Carla Capponi (Elena)

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CARLA CAPPONI (ELENA)

Medagli d’Oro

Valor Militare

Gappista

Chi è Carla Capponi? Quali furono gli eventi che ricordi e di cui sei stata partecipe?

Non ho nessun merito personale nell’aver compreso precocemente la pericolosità della dittatura fascista, il merito va tutto ai miei genitori che, con molta prudenza ci istruivano via via che crescevamo contro i falsi slogan dell’ideologia fascista. Uno dei fattori determinanti della nostra impostazióne culturale e ideale fu la scelta di non mandarci a scuola nell’illusione che il regime sarebbe caduto. Mia madre era una montessoriana, lei stessa ci insegnò a leggere e a scrivere. Mio padre, ingegnere minerario e geologo, si occupò della nostra cultura scientifica e matematica. I primi anni della nostra vita li abbiamo vissuti in totale libertà, nel giardino della villetta che avevamo preso in affitto a Porta Cavalleggeri. Di fronte alla nostra casa c’erano le rimesse delle carrozzelle e quindi dei cavalli. La notte, talvolta, li sentivamo nitrire e scalpitare. Nelle notti invernali dopo la pioggia ci giungeva l’odore del fieno delle stalle vicine, fantasticavamo allora storie di cavalieri e di fate. La mamma usciva prestissimo a prendere il latte fresco che un contadino portava con il suo carretto e lo distribuiva sfuso; al ritorno comprava il Messaggero e il Becco Giallo, un giornale satirico che successivamente fu soppresso dal fascismo. Spesso si fermava qualche minuto a commentare con i vetturini le vignette del giornale. Molti di loro erano contrari al regime e scambiavano volentieri qualche battuta sui fatti del giorno prima di cominciare ad andare in giro per Roma. Mia sorella Flora ed io fummo educate da mia madre, insegnante espulsa nel ’27 dall’insegnamento perché sorella di un ex sindaco socialista di un piccolo paese delle Marche, che fu bastonato e purgato con l’olio di ricino dai fascisti.

Nell’educazione mia madre usava metodi molto moderni, e, anche nei rapporti con noi, i nostri genitori erano molto liberali, educandoci contro i falsi pudori, i pregiudizi, e contro alcune forme di malizia. Usavano spogliarsi liberamente davanti a noi e con grande disinvoltura parlarci del concepimento e della nascita del futuro fratellino. Ricordo mamma che con il suo pancione nudo stava sul letto con mio padre che vi poggiava l’orecchio per ascoltare i movimenti del bambino e ci chiamava ad ascoltare i messaggi misteriosi che il fratellino ci inviava. La nostra vita si svolgeva, quindi, entro le mura domestiche e in quel meraviglioso giardino. Il Fascismo era fuori del cancello al di là di quel muro alto che ci impediva ogni contatto.

Durante il fascismo c’era molta miseria, il vivere quotidiano si presentava pieno di difficoltà; sulla via del Gelsomino c’erano case fatiscenti e baracche, dove vivevano molto poveramente famiglie numerose, dall’altra parte su via Delle Fornaci c’erano le antiche fabbriche di mattoni. I fornaciari usavano, in prossimità delle festività, fare dei «dindaroli» cioè dei salvadanai di coccio e, per le festività natalizie, delle cullette che contenevano il Bambinello. Ogni anno mia madre ci regalava il dindarolo e le cullette. Quell’anno come di consuetudine eravamo andati ad acquistare le culle, la mamma era molto elegante e indossava un bel cappellino, ci fermammo ad osservare una vetrina piena di dolci e belle cose messe lì per le festività. Mentre guardavamo quel paradiso di svogliatezze, due bambini ci strapparono di mano le cullette di terracotta. Mia madre li rincorse, ma una donna vestita molto poveramente intervenne e con un colpo diretto a mia madre le fece volare via il cappellino, urlandole in faccia: borghesaccia, fascista. Capimmo che quella donna era la madre delle due piccole canaglie. Si radunò subito un capannello di gente, arrivarono i carabinieri, ma la mamma per non far arrestare quella donna disse che c’era stato un malinteso e che lei stessa aveva regalato i bambinelli ai due bambini. I due carabinieri, soddisfatti delle spiegazioni, se ne andarono facendosi largo fra la folla che, vociava incuriosita. La donna, allora, commossa dalla generosità di mia madre le chiese scusa e si giustificò dicendo, con le lacrime agli occhi, che erano molto poveri e che abitavano in una baracca a via del Gelsomino. Le due donne si salutarono rappacificate promettendosi che si sarebbero riviste. Passò del tempo e un giorno mia madre decise che saremmo andati a Centocelle a trovare quella povera donna e la sua famiglia.

