Guido Mazzoni

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I Compagni di Firenze

Memorie della Resistenza 1943 / 1944

Istituto Gramsci Toscano

1984

bandierarossa

GUIDO MAZZONI

Guido Mazzoni è nato il 10 aprile 1912 a Figline Valdarno. Operaio vetraio, manifestò la sua opposizione al fascismo fin dai primi anni della dittatura. Iscritto al PCd’I nel 1931, nel 1938 fu condannato dal Tribunale Speciale , a 7 anni di reclusione. Dopo l’8 settembre 1943 fu tra gli organizzatori della Resistenza in Toscana, diventando membro del Comando Regionale delle Brigate Garibaldi. Dopo la Liberazione divenne segretario della Federazione comunista di Firenze e restò in questa carica dal 1947 al 1956. E’ stato membro del Comitato Centrale del PCI dal VII Congresso del partito e della Commissione Centrale di Controllo. Nel 1958 fu eletto deputato e fu nuovamente eletto nel 1963. Membro del Comitato Federale del PCI fiorentino, ha avuto diversi incarichi in organismi di massa.

Il partito comunista a Empoli e nella provincia durante il ventennio fascista non cessò mai l’attività organizzata di propaganda. Da Firenze e da Empoli i legami organizzativi e politici si estendevano a numerosi importanti centri che giungevano persino nelle altre provincie toscane, come dimostrano gli stessi arresti e le condanne « elargite » dal Tribunale Speciale.

Già nel ’25 venne arrestato un gruppo fiorentino, condannato nel ’27 dal T.S., applicando la retroattività delle obbrobriose leggi eccezionali, senza raggiungere il gruppo empolese. Da allora ogni anno il Tribunale Speciale giudicherà empolesi, fiorentini e toscani per propaganda e riorganizzazione del partito comunista anche in altre provincie d’Italia. Nel ’28 nel processo di un gruppo milanese vi sono compagni di Firenze e di Siena; nel ’29 il Tribunale Speciale condanna numerosi compagni di Firenze e di alcuni comuni della provincia, e ancora nel ’30 un nuovo gruppo del quale fanno parte alcuni membri del Comitato Federale che aveva « sede » a Firenze. In seguito a questi arresti sebbene l’organizzazione dovesse essere rigidamente cospirativa il numero degli arresti non fu limitato, creando problemi superati tuttavia rapidamente.

Il Comitato Federale però dovette per un certo periodo essere spostato a Empoli, ove più facile fu riprendere il contatto col centro del partito dato che del « centro esterno, » facevano parte numerosi compagni empolesi, espatriati perché in procinto di essere arrestati.

Dopo alcuni mesi, ritenendo che la direzione provinciale fosse stata spostata nell’empolese, la polizia riuscì ad individuare alcuni compagni delle Signe e di Montelupo. Dal loro arresto la polizia giunse ad individuare i loro legami con la direzione provinciale di Empoli. Una parte del Comitato Federale venne arrestato e ciò indebolì ma non distrusse la direzione. La quale integrata con nuovi membri (compresi alcuni compagni tornati in libertà per l’amnistia del ’32) continuò egualmente la propaganda e l’organizzazione di nuovi proseliti. Purtroppo alla fine dell’anno una nuova retata coinvolse altri compagni empolesi e numerosi compagni di Prato, e con una successiva ondata, qualche mese più tardi, altri compagni pratesi e di Sesto Fiorentino. Nel ’35 ancora nel gruppo emiliano vi è in testa un empolese, Mario Fabiani, e in un altro milanese un compagno di Prato, Alberto Torricini, quali dirigenti nazionali.

Nel ’37 l’organizzazione riceve un duro colpo. Arrestato a Pisa il funzionario del centro dopo una riunione del Comitato Federale vengono arrestati una decina di comunisti di Empoli e l’anno successivo in conseguenza di tale arresto un più numeroso gruppo di comunisti em- polesi, fiorentini, di Fucecchio, di S. Croce, di S. Miniato. In quella retata venne arrestato Alfredo Puccioni e il sottoscritto dalla polizia milanese per ordine di quella fiorentina. Il consiglio dei compagni di allontanarsi per un periodo, perché dopo gli arresti del ’37 vi era la sensazione che fossimo sotto stretta vigilanza dalla polizia e dai fascisti, non ebbe l’esito sperato.

Gli anni di carcere scontati dalle centinaia di comunisti ancor prima della costituzione del Tribunale Speciale, e dal 1927 al 1943 processati e condannati dal Tribunale fascista, furono 658 per attività nella Regione e 72 in altre Regioni della penisola.

Contrariamente ad altri partiti che limitarono la lotta contro il fascismo nell’emigrazione, con l’eccezione di qualche gruppo socialista e del P.d.A. che continuava la tradizionale linea di giustizia e libertà dei fratelli Rosselli, il P.C., anche in Toscana non interruppe mai l’attività interna tanto che il fascismo considerava quanti in qualche modo organizzassero l’opposizione alla sua criminale politica e venissero inviati al confino o condannati, come comunisti e come comunisti considerati dalla pubblica opinione, anche se antifascisti di altri orientamenti e tendenze politiche.

Di ciò, malgrado che io stesso credessi che i colpiti fossero soltanto i comunisti, mi resi conto non appena fui schiaffato in una cella del carcere milanese di San Vittore, ove trovai due compagni dai cui discorsi, pur pieni di reticenza, capii che uno era socialista e l’altro liberale.

Anche a Firenze attorno a Traquandi, Codignola, Calamandrei, Ragghianti, ai socialisti Gaetano Pieraccini, Attilio Mariotti, Foscolo Lombardi, Gino Bertoletti e ai cattolici Adone Zoli, Giorgio La Pira, Donativi, Cappugi, esistevano centri d’opposizione, spesso sul piano morale, come avevano impostato la lotta antifascista fin dal periodo aventiniano. Tuttavia fino a quando ormai le sconfitte militari dell’asse e i disagi della guerra non ebbero scosso la coscienza nazionale e oramai fu chiaro il fallimento della Blitz Krieg e si prospettava la catastrofe, una vera e propria attività organizzata non vi fu. Significativo di tutto ciò è un racconto di La Pira di un incontro, nello studio legale di Zoli con Giovanni Gronchi. Egli con la sincerità che gli era propria ebbe a ricordare come ormai prossima la caduta del governo di Mussolini e dovettero concordemente ritenere « che oramai qualcosa di serio bisognava fare ».

