Renato Giorgi – Il ponte *

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Scarpe rotte
E pur bisogna andar…..

• Premio Letterario Prato, 1953.
Racconto vincitore, del secondo premio.

Renato Giorgi
Il ponte *

Il Cancelliere leggeva un fascicolo di fogli dattiloscritti, con voce anonima, come fosse solo. S’inumidiva il dito nella bocca sdentata e sollevava lo sguardo sopra gli occhiali che gli pendevano sulla punta del naso lungo, ma non guardava nessuno, benché di fronte lo spazio riservato al pubblico fosse stipato. Stipato di montanari, pastori, braccianti e contadini, uomini e donne, col cartoccino di carta gialla del pane e cacio in mano e sotto il braccio la sporta, col collo e il sughero delle bottiglie che spuntavano fuori. Non perdevano una parola, di quanto leggeva il Cancelliere, per la causa di Giuseppe Mazzinetti, detto Aquila, di… e di…, nato a…, classe 1920, di professione bracciante, accusato di occultamento di esplosivo e di resistenza e parole ingiuriose alla forza pubblica.
Poi il Presidente diede la parola all’ufficiale della Celere, perché raccontasse il fatto: un ufficiale alto e secco, dalle spalle un po’ curve, il viso lungo e pallido con in mezzo un piccolo naso a patata, le palpebre che cadevano sugli occhi a palla.
Rigido sull’attenti, si rivolse con rispetto al signor Presidente, con pochi gesti misurati ma decisi. Parlava come se leggesse i Dieci Comandamenti: ~« Da qualche tempo avevamo saputo che a … c’era del torbido. Agitatori giravano per le strade e le osterie, cercando di sobillare gli animi, (E esasperare le opinioni: primo fra tutti l’imputato, e tutto partiva dalle organizzazioni politiche e sindacali. S’erano messi in testa di rifare il ponte. Tante chiacchere fecero, che convinsero tutti ch’era una cosa che si poteva fare. Naturalmente noi li tenevamo d’occhio e, quando stabilirono di agire, ci portammo sul posto. La sera prima, per il buio, andammo a metterci nel parco della Rocca, il castello della Contessa, Donna Matilda, poche centinaia di metri di là dal ponte, sulla strada della città. Donna Matilda era alla Rocca, ma noi non la vedemmo. All’alba del giorno seguente accadde il fatto. Spuntarono in massa dalle case — segno che c’era un’intesa, una cospirazione — con i picconi e i badili impugnati come armi, alcuni sulla strada in bicicletta, i più per i campi, i campi di Donna Matilda, in mezzo al raccolto che calpestavano senza riguardo : c’erano anche donne e ragazzi. Camminavano decisi, anzi vicino al ponte correvano, come per assalire qualcuno. Allora ci muovemmo anche noi, a semicerchio, e arrivammo sul posto di sorpresa: abbandonarono ogni cosa e fuggirono per la campagna.. Solo l’imputato rimase fermo all’impiedi sul primo pilastro del vecchio ponte, quello sulla riva dov’eravamo arrivati noi, col piccone in mano, e lo stringeva forte, in atteggiamento minaccioso. Non si voleva muovere a nessun costo; quattro agenti lo trascinarono a forza, e lui si opponeva gridando parole ingiuriose. Proprio sotto i suoi piedi c’era un buco tra le pietre, e nel buco la dinamite nascosta. Ci costrinse ad atterrarlo, e non fu facile, per portarlo con noi. Non ho altro da dire ».
Con un breve scatto portò indietro il capo, si girò di fianco e, sempre rigido, andò a sedere sopra una panca a destra. Gli occhi del pubblico che lo avevano seguito in ogni moto, l’accompagnarono fino alla panca, fissi ma animati, non stupiti ma addolorati. Di colpo si volsero con espressione mutata, ansiosa e partecipe, verso sinistra. Toccava all’imputato. Era già in piedi. Di notevole aveva le spalle, erette e poderose, le mani larghe e nodose, che non sapevano aiutare con la mimica le parole.
«Giuseppe Mazzinetti detto Aquila », interrogò il Presidente, « chi ha messo la dinamite nel pilastro del ponte?».
« Io », rispose l’imputato senza esitazioni. Parlava con voce normale, tranquilla.
• Dite come è stato ».