Il primo impatto con la violenza del regime fascista lo avemmo una domenica di tarda estate. C’era, dopo Porta Angelica, una sala cinematografica: «Cinema Famiglia». Il cinema era dotato di una bella arena per gli spettacoli estivi e c’erano due enormi pini che ancora oggi si vedono svettare oltre il muro. L’aria di Roma era dolcissima, eravamo felici e a noi bambine era stato regalato un cono gelato. Ci sedemmo uno accanto all’altro, si fece buio, si accesero le luci sul palcoscenico e dagli altoparlanti cominciarono a diffondersi gli inni del fascismo. Eravamo nel 1927 e a quel tempo, nei cinema dell’Italia fascista non c’era film che non fosse preceduto dalla famosa Marcia Reale e da un inno al Duce, quella volta fu «Giovinezza». Ricordo, a proposito di questa canzone, che la gente la storpiava mettendoci in mezzo di tutto: parolacce, insulti ed altri improperi rivolti al regime. Era d’obbligo per gli spettatori alzarsi in piedi e togliersi il cappello. Mio padre restò seduto con il cappello in testa. Improvvisamente, dalla fila di dietro gli arrivò un ceffone talmente forte che lo stordì per un pò e gli fece volare via il cappello con il quale copriva gelosamente il capo ormai calvo. A questo violento affronto, mio padre, reagì sdegnato; dietro di lui c’erano quattro poliziotti che gli intimarono di seguirlo al commissariato. Dopo qualche ora lo rilasciarono avendo accertato che sul suo conto non c’erano né precedenti, né segnalazioni. Un’altra cosa importante per la nostra formazione furono i racconti di mio padre. Ci raccontava che in miniera gli incidenti succedevano spessissimo; era addetto, in qualità di ingegnere, alla sicurezza dei pozzi. La fede nel comunismo in noi è nata ed è maturata anche ascoltando questi racconti. Ricordo che mio padre diceva che i padroni erano dei mascalzoni perché, pur di non spendere soldi per la sicurezza dei lavoratori, mettevano continuamente a repentaglio la loro vita.

Ci siamo appropriate così della cultura antifascista involontariamente, semplicemente perché eravamo state educate a riflettere criticamente su ogni cosa, ad amare la libertà e ad avversare ogni forma di violenza, soprattutto la guerra.

Mio padre non si era mai voluto iscrivere al partito fascista; gli fu offerta la tessera del Pnf nel 1938, anno in cui il partito fascista aveva deciso di riaprire le iscrizioni per i combattenti della guerra del quindici diciotto; mio padre la rifiutò e questo gli costò il trasferimento in Albania con l’incarico di effettuare ricerche petrolifere. Era facile nel regime fascista incappare nella repressione poliziesca: controlli, richiesta di documenti, divieti, era proibito l’accattonaggío al centro di Roma e gli abitanti delle borgate non potevano sconfinare dai loro quartieri e venire in centro. Le borgate erano sottoposte spesso a severi controlli, erano come campi di concentramento, prive di ogni servizio igienico, prive di acqua; pensate che c’era una fontanella ogni dieci baracche e quattro latrine alla turca ogni dieci famiglie, così erano le borgate: Gordiani, Pietralata, Val Melaina, Borghetto Prenestino, Valle Aurelia, la Valle delle Nebbie.

Durante le celebrazioni fasciste era in questi quartieri che la milizia andava ad arrestare i sovversivi, cioè chi la pensava diversamente, e li tenevano in carcere per tutto il tempo delle manifestazioni, rilasciandoli il giorno dopo.

Nel 1930 ci sfrattarono dalla nostra casa, perché Mussolini aveva deciso di sbancare i borghi e quel tratto di strada dove abitavamo.

Fummo sfrattati e in breve tempo dovemmo sloggiare. Per caso trovammo un bellissimo alloggio, anche se un po’ fatiscente, all’ultimo piano del palazzo di Roccagíovine in piazza del Foro Traiano. Ci reputammo fortunati perché in quel periodo c’era una forte crisi degli alloggi e i fitti erano altissimi.