Fra coloro che erano al confino di polizia e nelle carceri la maggioranza era composta da comunisti, di estrazione operaia, contadina, comunque lavoratori con modesta cultura, pur avendo cercato di aumentarla con letture e discussioni, ora si impegnarono a completare le conoscenze generali e teoriche nella « Università » carceraria, non avendo la politica di classe consentito loro di poter frequentare qnella ufficiale.

I laureati dai « Professori » dei Comitati di studio nelle galere, rovesciato il fascismo e tornati in libertà poterono assolvere ad un ruolo decisivo nella resistenza e nella lotta politíca e militare contro il fascismo e il nazismo, nella guerra di liberazione e, avvenuta la vittoriosa insurrezione, nella ricostruzione nazionale.

Il piano di studio nelle carceri infatti era essenzialmente volto alla migliore preparazione alla lotta antifascista: la storia d’Italia; del movimento operaio e dei partiti politici; gli elementi di economia e di filosofia; la teoria dello stato erano in funzione dei compiti che una volta terminata la pena si riteneva di assolvere nel paese, le discussioni sulla situazione e del suo evolversi (che le saltuarie notizie, l’arrivo di qualche giornale e di documenti dal centro del partito, pervenutici tramite i colloqui con i famigliari o qualche agente amico, malgrado la vigilanza, permettevano) consentivano un approssimato aggiornamento e una valutazione del corso degli avvenimenti.

Inoltre l’arrivo dei nuovi compagni condannati e soprattutto degli organizzatori degli scioperi « economici » di Torino e Milano, il più consistente soccorso rosso in denaro e in pacchi alimentari un tempo assai limitati, indicavano che il fronte antifascista si era esteso alla classe media dando luogo a nuovi movimenti e ormai l’epilogo del ventennio di tirannia si avvicinava a grandi passi. Tuttavia il modo in cui avvenne colse di sorpresa il collettivo politico del carcere e lo stesso comitato direttivo. Tanto che i rumori che giunsero al carcere durante la notte del 25 luglio, sebbene inconsueti, destarono curiosità e interrogativi che nemmeno gli agenti amici, entrati in servizio nel tardo pomeriggio, furono in grado di chiarire. Soltanto al mattino col cambio del turno degli agenti carcerari, uno di loro ci informò che Mussolini era stato arrestato, sciolto il gran consiglio e incaricato il generale Badoglio di formare il nuovo governo.

Bastarono pochi istanti e tutte le sezioni dei « politici » (oltre ai toscani, ai lombardi e agli emiliani vi erano nazionalisti slavi e gli scioperanti) manifestarono la gioia per l’avvenimento. Il comitato direttivo della prima sezione che esercitava un’autorevole influenza anche sulle altre sezioni (alla prima sezione erano stati concentrati i più vecchi e ritenuti importanti dirigenti) non appena giunto nel cortile, ove i detenuti dalle diverse celle della sezione si recavano a « l’ora d’aria » giornaliera, si riunì, fece il punto della situazione e indicò le direttive: chiedere un colloquio col Direttore per ottenere riunioni periodiche con i compagni delle altre sezioni onde concordare le richieste al nuovo governo; l’abolizione della censura sulla posta e nei colloqui; un più lungo periodo giornaliero d’aria e l’autorizzazione per l’acquisto di giornali. A presentare le rivendicazioni al Direttore del carcere fu mandato il compagno Mario Venanzi, considerato per le origini — era un avvocato — e per i rapporti dei suoi famigliari con il Direttore, il più adatto. Nel pomeriggio Venanzi ebbe il colloquio, ma passarono quasi due ore senza che fosse riportato in cella.

La cosa allarmò tanto che il comitato decise una generale protesta. Al suo ritorno comunicò che tutte le richieste erano state respinte, che il nuovo governo aveva proclamato lo stato d’assedio, ordinato il passaggio dei poteri all’esercito e dichiarato: « la guerra continua ».

Nello stesso momento giunsero decine di militari, mitragliatori imbracciati, comandati da un capitano dei bersaglieri chiamati, si disse poi, dal vicedirettore, un bieco strumento dell’O.V.R.A., per sedare la rivolta dei prigionieri inglesi che volevano evadere, così era stata presentata la richiesta dell’intervento al comando di Modena. Chiarito con difficoltà il provocatorio tentativo con cui si sperava di colpire duramente oltre mille detenuti per odio politico, il capitano ottenne l’allontanamento del responsabile della provocazione e dal Direttore una parziale concessione delle rivendicazioni che consentirono un maggiore coordinamento fra le sezioni e un migliore trattamento. Ma la scarcerazione che era la rivendicazione principale e legittima, caduto il fascismo, avanzata anche dal Comitato antifascista nazionale interpartitico, non avvenne che dopo alcune settimane e col contagocce.

Prima vennero scarcerati quelli che erano in attesa di giudizio, poi potè tornare nei luoghi di residenza chi era confinato; successivamente con una lentezza estenuante quelli condannati dal Tribunale Speciale, tanto che alcuni compagni restarono in carcere fin dopo 1’8 settembre in penitenziari tenuti sotto controllo tedesco. Persino chi aveva già scontato la pena venne scarcerato dopo giorni e in seguito a decise agitazioni con l’assurda scusa di non aver la scorta per accompagnarlo alla rispettiva Questura, ove veniva sfottuto da questurini restati fascisti; come avvenne a me e ai compagni Barchini e Bussotti, quando giunti in Questura il funzionario a cui fummo consegnati dai carabinieri ci spedì in camera di sicurezza. E in camera di sicurezza dalla questura fiorentina mi trattennero fino a tarda sera, perché assente il « Signor » Questore, non sapevano se dovessi essere inviato al Confino, come era stato deciso in previsione della fine dei sette anni inflittimi dal Tribunale Speciale. Ai comunisti inoltre veniva comunicato che restava in vigore la vigilanza che comportava un periodico controllo da parte dei R.R.C.C. e dei commissariati di polizia, il divieto di allontanarsi dal luogo di residenza e durante le ore notturne da casa.

