Guerra di Albania III°

 

Perdite stupide

Il dilettantismo e la faciloneria con cui Mussolini e i suoi ossequiosi consiglieri avevano varato il piano "Evenienza G," il 15 ottobre ’40, in una sala di Palazzo Venezia, provocarono al Paese una perdita d’uomini, di ricchezza e di tempo che Hitler, verso la metà di dicembre, sfogandosi con Wilhelm von Keitel, definì entsetzlich und dumm, spaventosa e stupida. Dietro le quinte della tragedia, il Fúhrer intravedeva giustamente la responsabilità di Galeazza Ciano, il quale, trattando colossali problemi di politica estera con leggerezza goliardica, aveva incoraggiato il suocero all’impresa balcanica, lasciandogli piú volte supporre che il presidente Metaxas, da lui "lavorato," non avrebbe seriamente ostacolato la nostra penetrazione in territorio greco. È probabile che da quel momento Hitler cominciasse a provare per Galeazzo quell’avversione che tre anni dopo portò davanti al plotone di esecuzione, senza possibilità di scampo, il ministro fascista.

48 ore d’inferno

Il fronte tacque, su tutta la linea, dal 12 dicembre all’alba del 23. Dopo quei dieci giorni di tregua, durante i quali riordinarono le loro file e sostituirono i reparti piú provati, i greci riattaccarono violentemente sul Chiariste e il Fratalit. Fecero l’inferno per 48 ore consecutive, ma senza fortuna. Lasciarono sui costoni nevosi alcune centinaia di ‘morti, poi si tirarono indietro. Tre giorni prima, il 19 dicembre, altre consistenti forze nemiche, in maggioranza "fucilieri di montagna," reclutati nei distretti di Pindo e della Vardusia, saggiarono le difese della val Tomorezza, impegnando specialmente sul Bregu, i Math due battaglioni del I’ alpini "Cuneense," il "Mondoví" e il "Pieve di Teco," arrivati in quelle posizioni poche ore prima. I greci, dopo furiosi attacchi e contrattacchi, riuscirono a guadagnare, qua e là, un po’ di terreno. Ma li ricacciò quasi subito indietro il "Mondoví," guidato dal maggiore Alessandro Annoni, che non venne promosso tenente colonnello perché non aveva la tessera del P.N.F. Il giorno dopo, nel pomeriggio, toccò al "Pieve di Teco" so. stenere un attacco violentissimo, reso ancora piú aspro dalla tormenta. Gli alpini, che avevano alla testa il tenente colonnello Claudio Ranalli, resistettero bene alle raffiche di piombo e di neve, finché riuscirono a trovare posizioni di sicurezza sulle quote 1620 e 1650 di Bregu i Math. Frattanto, a sinistra del l’reggimento, il "Vestono" e il "Verona," del 6° alpini "Tridentina," respingevano i greci dai salienti orientali del monte Pusine.

Al dentro, attorno a Cerevoda, nella cupa valle dell’Osum, la mischia si fece furibonda proprio il giorno di Natale. Massicce forze greche investirono i battaglioni "Feltro" e "Cadore," della " Pusteria, " in aiuto dei quali, verso sera, arrivò il battaglione "Val Pescara." I montanari di Papagos pagarono con perdite impressionanti le poche posizioni rosicchiate agli alpini.

Gli 800 uomini del Gran Sasso e della Maiella, che, in agosto, arrivando a Koriza, avevano cantato dolcemente la loro speranza di tornare a casa per Natale, erano rimasti in appena trecento, dopo due mesi di lotta. Ammutoliti, gli occhi fissi ai costoni nevosi dove si nascondeva il nemico, essi in cuor loro avevano ormai dato un addio per sempre alle borgate abruzzesi sospese sulle alte valli del Fucino, del Vomano, del Rajo e del Salto. Cominciarono a circolare nelle retrovie ufficiali superiori dalle uniformi fiammanti, dagli atteggiamenti bonari ma al tempo stesso molto autorevoli, le cui facce non erano affatto nuove. I bersaglieri, davanti a Fieri, videro arrivare un tenente colonnello alto e nodoso, calvo, dalle orecchie leggermente a sventola e dal mento a scucchia, che ostentava modi ruvidi e sbrigatíví. Aveva molti nastri azzurri cuciti sul petto: medaglie prese, evidentemente, nella prima guerra mondiale. Era Renato Ricci. Un altro tenente colonnello dei bersaglieri, stretto nella fusciacca e circondato da un vago alone di colonia, anche lui carico di decorazioni al valore, apparve, una mattina di tramontana, a Gramsci, in val Tomorezza, dove avevano la loro base logistica la "Tridentina," la "Cuneense" e la "Parma." Era Starace. Carlo Alberto Biggini, giurista numero uno del regime, arrivò vestito da capitano di fanteria. Si affacciò al fronte anche il pizzetto appena brizzolato di Grandi. Altri gerarchi di minore importanza, federali, segretari provinciali e del dopolavoro, sindacalisti, squadristi e sansepolcristi, vennero a rincuorare con la loro presenza dimostrativa, per tre o quattro settimane, le truppe impegnate a fondo. Un mese prima, il 18 novembre, Mussolini aveva radunato a Palazzo Venezia le gerarchie del fascismo. in sahariana e pantaloni grigi, e, dopo aver annunciato con fierezza che aerei e sommergibili italiani avrebbero ben presto partecipato alla battaglia della Manica al fiacco dei tedeschi, aveva detto la celebre frase:

"C’è qualcuno di voi, o camerati, che ricorda l’inedito discorso di Eboli, pronunciato nel luglio del 1935, prima della guerra etíopica? Dissi che avremmo spezzato le reni al Negus. Ora, con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia !"

Il panettone sapeva di pioggia

La riunione s’era sciolta con grida di compatto, irrefrenabile entusiasmo. Ma qualche giorno dopo, i gerarchi avevano letto, con entusiasmo piú moderato, una circolare del "capo" che "suggeriva" agli esponenti del regime di staccarsi provvisoriamente dalla poltrona per fare una capatina in mezzo ai soldati. I combattenti, in quel difficile momento, dovevano avere "la precisa sensazione" che la classe dirigente fascista partecipava "fisicamente oltre che moralmente" alle aspre vicende della guerra.

