’esperienza di Lenin, si consigliava di consultare più spesso la base. Il foglio fu stampato nella « nostra » tipografia. Mario Fabiani compilò l’articolo sindacale. L’impegno tipografico era documentato dalla pubblicazione di due clichés colle fotografie di Faliero Pucci e Lanciotto Ballerini, caduti in combattimento poche settimane prima. C’era poi la corrispondenza delle fabbriche, compilata sulle lettere di operai. A primavera inoltrata fui chiamato a far parte del Comando Generale delle Brigate Garibaldi in qualità di addetto stampa. Fra l’altro avevo l’incarico di redare il periodico « li Combattente ». Il compagno « Aldo » (Luigi Comaschi) era in continuo contatto con me. Ci incontravamo sui viali, spesso insieme alla sua compagna in bicicletta, ed egli mi passava tutti i rapporti e la corrispondenza colle formazioni militari. Esso mi serviva come base per la redazione del giornale. Nel numero di giugno (datato per errore in maggio) cercai di dare a tale periodico una nuova impostazione. L’articolo di fondo: « Avanti per la salvezza dell’ l’Italia » prendeva spunto dalla liberazione di Roma per

incitare all’insurrezione. C’erano poi il bollettino n. 7 delle Brigate Garibaldi per la Toscana ed i risultati di una sottoscrizione a pro dei partigiani che raccoglieva centinaia di migliaia di lire (di milioni di oggi!!!). Tutto questo materiale, insieme al maggior numero di periodici, si trova ora presso l’Istituto storico della Resistenza ed all’Istituto Granisci di Roma.

Va detto ora che l’attività di Agit. Prop. non era per noi l’unica. Posso ora, ad esempio, rievocare l’azione di un Gruppo di azione Patriottica riportata nel « Bollettino delle Squadre di Azione e di Difesa Popolare » nel numero 9 dell’« Azione Comunista » pubblicata il 29 giugno 1944.

Il Comunicato dice: « Il 26 giugno, elementi della Squadra di Azione Anna hanno fatto esplodere una grossa bomba alla sede della GIL. Danni sensibili ».

Da tempo progettavamo di fare un’azione terroristica in Firenze, che dimostrasse che i partigiani erano ormai forti abbastanza da entrare in azione entro la città. Come bersaglio avevamo scelto la sede della GIL (Gioventù Italiana del Littorio) che, dal settembre 1943, funzionava da caserma delle forze armate tedesche e repubblichine.

Nella riunione di maggio del Comitato Agit. Prop. feci la proposta a Giovanni, chiedendogli che fossero consegnate alcune bombe a orologeria che erano distribuite dal compagno Osello. Giovanni, al solito un po’ diffidente verso noi « intellettuali », obbiettò testualmente: « Sì, ma bisogna essere capaci di adoperarle ». « Non ti preoccupare », replicai, « basta che tu dia ordine ad Osello di consegnarcene due: ad adoperarle ci penseremo noi ».

Preso contatto con Osello, che esplicava le funzioni di capo artificiere, mi feci consegnare due detonatori a tempo, oggi diremmo « timers », per impratichirmi sul loro funzionamento. Si trattava di astucci metallici consistenti sostanzialmente in un cilindro di bronzo racchiudente una fiala di vetro piena di acido solforico. Rompendo questa fiala per mezzo di una pressione esterna, si provocava il contatto dell’acido corrosivo con un filo di rame sottile trattenuto da una potente molla terminante con un percussore. Corroso il filo, la molla, così liberata, scattava con forza percuotendo il detonatore costituito da fulminato di mercurio. Se il tutto era applicato alla bomba, costituita da un parallelepipedo in lega di alluminio contenente circa un chilo di tritolo, l’esplosione avveniva. Il dispositivo era munito di una « sicura » costituita da una linguetta che, se lasciata in loco, impediva l’urto del percussore contro il detonatore. I detonatori con linguetta azzurra « detonavano » dopo mezz’ora: quelli con linguetta rossa avevano il tempo di due ore. A casa mia, orologio alla mano, collaudammo uno di tali detonatori previo schiacciamento della fiala con una pinza: il tempo di esplosione effettivo corrispondeva abbastanza bene col tempo teorico.