Questa bella casa ove sono cresciuta aveva, a ponente, una vista straordinaria su tutta Roma; fu qui che, nel periodo dall’occupazione tedesca, si stabilì un centro della quarta zona per l’organizzazione della lotta di liberazione della città. Insomma, man mano che crescevo, il regime mi appariva aggressivo, violento, razzista, guerrafondaio.

Furono proprio le guerre di aggressione all’Abissinia, all’Albania, alla Repubblica spagnola a determinare un profondo cambiamento: il mio antifascismo generico si trasformò in una scelta politica precisa: diventai comunista.

Quali miti proponeva il fascismo alle donne?

Premetto che era obbligatorio avere la tessera del Pnf per poter lavorare, quindi era inevitabile che il consenso al fascismo apparisse esteso. Non è vero, come sostiene qualche storico, che le donne italiane fossero entusiaste del fascismo; per molte di esse gli anni del regime furono anni di dolore, di fame, di solitudine, gli anni in cui le avventure belliche del Duce strappavano gli uomini dal lavoro per mandarli a combattere, e tutto il peso della famiglia restava sulle spalle delle donne e dei vecchi. Il consenso al regime lo diedero invece le donne della media e piccola borghesia, composta da funzionari dello Stato, da impiegati, da piccoli commercianti, quelle dell’alta borghesia e delle grandi famiglie nobili italiane, che sostennero il fascismo entusiasticamente. Non a caso, le dirigenti del Movimento Femminile Fascista appartenevano quasi tutte a questi ceti sociale. Mussolini cercava di conquistare le donne rivolgendosi a loro col mito della madre ideale: la madre dei figli eroici che andavano in guerra a combattere per la patria, la madre o la donna che doveva gestire la casa, l’angelo del focolare, la madre di tanti figli, di tanti guerrieri. Vorrei ricordare il premio di natalità: il Governo fascista aveva promulgato una legge per cui anche chi era ricchissimo, ma aveva fatto almeno dodici figli, poteva essere esentato dal pagamento delle tasse. Ricordo un’altra cosa, che alle coppie che si sposavano nelle date in cui ricorrevano gli eventi gloriosi per il regime, venivano regalate mille lire. Le donne venivano esaltate per il lavoro che svolgevano: le donne che lavo- ravano i campi alle quali il regime conferiva il titolo di «massaie rurali»; le operaie che erano entrate in fabbrica per costruire i prodotti bellici della prima guerra mondiale erano state licenziate quasi tutte, quelle rimaste, erano chiamate retoricamente «lavoratrici proletarie e fasciste»; con ciò si cercava di esaltare anche il durissimo ruolo delle operaie in fabbrica. Dovete sapere che le donne non potevano insegnare nelle scuole medie superiori ma soltanto nelle medie inferiori.

Non esistevano donne magistrato, rarissime le donne avvocato, che tra l’altro erano sempre alle dipendenze di studi importanti; non esistevano donne notaio, c’erano pochissime donne medico.

Questo ruolo che il regime fascista aveva ritagliato per le donne coincideva con il ruolo che aveva assegnato loro la Chiesa?

Si, certamente; La chiesa e il regime fascista proprio sulla politica per le donne trovarono un pieno accordo. La legge fascista contro l’aborto impose pene durissime alle donne e a chi le avesse sostenute in questa pratica. Pio XI in un’enciclica arrivò a condannare esplicitamente la scuola mista pretendendo la divisione tra i due sessi. Le donne erano affascinate dalla mimica del regime, dalle frasi roboanti, dalla romantica attenzione con le quali Mussolini le molciva.

C’erano altre donne che invece si opposero al fascismo, condannate dai tribunali speciali, alcune persino a morte. Due, la Betty e la Diana, morirono nelle carceri di Perugia e di Bologna, nessuno ne parla, nessuno racconta la storia di queste donne comuniste e antifasciste.. C’erano le donne lavoratrici degli scioperi del ’29 e del ’33, le filandiere e le mondine che osarono sfidare, per trenta giorni di scioperi, la violenza della milizia fascista e durante quei giorni qualcuna fu sfregiata con il vetriolo, una fu accecata, molte furono arrestate. Ci sono state, poi, centoventidue donne condannate dal Tribunale Speciale che hanno scontato molti anni di carcere e di confino. Alcuni nomi: Camilla Ravera, Adelé Bei, Egle Gualdi, Teresa Noce…

C’è chi ha definito Mussolini il più grande statista del secolo che avrebbe dato dignità al popolo italiano. Cosa ci dici in merito?