• Ecco come sono andate le cose. Il nostro è un paesetto di montagna, tra i prati e i castagneti, gruppi di case seminate attorno alla chiesa, che basta il suono dell’orologio del campanile per riempire la piazzetta. Il 25 luglio 1943 noi in paese non sapevamo cosa fare, non sapevamo neppure cosa pensare. Per fortuna, dopo una settimana, arrivò l’Alvaro, da Ventotene (ma prima era stato molti anni in galera). Io lo ricordavo poco, ero un ragazzo quando i fascisti la portarono via. Me lo ricordavo perché era un poco ridicolo a vederlo, minuto e curvo, con la piccola testa rotonda in mezzo a due grandi orecchie a ventola, che quando camminava pareva che venissero avanti solo quelle: noi ragazzi dicevamo che andava a vela’. Faceva il calzolaio. Sembrava ridicolo, ma lui le cose le sapeva, ed era per questo che i fascisti l’avevano messo dentro. Quando tornò, una casa non l’aveva, ma tutti facevano a gara per invitarlo, un poco perché la coscienza suggeriva così, un po’ per gratitudine e un po’ per curiosità, per sentire cosa diceva. E lui a turno andava da tutti, e si capiva che in tanti anni aveva letto e studiato e sapeva ancora più di quando l’avevano portato via. L’8 settembre fu lui che ci consigliò di prendere il grano e la farina di castagne all’ammasso e di distribuirli fra tutti. Disse anche che ci dovevamo procurare le armi e far saltare il ponte, perché di li veniva il pericolo per il paese. Questo diceva l’Alvaro, e i fatti poi gli diedero ragione, peccato che non sia qui lui a raccontarlo, perché poi mori, lo uccisero i nazifascisti ».
Aquila nel parlare s’era girato di fianco e si rivolgeva più al pubblico che al Presidente, anche se il pubblico queste cose le sapeva, perché erano. tutti del . paese. . «Fu. nell’estate del ’44, quando noi partigiani dicevamo di non trebbiare, perché il grano se lo prendevano i nazifascisti. Ma al paese la terra è quasi tutta della Contessa, e la Contessa i suoi contadini li faceva trebbiare. Per questo andammo un pomeriggio alla Pioppo, un podere della Contessa, dove ci avevano detto che volevano trebbiare. C’era un grande sole, e sull’aia come una nuvola per il polverone prodotto dal grano a trebbiarlo; in mezzo lavoravano di mala voglia le donne e i ragazzi coi fazzoletti legati al collo e i piedi scalzi: uomini no, quasi nessuno. Arrivammo; davanti c’era l’Alvaro col mitra in mano, perché allora le armi ce l’eravamo procurate. La macchina dava dei grandi scoppi e non sentimmo subito i colpi dei fucili che dietro la casa sparavano; se ne accorse l’Alvaro e si voltò per indicarci il nemico: Avanti, partigiani!,, gridò, ma proprio, allora lo presero in mezzo alla fronte. Rimase sull’aia mentre ci lanciavamo sui fascisti, e riuscimmo a batterli. Dopo il combattimento, nella polvere steso sul fianco c’era solo l’Alvaro, donne e ragazzi erano fuggiti, la macchina continuava a scoppiare e la trebbiatrice mulinava a vuoto. Lo seppellimmo nel prato ».
« Ma veniamo al fatto », interruppe il Presidente, « tutto questo non c’entra ».
« Come non c’entra? Questo è proprio il fatto », affermò convinto Aquila, rivolto verso il pubblico, e gli occhi di tutti con meraviglia si puntarono sul Presidente.
« Avanti, continuate ».
« Dunque, l’Alvaro 1’8 settembre ci disse delle armi e dell’esplosivo. Per le armi non si sapeva come fare, ma per l’esplosivo non fu difficile mettersi d’accordo con quelli che lavoravano alla cava, sul monte sopra il paese. Fu stabilito un appuntamento per la mezzanotte, dopo il coprifuoco, alla Quercia del Re, un albero enorme e secolare fuori del paese, solitario in mezzo ai prati, detto così per una storia che sanno i nostri vecchi ».
« Spero che l’imputato non vorrà raccontarci anche quella! », interruppe mordace l’avvocato dell’accusa.
Aquila s’arrestò, sembrava si fosse inceppato, gli occhi di tutti si fermarono seccati sull’avvocato.