La mattina del 26 giugno, Marcantonio Venier, addetto consolare di carriera che, dopo 1’8 settembre non si era presentato al suo Ministero e faceva letteralmente la fame a Firenze, andò a prelevare da Osello due bombe complete di detonatori con tempo di due ore. Le caricò sul portabagagli della sua bicicletta (le biciclette non erano state ancora proibite come avvenne alcuni giorni dopo) e me le consegnò nei pressi di Piazza Beccaria. A mia volta una la consegnai a Paolo Tincolini, architetto alla Pignone.

La sera del 26 giugno, poco prima delle nove dell’ora legale, cioò verso l’imbrunire, mi accinsi a compiere l’operazione. All’ultimo momento non saltavano fuori le pinze necessarie per schiacciare la fiala. Provvide la mia « vicina » del numero 35 di Via Giotto, Maria Bencini, colle pinze di sua proprietà. In capo alle scale del suo stabile fu data una robusta « acciaccata », al detonatore, colla sicura in loco, naturalmente. Quindi, riposta la pesante bomba ormai pronta nell’unica borsa di similpelle che possedevo, mi diressi con fare indifferente verso la Casa della GIL, proprio allo sbocco di Via Giotto. Ora le cose diventavano un po’ più pericolose. Bisognava, come è ovvio, evitare le pattuglie di militari tedeschi. Ugo Horloch, chimico alla Liquigas, faceva da palo in bicicletta sul viale. Ad un certo momento egli dette il segnale di via libera: la pattuglia tedesca era fuori vista. Attraversai celermente il viale e mi diressi verso la seconda finestra a pian terreno dell’edificio. Oggi il palazzo della GIL è stato demolito: quella finestra era proprio in corrispondenza della sede dell’ACI che attualmente è sorta di fronte. Estratta con spiegabile trepidazione la linguetta- sicura, la borsetta col denocautela sul davanzale di quella finestra. Anche la fase di sganciamento andò bene: Horloch mi fece segno di scappare ;dacché c’era pericolo in vista. Mentre lui pedalava velocemente verso il Lungarno, io guadagnai a passo sostenuto, ma senza correre, la mia abitazione al numero 33 di Via Giotto.

L’attesa fu lunga e penosa perché quel maledetto detonatore sbagliò di oltre due ore e così solo verso le due di notte una fortissima detonazione, ascoltata da sveglio, a finestra aperta in quell’inizio di estate, mi fece sobbalzare e mi riempì di un’infinita soddisfazione.

Il giorno dopo, 27 giugno, c’era per l’appunto la riunione del Comitato di Agit. Prop. a casa mia. C’erano Giovanni, Fosco, Romeo, Orazio e il sottoscritto. « Avete sentito lo scoppio potente di stanotte? » fece Fosco che abitava in Oltrarno, « Chissà quale GAP sarà stato…. », « Sono stato io» feci con emozionata indifferenza. Seguirono i complimenti di Beppe Rossi e di tutti gli altri. Fu quindi compilato il comunicato che fu quindi pubblicato nel numero di Giugno dell’Azione Comunista.

I danni all’edificio furono notevoli, ma, ad onore dei costruttori, non eccezionali. Eccezionale invece fu l’effetto psicologico. Tutto il quartiere di Santa Croce fu in allarme attendendo una prossima azione dei Partigiani. La demolizione dell’Edificio della GIL, eseguita per costruire l’Archivio di Stato, ha annullato ogni testimonianza dello sconquasso di quella notte.

Per la cronaca: l’altra bomba fu piazzata da Tincolini alla Pignone, ma non esplose perché il detonatore fece cilecca. Ugo Horloch morì al Ponte del Pino, falciato da una raffica di mitraglia dei tedeschi, 1’11 agosto, giorno della Liberazione. Intanto Roma era stata liberata ai primi di giugno e noi si aspettava l’arrivo degli Alleati a Firenze. Il Comando Militare prendeva già provvedimenti per schierare le truppe partigiane in azione verso la città. Ma l’esercito alleato si avvicinava molto a rilento.