Quando Mussolini salì al potere si attribuì otto gabinetti, tanto che Croce, facendo l’ironico disse: «Questo uomo in una parte segreta della sua casa può riunirsi con se stesso… e il governo è fatto»!

Il governo Fascista nel 1926, in una sola notte, emanò arbitrariamente duemila decreti, sciolse i sindacati, sciolse i partiti; il Duce era un buon guastatore, infatti ha sfasciato tutto l’ordinamento dello Stato; certo, non possiamo dire che siamo stati governati per vent’anni da un deficiente, però era un megalomane, un violento, un esaltato. Nel 1924 Mussolini fece assassinare Matteottí, assumendosi «… tutta la responsabilità di quanto è accaduto…», capendo che poteva alzare la voce di fronte alla insipienza e alla debolezza dei partiti di allora. L’unico che andava ancora in Parlamento fino al 1927 era Antonio Gramsci che si era rifiutato di salire l’Aventino perché era dell’idea che si dovesse combattere e fare opposizione con tutti i mezzi.

Tornando al «grande statista Mussolini», ricordiamoci dell’errore più eclatante e più drammatico che ha commesso: si uni ad Hitler quando, in fondo lo corteggiavano sia i francesi che gli inglesi, e tragicamente prese la strada sbagliata… questo dimostra chi era.

Volete sapere quali erano le parole di questo «grande statista»? Erano: «spezzeremo le reni alla Grecia…» ed invece ce le hanno spezzate. «Mi bastano tremila morti per sedermi al tavolo della pace…», ne abbiamo avuti molti di più e nessuno ci ha fatto sedere al tavolo della pace. Una cosa ha fatto: ha potenziato l’industria di guerra, la Pirelli, la Fiat, l’Ansaldo, Eder, Perrone; queste industrie si sono arricchite col regime. Pensate che Perrone da tremila operai era passata a centomila e aveva anche acquistato un giornale, Il Messaggero. La cosa che Mussolini ha saputo fare meglio è stata la propaganda di se stesso; non c’era casolare, stazione ferroviaria, scuola o ufficio pubblico dove non ci fosse scritta a caratteri cubitali una frase del Duce.

Come hai vissuto i primi mesi della tua clandestinità?

Ricordo, che avevamo stabilito di fare delle riunioni ideologiche per discutere delle molte cose che ritenevamo importanti. La prima questione che si pose all’attenzione di noi resistenti fu quella dell’attendismo: «attendiamo l’ora x per l’insurrezione o combattiamo subito?» Il centro militare che si formò inizialmente fu composto da: Longo, Pertini, Bauer, che crearono il comitato militare, quello che mandò i civili a combattere a Porta San Paolo. All’inizio alcuni partigiani del centro militare si erano rifugiati nei conventi, nelle ville dei Parioli; parte dell’aristocrazia romana cercava di aiutarli. Questi aristocratici, infatti, invitavano i grandi capi del nazismo presenti in Italia, come Dollmann, nelle loro ville per ottenere qualche liberazione di capi partigiani. I Doria, i Colonna, i Pallavicini giocarono questo ruolo.

Gli americani ci avevano chiesto di combattere, di rendere difficile la vita al nemico, e per questo avevamo organizzato i gruppi di azione patriottica (Gap.), a questo gruppo si erano avvicinate una serie di persone che dovevano procurare rifugio ai partigiani, altri dovevano garantire collegamenti con il centro militare, altri procurare i viveri, eravamo tutti senza carta annonaria, avevamo documenti falsi. Le armi per la maggior parte ce le procurammo da a soli, fummo i primi ad andare a chiederle nelle caserme dopo l’otto settembre.

Sin dal 1940, quando c’era la guerra, la mentalità delle persone era cambiata perché con il razionamento, la fame, la mancanza di vestiario, il disagio si era fatto tangibile per tutti. Capimmo che la guerra era vera quando ci furono i primi bombardamenti. Napoli, Milano, tutte le grandi città furono distrutte. Quando, nel 1943, ci siamo armati c’era già uno stato di angoscia permanente, anche quando pensavamo di vivere dei momenti di libertà, capivamo di essere sempre in pericolo. Tu partigiano, potevi essere fermato e il tuo documento poteva essere messo in dubbio; durante un’azione potevi incontrare un amico che ti riconosceva; c’era una continua tensione… ma c’erano anche dei momenti belli. E’ successo più volte che tra partigiani nascesse l’amore.

