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Enrico Parnigotto – Il sacrificio per una saggia Libertà

Il sacrificio per una saggia libertà di Enrico Parnigotto

Perseguitato in quel tempo per le mie idee antifasciste, ero allora pedinato dai nazifascisti. Dapprima non me ne ero accorto, ma in seguito me ne resi purtroppo conto. Ero alla macchia anche perché non avevo obbedito al reclutamento di lavoro dell’allora impresa Todt. Avevo abbandonato i miei impegni di lavoro con la scuola e saltuariamente andavo a trovare la mamma, spostandomi in bicicletta dalla zona di Bassano che era il mio nuovo rifugio. Una notte dei primi d’aprile del ’45 una squadra di militi suonò alla mia abitazione. Apri mia madre, dopo aver a lungo tergiversato con loro sul cancello, mentre io scappavo dalla parte del giardino retrostante. Sapevano che ero in casa, i dinieghi di mia madre minacciata con il mitra a nulla valsero. Alla fine ella mi chiamò e mio malgrado dovetti arrendermi. Mi malmenarono e perquisirono la casa, poi con il mitra puntato alla schiena mi condussero a Palazzo Giusti. Erano passati pochi giorni dall’uccisione del professar Todesco, mio carissimo amico e compagno di lotta; pensavo di star facendo la sua stessa fine. Giunto a Palazzo Giusti, attesi mezz’ora nel salone. L’arresto era stato effettuato da Lotto, Cecchi e altri tre di cui non conobbi il nome; erano tutti armati di mitra e pistole. Nella sala dov’ero in attesa sentii nel frattempo alcune grida che più tardi seppi essere di un povero giovane sottoposto alla tortura della macchinetta elettrica. L’interrogatorio, iniziato da Lotto, fu poi continuato da Squilloni, un pezzo d’uomo grande, villano e sempre ubriaco, dal tenente Tecca e altri. Lotto cominciò a picchiarmi quando mi senti negare le accuse fattemi; Squilloni continuò l’opera e alla fine intervenne anche Tecca: l’interrogatorio prosegui fino alle sei e mezzo del mattino e mi venne pure applicata la macchinetta. Due fili molto lunghi mi vennero avvolti attorno ai polsi, dopo alcuni secondi Lotto ordinò di aprire, ne segui un urlo lancinante. Ancora prima immaginavo che la scossa sarebbe stata tremenda e mi ero proposto di non gridare. Ma il dolore era talmente repentino e agiva in modo tale sui nervi da rendere impossibile il controllo e l’urlo sgorgava istintivo e feroce dagli angoli più profondi della nostra sensibilità, come per una liberazione dal tormento. Nel frattempo continuavano le domande insistenti ei pugni. Volevano sapere i nomi dei miei amici, la relazione che avevo con gli esponenti del Comitato di Liberazione e con noti antifascisti della città; volevano la confessione di aver picchiato uno squadrista l’8 settembre, di aver fatto disegni di propaganda e di aver svolto attività antifascista nella scuola. Dopo questo lungo e brutale interrogatorio, durante il quale non un’ammissione o un nome usci dalla mia bocca, mi buttarono nella cameretta del secondo piano con gli occhi tumefatti e ridotto uno straccio. Benevoli e affettuosi, i compagni della soffitta mi si fecero incontro cercando di alleviare il mio dolore; mi lavarono la faccia e mi diedero dei corroboranti. Ricordo come ora il buon don Luigi Panarotto, l’Avossa, il compagno Faccio, don Giovanni Apolloni e altri. U rimasi sino alla fine della guerra e ne uscimmo tutti nei giorni della Liberazione. Ricordi tristi, ma il sacrificio rimarrà per noi e per i nostri figli come espressione di speranza in una saggia libertà e in una maggiore comprensione tra le genti.