Un giorno di fine giugno o ai primi di luglio, non ricordo bene, venne a trovarmi all’Istituto di Chimica dell’Universítà, Carlo Ballario, Assistente all’Istituto di Fisica di Arcetri. Mi fece presente che, come già accadeva al nord di Roma, i tedeschi in ritirata avrebbero fatto saltare le centrali elettriche al loro passaggio. A Firenze pertanto sarebbe mancata la corrente elettrica entro pochi giorni. Ma c’era il problema di continuare a far funzionare Radio Cora che, dopo l’uccisione di Bocci e Piccagli, sorpresi dai tedeschi a quell’apparecchiatura, aveva ripreso a funzionare. Siccome l’Istituto di Chimica aveva una potente serie di batterie, Ballario mi chiedeva d’installare l’apparecchiatura ricetrasmittente nei laboratori dell’Istituto di Chimica, alimentandola cogli accumulatori esistenti.

Risposi che ben volentieri avrei collaborato all’installazione di radio Cora, purché ne avessi ricevuto l’autorizzazione da Giulio Montelatíci, rappresentante del Partito nel Comitato Toscano di Liberazione Nazionale.

Giulio, che passava abitualmente in bicicletta per Via Gino Capponi, mi dette ben presto l’autorizzazione del CTLN e noi quindi procedemmo.

Alcuni giorni dopo, Ballario giunse coll’apparecchiatura smontata insieme al radiotelegrafista Spartaco (Giuseppe Campolmi, insegnante di elettrotecnica all’ITI). Piazzata la radio nel mio studio, sistemata l’antenna verso il giardino dei Semplici, radio Cora ricominciò a trasmettere alle forze Alleate i suoi messaggi. Da perfetto bugiardo, poiché conoscevo la fine toccata a Bocci e Piccagli, rassicurai il custode Ulivi al quale non era sfuggito il nostro armeggio ed era legittimamente impaurito, I giorni seguenti, nel mio studio dell’Istituto di Cbimica Fisica, nei momenti liberi fra i vari impegni di partito, facevo compagnia all’operante Spartaco.

Intanto, avvicinandosi a Firenze il fronte, il Comitato di Agit. Pron. aveva preordinato il proprio piano: alla proclamazione dello stato di emergenza, Fosco e Romeo sarebbero dovuti andare di là d’Arno mentre Orazio ed io saremmo dovuti accorrere alla tipografia di Via del Palazzo Bruciato.

Già gli abitanti delle zone attorno ai. ponti avevano dovuto lasciare entro poche ore le loro abitazioni. Fu un ben triste spettacolo vedere tanti fiorentini portare a braccia, i più fortunati usando dei barroccini, le più essenziali masserizie sottraendole a quelle case che alcuni giorni dopo sarebbero state distrutte.

Alfine i manifesti che proclamavano l’emergenza entro alcune ore apparvero sui muri nel primo pomeriggio del 3 agosto. Prima che l’ora X scattasse, io presi la mia valigiaccia di fibra, la riempii con una vecchia coperta e mi diressi, a piedi, da Via Giotto in Via del Palazzo Bruciato. Là erano arrivati i compagni. Insieme a noi redattori, io, Orazio e Romano c’era Fernando Forconi, Bindo Maccanti e « Dino » Dugini. La mitragliatrice puntata verso l’entrata era pudicamente coperta con un panno. Sulla rotativa ormai paralizzata vi era la composizione della prima pagina dell’Azione Comunista, in grande formato, con una pregevole xilografia al centro della pagina. Ricordo il titolo di un articolo che suonava « Defascistizzazione »: il termine Epurazione non era stato ancora coniato… Per la notte stabilimmo dei turni di guardia. Io cominciai il servizio con Orazio. Con mentalità io direi un po’ infantile eravamo armati di una rivoltella che a me era stata data alla Nazione, quando, insieme a Bilenchi, avevamo sottratto il cliché della testata che pensavamo di utilizzare a liberazione avvenuta. Intorno alla mezzanotte sentimmo molti boati, lontani ma sempre terrificanti: erano i ponti che i tedeschi facevano sistematicamente saltare.

Cominciammo a sospettare che il fronte si sarebbe fermato sull’Arno. Tale sospetto divenne certezza la mattina dopo. Dopo una breve riunione di Comitato io e Orazio decidemmo di andarcene di lì e di fare scattare il piano di riserva. In previsione di ciò io e Forconi avevamo preso contatto con una piccola tipografia sita in un seminterrato di Via della Mattonaia. Là c’era una « pedalina », che, come dice il nome, poteva essere azionata coi piedi, anche in mancanza della corrente elettrica.