Come si diventa partigiani?

Io credo che chiunque può diventare un partigiano se ha nel cuore il sentimento della libertà, se si indigna per le ingiustizie. Partigiano vuol dire che si è stati colpiti dall’ingiustizia; il partigiano è colui che sta dalla parte degli oppressi. Bauer faceva una analisi molto precisa parlando della patria per cui combatterono i partigiani: la patria come identità morale, ideologica, come identità di costume, la patria della solidarietà tra le persone che parlano la stessa lingua e che hanno gli stessi costumi, questa è la patria, a questo modello di patria ideale si è contrapposta l’idea di patria dei fascisti, i quali s’impossessarono di ciò che è di tutti e ne fecero un mezzo di dominio e di oppressione. Qualcuno ritiene che prendemmo parte a una guerra civile. Sono fermamente contraria a questa idea che si dà della guerra di Liberazione: la guerra civile è una guerra tra due fazioni, noi non siamo mai stati una fazione, ma eravamo dalla parte di tutti gli antifascisti d’Europa, dalla parte di quei democratici che, nel fascismo avevano visto il proliferare di odio, morte, distruzione, guerra.

Abbiamo combattuto insieme ai partigiani jugoslavi perché avevamo gli stessi obiettivi. Le responsabilità furono di Hitler e di Mussolini e, vorrei dire a Gianfranco Fini, anche di quell’Almirante che firmava i bandi contro i partigiani.

Possiamo dire che la Resistenza è stato il primo fatto storico in cui il nostro paese ha avuto coscienza del proprio costruirsi?

Si, è vero. C’è stato questo sentirsi solidali ed uniti, ci fu il sentimento di schierarsi, da parte di tutti gli italiani, contro il fascismo che era stato falso, fuorviante,e nemico della patria; la patria l’hanno ritrovata poi, i soldati, quando si sono sentiti liberi di combattere per chi volevano loro. Basti ricordare l’epigrafe di Calamandrei nella quale dice: «… volontari ci unimmo, non per odio ma per dignità, per riscattare l’Italia dalla vergogna…».