Comunque, tornati dal carcere, pur nelle condizioni di semilibertà, ognuno riprese il proprio posto di combattimento inserendosi facilmente nella nuova situazione. Intanto, dopo le manifestazioni dei primi giorni che avevano distrutto i segni esteriori del regime e intimorito i fascisti più responsabili appariva — e non mancavano atti dimostrativi — chiaramente che il fascismo era sempre presente e radicato in tutti gli apparati dello Stato, negli organi di polizia e nei comandi dell’esercito che aveva aggregato persino la milizia fascista. Io, non avendo più un legame familiare a Empoli, tornai a Figline dai miei genitori e qualche giorno dopo mi procurai un contatto con Gino Tagliaferri del Comitato Federale che mi consigliò di svolgere, in attesa di eventuali nuovi compiti, il lavoro politico e organizzativo nei comuni del Valdarno fiorentino e aretino.

Fra il 20 agosto e il primo settembre tornarono a Firenze e nei comuni della provincia circa duecento compagni che presero contatto con l’organizzazione, o con gruppi antifascisti, che avevano prima e dopo il 25 luglio svolto una importante attività promuovendo le manifestazioni in città e in provincia fin dall’annuncio della caduta di Mussolini. L’iniziativa unitaria che tramite Giulio Montelaticí, Fosco Frizzi e altri compagni, aveva realizzato contatti prima col gruppo socialista, col quale avevamo il patto di unità, poi con il partito d’azione e con altri movimenti dette luogo a un comitato interpartiti. Il partito però già il 26 aveva diffuso un manifestino stampato con cui si richiedeva la immediata liberazione dei detenuti politici e si invitava a manifestare per una effettiva e radicale politica governativa antifascista e di pace. Un ordine del giorno dello stesso contenuto politico che comunisti e socialisti riuscirono a far pubblicare da « Il Nuovo Giornale », dette origine al sequestro del giornale, ma la prima edizione fu regolarmente diffusa. Nelle fabbriche si costituirono i comitati d’agitazione unitari interpartitico; fu ricostruita la Camera del Lavoro, alla direzione della quale furono chiamati il dott. Mattei e Antonio Negro, il quale favorì la costituzione di delegazioni nei centri più importanti di Prato, Empoli e di altri comuni. La pressione di massa e l’iniziativa del Comitato antifascista interpartitico, che si era sviluppato in tutto il Paese, costrinse il governo a prendere alcune misure amministrative.

A Firenze venne cambiato il Prefetto, Gaetani, il Podestà, Venerosi-Pesciolini, il Presidente della Provincia, Ginori-Conti e i podestà di altri comuni della provincia. Ma il Prefetto venne sostituito da un funzionario già capo gabinetto di ministri fascisti e i podestà da funzionari della Prefettura, non sempre meno compromessi e conservatori di quelli sostituiti. Erano quindi necessarie nuove spallate, una più vasta iniziativa sociale e politica, una mobilitazione in favore della pace mediante l’armistizio con le parti militari contro le quali eravamo in guerra. Intanto, malgrado il divieto di organizzare i partiti politici, i vari gruppi cercavano di assumere una propria fisionomia e una propria organizzazione che facilitò il coordinamento e la formazione del « Fronte nazionale antifascista » che già funzionava e operava a Roma.

I socialisti, per iniziativa di Gaetano Pieraccini e del maestro A. Bruni, il 22 agosto pubblicarono e diffusero un giornaletto: « Socialismo ». Gli anarchici riuscirono a diffondere « Il Libertario » stampato a La Spezia. Il movimento cattolico che ormai era uscito dall’interno dell’Azione cattolica tramite vecchi aderenti all’ex Partito Popolare per iniziativa di La Pira e di Mario Martini, aiutati dal figlio Roberto che già aveva legami con i comunisti, pubblicarono « San Marco » in cui riportavano, commentata, l’enciclica papale e l’omelia del Cardinale dalla Costa. I liberali, i primi di settembre, tennero una riunione assieme ai democratici del lavoro per stabilire la partecipazione alla lotta.

Il Partito d’azione che era presente organizzativamente già nel periodo clandestino col movimento di Giustizia e Libertà, pubblicò e diffuse « Oggi e Domani », organo degli azionisti toscani, mentre i comunisti col ritorno a Firenze di compagni autorevoli e con esperienze nazionali e internazionali, politiche e militari, rafforzarono e intensificarono la propria attività. Fu compiuto uno sforzo per unificare i vari gruppi già operanti in città e in provincia, si prefigurarono le utilizzazioni dei compagni nei vari settori geografici e di lavoro, preparando spostamenti e basi nella prospettiva di un nuovo passaggio dalla semi clandestinità, nella quale anche dopo la caduta di Mussolini, la politica badogliana li aveva costretti, alla completa clandestinità.

Il Comitato Federale, composto da Tagliaferri, Frizzi, Montelatici, Barbieri ed altri e che aveva ripreso fin dai primi dell’anno i contatti col « Centro interno », ossia con la direzione nazionale, venne allargato e ricostituito con segretario Giuseppe Rossi. Nella riunione del 25 agosto venne esaminato lo stato del Partito e i nuovi compiti nella prospettiva di una eventuale pace separata e la reazione che avrebbe potuto certamente essere scatenata dai tedeschi. Fu deciso che la propaganda venisse svolta da una commissione composta dai compagni Frizzi, Barbieri, Baracchi, Romano Bilenchi, Luigi Sacconi e Mazzanti, « il tipografo », ed altri, sostituendo « Rivoluzione » che era stato stampato, come supplemento da « L’Unità », con « Azione Comunista » organo della Federazione prima dell’avvento del fascismo, fondato da Spartaco Lavagnini. Fu ritenuto che a Prato, Dina Saccenti, Alberto Torricini e gli altri compagni tornati dal carcere fossero in grado di assolvere la direzione; che a Empoli, Mario Fabiani, Gino e Catone Ragionieri, Caparrini, Benassi e tanti altri avrebbero dovuto interessarsi della Valdelsa e di eventuali altre località.