 

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Il sacrificio per una saggia libertà di Enrico Parnigotto

Il sacrificio per una saggia libertà di Enrico Parnigotto

Perseguitato in quel tempo per le mie idee antifasciste, ero allora pedinato dai nazifascisti. Dapprima non me ne ero accorto, ma in seguito me ne resi purtroppo conto. Ero alla macchia anche perché non avevo obbedito al reclutamento di lavoro dell’allora impresa Todt. Avevo abbandonato i miei impegni di lavoro con la scuola e saltuariamente andavo a trovare la mamma, spostandomi in bicicletta dalla zona di Bassano che era il mio nuovo rifugio. Una notte dei primi d’aprile del ’45 una squadra di militi suonò alla mia abitazione. Apri mia madre, dopo aver a lungo tergiversato con loro sul cancello, mentre io scappavo dalla parte del giardino retrostante. Sapevano che ero in casa, i dinieghi di mia madre minacciata con il mitra a nulla valsero. Alla fine ella mi chiamò e mio malgrado dovetti arrendermi. Mi malmenarono e perquisirono la casa, poi con il mitra puntato alla schiena mi condussero a Palazzo Giusti. Erano passati pochi giorni dall’uccisione del professor Todesco, mio carissimo amico e compagno di lotta; pensavo di star facendo la sua stessa fine. Giunto a Palazzo Giusti, attesi mezz’ora nel salone. L’arresto era stato effettuato da Lotto, Cecchi e altri tre di cui non conobbi il nome; erano tutti armati di mitra e pistole. Nella sala dov’ero in attesa sentii nel frattempo alcune grida che più tardi seppi essere di un povero giovane sottoposto alla tortura della macchinetta elettrica. L’interrogatorio, iniziato da Lotto, fu poi continuato da Squilloni, un pezzo d’uomo grande, villano e sempre ubriaco, dal tenente Tecca e altri. Lotto cominciò a picchiarmi quando mi senti negare le accuse fattemi; Squilloni continuò l’opera e alla fine intervenne anche Tecca: l’interrogatorio prosegui fino alle sei e mezzo del mattino e mi venne pure applicata la macchinetta. Due fili molto lunghi mi vennero avvolti attorno ai polsi, dopo alcuni secondi Lotto ordinò di aprire, ne segui un urlo lancinante. Ancora prima immaginavo che la scossa sarebbe stata tremenda e mi ero proposto di non gridare. Ma il dolore era talmente repentino e agiva in modo tale sui nervi da rendere impossibile il controllo e l’urlo sgorgava istintivo e feroce dagli angoli più profondi della nostra sensibilità, come per una liberazione dal tormento. Nel frattempo continuavano le domande insistenti e i pugni. Volevano sapere i nomi dei miei amici, la relazione che avevo con gli esponenti del Comitato di Liberazione e con noti antifascisti della città; volevano la confessione di aver picchiato uno squadrista 1’8 settembre, di aver fatto disegni di propaganda e di aver svolto attività antifascista nella scuola. Dopo questo lungo e brutale interrogatorio, durante il quale non un’ammissione o un nome usci dalla mia bocca, mi buttarono nella cameretta del secondo piano con gli occhi tumefatti e ridotto uno straccio. Benevoli e affettuosi, i compagni della soffitta mi si fecero incontro cercando di alleviare il mio dolore; mi lavarono la faccia e mi diedero dei corroboranti. Ricordo come ora il buon don Luigi Panarotto, l’Avossa, il compagno Faccio, don Giovanni Apolloni e altri. Vi rimasi sino alla fine della guerra e ne uscimmo tutti nei giorni della Liberazione. Ricordi tristi, ma il sacrificio rimarrà per noi e per i nostri figli come espressione di forza e tremore

Tratto da

RITORNO A PALAZZO GIUSTI

TESTIMONIANZE DEI PRIGIONIERI DI CARITÀ A PADOVA (1944-45)

A cura di Taina Dogo Baricolo

La Nuova Italia Firenze

Edizione 1972

A. Vannucci – I Martiri della Libertà

A. Vannucci

I Martiri della Libertà
I frutti della libertà, di cui ora godiamo,
furono coltivati sul nostro suolo con lunghi e mortali dolori.
Non vi è un paese straniero che non fosse pieno dei nostri esuli,
che non sedesse Italiani accorrenti a combattere per i diritti dei popoli
In Italia non vi è carcere non santificato
dei patimenti degli uomini più generosi;
non vi è palmo di terreno non bagnato dal sangue
dei martiri della libertà.
I nostri in ogni tempo protestarono morendo,
contro la tirannide che opprimeva la Patria
e spirarono fermamente convinti
che il loro sangue sarebbe stato fecondo
di libera vita ai futuri