« No, no », riprese Aquila, « io non la conosco. Ma era proprio sotto la Quercia del Re che a mezzanotte ci si doveva trovare. La parola d’ordine era: Sei tu, Rosina? perché doveva sembrare un appuntamento d’amore », e Aquila sorrise ai paesani, tra i quali si trasmise il sorriso, furbesco e ingenuo a un tempo. « Primi ad arrivare fummo io e Alvaro insieme; non c’era la luna, e sotto il grande ombrello di foglie il buio era fitto, con tutti quei rami che si protendevano in ogni direzione. Lontano, verso la pianura, dalla parte della città, una pioggia di bengala illuminava il cielo calando lenta, e il fragore delle bombe arrivava anche a noi.
Intravvedemmo un’ombra massiccia che saliva l’erta, la sagoma di un gigante che camminava dondolando come una barca in mare: « Sei tu Rosina? disse. Era l’Imbianchino, con un piccone in spalla, poi arrivarono gli altri, con le zappe e le vanghe, uniche nostre armi ». Tutti si volsero a guardare l’ufficiale della Celere, che pareva non ascoltasse le parole di Aquila. « Arrivò anche l’esplosivo, sul dorso di un somarello. Andammo al ponte. L’unico ad avere un’arma vera era la guardia comunale, che aveva portato la sua pistola: lo mettemmo di là del ponte, più avanti di tutti, a fare la guardia verso la Rocca della Contessa. Quella sera era arrivato un reparto nazista, e la Contessa in persona aveva ricevuto gli ufficiali in cima alla gradinata che porta al castello. Alta, bionda, con i capelli lisci raccolti sul capo, le piaceva fumare sigarette in lunghi bocchini bianchi, fasciata-
stretta negli abiti che le disegnavano la figura: fu così che, accolse gli ufficiali nazisti, con un sorriso invitante che si vedeva agli angoli della bocca. Fin sotto il ponte sentivano i suoni ed i canti della festa, nel buio, per l’oscurità ma si immaginavano le luci delle sale. Lavorammo un pezzo con i picconi e gli scalpelli a preparare i fori per l’esplosivo, sui pilastri del ponte: facemmo sei fori da mina. Quando tutto fu pronto, si diede fuoco alla miccia, e via di corsa alla Quercia del Re.
« Imputato, o venite al fatto, o sarò costretto a prendere seri provvedimenti », interruppe il Presidente, e non nascose di essere quasi adirato.
« Non posso raccontare in altro modo », disse Aquila, « i fatti sono Questi e solo questi: è proprio così ». E strinse i pugni, quasi a dar forza alle parole.
« E va bene, per l’ultima volta avremo pazienza », disse Il Presidente, col tono di chi accontenta un seccatore per toglierselo di torno.
,« A mezza strada ci fu lo scoppio », riprese Aquila, « uno scoppio sordo e potente. Si senti uno scroscio, poi una grandinata di sassi, prima fitta, poi sempre più rada, ‘poi più nulla: il ponte era crollato. Arrivammo ansanti sotto la Quercia del Re. S’era alzata la luna e ci si poteva guardare in faccia. Alvaro disse: «Adesso siamo partigiani. Cercatevi iil nome di battaglia, per non creare guai alle famiglie’.
« Che nome mi debbo mettere, io?,, chiesi.
,« Tu ti chiamerai Aquila I.
« Mi piacque molto e mi sentii orgoglioso.
« Aquila,, disse ancora, tu sarai il nostro Comandante’.
« Protestammo dicendo che toccava a lui. Rispose che non era adatto, che per lui andava meglio fare il commissario politico. Si discusse, e alla fine dovemmo riconoscere che aveva ragione ». –
Aquila fece una pausa, e quando riprese a parlare, si rivolse al Presidente: « Signor Presidente, nessuno mai si accorse che allora scoppiarono solo cinque cariche di dinamite, la sesta rimase intatta nel foro del pilastro, e anch’io rimasi meravigliato a questa scoperta, quando l’altra mattina col piccone scavai tra le pietre ».

Un mormorio passò tra il pubblico, e si guardarono gli unii con gli altri, assentendo lentamente col capo.
« E per la resistenza opposta alla Pubblica Sicurezza e per le parole ingiuriose, che avete da dire? », interrogò il (‘residente. « Confessate o negate? ».
« Non lo so, Signor Presidente, bisogna ch’io spieghi ».
« Spiegate, ma senza divagare, cercate di stare al fatto ».