Del Valdarno superiore, con proiezione verso S. Giovanni, Montevarchi e il bacino legnifero dovevano interessarsi Dino Setti e il sottoscritto, mentre a Borgo S. Lorenzo e per l’intero Mugello, era necessario provvedere all’aiuto dei compagni Lavacchini, Donatello Donativi e Stefanini. Vi venne spostato Alfredo Puccioni. Per Firenze e il circondario provvedeva direttamente la segreteria. Infine venne ritenuto che si doveva già iniziare la raccolta di armi e la preparazione militare di cui furono incaricati i compagni che avevano combattuto nelle Brigate Garibaldi in Spagna in difesa della Repubblica, incaricando Sinigaglia e Saccenti.

Così, come non era stato sorpreso il partito dagli avvenimenti del 25 luglio, non fu trovato impreparato dall’armistizio dell’8 settembre. Le misure del passaggio di tutti i dirigenti ad una più stretta semi clandestinità aveva impedito che venissero coinvolti nel fermo di polizia di Adone Zoli i compagni membri del Comitato del Fronte nazionale che, dopo 1’8 settembre, si trasformerà in Comitato di Liberazione Nazionale. Le manifestazioni popolari che la sera rapidamente si svilupparono con carattere festoso per la fine della guerra, interpretando erratamente l’annunciato armistizio come la pace raggiunta, ascoltarono dall’orientamento dei comunisti che bisognava prepararsi a respingere il prevedibile attacco delle forze militari tedesche e quindi alla guerra nazionale.

Ricordo che il pomeriggio dell’8 settembre ebbi un colloquio con Rossi che come segretario della Federazione incontrava quasi ogni giorno i responsabili dei vari settori. Il colloquio si era svolto sui compiti nei quali saremmo stati impegnati con l’approssimarsi di ciò che dopo qualche ora doveva verificarsi. Dal treno con cui ritornavo a Figline notai in alcune stazioni assembramenti e animazioni. Non appena sceso dal treno, i compagni che mi attendevano mi informarono dell’annunciato armistizio e che la piazza principale era affollata dal popolo al quale si era già cominciato a parlare. Dopo i rappresentanti degli altri partiti, ci fu possibile indicare la non facile situazione a cui saremmo stati costretti, gettando un po’ d’acqua sul fuoco dell’entusiasmo pacifista. E già nella nottata vennero costituite le prime squadre di vigilanza della Guardia Nazionale, come avvenne in molte altre località.

Le armate tedesche, infatti, con l’aiuto dei fascisti che erano ancora negli organi dello Stato, nell’esercito o che si erano prima nascosti, iniziavano l’occupazione del Paese, trovando soltanto qua e là qualche resistenza. Il governo Badoglio e il re non avevano preparato l’esercito — fu poi detto per cautela — alla resistenza, malgrado un timido laconico comunicato ingannatore di copertura delle gravi responsabilità. Il nostro partito il mattino del 9 pubblicai e diffonde il primo numero de « L’Azione Comunista », l’unico giornale che esce a Firenze, e diffonde decine di migliaiadi manifestini stampati durante la notte, nei quali rivendicando il merito dell’ottenuto armistizio alla pressione unitaria del popolo sul governo Badoglio, si prospetta la suprema esigenza della resistenza e della guerra ai tedeschi e ai fascisti.

I rappresentanti dei partiti andarono al Corpo d’Armata per chiedere che l’esercito difendesse la città da un prevedibile attacco tedesco e domandarono armi per i volontari. Il generale Ciappi dette promesse generiche e vaghe. La resistenza all’invasore tedesco non viene organizzata, mentre si spara contro le manifestazioni per la pace uccidendo, senza alcun provvedimento nei confronti del tenente che, in servizio in Piazza Vittorio, con un colpo di pistola uccide Valerio Bartolozzi, colpevole di diffondere manifestini .comunisti e di distribuire « L’Azione Comunista ».

L’occupazione di Firenze, senza la decisione dell’alto comando militare, avvenne, come nell’intera provincia, facilmente dopo qualche sporadica scaramuccia dimostrativa. L’esercito fu appena schierato e poi lasciato allo spontaneo disfacimento. Una possibile resistenza antitedesca e antifascista poteva soltanto avvenire attraverso l’organizzazione di un nuovo esercito popolare. Il partito comunista decise quindi di dedicare ogni energia alla creazione di formazioni partigiane, di squadre di azione patriottiche e di G.A.P. Già ai primi della seconda metà di settembre l’appello ai cittadini di non dare tregua ai nazisti e ai loro alleati e traditori fascisti viene raccolto da numerosi soldati sbandati che, danno le armi ai centri organizzatori della « Guardia Nazionale » o partecipano ai primi raggruppamenti partigiani.

Le prime formazioni e i primi scontri armati sono dei Garibaldini, organizzati e diretti dai comunisti. Appena fuori di Firenze, vicino a Querceto, si costituisce una base dove si raccolgono armi e giovani con l’intento di dislocarsi nelle montagne intorno a Firenze. Un primo scontro armato con i fascisti servi dell’invasore avviene ai primi d’ottobre a Ceppeto ove trova la morte il compagno Giovanni Checcucci, appena tornato dal carcere dopo la condanna di sei anni. Un altro tra i primi combattimenti, il 7 dicembre, avviene nelle colline di Greve fra un nucleo di Garibaldini, comandati da Faliero Pucci, anch’egli appena tornato dal carcere, e un reparto di repubblichini.