Io e Orazio indossammo due gabbanelle bianche (la mia era quella del Laboratorio di Chimica) e, muniti di bracciale colla croce rossa, forniti da Orazio, infermiere all’Ospedale di S. Giovanni di Dio, ci avventurammo per le vie apparentemente deserte. Il proclama dell’emergenza assicurava che, chiunque circolasse per le strade, sarebbe stato colpito a vista dalle truppe tedesche in ritirata.

Percorremmo Via Gaetano Milanesi, Via dello Statuto e ci presentammo al Ponte sul Mugnone. All’imbocco erano collocate alcune cassette coi fili ed i comandi elettrici per far esplodere le mine già predisposte per far saltare il ponte. I guastatori là accampati, alla vista delle nostre evidentissime croci rosse sui bracciali, non ci spararono, come noi temevamo, ma ci indirizzarono alcuni marziali « Schnell, Schnell » che come tutti sanno, vuol dire: Presto, Presto! I ben intenzionati tedeschi intendevano far saltare il ponte senza che l’esplosione ci travolgesse…

Un pericolo era già stato superato. Costeggiammo di buon passo la Fortezza, e poi per Piazza Indipendenza, Via 27 Aprile, Via degli Arazzieri, Piazza San Marco, Via Cesare Battisti, guadagnammo Piazza SS. Annunziata. Per terra c’era una seminata di manifestini in cui i Repubblichini in fuga annunciavano a caratteri cubitali: TORNEREMO!

Aperto colla mia chiave di Assistente il cancello di Via Gino Capponi raggiungemmo il mio studio-laboratorio. Spartaco era all’apparecchio.

Mentre compilavamo il primo di una serie giornaliera di giornale murale, introducendo anche la nuova Rubrica di « Notizie dal fronte », cominciò una sfilata di staffette e di porta ordini da parte del Comando Militare, del CTLN etc. Erano prevalentemente donne: c’era la Iva, la compagna di Giovanni, la biondissima Signora Zalla; ma vi erano anche porta ordini travestiti da pompiere, Giulio Montelatici in persona, e tanti altri. La notte dormivamo sulla segatura che mi era servita per isolare il ghiaccio secco col quale preparavo un composto instabile di vanadio, che era servito da tesi per la laureanda Maria Bencini. Ancora tre numeri di Azione Comunista del 6, 7 e 8 Agosto furono stampati in Via del Palazzo Bruciato. La Bencini portava gli articoli e andava a riprendere le centinaia di copie del giornale murale, nascoste nella sporta, sotto volenterosi cesti di insalata. I guastatori di pattuglia non si accorsero di nulla, con quanta soddisfazione della staffetta si può ben immaginare.

Al terzo giorno Orazio si allontanò per fare una puntata Oltrarno, passando attraverso il Ponte Vecchio e le macerie delle vie adiacenti, grazie all’aiuto di un ufficiale dei Vigili Urbani. Al ritorno mi dette lo spunto per un articolo del giorno 10 che io scrissi ed intitolai « Un ponte fra due mondi ». Ora il giornale era stampato in Via della Mattonaia. Io, protetto dalla solita t dalina. Poi i numeri erano distribuiti dalle SAP nella città sotto emergenza, letti e affissi sui muri. Non era un’opera facile, date le pattuglie e i cecchini che tiravano. Un momento piuttosto pericoloso si verificò il quarto giorno dell’emergenza quando le staffette trafelate avvertirono me e Spartaco che nelle vicinanze circolava lentamente e con insistenza una automobile radio-localizzatrice che dava la caccia alla nostra Radio-Cora. Era questo un pericolo ben serio, ove si pensi che, in assenza di ogni segnale e « rumore » elettrico, nella città senza corrente, la nostra emittente poteva essere facilmente localizzata. L’operatore ri- corse allo strattagemma di saltare di frequenza cambiando continuamente nominativi ed orari in modo da rendere assai ardua la localizzazione. Comunque la buona sorte ci assistette e nessuna pattuglia nemica venne a disturbarci mandandoci a far compagnia agli eroici Bocci e Piccagli.

Ecco alcuni titoli dei numeri del giornale murale: Fronti di guerra (raccolte per radio); Fronte cittadino, Notizie politiche (ancora ricevute via radio). Alcuni titoli: Assaliamo i nostri carnefici; Donne salvate i vostri figli; Lotta per la liberazione di Firenze; La fame batte alle porte.