La presenza dei gerarchi lasciò piuttosto indifferenti i soldati, che ne fiutarono subito, con istinto infallibile, la provvisorietà machiavellica. Starace, Ricci, Grandi, Bottai si sforzarono di mostrare una baldanza giovanile, una freschezza di sentimenti e un ardore combattentistico che forse avevano sinceramente provato nel ’15-’18, quando erano soltanto dei giovanotti avventurosi senza ancoraggi borghesi, ma che ora, appesantiti da lunghi anni di potere e di benessere, non potevano piú sentire. Dino Grandi, maggiore degli alpini, trascorse alcuni giorni ai comandi divisionali della "Tridentina" e della "Cuneense." La sua penna bianca, fresca di Unione Militare, spuntò qua e là, accanto a quella del generale Nasci, comandante del Corpo d’Armata alpino, o a quella del generale Santovito, comandante della "Tridentina." Il guardasigilli bolognese volle essere trattato come un maggiore qualsiasi. Rimproverò con cordiale fermezza coloro che lo chiamavano "eccellenza." Ostentò maniere da "vecio." Alla mensa, raccontò perfino qualcuna delle piú recenti barzellette inventate dagli italiani per sfottere Starace e i gerarchi piú conformisti e formalisti. Accettò bevute di grappa, sopportando con un lieve sorriso i conseguenti bruciori di stomaco. Finché, in un pomeriggio turbinoso di neve, spari a bordo di una "mimetica" scortata, senza parere, da alcuni metropolitani di Roma in motocicletta.

Per le feste, arrivarono al fronte generi straordinari di conforto raccolti e spediti dalle donne fasciste. Le tavolette di cioccolata, i maritozzi, le caramelle e i panettoni, inoltrati da Bari ai nuclei di sussistenza attraverso cento mani, con scarso fervore,molte tappe e altrettanti prelevamenti intermedi, giungevano a destinazione spappolati dall’umidità o sbriciolati dagli urtoni. I panettoni, specialmente, erano tristi gnocchi dal sapore di pioggia, sformati, che avevano perso per strada l’uva passa e i canditi. Il fango e la neve inghiottirono, fra Natale e metà gennaio, migliaia di volantini scoloriti su cui stava scritto: "Le donne fasciste di Reggio Emilia ai soldati italiani che vegliano in armi in terra, in cielo e in mare, con la ferma certezza della vittoria finale." Oppure: "Le giovani fasciste di Pistoia ai fratelli in armi di cui sono fiere. Vinceremo!"

Ben pochi -panettoni riuscirono a raggiungere i resti della "Julìa," radicati fino al ginocchio sul Mali Topojanit e sul Quaf i Spoisit. Il giorno dell’Epifania, il- 9′ alpini fu investito da forze tre volte superiori e da uno scroscio di cannonate e di mortai d’inaudita intensità. L’8 gennaio caddero stroncati dalle schegge il comandante del reggimento, colonnello Tavoni, e il tenente colonnello Tinivella, comandante del battaglione "Val Tagliamento." Il 10 gennaio, i resti della "Julia" stavano per essere portati indietro, allo scopo di ricostituire finalmente la divisione, allorché, all’ultimo momento, furono mandati a tenere la posizione di Ciuca Fecit, fra la "Bari" e la "Lupi di Toscana." La "Julia" era ormai ridotta, in tutto, a 1000 uomini: poco piú di un battaglione. Disponeva di 15 mitragliatrici efficienti e di 5 mortai. Le sue perdite, dal giorno del ripiegamento all’8 gennaio, ammontavano a 153 ufficiali e 3844 militari di truppa. Il colonnello Gaetano Tavoni, da Vignola, e il tenente colonnello Umberto Tinivella, da Lecco, ebbero la medaglia d’oro alla memoria.

Il terrore di finire sotto i ferri

Fu un terribile gennaio. Forse peggiore di quello passato dalle nostre truppe nel 1918, sull’altopiano di Asiago. Paragonabile soltanto all’altro, spaventoso, che sorprese i nostri alpini sulla steppa russa, nel 1943, allorché i sovietici ruppero definitivamente il fronte dell’VIII Armata.

I greci si avventarono sulle nostre posizioni, davanti a Berat e Tepeleni, con la disperata volontà di passare. Il generale Papagos sapeva bene che ormai ogni giorno di ritardo era un muro di piú fra le sue truppe e gli obbiettivi strategici finali. Anche i successi parziali ottenuti dai greci il 9 gennaio, quando le difese italiane nella valle della Vojussa, fra il Chiariste e il Mali Tabaian, cedettero lasciando scoperta Klisura, non andavano al di là del raggio tattico. Soltanto la caduta di Tepeleni e di Berat poteva compromettere a fondo l’intero schieramento italiano, dal lago di Ocrida al mare.

Il 26 gennaio, l’XI Armata ordinò ai reparti attestati sui costoni meridionali del Trebiscini e dello Scindelli, monti paralleli, protesi da nord a sud come enormi groppe di balena, di sferrare un attacco per riprendere Klisura. La "Pusteria" e la "Sforzesca" riuscirono ad aprirsi la strada per una decina di chilometri. Il 29 gennaio, quando già le avanguardie degli alpini e dei fanti intravedevano ai loro piedi i tetti radi e bigi di Klisura, i greci passarono al contrattacco e in 48 ore d’inferno riconquistarono il terreno perduto.

Nel frattempo, gli ostinati montanari epiroti, comandati dal brigadiere generale Ekonomakkis, tentavano di aggirare la nostra estrema ala sinistra, penetrando nelle strette del Tomorezza e del Devoli. La "Tridentina," la "Cuneense," la " Parma, " rinforzate da un battaglione di guardie di finanza e alcune compagnie di GAF (guardie alla frontiera), sostennero una decina di attacchi nel giro di due settimane.

I morsi del freddo, specialmente in quelle notti rigidissime, misero fuori combattimento migliaia di soldati. Ogni mattina, in barella o trascinandosi zoppicando, a seconda del loro stato, i militari colpiti da congelamento raggiungevano le prime basi, nelle immediate retrovie, per essere caricati sulle autoambulanze, o anche sugli autocarri che tornavano indietro vuoti dopo aver consegnato i rifornimenti, e trasportati negli ospedali di Elbassan, Tirana, Valong e Durazzo, a seconda della disponibilità dei letti. I congelati meno gravi restavano per lo piú alcuni giorni negli ospedaletti da campo, impiantati nei pressi del fronte. I soldati, anche i piú incolti, impararono che il congelamento può essere di 1′, 2° e 3° grado. Riuscirono anche a capire, grosso modo, la gravità di un congelamento, dall’aspetto esteriore degli arti colpiti. I piedi di 1* grado erano soltanto lividi e pieni di un formicolio che poi diventava una specie di indolenzimento. Quelli di 2′ erano gonfi e presentavano, qua e là, delle bolle rossastre che in un secondo tempo volgevano al viola. Tanto nel primo che nel secondo caso, i congelati avevano un’aria piuttosto tranquilla, perché sapevano che non vi era pericolo di finire "sotto i ferri," e tutto sommato il vantaggio di andarsene indietro per qualche tempo era tutt’altro che disprezzabile. Ma quando il piede diventava completamente insensibile, e da pallidissimo si faceva scuro, quasi nero all’attaccatura delle unghie, e la gamba cominciava a gonfiare al di sopra della caviglia: allora era segno che il congelamento era di 3 grado. Si stava avvicinando la fatale "cancrena secca." L’amputazione era quasi inevitabile. E in questo caso, i montanari e i contadini adagiati sulle barelle, bianchi come cenci, immaginavano il resto della loro esistenza trascinato nella impotenza, nella minorazione, e giravano attorno occhi da bambini spaventati, balbettando vaghe implorazioni.