A Roma, hanno fatto i bandi fino all’ultimo giorno dell’occupazione, e se non rispondevi c’era la pena di morte; mi ricordo che al Quadraro rastrellarono duemila persone, ottocento le hanno mandate in Germania e diciotto non sono più tornate. Le altre sono state inviate sul fronte di Cassíno a spalare macerie. Nel ’44 a Roma i tedeschi fecero rastrellamenti in grande stile; ad esempio l’episodio di viale Giulio Cesare, quello della uccisione di Teresa Gullace, episodio ripreso nel film di Roberto Rossellini «Roma città aperta», ha a che fare con le razzie. Quel giorno, infatti, in viale Giulio Cesare all’ottantunesimo fanteria, i tedeschi avevano radunató tutti i rastrellati delle varie zone della città, erano circa milleduecento persone. Noi, per evitare che fossero trasferite in Germania, avevamo fatto un grande lavoro di mobilitazione fra le donne, rintracciandole nei quartieri popolari. Molte di loro già giravano disperate alla ricerca dei loro uomini; quando seppero che lì in viale Giulio Cesare era concentrata una enorme massa di gente, senza esitazione, si diressero in quel posto. I fascisti, intanto, avevano formato un quadrato di uomini armati per evitare qualsiasi tipo di contatto tra i sequestrati e la popolazione. Teresa Gullace, una donna del popolo che in quel momento si trovava tra la folla riconobbe il marito affacciato ad un finestrone che la chiamava. Aveva attraversato tutta Roma con i suoi quattro figli, ed ora era lì che si sentiva chiamare dal marito. La notammo e capimmo che c’era in lei un irrefrenabile desiderio di correre incontro al suo uomo, quindi, per aiutarla, cercammo di crearle un varco tra la folla, rompendo il cordone delle guardie fasciste. Teresa sfruttando questa occasione, disperata, si lanciò di corsa arrivando fin sotto al finestrone dove era affacciato il marito e gli lanciò un pacchetto che conteneva del pane. A lato della caserma, intanto, un tedesco, che tenevo d’occhio, lasciò la motocicletta e prese a camminare con grande calma; man mano che si avvicinava, compresi che qualcosa di tremendo stava per accadere, infatti il tedesco la raggiunse e l’afferrò di petto; la donna, disperata e impaurita, cominciò a gridare e a menare pugni per divincolarsi, mentre i suoi bambini urlavano per lo spavento. Fu allora che il tedesco si sfilò la pistola dalla cintura, gliela puntò sul collo ed aprì il fuoco. La donna cadde priva di vita. In quel momento tirai fuori la mia rivoltella, presi la mira per sparare, ma un militare che faceva il cordone mi afferrò il braccio e il colpo che avevo tirato finì in aria. A quel punto, i soldati, che mi avevano visto con la rivoltella, volevano arrestarmi, ma le donne, numerose e agguerrite, mi afferrarono per un braccio e cominciarono a tirarmi dalla loro parte; mentre i fascisti mi tiravano dall’altra. Immaginate la scena: in quel momento ero straziata, contesa, tirata, spinta in mezzo a quella folla impazzita. Mentre ciò accadeva, tra le urla e gli schiamazzi, riconobbi la voce di Marisa Musu, anche lei Gappista, che mi chiamava: «… dammi, dammi la pistola…», quell’arma mi avrebbe inchiodata davanti ai fascisti. La lasciai cadere e Marisa immediatamente la raccolse mentre io venivo trascinata dentro la caserma; le donne continuavano a muoversi in massa, l’una accanto all’altra come un branco di animali disorientati e inferociti; scalciavano, urlavano, e maledivano i fascisti. Quando mi ritrovai dentro la caserma mi fecero sedere su una sedia al posto di guardia, senza pensarci cominciai a frugarmi dentro le tasche, accorgendomi di aver trovato qualcosa che non era mio; oltre al caricatore della pistola, che nascosi subito sotto la cenere di un braciere che si trovava nella stanza, trovai un tesserino che tenni con me; fu proprio quel pezzo di carta che mi salvò la vita: pensate un po’, era il tesserino di Marisa Musu del gruppo «Onore e Combattimento», un gruppo della gioventù aristocratica fascista. Marisa Musu se ne serviva per coprire la sua attività di combattente antifascista. La mia amica, nella mischia, mi aveva infilato in tasca quel documento così prezioso per la mia salvezza.

Quando l’ufficiale venne per interrogarmi io iniziai ad urlare e a dire che era stata commessa una grave violenza nei miei confronti. Mi ricordo le facce sbigottite dei militari ormai certi di aver commesso un errore. Fu così che lasciai la caserma dell’ottantunesimo fanteria; una giornata lunghissima quella, non l’ho mai più dimenticata.

Cosa successe dopo la liberazione di Roma?

Dopo la liberazione di Roma capimmo, e lo avrebbero capito subito dopo il proclama di Alexander anche i partigiani che combattevano al Nord, che gli americani non gradivano la nostra presenza anche se avevano aiutato e stimolato la nostra lotta. Tuttavia con quel proclama chiesero sostanzialmente ai partigiani di fermarsi, di tornare a casa, di non combattere più’, il che era una cosa assurda. Il quattro giugno, quando gli americani arrivarono a Roma, vennero richiamati a lavorare tutti quelli che avevano lavorato per la Repubblica Sociale. Non chiamarono i partigiani perché non si fidavano di loro Figuriamoci poi dei comunisti, di quelli di «Bandiera Rossa», dei combattenti del gruppo «Giustizia e libertà». Avevano fiducia solo dei militari. Nessuno fu sostituito, tranne il questore di Roma che mentre tentava di fuggire al nord fu catturato e imprigionato fino al processo e successivamente condannato. Con lui furono condannati Sartori, Sabelli ed altre spie, fu condannato Koch, il torturatore della pensione Iaccarino e di Via Romagna, ma gli altri rimasero tutti al loro posto. Tutti gli impiegati e i funzionari dei ministeri, rimasero. Nel Comune di Roma il podestà fu sostituito dal principe Doria, che fu il primo sindaco della città dopo la Liberazione. Allora capimmo che non era certo il momento per l’affermazione di una democrazia compiuta, e lo capì anche Togliatti che, non appena sbarcò a Salerno, si dichiarò favorevole a collaborare con i monarchici, non per simpatia nei confronti del Re, ma semplicemente perché aveva capito l’importanza dell’unità del movimento di liberazione. I socialisti e le altre forze politiche della sinistra tra cui «Bandiera Rossa», volevano definire già d’allora l’assetto istituzionale del nuovo Stato: abolire la monarchia ed instaurare la Repubblica. Togliatti capì che non bisognava creare divisioni tra le forze che combattevano il nazifascismo e difese l’idea di un governo con i monarchici, invitando tutta la Resistenza a creare dei grandi comitati unitari. Nell’ immediato dopoguerra, avemmo l’impressione che poco era cambiato.