Malgrado l’inesperienza, molti ragazzi non hanno ancora sparato un colpo, infliggono due morti e quattro feriti ai repubblichini. Pucci cadrà poi nel gennaio in un violento scontro con ingenti forze nelle montagne del pistoiese, dove era stato inviato a dirigere una nuova formazione. Contemporaneamente il 3 gennaio nello scontro di Vallibona con i repubblichini delle Muti, cadde assieme a due altri partigiani il comandante Ballerini Lanciotto, infliggendo però al nemico dodici morti e decine di feriti.

Le formazioni si estesero un po’ dovunque nella regione. I diretti scontri, i sabotaggi, i colpi di audacia, entrano in funzione le S.A.P. e i G.A.P., dai monti e dalle colline cominciarono a investire sentinelle, reparti, gruppi fascisti e tedeschi anche nei centri urbani. Il primo dicembre un gruppo di Azione Patriottica giustizia con un’operazione fulminea il colonnello Gino Gobbi, collaboratore dei tedeschi nel rastrellamento dei giovani renitenti di leva. Il giorno seguente vengono fucilati cinque innocenti giovani prelevati dal carcere a titolo di rappresaglia che sarà il metodo che caratterizza, per tutto il periodo, la bestiale reazione dei fascisti repubblichini e dei tedeschi.

La situazione quindi si fa sempre più difficile e la lotta più aspra. Il cedimento di qualche compagno e specialmente di altre forze politiche verificatosi di fronte alla proposta di un « patto di pacificazione » in nome « dei supremi interessi della patria », lanciato dai fascisti per uscire dall’isolamento, è generalmente annullato. Tuttavia alcune ingenuità e incertezze locali e soprattutto la presenza tedesca consentirono il rientro dei fascisti che si erano prima nascosti e la riorganizzazione di una loro attività di delazione prima e poi di repressione dei patrioti conosciuti e più esposti. Già un’azione dei fascisti a Empoli costrinse a fuggire Fabiani, mentre la fuga di Gino Ragionieri fu fermata con scariche di mitra che lo ferirono gravemente. A Figline Valdarno l’eccessivo entusiasmo per l’organizzazione di una formazione partigiana che aveva raggruppato già una ventina di giovani portò a indire una larga assemblea di indirizzo e reclutamento nella casa del popolo riconquistata, determinò l’intervento tedesco-fascista, ove la formazione aveva fatto base, disperdendo uomini che abbandonarono armi e vettovagliamenti e causando arresti nel paese. Altri arresti venivano effettuati su delazione fascista qua e la dalla polizia e dai carabinieri che si erano schierati con i tedeschi o costretti a obbedire dai fascIsti locali Il partito dovette estendere le misure cospirative e provvedere per la necessaria sicurezza dei propri dirigenti ad operare numerosi spostamenti. Il Comitato Federale viene ristretto al massimo. Fabiani viene chiamato a Firenze per dirigere il Comitato di città, e il compagno Catone Ragionieri inviato nel Valdarno spostando i compagni Mazzoni per dirigere il circondario di Firenze e Setti per rafforzare il settore femminile. Altri compagni sono spostati nella Valdelsa, nel Mugello e in altre località. Inoltre d’accordo col Comitato regionale, il compagno Gino Tagliaferri viene inviato a Siena, Renato Bitossi in Apuania, da dove veniva portato a Firenze Gino Menconi, Cesare Collini e Guerrando Olmi a Pistoia, Giovanni Ciarpaglini ad Arezzo e tant’altri in altri luoghi.

L’inasprirsi dello scontro rafforza l’unità fra i partiti. Il Comitato di Liberazione diventa C.T.L.N. dato che ormai da Firenze i diversi partiti esercitavano un ruolo regionale e assunse il compito di dirigere la lotta armata dotandosi del Comando Marte composto da uomini del P.d’A., del P.S., della D.C., del partito Liberale e dal nostro compagno Luigi Gaiani, che dal Comando ebbe la funzione di commissario politico, inviato a Firenze da Bologna, dopo l’assassinio di Sinigaglia dei fascisti della Muti.

Malgrado l’eterogenea composizione militare e politica del C.M. l’unità operativa era efficiente anche se non mancavano rivalità fra formazioni di diversa colorazione o di direzione personale a derimere le quali erano necessari interventi politici che le più volte venivano compiuti dai comunisti per le più numerose formazioni controllate e per il più pronunciato spirito unitario. Più difficili invece erano le intese nell’ambito del C.T.L.N. nel quale eravamo rappresentati dai compagni Rossi e Montelatici non solo per le diverse valutazioni e orientamenti politici, ma anche perché talune azioni militari decise autonomamente dai co. mandi delle rispettive formazioni e specialmente per quelle compiute dalle S.A.P. e dai G.A.P. esclusivamente controllate e dirette da nostri compagni, non vi era pieno accordo, specialmente se avvenivano nei centri abitati, pur sempre precedute e accompagnate da iniziative politiche in conformità alle generali indicazioni del C.T.L.N.

Certo non mancarono iniziative e azioni non sempre sufficientemente preparate. Originati dall’entusiasmo della crescita impetuosa del movimento, il controllo e il coordinamento si facevano sempre più difficili. Al Comando Marte e ai comandi militari locali e agli stessi Comitati di Liberazione ogni tanto sfuggivano attività marginali che mettevano in difficoltà l’organizzazione politica, militare e talvolta l’incolumità dello stesso reparto o squadra d’azione patriottica. Ho ricordato cosa avvenne a Pian d’Albero, presso Poggio alla Croce, per l’imprevidenza degli organizzatori di Figline Valdarno. Altri fatti possono dimostrare che non sempre lo slancio incontrollato era fruttuoso.