« Starò al fatto, signor Presidente, starò al fatto. Una settimana dopo il crollo del ponte arrivarono in paese i nazifascisti. Non faceva ancora giorno ed eravamo a letto. Ci fecero uscire tutti dalle case, stretti in piazza con le spalle contro la chiesa. Ne scelsero tre, a caso, uno vecchio, uno giovane e uno quasi bambino: li impiccarono davanti a tutti. Si senti lo scricchiolio delle corde tirate dal peso dei corpi. Poi ci incolonnarono e ci portarono al ponte, dove anche i bambini e le vecchie dovettero lavorare. Fummo costretti ad abbattere gli alberi dei nostri boschi e a fare un ponte di legno; lavorammo muti, con gli occhi bassi e le mani che tremavano. Sul tardo pomeriggio arrivò la Contessa, alta sui cavallo, vestita da amazzone, col frustino in mano: l’accompagnava un ufficiale delle SS ».
Un mormorio sordo del pubblico interruppe Aquila. Il Presidente batté sul tavolo col pugno, e minacciò di far sgomberare l’aula.
« Sostarono un poco », continuò Aquila, « i cavalli s’impennavano per i colpi e i movimenti di quello che pareva un formicaio più che un cantiere. Parlavano fra loro, ridevano anche, poi al piccolo trotto si perdettero nel bosco. Finito il ponte, ci ritrovammo sotto la Quercia del Re. Il ponte era su una strada secondaria, che però congiungeva due strade nazionali dal nord al sud: se il ponte era rotto, i nazifascisti dovevano venire apposta in paese; col ponte in funzione, sarebbero passati spesso, e già si era avuto un triste esempio di cosa significava avere quella gente fra le case. Decidemmo di abbattere il ponte una seconda volta, però senza usare l’esplosivo. Segammo i tronchi di sostegno quasi del tutto, in modo che il primo peso l’avrebbe fatto crollare. Anche quella notte c’era un reparto nel parco della Rocca. erano quelli della Sociale di Salò. Ma non c’era festa, perché la Contessa aveva fatto dire da un servo che aveva l’emicrania, e non s’era fatta vedere. Attendemmo tutta notte. Verso l’alba una macchina usci dalla Rocca e si diresse al ponte; nella nebbia delle prime luci veniva avanti liscia, che quasi non si sentiva il motore: si videro due o tre fiammelle brillare dentro, segno che accendevano le sigarette. Arrivata in mezzo al ponte, si senti uno schianto, e tutto crollò. C’era poca acqua ferma nel torrente, e la macchina prese fuoco e friggeva per le fiamme che lottavano con l’acqua, con una nube di vapore bianco che nascondeva tutto. Si fece appena in tempo a recuperare le armi dei quattro che erano nelle macchine, un mitra e tre fucili, le nostre prime armi. Da allora stemmo nel bosco, fino alla liberazione ».
« Il fatto, il fatto, veniamo, dunque al fatto », incalzò il Presidente. « Ma è mai possibile che si debbano dire tante cose inutili? ».
« Questi sono i fatti, signor Presidente, questi sono i fatti! Abbiamo combattuto tanti mesi, preso altre armi, due inverni sotto la neve con la fame e le malattie. Cadde Alvaro come ho detto, caddero tanti altri, ma il ponte rimase giù, e di nazifascisti in paese non se ne videro altri, mai neppure una volta, perché noi li respingevamo dalla strada, li mettevamo in fuga, dall’altra parte del paese, noi che avevamo fatto le tane come i lupi, sotto i sassi nei fianchi dei monti. Dal paese venivano le donne e i ragazzi, le staffette, a portare farina, quando potevano, di frumento e di castagne, e le scarpe e le notizie, e non dico come quel poco da mandare a noi potevano averlo, rubandolo alla bocca dei figli. Basta, questo lo sanno tutti. Venne la liberazione. Alla Rocca c’erano i nazisti, come sempre; avevano impiantato un posto radio e li comandava un colonnello. Andammo alla Rocca ch’era giorno, allo scoperto. Si arresero tutti, a mani levate, e supplicavano per aver salva la vita. Li portammo in piazza, dove avevano alzato le tre forche, e li tenemmo iii piedi una mezza giornata perché la gente li potesse guardare in faccia, ufficiali e soldati. Tre furono incaricati di prelevare la Contessa ».
« Ma cosa c’entra Donna Matilda? Si venga dunque al fatto! », gridò con stizza l’avvocato dell’accusa.
