Mario Leporatti (Stefano)

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MARIO LEPORATTI (STEFANO)

Gappista

Cosa la spinse verso l’antifascismo?

Quando ero un giovane studente universitario a Roma facevo parte del gruppo universitario fascista. Poi ebbi la ventura, o la fortuna, di conoscere un gruppo di studenti, anche loro in gran parte iscritti al Guf, i quali venivano maturando lentamente una sorta di reazione critica nei confronti del fascismo. Si chiamavano Paolo Bufalini, Antonello Trombadori, Enrico Tubia, Giorgio Castaldo, Tullio Miliori e vari altri. La nostra reazione al fascismo cominciò epidermicamente, nel senso che eravamo disturbati dall’invadenza, dalla protervia con cui i fascisti pretendevano di avere sempre ragione, e allora, lentamente, nel giro di qualche anno, diventammo antifascisti, prima genericamente, poi, approfondendo e discutendo fra noi, ci avvicinammo alle idee socialiste. Infine attraverso Paolo Bufalini che era a contatto con il partito comunista diventammo comunisti. Ricorderò sempre quando con Della Peruta e Franco Coppa iniziammo a leggere Il Capitale di Marx con grande passione. Non sempre capivamo quello che c’era scritto, però ci arrovellavamo fino a capire. Insomma diventammo comunisti e ci mettemmo a disposizione del Partito; anzi fummo proprio noi che creammo la prima cellula del partito comunista a Roma. Eravamo pieni di entusiasmo e voglia di fare, animati da una passione civile straordinaria

Ricordo che un giorno all’Università venne a parlare Bottai, l’Italia stava per entrare in guerra, era il 1940; fece il solito discorso di propaganda incitando i giovani ad arruolarsi per la patria. Successe il finimondo; Bottai fu fischiato ed accolto con urla e grida e alla fine dovette concludere rapidamente e andarsene. Era stato proprio il nostro gruppo che aveva incitato gli altri a questa contestazione; pensate, ne parlò pure Radio Londra. Successivamente fummo tutti arrestati e denunciati al Tribunale Speciale, noi studenti e anche un gruppo di operai. L’accusa era gravissima per quei tempi, eravamo infatti accusati di aver ricostruito una cellula del Partito comunista proprio nel momento in cui l’Italia fascista era in guerra con l’Unione sovietica. Però da parte delle autorità politiche fu presa la decisione di scarcerare noi studenti e di mandarci tutti sotto le armi, mentre gli operai furono processati e distribuiti nei vari penitenziari del paese. Dopo l’otto settembre siamo stati tutti partigiani.

Io sono stato capo militare nella zona di Piazza Navona e del centro di Roma in genere, e in questa zona ho svolto la mia attività di partigiano con alcuni compagni che per me erano come dei fratelli. Eravamo un esercito clandestino che combatteva per liberare l’Italia dai tedeschi e dai fascisti. Quando ero preside al Liceo Virgilio gli studenti mi contestarono era il periodo della grande contestazione. Fu Marisa Musu, Gappista e allora giornalista di Paese Sera che scrisse un pezzo di mezza pagina dal titolo «Voi non sapete chi è quel preside», raccontando come ero stato arrestato, portato in questura e massacrato di botte. La contestazione nei miei confronti si placò immediatamente perché la qualifica di partigiano fu valutata da quei giovani con rispetto e stima. Il nostro antifascismo, dicevo, è nato da una reazione alla cultura violenta del regime, violenza che noi avvertivamo non tanto dal punto di vista fisico quanto da quello morale e intellettuale: il Duce ha sempre ragione, il Duce non sbaglia mai, e così via… Quella era certamente un’ altra Italia, un paese ancora intriso di cultura contadina, industrializzato solo al nord e dunque un paese in cui in larghi strati della popolazione non si era ancora raggiunto un accettabile livello di consapevolezza e coscienza critica.

Ci parli della sua attività di Gappista.

Insieme ad alcuni fratelli come Lallo Bruscani, Guido Rattoppatore, Umberto Scattoni, questi ultimi due fucilati dai nazisti, e tanti altri ancora, spesso conosciuti solo per i loro nomi di battaglia Gino, Giovanni, Francesco… svolgevamo opera di propaganda e di organizzazione. Avevamo costituito varie cellule, una era a via della Scrofa e faceva capo ad Alberto Marchesi, anche lui trucidato, e svolgevamo opera di reclutamento.

La sera spesso uscivamo per compiere le nostre azioni, il rischio era altissimo e non sempre riuscivamo a portarle a termine.

Oggi non posso che provare un senso di umana pietà per tutte le vittime, ma il fascismo fu il vero responsabile di quelle vittime, e non solo. Il Fascismo aveva gettato l’Italia in uno stato di miseria e di terrore. Mai come allora Roma era apparsa così misera e povera: mancava la luce elettrica, la gente viveva al buio e senza riscaldamento. Gli uomini uscivano per strada e non sempre ritornavano perché i tedeschi facevano i rastrellamenti, bloccavano le entrate e le uscite delle strade, arrestavano tutti gli uomini e li deportavano in Germania per i lavori forzati.