Avendo una base recapito alla Catena sulla via Pistoiese nella casa di un compagno dovevo incontrarvi il compagno Olmi che operava a Pistoia. Recandomi all’appuntamento, stabilito nell’abitazione del compagno Zaccaria, mi si presentò l’agghiacciante spettacolo: penzolante alla finestra della casa bruciata un ragazzo impiccato e bruciato indicava l’avvenuta rappresaglia tedesca. A nostra insaputa quella base era stata utilizzata per i renitenti di leva che dovevano essere inviati nelle formazioni partigiane. Potei proseguire per fortuna inosservato e incontrare Olmi per strada con cui mi diressi in bicicletta a Pistoia, senza conseguenze.

Un’altra volta, non avendo informato la direzione politica né quella militare, una squadra d’azione di Narnali, dove occasionalmente abitavo, compì un sabotaggio facendo saltare alcuni vagoni di esplosivo e di munizioni in sosta sulla linea Prato-Pistoia. A fatto compiuto, venuti a conoscenza, per precauzione temendo la rappresaglia decidemmo ,di restare ritirati in casa tutto il giorno. Ma ormai facendosi buio io che non avevo viveri e pensando che ormai tutto fosse calmo, scesi per mangiare un boccone alla bottega vicina. Purtroppo, mentre attendevo di essere servito, arrivò nn nugolo di tedeschi e di repubblichini. Fummo arrestati, io e i figli del commerciante dopo che erano stati rastrellati tutti i giovani trovati nella strada e nelle botteghe. La presentazione dei documenti falsi che mi qualificavano orchestrale dell’E.I.A.R., e perciò in servizio, non valsero a giustificare la mia presenza nel luogo. Ci caricarono su alcuni camion che si diressero verso Prato. Mi resi conto che una volta giunto al Comando tedesco a Prato o a Firenze sarei stato facilmente identificato. L’unica possibilità di salvezza era quindi la fuga che, per fortuna, mi si presentò.

Giunti a un sottopassaggio della ferrovia ove i tedeschi avevano posto un blocco i camion vennero fermati per il controllo. Io ero accoccolato nell’ultimo camion. Vedendo che a qualche metro vi era un muro che separava la strada dai campi, pensai che un salto mi avrebbe consentito di cadere nel campo al riparo dell’eventuale sparatoria dei’, tedeschi. Attesi che la colonna si rimettesse in marcia per sfruttare anche il tempo necessario per fermare il mezzo,’ spiccai il salto che mi consentì di superare con la parte superiore del corpo il muro e cadere nel campo e, con una precipitosa fuga, di giungere in luogo sicuro presso i compagni di Galciana.

Il giorno dopo feci recuperare la borsa che avevo nella stanza dormitorio ma non vi era più, poiché quelli di Narnali, temendo che qualcuno avesse indicato il mio recapito, l’avevano presa, salvando al C.L. alcune decine di migliaia di lire che avevo nel doppio fondo della borsa. Questi due fatti consigliarono la segreteria della Federazione a spostarmi nuovamente a Firenze, facendomi sostituire dal compagno Paolo Vezzi.

Un’altra dimostrazione dell’imprevidenza derivata dal l’entusiasmo costò la vita ai fratelli Buricchi di Carmignano. Bogardo, il maggiore dei giovani fratelli, era il capo di un audace reparto che operava nel carmignanese. Ci informò che alla vicina polveriera i tedeschi avevano caricato numerosi vagoni di tritolo e che li avevano messi in sosta nei pressi della stazione di Carmignano. La decisione del reparto era di farli saltare. Io e Saccenti lo consigliammo di attendere il giudizio di un tecnico che garantisse l’incolumità dei ragazzi e della popolazione prevedendo la potenzialità esplosiva di così tanto materiale. Saccenti si in caricò di inviare il tecnico che non poté farlo nel giro di qualche giorno. Ma una mattina gli informatori fecero sapere che gli otto vagoni di tritolo dovevano partire; il reparto decise di agire comunque e, nella notte, il piano fu attuato pur consapevoli del pericolo

L’esplosione provocò un boato in gran parte della provincia; divelse alberi e purtroppo anche le giovani vite di quattro combattenti (Bogardo e Alighiero Buricchi, Ariodante Nardí e Bruno Spinelli) mentre i superstiti vagarono nella campagna per due giorni in stato di completo stordimento.

Il più delle volte tuttavia, le forze moderate del C.T.L.N. non ritenevano giusto che tali iniziative venissero prese direttamente dai comunisti, anche perché temevano il ruolo che la sinistra e particolarmente i comunisti assumevano nella lotta popolare armata e politica, poiché la stampa e la diffusione, anche nelle altre provincie toscane, essenzialmente stampata dai compagni influenzava i combattenti verso le nostre finalità. Ma senza « l’Unità », « L’azione Comunista », le centinaia di migliaia di manifestini che stimolavano, aiutavano, informando sulle questioni economiche e sociali, sulle esperienze e i successi delle varie formazioni partigiane, delle S.A.P. e dei G.A.P., gli atti e le iniziative di lotta non avrebbero avuto l’attuazione nelle sue molteplici forze che assunsero.

Infatti dopo che era uscito qualche numero de « Il Socialismo », de « La giovane Italia », organo del Fronte della Gioventù, e di « Libertà », sospesa in seguito alla scoperta della tipografia dovei compagni del Partito d’azione la stampavano, la propaganda stampata murale e orale ,si era andata sempre più estendendo per opera essenzialmente nostra. In talune occasioni, la « nostra » tipografia, fortunatamente mai scoperta, malgrado le ispezioni della polizia, rimaneva ingolfata, tanto che in occasione dello sciopero rivendicativo degli operai della Pignone per il pane e la libertà, il numero di « Lotta operaia », i compagni Tincolini e Sacconi dovettero stamparlo in una diversa tipografia, forse ove prima si stampava « La Giovane Italia ». Egualmente due numeri de « Il Combattente » vennero stampati nella tipografia Saltimmagi di Figlino Valdarno e le organizzazioni di centri importanti dovettero stampare sovente manifestini con mezzi rudimentali.