Rimbalzati da un centro all’altro

Capitava, non di rado, che le segnalazioni degli ospedali, in fatto di letti disponibili, arrivassero ai centri sanitari delle retrovie con un certo ritardo. Succedeva, di conseguenza, che le autolettighe portassero una certa quantità di congelati ad ospedali che nel frattempo non avevano piú posto. Fra contestazioni burocratiche e l’inevitabile gioco a’ scarica barile, i congelati tornavano indietro, rimbalzavano da un ospedale all’altro, restavano lunghe ore su pagliericci di fortuna sistemati lungo i corridoi, sui pianerottoli, nelle corsie fra un letto e l’altro. Casi per i quali sarebbe bastata una cura a base di frizioni, di impacchi freddi e di medicazioni antisettiche, si aggravavano rapidamente, fino a richiedere l’intervento del chirurgo. Per avere un’idea della situazione, in quel tremendo inverno albanese, basti pensare che i congelati, fra dicembre e marzo, furono 12.368.

Il 9 febbraio, dopo due giorni di cannoneggiamento, i greci si scatenarono nuovamente in forze contro gli antemurali di Tepeleni. Si riaccesero, contemporaneamente, gli assopiti focolai del settore centrale, attorno al monte Golico, dove due battaglioni della "Punteria," il "Belluno" e il "Val Cismon," furono duramente impegnati assieme ad alcuni reparti della divisione "Legnano."

Rividero Ponte Perati

Il 14 aprile, le colonne della IX Armata, all’inseguimento dei greci, occuparono Koriza. Trovarono la cittadina appisolata in un mezzo sole. Gli alberi lungo i boulevards, nel quartiere nuovo, a oriente. della città, erano ricoperti di foglie nuove, minute. Qualche monello faceva capolino, diffidente, agli angoli del "bazar" musulmano, per vedere i soldati in marcia ai due lati della strada. Le solite ragazze pallide, in camice bianco, aspettavano sbadigliando i clienti nelle botteghe dei barbieri. I grandi caffè del centro, quando non erano addirittura chiusi, erano vuoti. Nelle vetrine dei librai, le biografie di Mussolini, i romanzi di Mario Appelius, di Alfredo Panzini, di Antonio Beltramelli, di Luciana Peverelli, di Mura, leggermente deteriorati da sei mesi di cantina, avevano ripreso il posto ceduto in no-vembre alla letteratura greca, francese ed inglese. Sui muri, qua e là, vi erano ancora i proclami firmati da Metaxas, Papagos e Koritzis.

Il giorno 17, le truppe tallonatrici dell’XI Armata, al centro e all’estrema destra, superarono Klisura e Porto Palermo. Il 23, gli alpini e i fanti della IX Armata rividero, finalmente, le acque scure e rapide del Sarantaporos, stretto nella gola arcigna di Ponte Perati. Al di là del fiume, dove cominciava la strada per Koriza, la casetta rosa dei finanzieri greci brillava ancora, solitaria, sullo sfondo cupo della montagna.

Beffe ai tedeschi

Quello stesso giorno, nelle prime ore del pomeriggio, le armate di Papagos, in Macedonia e nell’Epiro, si arresero in massa. Poche ore dopo, a Salonicco, i rappresentanti dei tre eserciti, tedesco, italiano e greco, firmarono l’armistizio. Da principio, gli ufficiali greci incaricati di sottoscrivere il documento avanzarono la proposta di incontrare i tedeschi e gli italiani in due sedi diverse. Era giusto che coi germanici, penetrati in territorio greco prima della resa, l’armistizio fosse firmato a Salonicco. Ma per quanto riguardava le truppe di Mussolini, per le quali la guerra era finita in Albania, l’armistizio, secondo le buone regole militari, andava firmato in una località albanese. Argirocastro, per esempio.

Furono i tedeschi, non senza un sogghigno di orgogliosa soddisfazione, a convincere i rappresentanti dello stato maggiore greco che, tutto sommato, la loro richiesta, benché piuttosto ragionevole, non era che un cavillo formale. Certe sottigliezze non erano piú di moda. Appartenevano ai rituali ottocenteschi, romantici della guerra. Che la Grecia si dichiarasse sconfitta in un posto anziché in un altro era una questione del tutto secondaria.

Fra il 27 e il 30 aprile, le truppe italo-germaniche completarono l’occupazione della nazione aggredita.’ Gli italiani raggiunsero le località loro assegnate con la malinconica sensazione d’essere entrati in Grecia, dopo tanti sacrifici, dalla porta di servizio., I veri padroni della situazione erano i tedeschi: anche se il loro merito si riduceva ad aver dato il colpo di grazia a un esercito già dissanguato e vacillante. Sulle strade dell’Epiro, le nostre autocolonne, i nostri fanti, in marcia, incontravano, a regolare il traffico, ai posti di blocco, ai bivi, ai crocevia, grossi tedeschi biondi, dagli occhi sbiaditi, che trattavano gli uomini "dell’exzellenz Muzolini" non come valorosi alleati, ma piuttosto come aggregati che in qualche modo bisognava tollerare. Gli sguardi quasi bianchi che i giganti della Fè1d-gendarmerie, con la loro placca metallica sul petto, posavano sui nostri piccoli fantaccini, scuri, pazienti, polverosi, non erano molto diversi da quelli destinati ai prigionieri greci, incolonnati verso i campi di concentramento.

In barba all’Asse d’acciaio, definito indissolubile e storicamente definitivo da Mussolini, i guerrieri di Hitler, lungo le strade greche, ebbero la loro parte di pernacchie, in quei giorni di fine aprile. E, in qualche caso, la reazione italiana alla loro tracotanza non si limitò agli sberleffi.

Il soldato Sanna

Sulla strada fra Gianina e Prevesa, un richiamato sardo del ’12, certo Sanna, alto appena da non essere riformato, quasi piú largo che lungo, dalle sopracciglia d’ebano confuse con l’attaccatura dei capelli, si staccò un momento dalla colonna in marcia, per dare mezza pagnotta a due bambini seminudi, dagli occhi pieni di spavento, stretti sulla porta di un casolare. C’era un tedescone della Feldpolizei, in quei pressi, e il gesto dell’italiano non gli piacque. "Nichts Schwanke!" niente debolezze, gridò il nazista, e con una sberla fece rotolare lontano, nella polvere, la mezza pagnotta.