Santino Spinelli – Libertà

Santino Spinelli
Libertà

Ascolto in silenzio
il muto canto dell’erba
che dondola l’anima al vento
disprezzando le vanità
e le ricchezze vane;
adoro i sospiri degli abeti
che s’infrangono nei gelidi turbini;
amo gli umili pianti del salice
che non si sciolgono alle carezze della neve.
Adoro le solitarie danze del castagno
che trema le palmipedi foglie
come mani al cielo;
adoro il sole che non si maschera per apparire;
la luna che non si trucca per ingannare.
Amo la nudità e il soave profumo
dell’eterna libertà.

Paul Éluard – Libertà

Paul Éluard

Libertà

Su i miei quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome

*

Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome

*

Su le immagini dorate
Su le armi dei guerrieri
Su la corona dei re
Scrivo il tuo nome

*

Su la giungla ed il deserto
Su i nidi su le ginestre
Su la eco dell’infanzia
Scrivo il tuo nome

*
Su i miracoli notturni
Sul pan bianco dei miei giorni
Le stagioni fidanzate
Scrivo il tuo nome

*

Su tutti i miei lembi d’azzurro
Su lo stagno sole sfatto
E sul lago luna viva
Scrivo il tuo nome

*

Su le piane e l’orizzonte
Su le ali degli uccelli
E il mulino delle ombre
Scrivo il tuo nome

*

Su ogni alito di aurora
Su le onde su le barche
Su la montagna demente
Scrivo il tuo nome

*

Su la schiuma delle nuvole
Su i sudori d’uragano
Su la pioggia spessa e smorta
Scrivo il tuo nome

*

Su le forme scintillanti
Le campane dei colori
Su la verità fisica
Scrivo il tuo nome

*

Su i sentieri risvegliati
Su le strade dispiegate
Su le piazze che dilagano
Scrivo il tuo nome

*

Sopra il lume che s’accende
Sopra il lume che si spegne
Su le mie case raccolte
Scrivo il tuo nome

*

Sopra il frutto schiuso in due
Dello specchio e della stanza
Sul mio letto guscio vuoto
Scrivo il tuo nome

*

Sul mio cane ghiotto e tenero
Su le sue orecchie dritte
Su la sua zampa maldestra
Scrivo il tuo nome

*

Sul decollo della soglia
Su gli oggetti familiari
Su la santa onda del fuoco
Scrivo il tuo nome

*

Su ogni carne consentita
Su la fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Scrivo il tuo nome

*

Sopra i vetri di stupore
Su le labbra attente
Tanto più su del silenzio
Scrivo il tuo nome

*

Sopra i miei rifugi infranti
Sopra i miei fari crollati
Su le mura del mio tedio
Scrivo il tuo nome

*

Su l’assenza che non chiede
Su la nuda solitudine

Su i gradini della morte
Scrivo il tuo nome

*

Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Su l’immemore speranza
Scrivo il tuo nome

*

E in virtù d’una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti

Libertà.

Prospero Duc

per la libertà

Per la Libertà

Nel nome di Dio

Prospero Duc

Valle d’Aosta

Nato a Chatillon (Aosta) il 1° gennaio 1915, assassinato a Chésallet (Aosta) il 19 aprile 1945, sacerdote.