I nostri giornali e i numerosi volantini preparavano la lotta per le condizioni di disagio aggravate dai bombardamenti delle forze alleate che si allargava a macchia d’olio

-« Noi donne » mobilitava le massaie esasperate per la scarsezza dei generi alimentari, costrette a restare per lunghe nelle interminabili code per il pane, l’acqua e qualche altra cosa. Si estendeva la protesta, mentre nelle fabbriche gli scioperi per migliori condizioni di vita e di lavoro si susseguivano. I mezzadri e i coloni, ai quali i fascisti e i tedeschi facevano razzia delle derrate e del bestiame, nascondevano il raccolto e le scorte vive e quando ciò non era possibile macellavano il bestiame e lo vendevano ai cittadini conosciuti o ai partigiani pur pagati con pericolose lettere di credito del Comitato di Liberazione.

Ormai il movimento nei grandi e piccoli centri di lavoro e la protesta nelle strade creavano una tensione che consentì di prospettare la preparazione di uno sciopero nella intera parte del paese occupata. Alla metà di febbraio già il centro interno da Milano indica una tale prospettiva a breve scadenza, fissando come data i primi di marzo. Il Comitato regionale, di cui fanno parte i compagni Paolo Silvati (Antonio Roasio), Francesco Leone, Leonida Ronca-gli (Rossi è stato spostato a nord per motivi di sicurezza) informa, tramite Roncagli, che ha assunto la funzione di segretario della Federazione, il Comitato Federale affinché prenda le opportune decisioni operative.

Dopo qualche giorno col manifesto ai lavoratori lanciato dal P. C. Italiano e dal Partito Socialista di Unità Proletaria giunge anche la data. Lo sciopero generale deve svolgersi il l’ marzo. Il Comitato provinciale, che già ha trasmesso la direttiva alle organizzazioni periferiche, decide di stampare alcune decine di migliaia di copie del manifesto nazionale, e di far partecipare in appoggio agli operai delle più grandi fabbriche alcuni reparti partigiani dei G.A.P. e delle S.A.P. Oltre che a Firenze e al suo circondario lo sciopero deve essere veramente generale a Prato e a Empoli. L’impegno diretto della preparazione viene dato a Fabiani, a me, che ero incaricato di dirigere le organizzazioni pratesi già dal 15 febbraio e al compagno Leo Negro che, oltre ad essere dirigente del Comitato di agitazione sindacale della città, aveva contatti con Empoli. In un incontro, esaminato il grado di mobilitazione e temuto che non fosse sufficiente, proponemmo alla segreteria che la data per lo sciopero fosse spostata al 3 marzo, e che si provvedesse con manifestini a integrare l’appello nazionale con rivendicazioni locali.

A Firenze nella notte alcune squadre di G.A.P., dirette da Cesare Massai, devastano la sede del sindacato fascista incendiandola, lanciando bombe dirompenti che divelgono i binari del tram, nei primi tratti d’uscita dai depositi affinché non trasportino gli operai che abitano più lontano dalle fabbriche. Alla Pignone, alla Galileo, alla Cipriani e Baccani, alla S.I.E.T.T.E., alla Superpila i metallurgici sono in sciopero compatti. Egualmente sono in sciopero i ceramisti della Ginori e di altre fabbriche. Alla Manifattura Tabacchi le sigaraie sospendono il lavoro. Ai tedeschi e ai Fascisti che si recano negli stabilimenti, ordinando l’immediata ripresa del lavoro, gli operai gridano di non potere e non volere più lavorare nelle condizioni di fame. Alla Manifattura, ove volle recarsi personalmente Manganiello, anziché ascoltare il discorso che abbozzò per convincere le sigaraie a riprendere l’attività, si prese un lancio di manifestini in faccia e dovette ascoltare le grida di: « abbiamo fame, vogliamo la pace ».

A Prato lo sciopero fu una grandiosa protesta. Furono coinvolte tante « botteghe » e tanta popolazione da far perdere la testa agli scherani di Carità che col loro intervento di rappresaglia — vennero arrestati diecine di lavoratori — favorirono, l’estensione e la durata del riento delle attività produttive e commerciali. Per alcuni giorni Prato fu pressoche paralizzata. Anche lo sciopero di Prato, non essendo state superate le difficoltà, fu facilitato dal massiccio intervento dei G.A.P. e delle S.A.P., che al mattino si schierarono armate nelle strade di accesso alla città e ai centri di lavoro. La presenza dei partigiani che diffondevano la parola d’ordine « sciopero », diffondendo il proclama e un manifestino stampato con le rivendicazioni economiche particolari rappresentò la dimostrazione della profonda volontà antifascista e antitedesca delle masse popolari che attendevano una più audace organizzazione e direzione della lotta.

A Empoli all’interruzione, del lavoro nelle fabbriche del vetro e delle concerie si aggiunsero le manifestazioni delle donne, che da Avane raggiunsero il centro cittadino chiedendo maggiori razioni alimentari. Alle donne di Avane altre si aggiunsero, poi si unirono le masse contadine e gli operai costituendo un interminabile corteo che, sorvegliato da un centinaio di giovani armati di rivoltella e bombe a mano, si recò al Comune, dove i fascisti furono costretti a ricevere una delegazione. Alcuni reparti di partigiani, temendo l’intervento dei repubblichini, avevano piazzato mitraglie nelle case di compagni in centri strategici di difesa.

Lo sciopero e le dimostrazioni si estendevano negli altri comuni vicini senza che i fascisti, ormai impotenti, osassero intervenire. Soltanto a Limite i fascisti di Montelupo intesero sciogliere la dimostrazione lanciando bombe a mano, ma non ottennero che il rafforzamento della protesta e lo sciopero degli operai del Cantiere navale. Lo sciopero e le proteste di marzo avevano scosso la fiducia in una parte dei repubblichini nella vittoria dell’Asse così che cercarono di dileguarsi, tradendo la fiducia che i nazisti avevano riposto in loro quali garanti del fronte interno.