Il soldato Sanna, dopo un attimo di perplessità, digrignò i denti. Lo stridore dei suoi forti molari fu udito dai compagni che gli stavano sfilando alle spalle, a cinque metri di distanza. Poi, il piccolo sardo urlò con tutto il suo fiato: "Era mio, il pane!" Quindi lo si vide arrampicarsi al tedesco, come ad un olmo, stringergli il collo con le braccia, e la vita con le gambe, frantumargli letteralmente la faccia con una tremenda serie di testate. Dopo aver tentato disperatamente di liberarsi, il tedesco crollò nella polvere. Il sardo non mollò la presa. Gli restò abbrancato, a cavalcioni, anche per terra, continuando a demolirgli furiosamente il naso, le labbra e le sopracciglia di paglia. La fronte bassa e scura dell’italiano, intrisa di sangue, contusa, lacerata dai denti del gigante atterrato, batteva e batteva, come un martello.

"Era mio, il pane!"

Sanna ripeteva il suo urlo, mentre quattro o cinque commilitoni cercavano, mettendocela tutta, di staccarlo dalla preda. Il tedesco emetteva muggiti gorgoglianti. Il sangue gli colava a rigagnoli sulla pettorina metallica. I suoi stivali a sorbettiera scalciavano nella polvere, sempre piú fiacchi.

Il fante sardo, con la faccia sporca del suo sangue e dell’altro, fu portato di fronte al comandante di battaglione.

"Cos’hai fatto, disgraziato!" gridò il maggiore. "Per poco non lo ammazzavi! Un tedesco! Figurati ora che cosa succede

""Era mio, il pane."

" E con ciò ? Lo sai che per mezza pagnotta finisci in galera ? "

" Ci vado volentieri. Ma il pane non era né di Mussolini, né di Hitler, né vostro, signor maggiore! Era mio. E io in Sardegna ci ho due bambini!"

I tedeschi presidiarono Atene, Patrasso, Corinto, tutti i centri piú importanti della nazione sconfitta. Gli italiani, nominalmente presenti anche ad Atene, ebbero i presidi di Prevesa, di Arta, delle isole allineate lungo 1a costa occidentale della Grecia: Corrà, Santa Maura, Zante, Cefalonia. A quest’ultima’ il 1° maggio, fu destinata la divisione " Acqui’? : la stessa che due anni dopo, nel 1943, obbedendo agli ordini di Badoglio, resistette ai tedeschi dal 15 al 22 settembre, e quando si arrese fu passata quasi interamente per le armi, con una ferocia e una implacabilità che hanno qualche precedente soltanto nelle pagine piú truci dell’antichità barbarica. Nel maggio del 1941, sotto il cielo limpido e intenso della primavera, la Grecia giacque davvero con le reni spezzate: mentre Mussolini cominciava già ad avvertire i primi dolori di schiena. Re Giorgio, in un messaggio abbastanza patetico, salutò il suo popolo e annunciò che la capitale si trasferiva a Creta, in attesa di giorni migliori. Il 3 maggio, incalzato dai tedeschi, Sir Henry Maitland Wilson, comandante del corpo di spedizione inviato in Grecia dall’Inghilterra, assistette, appoggiato a una canna d’India, al difficile reimbarco dei suoi battaglioni. L’80 per cento delle truppe inglesi riuscirono a prendere il largo, sotto gli urli laceranti degli "Stukas" in picchiata. Quindici giorni prima, il 18 aprile, il presidente del Consiglio Alessandro Koritzis, salito al potere il 29 gennaio, alla morte di Metaxas, si era sparato un colpo di pistola alla tempia. Il suo posto fu preso da Emmanuel Tsouderos.

Il sole era già caldo. Le città e i villaggi, tramortiti. L’eccitazione euforica della "guerra lampo" andava spegnendosi. Mentre la radio portava, per le prime volte, da Belgrado, le note alquanto meste e crepuscolari di Lily Marlene, i tedeschi, fra un treno di preda bellica e l’altro, spedivano in Germania, trattati peggio delle bestie e delle cose, gli ebrei di Salonicco, di Larissa, di Trikkala, di Kozani. Uomini, donne, vecchi, bambini, moribondi e neonati, schiacciati all’inverosimile nei vagoni chiusi con sigilli di piombo, destinati ai crematori e alle fosse comuni. Chi vide, fermi, di sera, sui binari morti delle stazioni balcaniche, quei vagoni pieni di gemiti soffocati, alle cui grate, talvolta, si afferravano mani disperate e bianchissime, non riuscirà mai piú a dimenticarli.

Cavallero s’impermalì

Quanto all’Italia, la campagna che Mussolini, Ciano ed alcuni generali troppo arrendevoli e ambiziosi avevano considerato, sette mesi prima, come una facile passeggiata, si era conclusa con un bilancio talmente funesto, da compromettere seriamente la nostra efficienza militare sugli altri scacchieri della guerra: dove già si profilavano, nel frattempo, operazionì estremamente impegnative, dalle quali, a scadenza piú o meno lunga, sarebbe dipeso l’esito finale del conflitto.

Verso la fine di maggio, lo Stato Maggiore fu in grado di presentare al dittatore romagnolo i dati delle nostre perdite contro la Grecia.

Morti accertati, 13.755; feriti, 50.874; congelati, 12.368 (3.000 dei quali sottoposti ad amputazioni); dispersi, 25.067.

A proposito dei dispersi, era ovvio prevedere che una certa percentuale, probabilmente assai rilevante, fosse costituita, in realtà, da salme non recuperate: specialmente nei primi due mesi della campagna, quando le esigenze di un rapido ripiegamento non ci avevano consentito di raccogliere, riconoscere e seppellire migliaia di morti. Infatti, in un secondo tempo, oltre 10.000 di quei dispersi passarono nella lista dei caduti.

Non meno gravi, dal 28 ottobre al 23 aprile, le perdite, in fatto di materiali d’ogni genere, di armi

individuali, mortai, mitragliatrici pesanti, pezzi di artiglieria, quadrupedi, e automezzi.

Il rapporto di Gorizia

Il 31 luglio 1942, in una calura soffocante, Mussolini arrivò improvvisamente a Gorizia. La cittadina "cantata," in chiave d’annunziana, da Vittorio Locchi, nella celebre Sagra, pezzo forte dei dicitori dilettanti, aveva dato al fascismo della "vigilia," nel ’20 e nel ’21, un notevole contributo di squadristi. Manganellatoci fanatici come Umberto Ulivieri, Giuseppe Derfles, Aristide Fedon, Luigi Bader e Mario Bonfiglio avevano lasciato un ben triste ricordo di sé, nel circondario a sinistra e a destra dell’Isonzo. La tradizionale ruggine fra italiani e sloveni aveva resa piú accanita e sanguinosa che altrove la lotta fra antifascisti e fascisti. Ma nonostante le "belle pagine" scritte dai goriziani prima della marcia su Roma, il dittatore non li vedeva di buon occhio. La cittadina, con le sue beghe etniche, continuava a dargli preoccupazioni e grattacapi. Proprio leggendo un rapporto dell’OVRA, a proposito di certe cospirazioni scoperte nel quartiere nord-est della città, roccaforte della popolazione slava, Mussolini aveva pronunciato una delle sue frasi "storiche" piú tipiche e paradossali: "Governare gli italiani non è difficile. è inutile!"