Il 10 agosto non feci in tempo a scrivere il « fondo » e il giornale riportò solo notizie di guerra.

Ma la resistenza dei tedeschi contro i quali combattevano anche le formazioni partigiane stava per essere sopraffatta.

Spartaco continuava a battere il suo telegrafo in morse ed io raccoglievo le notizie di interesse giornalistico.

Il giorno 11 uscimmo con un numero al mattino. Mentre le campane del Palazzo Vecchio suonavano a distesa, io e Forconi andammo dal comando partigiano alla GIL. Il comandante Corsi ci inviò a Palazzo Vecchio e di là, insieme ad un plotone armato al comando di Becchi, occupammo una tipografia di Via Ghibellina il cui proprietario era fuggito al Nord. Forconi, che era nel ramo tipografie, era ben informato. Quella fu l’ultima azione a cui partecipò Becchi: poco dopo essere uscito dalla tipografia fu ucciso da uno dei tanti cecchini che « tiravano » dai tetti e dalle finestre delle case.

Da quella tipografia, dove io ero rimasto unico redattore, uscirono alcuni numeri in gran formato dell’Azione Comunista. Squadre di SAP azionavano le non piccole rotative. Finché il Comando alleato impose di cessare la pubblicazione di quel foglio. sempre clandestino anche ora che al posto dei tedeschi erano giunti gli alleati.

Prima ebbi però la soddisfazione di essere elogiato da Beppe Rossi. Quando gli portai a far vedere il numero del 12 agosto, in Via dei Servi, nell’atrio del palazzo, che era stato fino ad allora la sede del Fascio, egli, che era sempre brusco e sostenuto con noi cosiddetti « intellettuali », si fece sfuggire: « Bene Gigi, tu fai sempre bene » e ciò mi riempì di immensa soddisfazione.

Allo scadere della nostra attività in Via Ghibellina venne « Pietro » per una breve riunione e mi comunicò che la Segreteria Federale mi aveva nominato Responsabile di Agit. Prop. Orazio era stato nominato alla SEPRAL e gli altri avevano altri incarichi.

Così presi servizio prima in Via del Sole, al Palazzo della Valdarno, poi in Via dell’Agnolo al Palazzo del Catasto, infine alla Casa di Dante.

Il lavoro non mancava: si doveva creare dal nulla un ufficio di Agit. Prop., si doveva stampare anche tanta stampa di partito che arrivava da Roma, era necessario organizzare riunioni, discorsi, comizi etc. Finché verso novembre, succedendo a Sanguinetti, fui nominato Condirettore della « Nazione del Popolo », quotidiano del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, previa nomina a membro della Commissione Culturale del CTLN.

Eravamo cinque direttori dei cinque partiti del CTLN. Da « destra » Prof. Santoli e poi Paolo Pavolini per il Partito Liberale; Prof. Vittore Branca per la DC; Carlo Levi e poi Enzo Enriquez Agnoletti per il Partito d’Azione, l’insegnante Albertoni per il Partito Socialista ed il sottoscritto per il PCI.

Quando rileggo i miei articoli di fondo penso che non me la cavai troppo male.

È indubbio che lo « staff » di redattori di cui noi Direttori disponevamo erano di primissimo ordine. Esso si è poi disperso per vari quotidiani, alla RAI etc.

Ecco qualche nome: Romano Bilenchi, Augusto Livi, Carlo Cassola, Bernabei, Cancogni, il futuro ministro Pieraccini in tenuta da infermiere, portavo gli articoli e aiutavo come potevo a « mandare » la pedalina. Poi i numeri erano distribuiti dalle SAP nella città sotto emergenza, letti e affissi sui muri. Non era un’opera facile, date le pattuglie e i cecchini che tiravano. Un momento piuttosto pericoloso si verificò il quarto giorno dell’emergenza quando le staffette trafelate avvertirono me e Spartaco che nelle vicinanze circolava lentamente e con insistenza una automobile radio-localizzatrice che dava la caccia alla nostra Radio-Cora. Era questo un pericolo ben serio, ove si pensi che, in assenza di ogni segnale e « rumore » elettrico, nella città senza corrente, la nostra emittente poteva essere facilmente localizzata. L’operatore ricorse allo strattagemma di saltare di frequenza cambiando continuamente nominativi ed orari in modo da rendere assai ardua la localizzazione. Comunque la buona sorte ci assistette e nessuna pattuglia nemica venne a disturbarci mandandoci a far compagnia agli eroici Bocci e Piccagli.