Subito dopo la liberazione del Nord ci fu il Governo Parri, che incontrò notevoli difficoltà; ci sono degli scritti molto amari di Parri sulle manovre ordite contro di lui e il suo governo da parte delle forze moderate e conservatrici che, su suggerimento degli americani e degli inglesi, volevano limitare l’azione di comunisti e socialisti. Infatti il Governo Parri cadde, e si formò un governo con la rappresentanza di tutte le forze politiche ma sotto la guida di De Gasperi. Poi De Gasperi fece il viaggio in America, ricevette l’ordine di far entrare in crisi il governo: comunisti e socialisti furono costretti ad uscire dal governo. Ma il periodo più importante dal punto di vista istituzionale, è quello che vide la nascita della Costituzione Repubblicana ad opera dell’Assemblea Costituente. Lì è stata trasferita la parte migliore delle idealità dei partiti protagonisti della lotta di liberazione.

Eppure è stato permesso ai fascisti di fondare un partito; non a caso i trotzkijsti di «Bandiera Rossa» e la parte più estremista della sinistra, fecero una battaglia per far dichiarare illegale il Movimento Sociale. Pensate che questo partito aveva fatto sì che fossero eletti in parlamento gli stessi fascisti condannati a morte e poi graziati. Personaggi come: Ezio Maria Grai cioè l’organizzatore dell’assassinio dei fratelli Rosselli; Anfuso, ambasciatore della Repubblica Sociale in Germania, l’uomo che visitò i campi di concentramento,che assistette a quell’orrore e che non disse mai nulla; Spampanato, il direttore de Il Messaggero che, commentando l’eccidio delle Fosse ardeatine, aveva scritto: «Giustizia è fatta!». L’amnistia, era stata fatta per quei giovani di quindici o sedici anni che il fascismo aveva trascinato a combattere una guerra fratricida per la Repubblica Sociale, ed era dunque necessaria se si voleva pacificare il paese. Era necessario che quei giovani imparassero a vivere in democrazia e a diventare cittadini del nuovo stato, ma, certo, nessuno immaginava che in virtù cU essa ci saremmo ritrovati questi personaggi messi lì, di fronte a noi, in Parlamento…

E Almirante?

Almirante fu segretario del Ministro degli Interni della Repubblica Sociale, aveva firmato sia i manifesti per l’impiccagione dei renitenti alla leva, sia i bandi fatti per quei luoghi dove furono compiute stragi orrende: Sant’Anna di Stazzema, Vinca, le Fosse del Frigido, Valluccíole, tutta la zona delle Apuane, per arrivare poi a Marzabotto con i suoi 1830 morti. Per noi, la presenza in Parlamento di simili personaggi, rappresentava una intollerabile provocazione.

Comunque dopo la Liberazione, ci rendemmo conto, che i veri problemi stavano nel paese: le riforme si arrestarono, ai principi della Costituzione non si diede attuazione, i cambiamenti sociali restarono sulla carta. Appena la Dc andò al potere, cacciò via tutti i partigiani che erano entrati nei ministeri chiave. Al Ministero degli interni Scelba non solo si portò dentro un folto gruppo di siciliani che erano stati fascisti, ma «s’inventò» la celere con funzione repressiva e violenta, che fu responsabíle di 92 morti nei conflitti sociali del lavoro. Nessun paese d’Europa dopo la fine della guerra ha avuto tanti morti per scontri sociali. Le stesse leggi dell’apparato repressivo fascista erano ancora in vigore e il codice Rocco ha continuato a funzionare per molto tempo.

Fu un periodo durissimo quello, la Resistenza fu duramente attaccata, ci furono molti processi ai partigiani per fatti successi durante e subito dopo la Liberazione e molti di essi furono costretti a fuggire all’estero.