A_Gorizia, convocati con poche ore di preavviso, il fondatore dell’impero riunì alcuni generali che in quel momento avevano la responsabilità del settore gigliano-croato: Roatta, comandante in capo delle forze dislocate in Croazia e Slovenia; Ferrero, comandante del Corpo d’Armata di Trieste; Robotti, comandante delle truppe d’occupazione a Lubiana; Coturri, comandante del V Corpo, di stanza in Croazia. Erano presenti anche Cavallero, da poco promosso maresciallo, e il capo di stato maggiore dell’esercito, Ambrosio.

Quel rapporto estivo non fu verbalizzato. Non sappiamo, quindi, con esattezza ciò che Mussolini disse e ascoltò nel corso della riunione protrattasi per circa due ore. Ma uno degli argomenti centrali fu certamente la guerriglia partigiana che da qualche mese stava facendosi piú dura e risoluta su tutto il quadrante balcanico. Una radio clandestina, annidata chissà dove, aveva già reso popolare fra i nostri soldati il nome di un misterioso capo-ribelle. Un nome brevissimo, di sole due sillabe, facile da ricordare: Tito.

Guerra "senza bollettini"

A partire dalla primavera del ’42, gli uomini dell’Asse si erano resi conto che la "liquidazione" del nemico, nei diversi territori occupati, era un’impresa formidabile, illusoria, praticamente impossibile. Si cominciava a capire che quanto piú le invasioni erano rapide e apparentemente incontrastate, tanto piú consistente e minacciosa era la "resistenza" che ne derivava. Finita la guerra dei "bollettini," ne cominciava subito un’altra, oscura, sorda, implacabile, in margine al corso ufficiale delle operazioni, fatta di sabotaggi, colpi di mano, imboscate, esasperante passività.

Il movimento partigiano jugoslavo, bene organizzato, diretto con pugno di ferro da Giuseppe Broz, detto Tito, forte di interi reggimenti che nella primavera del 1941 erano riusciti a sottrarsi al blitz tedesco e a darsi alla macchia con armi e materiali, fu il primo a pesare sulla bilancia bellica nazi-fascista: quando ancora le "bande" sovietiche, alle spalle delle divisioni impegnate sul Donez, non

avevano cominciato a insidiare seriamente e sistematicamente le strade logistiche e i presidi lasciati nelle retrovie. Ma nell’estate del ’42, mentre Mussolini, tutto candido come un bastone di zucchero filato, teneva il suo improvviso rapporto a Gorizia, un’altra macchina partigiana era già in pieno movimento, meno organica di quella "titina," ma non meno terribile, in tutta l’Albania: dalle solitarie montagne del Kossovo, fra Prizren e il lago di Scutari, al vecchio confine greco, temporaneamente cancellato dall’occupazione.

Nel maggio del ’41, dopo il crollo della Grecia e l’armistizio di Salonicco, le divisioni italiane, che in sei mesi di battaglie, di gelo e di fango, si erano ammassate sul fronte dell’Epiro, cominciarono a rimpatriare. Il "blocco" dei sommergibili inglesi, nel corridoio adriatico, s’era parecchio irrigidito. Diverse navi mercantili di medio tonnellaggio, scortate alla meglio da pochi aeroplani e da qualche vetusto cacciatorpediniere a quattro ciminiere, tipo Valerio Papa, furono sorprese e silurate, nonostante la brevità del tragitto. Interi battaglioni scomparvero, cosí, proprio sulla soglia di casa.

Altre divisioni, oltre quelle destinate all’occupazione del territorio greco, restarono a presidiare l’Albania, rinforzate da numerose compagnie di Guardia alla Frontiera e da alcuni battaglioni di Genio Lavoratori, costituiti, in pratica, da anziani operai militarizzati, che andavano riassestando le strade e i ponti danneggiati dalla guerra, tenendo le armi a portata di mano

Si credettero fortunati

Tutti quei reparti, nonostante la nostalgia della famiglia e le licenze concesse col contagocce, sì credettero da principio fortunati d’essere rimasti in quell’angolo di mondo, apparentemente cosí tranquillo, tagliato fuori dalle crescenti asprezze del conflitto. La guerra, i bombardamenti sempre piú massicci, le furibonde battaglie in Marmarica e in Russia, le ritirate, i contrattacchi e gli sbarchi arrivavano in Albania, nei piccoli distaccamenti attorno a Elbassan, Argirocastro, Valona e Porto Edda, come un’eco remota, attraverso i comunicati radio e i giornali, sempre arretrati di qualche giorno. I reggimenti della "Parma" e della "Modena," destínati a presidiare la zona fra Ponte Perati e il mare, piena di silenzio e di sonnolenza, dopo il fragore infernale della guerra, si organizzarono per trascorrere il piú comodamente possibile quel numero imprecisato di mesi che ancora li separava dalla smobilitazione. Molte baracche si trasformarono in case ìn muratura. Gli ufficiali effettivi, specialmente quelli destinati ai presidi piú grossi e stabili, ebbero il permesso di farsi raggiungere dalle famiglie. Donne di servizio e bambinaie cominciarono a circolare fra i soldati. Le sussistenze ebbero l’ordine di rifornire, "per contanti," anche ai civili. Fra l’estate del ’42 e l’inverno successivo, l’Albania sembrò una specie di oasi, serena e cinguettante, del tutto defilata dal martellamento micidiale del gigantesco conflitto.

Assai difficilmente, anche i meno ottimisti, potevano prevedere, in quei giorni, quello che stava per succedere. Mentre i "residenti," militari e borghesi, vivevano, là, le loro giornate, intorpiditi dall’ordinaria amministrazione, i komitagi, bande armate composte da intere famiglie, con donne, vecchi e bambini, si andavano ingrossando rapidamente sui monti. Molti villaggi nascosti nelle gole boscose del Kurvelesci e dell’Epiro, come ad esempio Kucí, sulle alture dominanti la strada litoranea fra Valona e Porto Edda, si erano già completamente sottratti al controllo delle forze d’occupazione, si erano proclamate "libere repubbliche skipetare" e avevano eletto democraticamente i loro babai (sindaci). Sul tetto di molte baskie (palazzi comunali), lontano dalle principali vie di comunicazione, sventolavano bandiere rosse con la falce e il martello o con l’aquila bicipide di Zog, a seconda che la rivolta locale fosse capeggiata dai comunisti o dai nazionalisti rimasti fedeli al re spodestato nel marzo ’39.