Ecco alcuni titoli dei numeri del giornale murale: Fronti di guerra (raccolte per radio); Fronte cittadino, Notizie politiche (ancora ricevute via radio). Alcuni titoli: Assaliamo i nostri carnefici; Donne salvate i vostri figli; Lotta per la liberazione di Firenze; La fame batte alle porte.

Il giorno 11 uscimmo con un numero al mattino. Mentre le campane del Palazzo Vecchio suonavano a distesa, io e Forconi andammo dal comando partigiano alla GIL. Il comandante Corsi ci inviò a Palazzo Vecchio e di là, insieme ad un plotone armato al comando di Becchi, occupammo una tipografia di Via Ghibellina il cui proprietario era fuggito al Nord. Forconi, che era nel ramo tipografie, era ben informato. Quella fu l’ultima azione a cui partecipò Becchi: poco dopo essere uscito dalla tipografia fu ucciso da uno dei tanti cecchini che « tiravano » dai tetti e dalle finestre delle case.

Da quella tipografia, dove io ero rimasto unico redattore, uscirono alcuni numeri in gran formato dell’Azione Comunista. Squadre di SAP azionavano le non piccole rotative. Finché il Comando alleato impose di cessare la pubblicazione di quel foglio. sempre clandestino anche ora che al posto dei tedeschi erano giunti gli alleati.

Prima ebbi però la soddisfazione di essere elogiato da Beppe Rossi. Quando gli portai a far vedere il numero del 12 agosto, in Via dei Servi, nell’atrio del palazzo, che era stato fino ad allora la sede del Fascio, egli, che era sempre brusco e sostenuto con noi cosiddetti « intellettuali », si fece sfuggire: « Bene Gigi, tu fai sempre bene » e ciò mi riempì di immensa soddisfazione.

Allo scadere della nostra attività in Via Ghibellina venne « Pietro » per una breve riunione e mi comunicò che la Segreteria Federale mi aveva nominato Responsabile di Agit. Prop. Orazio era stato nominato alla SEPRAL e gli altri avevano altri incarichi.

Così presi servizio prima in Via del Sole, al Palazzo della Valdarno, poi in Via dell’Agnolo al Palazzo del Catasto, infine alla Casa di Dante.

Il lavoro non mancava: si doveva creare dal nulla un ufficio di Agit. Prop., si doveva stampare anche tanta stampa di partito che arrivava da Roma, era necessario organizzare riunioni, discorsi, comizi etc. Finché verso novembre, succedendo a Sanguinetti, fui nominato Condirettore della « Nazione del Popolo », quotidiano del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, previa nomina a membro della Commissione Culturale del CTLN.

Eravamo cinque direttori dei cinque partiti del CTLN. Da « destra » Prof. Santoli e poi Paolo Pavolini per il Partito Liberale; Prof. Vittore Branca per la DC; Carlo Levi e poi Enzo Enriquez Agnoletti per il Partito d’Azione, l’insegnante Albertoni per il Partito Socialista ed il sottoscritto per il PCI.

Quando rileggo i miei articoli di fondo penso che non me la cavai troppo male.

È indubbio che lo « staff » di redattori di cui noi Direttori disponevamo erano di primissimo ordine. Esso si è poi disperso per vari quotidiani, alla RAI etc.

Ecco qualche nome: Romano Bilenchi, Augusto Livi, Carlo Cassola, Bernabei, Cancogni, il futuro ministro Pieraccini Hombert Bianchi, Sergio Lepri, Angelo Maria Zoli, Pavolini, Palandri, Chirici, etc.

La mia attività di Direttore di quel quotidiano durò quasi tre anni fino al Luglio 1947, quando uscì l’ultimo numero della Nazione del Popolo. In fondo quel mestiere mi attraeva e sentivo di avere la fiducia del Partito. Ma io dovevo riprendere il troppo tempo speso nella politica e pensare alla Chimica ed alla mia carriera Universitaria.

Un impegno, questo, a cui credo di aver decentemente ottemperato.

  1. massimo maccanti

    grande bindo maccanti sempre senza timori

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