Nel ’64 dovevano fare un programma di celebrazione del ventennale della Resistenza e vennero a chiedere a noi partigiani i nomi delle tre donne che avevano ricevuto la medaglia d’oro. Quando scoprirono che eravamo tutte e tre comuniste non fecero più il servizio in televisione.

Cosa pensi della nuova destra?

Alleanza Nazionale ha detto di aver ripudiato il fascismo condannandolo e affermando che bisogna superare le idee che ad esso fanno riferimento. Hanno lasciato veramente quella storia alle loro spalle? Sono diventati una destra democratica? Può essere, del resto sono ormai da quarant’anni in Parlamento e sono stati costretti a imparare cosa vuol dire la democrazia, l’hanno dovuta esercitare per forza. Ma non dimentichiamo il ruolo della destra in questi cinquant’anni di Repubblica, non dimentichiamo le squadracce nere, le bombe, le stragi, le trame oscure.

Tu sei stata comunista. Che cosa è stato per te, il Partito comunista italiano?

Noi abbiamo avuto innanzitutto una grande funzione, abbiamo lottato sempre per difendere la Costituzione e la democrazia, e questo lo dobbiamo dire ad alta voce, anche a quelli che vogliono dimenticare. Abbiamo difeso i lavoratori e le loro conquiste sociali. Ma la nostra funzione non è stata solo di denuncia politica e sociale, è stata anche di costruzione. Tutte le leggi migliori di questo paese sono andate avanti, perché, con la parte sana della Dc, che ha avuto personaggi di altissimo valore culturale e politico, siamo riusciti a farle passare. Ti faccio un esempio che fanno in pochi: la riforma carceraria.

I comunisti, poi, hanno avuto la funzione di far riflettere, perché tutte le forze politiche hanno dovuto discutere con noi, ragionare con noi sulle riforme da fare; grazie a noi sono stati messi al centro del dibattito politico temi che la parte più moderata della società non voleva discutere. Abbiamo difeso la democrazia durante gli anni del terrorismo e delle trame nere. Infine siamo stati il partito che ha discusso anche di se stesso, delle proprie idealità. Questo è stato il partito comunista.

Per quanto mi riguarda io sono ancora una comunista, una comunista italiana.

E’ rimasto uno spazio per pensare ad un orizzonte di valori? È possibile ancora, per esempio, aspirare alla felicità?

«Felicità raggiunta/si cammina per te su fil di lama/agli occhi sei barlume che vacilla/al piede teso ghiaccio che s’incrina/e dunque non ti tocchi/chi più t’ama». È Montale, io credo che cosa più bella di questa sulla felicità nou si possa dire. Io ho amato molto Montale, le sue poesie le ho sempre portate con me. Durante la Resistenza e nei momenti in cui eravamo insieme, nascosti in un rifugio, magari al lume di candela, leggevamo le sue poesie, io, Bentívegna, Fiorentini e gli altri. La felicità io la vedo così, può coincidere anche con un solo momento, stare seduti in mezzo a un bosco, sentire la cicala che canta, ecco, in un momento così tu diventi natura, e sei felice. Felicità può essere l’incontro con un’altra persona, con un amico. Ricordo che quando ero in sanatorio c’era una ragazza che stava morendo e, lei mi chiese se le tagliavo le unghie, mentre gliele tagliavo le parlavo di tante cose, e per qualche momento l’ho vista sorridere con serenità. E giorno dopo morì, oltre al dispiacere provai un’attimo di felicità nel pensare di averla resa serena per qualche momento. La felicità la provi nei momenti in cui entri realmente in contatto con un altro essere, e con la sua umanità. Ci sono dei momenti in cui siamo pieni di preoccupazioni e questo ci rende estremamente infelici. Io, ad esempio, ho avuto il cancro e in quei momenti vi assicuro che ho più volte pensato che facendomi coraggio avrei vinto la malattia. Si, sono sicura che con la fiducia puoi vincere anche la malattia. Io ne ho vinte svariate di battaglie con la vita, ho trascorso dieci anni in sanatorio e anche lì la malattia l’ho vinta, l’ho fregata, mi sono tolta un polmone e sono tornata a fare i bagni al mare. Noi abbiamo dentro sia il male che ci distrugge, sia il bene che ci aiuta a vincere… e la lotta la conduciamo noi, da soli, contro il male.

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