La guerra "senza bollettini" d’Albania covò i suoi preparativi per una decina di mesi. Nel marzo del ’42, una serie di colpi di mano, bruschi e sanguinosi, compiuti da piccole bande mascherate, lasciò i primi morti, eternamente stupefatti, lungo le antiche strade turche, nelle garitte dei posti di blocco, nelle casermette dei distaccamenti piú lontani dalle basi. Le prime camionette postali finirono incendiate nei fossi, fra mucchi di corrispondenza calpestata e carbonizzata. Le guardie di finanza, relegate fra le paludi di Butrinto, restarono per tre o quattro giorni chiuse nel loro alloggiamento, senza poter mettere fuori neppure il naso, circondate da invisibili tiratori di precisione. Venivano da fuori ogni tanto, vaghe e gracidanti, le note dell’Internazionale suonate da un vecchio grammofono.

I guardiafili, in primavera, furono costretti a un lavoro estenuante, sempre piú rischioso e maledetto, per riparare le linee telefoniche, tagliate continuamente, nei punti piú solitari, dove il silenzio, compatto e minaccioso, poteva da un momento all’altro frantumarsi nel crepitio delle armi automatiche e delle bombe a mano. Gli aggiustatori, in cima ai pali, sostenuti dai denti dei ferri ramponi, affondati a mordere il legno, erano bersagli ideali. Lavoravano lassú, con le pinze e il nastro adesivo, vincendo a stento il tremito convulso delle mani.

Pariani tirò a campare

Verso la fine del ’42, quando il generale Dalmazzo fu nominato comandante delle Forze Armate d’Albania, certi nomi di capi partigiani, come Alizot Emiri, Isa Toska e Enver Hoxha (capo della Repubblica dopo la liberazione, erano già ben noti agli italiani. L’occulta e risoluta attività di quei "generali fantasma," inafferrabili e onnipresenti, logorava giorno per giorno; ora per ora, i nervi dei soldati, degli Aficiali, dei funzionari e dei gerarchi, che credevano sempre meno alla "causa" mussoliniana e non vedevano l’ora di tornarsene a casa.

Il 17 marzo del ’43, mentre VIII° Armata britannica ci stava liquidando sul Mareth la nostra I Armata e i sovietici stavano premendo verso Leopoli, il vecchio generale Alberto Pariani, che nessuno si era sognato di consultare alla vigilia dell’attacco alla Grecia, nonostante fosse l’unico, vero esperto di cose albanesi del nostro stato maggiore, fu mandato a Tirana come luogotenente generale, al posto di Francesco Jacomoni. Era l’estremo tentativo di soffocare le insurrezioni e le rivolte, che ormai si susseguivano senza respiro, adottando "maniere forti," di tipo squisitamente militare, al di fuori di ogni interferenza locale e di ogni opportunismo politico. In realtà, Pariani, che non perdonava a Mussolinì di essere stato silurato come Capo di Stato Maggiore, nel novembre del ’39, per via di una sua pessimistica relazione circa l’efficienza dei nostri ", quadri " e dei nostri armamenti, si limitò ad alcuni proclami, pieni di parole rombanti, ottocentesche, tirando praticamente a campare. Durante i sei mesi della sua luogotenenza, mentre i battaglioni "M" della milizia volontaria, e alcuni reparti nazisti mandati a dar loro manforte, rastrellavano i monti, bruciavano i casolari, fucilavano "sul posto" e seviziavano gli inermi, i reparti regolari del nostro esercito (approvati, dietro le quinte, dallo stesso Pariani) si guardavano bene dal partecipare seriamente alla repressione. La resa dei conti, per chi non fosse accecato dal fanatismo nazifascista, era nell’ aria. Solo per questo, ai primi freschi settembrini, dopo le incognite della piú drammatica estate di tutta la nostra storia, i fanti, i genieri, le guardie alla frontiera, i marinai e gli avieri di stanza in Albania, scamparono nella stragrande maggioranza alla sollevazione skipetara, balzata fuori, agguerritissima, dalla clandestinità. Se migliaia di soldati e ufficiali italiani persero tragicamente la vita, nella palingenesi del settembre "badogliano," fu per mano di criminali tedeschi. L’ultimo capitolo della guerra d’Albania, quando già la Roma imperiale e cesarea di Mussolini si era prudentemente trasformata in Roma pontificia, è uno dei piú foschi e dolorosi della seconda guerra mondiale. Lo scrissero, col loro sangue, gli uomini della sventurata divisione "Acqui."

Gli undicimila di Cefalonia

Milioni d’italiani ricordano l’emozione con la quale, a sera dell’8 settembre 1943, ascoltarono il comunicato di Badoglio che annunciava l’armistizio.

Ma piú che in altri, quelle settantacinque parole sono rimaàte impresse in coloro che quel giorno di fine estate si trovavano sotto le armi, in Balcania. A una prima esplosione di gioia, in cui si disperdeva il pallore dei militi, sulle cui giubbe già da un mese le stellette avevano sostituito i fasci littori, segui un silenzio preoccupato. Per gente lontana da casa, a contatto con reparti tedeschi in pieno assetto di guerra, il comunicato di Badoglio non era rassicurante. In esso si ordinava di cessare "ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane… in ogni luogo" e di reagire, però, "ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza."

Si capiva che quest’ultima disposizione riguardava i tedeschi, ma c’erano tuttavia i partigiani, coi quali non si sapeva come regolarsi. Di punto in bianco la situazione si rovesciava, le prospettive cambiavano. E poi, che cosa si doveva considerare precisamente come attacco ? Bisognava aspettare un’azione di fuoco o si poteva prevenirla stroncandone la preparazione? Tutto sommato, i reggimenti di stanza fra Lubiana ed Atene avrebbero preferito clic Badoglio ordinasse un vero e proprio rovesciamento di fronte. Si sperò per qualche giorno che gli ordini dei comandi d’armata e di corpo d’armata venissero a chiarire le cose. Ma i radiogrammi che seguirono l’annuncio dell’armistizio erano più febbrili che precisi. In essi si parlava di restare ai propri posti qualunque cosa accadesse, di non fraternizzare con nessuno, di non molestare i tedeschi, di non aiutare gli alleati, di non accostarsi ai partigiani (ch’erano ancora chiamati "ribelli"), di mantenere una disciplina esemplare, di stare tranquilli. Bisognava insomma, dopo trentasette mesi di guerra, assumere un atteggiamento quasi turistico.