Don Prospero aveva svolto la sua opera pastorale nel piccolo villaggio di Chésallet, oggi frazione di Sarre, a quei tempi ancora incorporato nel comune di Aosta. Conosceva uno ad uno i suoi parrocchiani, anche se qualcuno, nella chiesa di Sant’Eustachio, lo vedeva soltanto in occasione della festa del Patrono. Durante la Resistenza, particolarmente attiva nella zona, aveva stretto, naturalmente, i legami con i suoi giovani paesani. Molti si erano dati alla lotta armata, altri avevano semplicemente scelto di darsi alla macchia. Pochi giorni prima della Liberazione, don Prospero Duc seppe che i fascisti di Aosta avevano catturato una ventina di giovani, tra i quali molti del suo villaggio: li trattenevano come ostaggi, con l’evidente intenzione di trucidarli. Don Prospero si precipitò presso i vari Comandi, implorando la scarcerazione degli arrestati. Ciò gli attirò l’odio della Brigata Nera, resa più feroce dalla consapevolezza della fine imminente. Il 19 aprile alcuni militi bussarono alla porta della casa parrocchiale. Andò ad aprire Rosy, la sorella del prete. Facendosene scudo, i fascisti irruppero nella parrocchia e senza dir parola abbatterono il sacerdote a raffiche di mitra.

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Religiosi nella Resistenza

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Mons. Giuseppe Maria Palatucci

per la libertà

Per la Libertà

Nel nome di Dio

Mons. Giuseppe Maria Palatucci

Nato a Montella (Avellino) il 25 aprile 1892, deceduto a Campagna (Salerno) il 31 marzo 1961, vescovo,

Medaglia d’oro al merito civile alla memoria.

Accolto nel 1906 dai frati francescani di Ravello, nel 1912 conseguiva la laurea in filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana. A ventitré anni, il 22 maggio 1915, l’ordinazione a sacerdote a Montella e, lo stesso giorno, la partenza per il fronte. Dopo la guerra nuova laurea in teologia, seguita da tre anni di insegnamento nel suo Ordine, e quindi il rettorato nel Collegio francescano di Ravello. Eletto vescovo della diocesi di Campagna, tra le più povere del Sud, ebbe modo di manifestare appieno il suo spirito umanitario quando, nel giugno del 1940, il regime fascista fece allestire nella zona due campi di concentramento per ebrei. Il vescovo aveva un nipote, Giovanni Palatucci, funzionario di polizia a Fiume. Si accordarono per far affluire a Campagna i perseguitati, che Giovanni non riusciva a far espatriare. Così molti poterono salvarsi. Nel dopoguerra, padre Palatucci si oppose con molta determinazione al Fronte popolare, ma il suo comportamento altruistico (quando morì, fu un problema persino trovargli vestiti adatti alla cerimonia funebre), lo fece rimpiangere anche dagli avversari politici. Alla memoria del vescovo francescano, il 25 aprile 2007, il Presidente della Repubblica ha assegnato il massimo riconoscimento al merito civile.

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Luigia Maria Pucheria

per la libertà

Per la Libertà

Nel nome di Dio

Luigia Maria Pucheria

Nata a Saonara (Padova) il 7 settembre 1898, morta a Ravensbruck nella primavera del 1945, suora laica.

Faceva parte della Compagnia di Sant’Orsola e aveva accettato con convinzione l’invito di Fra’ Placido Cortese a collaborare alla "rete di solidarietà", da lui organizzata a Padova. Luigia Maria si dedicò soprattutto ai prigionieri inglesi fuggiti dal campo di Saonara (per i quali i nazifascisti avevano posto una taglia di 1.800 lire per evaso) e si fece aiutare anche dai suoi famigliari, soprattutto dalla nipote sedicenne, Delfina Borgato. Le due donne furono tradite da un individuo, che si era spacciato per un prigioniero fuggito dal campo. Arrestate, Luigia Maria e Delfina finirono in due distinti Lager. Delfina riuscì a sopravvivere; la zia fu eliminata.

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Giacomo Leone Ossola

per la libertà

Giacomo Leone Ossola

Nato a Vallo di Caluso (Torino) il 12 maggio 1887, deceduto a Brescia il 17 ottobre 1951,  frate cappuccino.