Né Aquila, né alcun altro sembrò accorgersi dell’interruzione. « La Contessa vagava qua e là per il parco come una gallina nella stia. La trovarono in un chiosco di ferro battuto coperto di glicine. La raparono tutta, sopra e sotto: mise le mani sul capo pelato come un uovo e scappò in corsa sfrenata alla Rocca ».
Aquila fece una pausa, a riprendere fiato. Aveva infatti alzato il tono della voce, con le mani che gesticolavano concitate e le parole che si rincorrevano veloci, come non era nelle sue abitudini. Riprese con tono più pacato, di chi spiega più che raccontare. « Alcuni giorni dopo arrivarono gli americani. Si portavano dietro un ponte, già fatto, tutto intero, di ferro e legno, che in poco tempo gettarono da una riva all’altra. Questa si è gente! ,, dicemmo, e si fece del nostro meglio per festeggiarli. Li portammo nelle case, dalle famiglie, e tutti raccontavano le sofferenze e i combattimenti dei duri mesi del nazifascismo. Più che ascoltare i racconti, sembravano però preferire divertirsi: allora si cercò di accontentarli, organizzammo anche un ballo in piazza, una festa come da noi non s’era mai vista, neppure per la sagra del Santo Protettore. Naturalmente credevamo che sarebbero rimasti fra noi, e fu una delusione quando invece si trasferirono nel parco della Rocca. La Contessa li attendeva in cima alla scalinata, fumando col suo lungo bocchino bianco: in testa aveva un turbante che la fasciava fin sotto la nuca, con un diamante rosso in mezzo. Per fortuna, a diminuire il rammarico, c’era il ponte che, permettendo le relazioni con la città, favoriva la ripresa della vita. Intanto i lavoratori s’erano create le proprie organizzazioni e avevano voluto ch’io fossi il responsabile della Camera del Lavoro. Pian piano, con la buona volontà e il lavoro di tutti, il paese sembrò acquistare un nuovo impulso, e la fiducia riportò la serenità. Peccato che non ci fosse Alvaro e gli altri ch’erano caduti ».
Aquila sospese il racconto e girò lo sguardo lentamente per tutta la sala, come a raccogliere le idee. Si rivolse quindi al Presidente, con un timbro di voce più sostenuto. « Ed eccomi al fatto vero e proprio, come vuole lei, signor Presidente. Dicevo che la vita riprendeva in paese, ma i nostri guai purtroppo non erano finiti. Dopo alcuni mesi gli americani se ne andarono. Dissero che la strada era secondaria, che il ponte era più utile altrove, e se lo portarono via. Cosa vuole, signor Presidente, in paese non ci sono fabbriche. Molti degli uomini e anche delle donne lavoravano in città: senza il ponte non passò più la corriera. Non passò più la corriera e non vennero in estate i villeggianti, ch’erano un’altra risorsa per noi. La frutta marci sulle piante, la legna, le patate, le castagne, come si faceva a portarle, in pianura? Anche i bimbi smisero di andare per i boschi a raccogliere funghi e fragole, tanto, non si sapeva a chi venderli, senza il ponte. La vita si fece dura, come allora. Gruppetti di uomini validi sostavano davanti alla Camera del Lavoro e in piazza, con le mani in mano, senza parola. Accendevano e spegnevano una sigaretta dieci volte, per un nulla litigavano in famiglia e fuori. Non che il ponte fosse proprio tutto, oh no! ma era la condizione indispensabile per andare avanti, per quei nostri desideri di progresso, che c’eravamo portati a casa il 25 aprile, e per molti voleva dire il pane. C’era anche chi lavorava, infatti sulle terre della Contessa si continuava a lavorare, anzi i fattori della Contessa, profittando della disoccupazione, cercavano mano d’opera a buon prezzo, e dovemmo lottare duro anche contro questo sporco sfruttamento. Se abbiamo chiesto alle autorità, al Governo, di rifare il ponte? Se dovessi raccontare di tutte le domande, le carte bollate, le pratiche, le sollecitazioni e le delegazioni, non basterebbe un romanzo, signor Presidente, non basterebbe un romanzo: promesse si, molte, troppe, ma il ponte restava giù. Fu in questa situazione che un mattino vennero da me i partigiani: Questa sera ci troviamo alla Quercia del Re’, dissero. Alla. sera andammo, naturalmente non occorreva la parola d’ordine. Bisogna fare il ponte, faremo il ponte!’, ecco cosa si disse alla Quercia del Re, nel buio fitto, perché non c’era la luna, come quella sera. Il giorno dopo tutta la gente del paese si riuní in piazza. Prendemmo impegno di rifare il ponte con le nostre sole forze, per nostra volontà, questa volta, per nostra vitale necessità, non sotto la minaccia di armi straniere ».