Nel settembre del 1943, l’isola di Cefalonia (la piú grande delle Ionie) era presidiata dal grosso della divisione "Acqui," alcuni reparti della quale erano dislocati a Santa Maura e Corfú. Compresi alcuni reparti di mitraglieri di corpo d’armata, una flottiglia MAS e un’altra di dragamine, il totale delle nostre truppe era di undicimila soldati e cinquecentoventicinque ufficiali. La divisione era comandata dal generale Antonio Gandin, la fanteria divisionale dal generale Luigi Edoardo Gherzi, il 33° reggimento artiglieria dal colonnello Mario Romagnoli. Ai primi d’agosto, alcuni reparti tedeschi (il 996° reggimento granatieri, comandato dal tenente colonnello Hans Barge, e un gruppo di artiglieria agli ordini del tenente Franz Fauth) erano sbarcati nell’isola per rafforzare il nostro presidio.

La tragedia della "Acqui"

L’ settembre, un’ora dopo l’annuncio dell’armistizio, mentre in Argostoli, capitale dell’isola, e nei paesini sparsi sui colli circostanti suonavano le campane a festa, il generale Gandin, in attesa di ordini, decretò íl coprifuoco e dispose che pattuglie a piedi e a cavallo perlustrassero il territorio. Soldati e ufficiali, sotto le tende e negli acquartieramenti, commentavano l’avvenimento. Era facile indovinare il risentimento dei tedeschi, i quali avevano già cominciato, cautamente, nell’ombra, alcuni movimenti di truppa.

La mattina del giorno 9, il generale Gandin chiamò a rapporto il colonnello tedesco Hans Barge. Costui dichiarò di non avere ancora ricevuto ordini dal proprio comando, ma di essere disposto a collaborare con gli italiani affinché non avvenissero disordini. Dopo il rapporto vi fu una colazione, nel corso della quale il tenente Fauth brindò all’Italia, tanto provata da una guerra sfortunata, augurandole un avvenire migliore. Qualche ora dopo, il generale Gandin ricevette un radiogramma dell’XI Armata, firmato dal generale Vecchiarelli, nel quale si ordinava di consegnare ai tedeschi le armi collettive (artiglierie, mortai e mitragliatrici pesanti), conservando, ufficiali e truppa, soltanto quelle individuali. Il radiogramma accennava anche ad un prossimo rimpatrio. La tragedia della divisione "Acqui" cominciò da questo radiogramma. Il generale Gandin si trovò, infatti, di fronte a due interrogativi: come obbedire al governo, che aveva ordinato di reagire ad eventuali attacchi tedeschi, se si cedevano le indispensabili armi collettive? Era valido l’ordine di Badoglio o quello del comandante d’armata ?

Il giorno 10, le trattative fra il colonnello Barge e il generale Gandin entrarono in una fase più concreta. Il comandante dei granatieri tedeschi si presentò al generale, con aria fredda e solenne, chiedendo la cessione completa delle armi, comprese quelle individuali. Tale consegna doveva essere fatta entro le undici del giorno seguente, nella piazza principale di Argostoli. Il generale Gandin chiese tempo per riflettere, rifiutò di consegnare l’armamento individuale e scartò subito la piazza di Argostoli per evitare ai suoi soldati un’umiliazione troppo grave. Convocò poi a consiglio di guerra il generale Gherzi e i piú alti ufficiali della divisione. Bisognava decidere se si dovevano consegnare o conservare le armi. Prevalse il parere di consegnarle. Soltanto due ufficiali, il colonnello di artiglieria Mario Romagnoli e il capitano di fregata Mastrangelo, comandante del distaccamento marina, si dichiararono contrari.

Rispettoso della maggioranza, il generale Gandin ordinò subito che venisse sgombrato il nodo stradale di Kardakata, chiave strategica dell’isola, che in quel momento era tenuto dal 3° battaglione del 317 fanteria.

La otizia di questo movimento si diffuse in poche ore da un capo all’altro dell’isola, e fra i soldati e i giovani ufficiali della divisione si cominciò a parlare di tradimento. Si sapeva che i tedeschi stavano spostando truppe in modo da non lasciare illusioni. Un nostro veliero carico di munizioni era stato cannoneggiato mentre stava attraccando. Rinforzi germanici, sempre piú massicci, arrivavano dal continente. La mattina dell’11, il colonnello Barge, sempre piú compassato, si presentò di nuovo al generale Gandin invitandolo seccamente a scegliere fra i seguenti tre punti: stare coi tedeschi, combattere contro i tedeschi, cedere le armi. Otto ore per rispondere. Questa volta il generale, uomo assai religioso, si consultò coi sette cappellani della divisione. Tutti, eccetto uno, furono per la consegna delle armi. Il generale fece sapere per iscritto al comando tedesco che la "Acqui," in linea di massima, era disposta a lasciarsi disarmare.

Ma quella notte stessa, fra 1’11 e il 12, si venne a sapere che nella vicina isola di Santa Maura i tedeschi, dopo aver ricevuto in consegna le armi collettive, avevano brutalmente preteso anche quelle individuali. Il comandante del nostro presidio, colonnello Ottalevi, era stato ucciso perché aveva tentato di opporsi all’abuso.

La notizia empi di sdegno gli uomini dell’ "Acqui." La parola tradimento, che fino a quel punto

era stata mormorata, diventò un grido. Il giorno 12, nella piazza di Argostoli, un maresciallo di marina ferì gravemente con una pistolettata il pitano Gazzetti, responsabile dell’ufficio propaganda urlandogli in viso: "Traditore!" Nello stesso pomeriggio, una bomba scoppiò vicino all’automobile del generale Gandin e poco piú tardi un soldato strappò, in segno di disprezzo, la bandierina tricolore dal cofano della stessa automobile. Era chiaro che la "Acqui" voleva combattere contro i tedeschi e scacciarli dall’isola. Questa volontà fu confermata pienamente allorché, dopo alcuni sporadici scontri fra italiani e tedeschi, il generale Gandin chiamò a plebiscito tutti i suoi uomini, senza distinzione di grado, sottoponendo loro, attraverso i comandi, i tre punti presentati dal colonnello Barge: coi tedeschi, contro i tedeschi, cedere le armi.

Il secondo punto riscosse il cento per cento delle adesioni: guerra ai tedeschi!

La mattina del 15 settembre cominciò così la battaglia di Cefalonia: una delle piú disperate e gloriose che i soldati italiani abbiano mai combattuto e che i tedeschi trasformarono in un’orgia di sangue.

La divisione "Acqui," priva di rifornimenti e di cooperazione aerea, lottò per una settimana, giorno e notte, contro un nemico in continuo collegamento col continente, assistito da nugoli di " Stukas " urlanti, sempre piú forte. Assaltò e prese la difficilissima Cima Telegrafo, una delle posizioni-chiave dell’isola; il 17 il 18 settembre, lasciò centinaia di morti, mitragliati e spezzonati senza posa dal cielo, davanti al nodo ‘ Kardakata.