L’avanzata delle truppe alleate, i bombardamenti, come cinicamente prevedevano gli alleati, scuotevano e disorganizzavano la scarsa attività lavorativa, gli stessi organi amministrativi e repressivi. Era ormai opinione generale che si trattava di un tempo breve perché gli antifascisti col loro esercito partigiano e le truppe alleate giungessero in Toscana. E se i tedeschi inasprirono i controlli in prima persona e accentuarono le bestiali rappresaglie, i fascisti meno compromessi e non pochi dirigenti dell’apparato poliziesco restato nelle questure, cercavano contatti coni locali Comitati di Liberazione e alibi per salvarsi.

I primi episodi di guerra partigiana si erano estesi; gli scontri coni reparti di repubblichini e di tedeschi, il taglio delle linee telefoniche ed elettriche si erano fatti sistematici. La viabilità nelle strade principali disseminate di chiodi tripuntati e da tempestivi attacchi con bombe e con mitragliamenti in cui erano impiegate le S.A.P. e i G.A.P. erano sempre più insicure al transito delle colonne nemiche. Gli attacchi alle caserme dei carabinieri e della guardia fascista, ai depositi di armi, di munizioni e di viveri, sempre più numerosi, creavano nei nemici la psicosi del terrore, mentre rafforzavano la volontà di organizzazione e di partecipazione alla lotta per liberare il paese dall’occupante straniero e dal suo servo in camicia nera.

Villabona, Montorsoli, Pian d’Albero, Gattaia, Macie, Secchieta, Carmignanello, Vicchio, Cerreto Maggio, Cetica, Monte Falterona ed altri episodi divennero cronaca della guerra partigiana, talvolta ampliata dalla immaginazione popolare. Sembrano incredibili e fantastici nella opinione pubblica gli audaci colpi dei G.A.P. che in pieno giorno e in condizioni di estrema difficoltà giustiziano il colonnello Gobbi, il console Ingaramo, il filosofo del fascismo Giovanni Gentile, la liberazione, malgrado i numerosi piantoni, dall’ospedale di Pistoia del partigiano Bruschi gravemente ferito nello scontro in cui cadde Faliero Pucci, di Eugenio Poli e Gino Ragionieri da Careggi, di Bruno Fanciullacci dall’ospedale di via Giusti e dal carcere di Tosca Bucarelli e altri combattenti.

L’avvicinarsi delle forze alleate alla Toscana, attenua la polemica fra le sinistre e le forze moderate nel C.T.L.N. la notizia sulla svolta di Salerno che accantonò per iniziativa di Togliatti la questione istituzionale era ormai lontana e le stesse diatribe sull’uccisione di Gentile e di altri capi, erano state assorbite dall’impegno per l’imminente scontro decisivo. Anche la diffidenza del Comando inglese verso le forze più avanzate del Comitato di Liberazione e le formazioni partigiane dirette dai comunisti, alle quali venivano lesinati lanci di armamenti e di viveri, si attenua. Restano tuttavia le preoccupazioni per il peso militare e politico comunista, tanto negli Alleati che nel C.L.N.; da essa derivo il riconoscimento del Fronte della Gioventù soltanto come organizzazione partecipante alla lotta contro i nazifascisti disponendo l’inquadramento delle sue squadre fra Ie forze a disposizione del Comando Marte, ma non riconoscendo la richiesta di avere un suo rappresentante fra i membri del Comitato, perché tale inserimento si temeva , che mirasse ad aumentare l’influenza del Partito Comunista nel C.L.N.

In verità il « Fronte » raggruppava giovani dalle più diverse, pur sfumate, opinioni ideali e politiche. In gran parte studenti universitari e di liceo, ma non esclusivamente, che coscienti che il fascismo aveva condotto ad una guerra assurda e alla catastrofe nazionale, decisero di impegnarsi nella lotta per rovesciarlo e per liberare l’Italia dall’occupazione tedesca.

I l suo organo « La giovane Italia », quasi a ricordare il Risorgimento, indicava difatti il carattere che volle darsi. Se poi nel corso del suo sviluppo i comunisti Sandro Susini

Aldo Braibanti, Bruno Sanguinetti, i fratelli Galizia furono considerati dirigenti, se tanti altri in pericolo costretti a recarsi in montagna scelsero le formazioni Garibaldi, perché già si consideravano genericamente comunisti, non fu una diabolica e astuta manovra comunista per accrescere la propria influenza negli organismi unitari della resistenza e della lotta partigiana. Il « Fronte » era aperto ad ogni gruppo politico o non politico per lo stesso indirizzo e volontà dei comunisti. L’assunzione delle responsabilità direttive derivava dalla maggiore decisione e fermezza, dalle capacità organizzative e dalla preparazione politica che determinavano la selezione. E nelle stesse formazioni partigiane, egualmente aperte, la scelta dei comandanti e dei commissari politici avveniva con democratiche votazioni sulla base delle stesse valutazioni di impegno.

Non erano tuttavia scomparse le diverse posizioni sulla prospettiva per l’assetto democratico del Paese. Fra conservatori e moderati che non partivano da un’analisi di classe del fascismo, non mancavano ingiustificate preoccupazioni, espresse dagli stessi alleati, sul ruolo assunto dal movimento operaio e popolare. Si diffonde l’accusa di presunti egemonismi, operaismi, settarismi che non sono mai mancati ogni qualvolta le forze rivoluzionarie assurgono a una funzione matura e autonoma: accuse ripetute persino da qualche storiografo incauto. Infatti mentre i reazionari e i conservatori dichiarano apertamente di contrastare la prospettiva di una radicale trasformazione delle basi della società, ormai non più adeguate allo sviluppo dei rapporti sociali, i moderati vorrebbero che i comunisti restassero subalterni alla loro strategia di riforme che restino però nel quadro della società preesistente. In realtà quelle accuse non riflettevano affatto le posizioni del nostro partito che poneva al centro della lotta la liberazione del paese, dedicando a questo obbiettivo le migliori energie. Del resto l’influenza conquistata fra gli operai, i contadini, gli artigiani, i commercianti, gli studenti, gli intellettuali, i liberi professionisti dimostrava come la politica e le conseguenti posizioni nostre rispondevano alle esigenze profonde del popolo italiano.

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