Di famiglia modestissima, a dieci anni fu mandato nel "Collegio Serafico" di Sommariva Bosco. Compì poi il noviziato a Racconigi, studi teologici a Busca e Revello sino  a Torino nel 1909. Laureatosi in Lettere e Filosofia, si dedicò all’insegnamento in provincia di Cuneo sino a che, nel 1919, fu chiamato a ricoprire l’incarico di vicesegretario generale dell’Ordine dei Cappuccini. Nel 1922, Ossola era a Roma, al governo patriarcale della Basilica di San Lorenzo in Verano, che lasciò nel 1937 allorché Pio XI lo consacrò vescovo e lo nominò vicario apostolico per la Missione Galla. Padre Ossola restò in Etiopia sino al 1943, quando Pio XII lo richiamò in Italia e lo nominò, in seguito alla morte del vescovo di Novara, Amministratore apostolico della Diocesi novarese. L’incarico fu affidato a Monsignor Ossola pochi giorni dopo la costituzione della Repubblichetta di Salò, ma il prelato, non essendo "vescovo residenziale", non dovette prestare giuramento al governo della RSI. Giunto tuttavia a Novara con la nomea di fascista (per le opere che col finanziamento del regime aveva realizzato in Africa), Monsignor Ossola, nei diciotto mesi che videro imperversare nel Novarese tedeschi e fascisti, seppe guadagnarsi l’appellativo di "vescovo dei partigiani", grazie al suo comportamento in difesa delle popolazioni della Diocesi. Molto importante fu poi l’opera di mediazione che il prelato seppe svolgere durante le trattative che portarono alla resa dei nazifascisti e alla liberazione di Novara. Nel dopoguerra, per questa ragione, l’amministrazione comunale ha proclamato Giacomo Leone Ossola – nominato vescovo di Novara il 9 settembre 1945 – Defensor Civitatis.Ossola, gravemente malato, rinunciò nel 1950 all’incarico di vescovo di Novara (la città lo ricorda ora con un monumento) e, poco prima della morte, Pio XII lo innalzò alla dignità arcivescovile di Geropoli di Frigia, in Siria.

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Fra’ Placido Cortese

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Per la Libertà
Nel nome di Dio
Fra’ Placido Cortese
Nato a Cherso (Quarnaro) il 7 marzo 1907, morto a Trieste nel novembre del 1944,
frate francescano.
Il 29 gennaio 2002, al Vescovado di Trieste, è cominciato il "processo di beatificazione", postulatore padre Tito Magnani, di Fra’ Placido Cortese, morto sotto tortura in una cella della Gestapo a Trieste e probabilmente cremato nella Risiera di San Sabba. Viene così sollevata la coltre di silenzio che per quasi sessant’anni ha gravato su una luminosa figura della Resistenza. Nel 1937 Fra’ Placido era giunto a Padova per dirigervi il "Messaggero di Sant’Antonio". Proprio dagli editoriali del giornale di quei tempi si capisce che il giovane religioso era perfettamente "allineato": invettive contro la "Russia comunista", appoggio ai fascisti spagnoli. Nel 1942 Frate Placido è incaricato dell’assistenza religiosa ai civili sloveni internati nel campo di Chiesanuova. Non lo fa volentieri, convinto che fossero tutti "partigiani comunisti", ma proprio in questa attività, non si sa come e quando e per quali passaggi, matura il cambiamento del frate francescano. Dopo l’8 settembre 1943, Frate Placido diventa il motore di un’organizzazione che tiene contatti con gli Alleati – le ricetrasmittenti sono nascoste all’Antonianum -, organizza la fuga di prigionieri americani, mette in salvo ebrei destinati ai campi di sterminio, fornisce di documenti falsi gli uomini delle Resistenza. Gli occupanti tedeschi sospettano; sospetta anche il "provinciale", che prospetta al frate la possibilità di tornarsene al sicuro a Cherso. Ma Fra’ Placido resta a Padova sino a quando, l’8 ottobre 1944, tradito da due doppiogiochisti, non viene prelevato fuori della Basilica del Santo e sparisce. Dai suoi confratelli nient’altro che una "denuncia di scomparsa", mentre Fra’ Placido nelle mani della Gestapo subisce il martirio, senza dire un solo nome dei suoi collaboratori. Ora, finalmente, il "processo di beatificazione", dopo che per anni i suoi confratelli sembravano averlo "cancellato", nonostante le medaglie e i riconoscimenti del generale Alexander, del presidente cecoslovacco Benes, benché una via fosse stata dedicata a Placido Cortese nel dopoguerra a Padova.
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