Il massacro comincia

E fin qui la storia di Cefalonia è ancora una storia di guerra. I prigionieri tedeschi venivano raccolti in un campo ai cui angoli, per evitare loro il mitragliamento degli " Stukas, " si alzavano le croci uncinate. I tedeschi feriti erano assistiti non meno dei nostri. Ad alcuni di essi, bisognosi di sangue, i nostri soldati offrirono ‘senza esitare le vene. Fu la sera del 21 settembre, quando le tenebre, rotte da bagliori rossastri, erano già scese sull’isola, che la storia di guerra si trasformò, con ritmo sempre piú celere, in un ignobile massacro.

Quella sera, improvvisamente, di fronte agli avamposti del 3° battaglione del 317° fanteria, nostra punta avanzata verso la rotabile Divarata-Diglinata, comparve una colonna tedesca. Essa era composta di due battaglioni di Gebirgsjaeger (alpini) sbarcati nella baia di Kiriàki, a nord dell’isola, nella notte fra il 18 e il 19 settembre. La colonna, procedendo nelle tenebre, aveva annientato di sorpresa il plotone mortai e le salmerie del 3° battaglione. Si era quindi, incuneata nelle nostre posizioni, circondandoli. Da questo punto, la colonna germanica, comandata dal maggiore von Hirchfeld, cominciò la sua tèrribile marcia. Uno per uno i reparti italiani, stremati da sette giorni di combattimenti senza sosta e senza riparo dai bombardieri, cedettero alla pressione, dopo una lotta accanita ed eroica. E una volta ottenuta la resa, i tedeschi fucilarono sul posto ufficiali e soldati, anche quelli feriti, anche gli agonizzanti. Cadde cosí per primo, sotto una scarica di mitra, il tenente colonnello Siervo, comandante del battaglione, insieme a diciotto ufficiali.

Toccò poi al 2° battaglione, i cui ufficiali, dopo strenua resistenza, vennero massacrati sul margine della strada. Centinaia di soldati (compresi quelli di sanità muniti di bracciale e di tessera della Croce Rossa Internazionale) vennero finiti a raffiche di mitragliatrici. Un gruppo di seicento prigionieri, incolonnati, fu massacrato a fuoco incrociato sotto un muraglione che poi, con due cartucce di dinamite, fu fatto crollare, come la pietra di una tomba, sul groviglio gemente dei corpi. Nel paese di Cocolata furono trucidati il tenente colonnello Sebastiani, che avanzava con le mani in alto, il generale Gherzi, il quale mori gridando "Viva l’Italia" e il colonnello Dara. A Faraò tutti i marinai addetti alla stazione radio furono massacrati in mezzo alla strada. Ad ognuno di quei morti, frugati con cura, venivano tolti gli orologi, le penne stilografiche, le catenine, i piccoli oggetti cari.

All’alba del 22 settembre i tedeschi giunsero a qualche chilometro da Keramies, dove il comando della divisione si era trasferito al principio delle operazioni. Alle 11 precise un grande drappo bianco apparve sulla torretta di villa Valanios, sede del comando. Era la resa completa. Sulla soglia della villa, il generale Gandin, con le braccia incrociate e lo sguardo rivolto al cielo, dove volteggiavano sinistramente gli,` Stukas," aspettava l’apparizione dei tedeschi, i quali, fino a quel momento, avevano passato per le armi, lungo il loro cammino, 146 ufficiali inermi e 4000 soldati.

Ma il peggio doveva ancora venire. La mattina del giorno 23, tutti gli ufficiali superstiti, ch’erano stati alloggiati nel palazzo che aveva ospitato il comando marina, vennero caricati su autocarri scortati da sentinelle. Si disse loro che andavano a stare in luogo piú comodo, dove, fra qualche giorno, li avrebbero raggiunti i rispettivi attendenti. Ognuno poteva portarsi uno zaino con qualche indumento indispensabile. Gli autocarri, cosí carichi, si misero in moto. Presero le strade della campagna e, man mano che le case di Argostoli diradavano, i nostri ufficiali cominciarono ad avere tristi presentimenti.

Gli scampati di San Teodoro

Su ogni automezzo, due sentinelle in pieno assetto di guerra guardavano impassibili il paesaggio sempre piú nudo. La colonna si fermò a capo San Teodoro, proteso nel mare azzurro e calmo, accanto a una villa isolata, circondata da un lungo muro. Davanti a quel muro, fermi, con le gambe divaricate, gli elmetti col sottogola ben stretto e la pistola mitragliatrice fra le braccia, stavano alcuni soldati tedeschi. Allora non vi furono piú dubbi: piú di trecento ufficiali italiani stavano per essere fucilati in massa. Le esecuzioni cominciarono subito. A gruppi di otto o di dodici, ufficiali di ogni grado e di ogni età furono falciati contro il muro della villa che resterà per sempre nella memoria dei superstiti dell"’Acqui" col nome di "casetta rossa." Il cappellano don Romualdo Formato, che assistette fino all’ultimo alla carneficina e che scampò egli stesso per miracolo, scrive cosí nel suo libro pubblicato subito dopo la guerra: "Per qualche tempo, in quel sinistro luogo di morte, non s’è udito che un solo grido, ripetuto con voce altissima da cento e cento petti: ‘Cappellano, cappellano!… Qui. Qui un momento!’ E a me sembrava d’impazzire, non sapendo dove accorrere prima; mentre, come un automa, corro da una parte e dall’altra, lungo quel tragico

assembramento di morituri, ricevo oggetti, scrivo appunti, do a tutti la mia sacerdotale parola di conforto cristiano. Cosí per oltre quattro ore si prolunga lo strazio di quel nostro martirio, di quegli addii, di quegli abbracci interminabili, di quei baci che fanno vicendevolmente inzuppare di lacrime i nostri visi. Alcuni si gettano ai miei piedi. Altri si attaccano alla mia veste come per non staccarsene piú."

Soltanto trentasette ufficiali furono alla fine graziati dai tedeschi, anch’essi lividi e stomacati dalla strage, la. mattina del 23 settembre 1943, a capo San Teodoro. I corpi degli altri furono riesumati dai tedeschi dopo qualche mese e gettati in mare. L’operazione,fu fatta compiere da 17 marinai italiani, i quali, a cose fatte, furono anch’essi uccisi a tradimento. Il generale Antonio Gandin era stato fucilato da solo, prima degli altri, la mattina del 23, contro il muro della "casetta rossa."

‘ La guerra d’Albania, ch’era cominciata il 28 ottobre 1940 col delittuoso sacrificio della "Julia," si chiuse definitivamente, dopo tre anni, con l’assassinio della "Acqui." Trentacinque mesi di stupidità, d’incompetenza, di ferocia insensata e di sacrifici inutili, fra due parentesi rosse di sangue, nere di morte.

Fine

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