Nonostante la condizione di miseria e di terrore in cui si viveva devo dire che la gente ci ha sempre appoggiato. Io ho dormito in una quantità di case di cui non conoscevo gli ospiti; ero ricercato dalla Gestapo ed ero costretto a dormire fuori casa tra persone che non conoscevo e che non mi conoscevano se non per il mio nome di battaglia: Stefano.

Ricordo che il 7 novembre del 1943 feci un comizio a largo Tassoni parlando per una decina di minuti. Erano con me Lallo Bruscani e Guido Rattoppatore. Lì c’era la fermata dei tram che passavano raramente per risparmiare l’energia elettrica, c’era una numerosa folla di cittadini che attendeva. Mi ricordo che improvvisai dicendo che eravamo sotto il tallone tedesco e che dovevamo fare qualcosa per liberarci.

Quella gente mi ascoltò senza interrompermi.

Voi siete stati mandati in guerra dal fascismo per una causa in cui non credevate, anzi a cui eravate profondamente ostili,- con quale spirito andaste al fronte?

Non vorrei sembrare immodesto, ma la verità è questa: noi non abbiamo mai creduto che Hítler potesse vincere la guerra. Balzava chiaramente agli occhi di tutti che prima o poi il mondo si sarebbe messo contro di lui. Non parliamo poi dell’Italia e del suo esercito. Quando io sono andato sotto le armi avevo un paio di scarpe che dopo poco tempo persero la suola che dovetti tenere attaccata al resto della scarpa con un fil di ferro; eravamo in distaccamento a Cala Furia, vicino Livorno e il nostro compito era quello di respingere eventuali attacchi alleati; avevamo fucili, ma senza cartucce. Eravamo assolutamente impreparati per fare la guerra, questo Mussolini lo sapeva: lui, vista la facilità con cui era caduta la Francia e preso dall’euforia si era deciso ad entrare in guerra, ma sapeva esattamente in quali condizioni si trovava il nostro esercito.

Per quale società combatteva Mario Leporatti?

Una società democratica e socialista. Per noi il socialismo era la realizzazione piena della democrazia. Sapevamo anche che per affermarlo avremmo dovuto lottare anche negli anni seguenti. Durante la campagna elettorale del 1946, arrivai a fare fino a sei comizi in una giornata. Eravamo tutti mobilitati perché pensavamo che il socialismo si potesse costruire ed affermare democraticamente; c’era stato il 25 Aprile, la Liberazione, poi la cacciata della monarchia, la Costituente… poi arrivò il 1948, il fronte popolare subì una clamorosa sconfitta e iniziò la persecuzione e la repressione contro i comunisti e il movimento operaio. Questo fu motivo di grande amarezza per noi che avevamo combattuto per la libertà e militato clandestinamente nelle file del partito comunista; ma è anche vero, che mentre le altre forze politiche tentavano di isolare il nostro partito, in esso stava emergendo un forte legame ideale con Stalin e con l’Unione Sovietica. Allora c’era l’abitudine di dire ai dissenzienti: «tu sei un trozkíjsta» e così ti mettevano a tacere. Io non ero d’accordo con l’amnistia concessa da Togliatti, allora Ministro della Giustizia, che rimetteva in libertà i fascisti, ma i compagni mi dicevano «tu sei contro l’amnistia perché sei un trozkijsta». Io non sono mai stato un trozkijsta e nemmeno ho nutrito particolari simpatie per Trotzkij, anche se, a casa ho le sue opere, però mi sono sentito dare del trozkijsta ogni volta che dicevo qualcosa non conforme alla linea ufficiale del partito. Io sono stato antifascista perché odiavo il fatto che Mussolini avesse sempre ragione e mi ritrovavo in un partito in cui Togliatti aveva sempre ragione, così me ne sono andato.

Secondo lei, gli italiani, si riconoscono ancora nei valori dell’antifascismo?

Sì, anche se si stanno verificando degli episodi che fanno pensare il contrario, io sono ottimista., non vedo tragedie o grandi sconvolgimenti sociali. Viviamo però un momento delicato: ho la sensazione che i grandi ideali che hanno animato le nostre generazioni stiano scomparendo, le stesse culture secolari si stanno trasformando.

Potrà sembrare una domanda banale, ma c’è il rischio che la gente creda solo alla televisione?

No, a questo non ci credo. Per tornare al nostro paese: sono convinto che gli italiani siano meno imbecilli di quanto comunemente si dice. Ieri sera ho sentito Montanelli che parlava con sufficienza degli italiani, come se fossero imbecilli; vi confesso che ho sentito un moto di repulsione, di rivolta. Certo, la televisione influenza enormemente, ma è anche vero che il cervello la gente continua ad averlo. Io ho fatto parte di una commissione incaricata di studiare la riforma della scuola, ne facevano parte presidi, professori e anche esponenti del mondo economico. Un esponente della Confindustria fece un intervento di critica radicale alla scuola, che non condividevo, e gli risposi che se l’industria italiana si era affermata era soprattutto grazie a quella scuola che lui criticava e che ha preparato gente molto valida. Noi spesso soffriamo di autolesionismo.

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