Aquila si girò, levò il braccio puntando il grosso dito verso l’ufficiale della Celere: « Nessuna cospirazione, signor ufficiale, nessuna sobillazione, come vede, ma per bisogno e decisione di tutti ».
Un applauso parti dal pubblico, naturale e improvviso come un acquazzone d’aprile, che non dà tempo di correre al coperto.
Aquila attese la fine, prima di continuare. « Avevamo imparato a prezzo del nostro sangue, sarebbe stato tradire, dimenticare l’insegnamento ».
Il Cancelliere guardò sopra gli occhiali al Presidente, e con la mano e la penna fece un gesto per chiedere se doveva mettere a verbale anche quelle parole. Il Presidente fece segno di si.
Aquila non aveva interrotto il discorso. « All’alba del giorno seguente, nessuno mancava all’appello, si può dire che c’era tutto il paese: muovemmo dalla piazza, a mucchio per la strada quelli in bicicletta, con le carriole legate dietro, e cantavano. Cantavano anche gli altri, camminando in file che sembravano bisce per le curve delle cavedagne, tra i campi di frumento e di trifoglio di fianco alla strada, con le vanghe i picconi e le mazze sulle spalle. Sull’argine facemmo una lunga fila di biciclette, due a due, appoggiate spalla a spalla, e tra l’erba mettemmo le giacche e le fiasche dell’acqua e dei vino, a riparo dal sole dietro i cespugli di ginestre, fioriti così fitti all’intorno che parevano cantare anche loro. C’eravamo organizzati in squadre ed ogni squadra aveva un compito. Iniziammo i lavori. Detriti di pietre e di tronchi dei crolli precedenti ingombravano il greto, che bisognava sgombrare, per vedere cosa si poteva utilizzare del vecchio ponte. Molti rimboccarono i pantaloni entrando nella corrente, dove lavoravano sicuri, perché era limpida che si vedeva il fondo. Saltando sui sassi che affioravano dall’acqua, ero andato dall’altra parte e col piccone provavo la saldezza del primo pilastro, contro riva, quando nel foro da mina scoprii la dinamite. Mentre sorpreso guardavo nel foro, preoccupato di trovare il modo di tirarla fuori senza rischio per me e gli altri, ci piombarono addosso quelli della Celere. Non discussero, non ci avvertirono, non dissero pa- rola, ma giú botte rabbiose coi calci dei fucili e dei mitra, così, dove vanno vanno, anche alle donne e ai ragazzi. Nessuno si sognò neppure di resistere, di ribellarsi, molti cercarono rifugio correndo sparpagliati per i campi, abbandonando le vanghe e i picconi. Allora si gettarono sulle biciclette, rovesciandole lungo l’argine, e ci saltavano sopra con le scarpe chiodate e battevano le canne e le ruote con le armi come mazze, finché non furono ridotte a ferro, vecchio. Fu la volta delle giacche, poi si misero a cercare per le ginestre le fiasche dell’acqua e del vino e le frantumarono a sassate. Io guardavo sbalordito, in piedi sul pilastro. Stringevo così forte il piccone che mi pareva che le dita saltassero in pezzi, con la punta del piccone ancora piantata tra le pietre. Ho gridato, ho gridato non posso ricordare cosa: furono parole (l’offesa alle forze dell’ordine? Non lo so, non lo ricordo. Ma, signor Presidente, come potevo dire delle parole d’offesa? Vennero in quattro a prendermi. Mi tiravano e mi :stringevano-da ogni lato, assalendomi come tori furiosi, senza riuscire a spostarmi di una spanna. Non alzai una mano contro loro, ma mi pareva di essere fatto di pietra, una colonna piantata in terra. Forse è questo che voi chiamate resistenza alla forza pubblica. Per tirarmi via dovettero atterrarmi, e lo fecero con un colpo di calcio di fucile alle reni, e mi rimase un livido, come il sottopancia di un mulo. Questo è il fatto che lei voleva, signor Presidente ».
Un poco ansante, Aquila sedette sulla panca. Ancora alcuni istanti il pubblico continuò a guardare Aquila, a fissare solo lui, poi gli occhi di tutti si volsero al Presidente.

Racconti del premio Prato
1951 – 1954

Edizioni Avanti!
1955

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