Archivi categoria: Le stragi
I sedici martiri massacrati sulla piazza di Carpi
I sedici martiri massacrati sulla piazza di Carpi
La storia di Walter Lusuardi:
si fece fucilare al posto del fratello
Il 16 agosto si celebra l’anniversario della strage di sedici persone, per rappresaglia all’uccisione del console della milizia della Repubblica di Salò, Filiberto Nannini. Egli si era trasferito da Parma a Migliarina, frazione di Carpi e si era stabilito nella villa Segrè, abbandonata dai proprietari di religione ebraica. Dalla zona di Parma, dove il console aveva operato, erano arrivati numerosi rapporti sulle spietate azioni repressive di cui egli era stato responsabile, tra cui molte fucilazioni di partigiani e renitenti alla leva. La mattina del 15 agosto il console era partito in bicicletta per Carpi, come faceva di solito, ma a metà strada venne ucciso forse da un commando dei Gap. Già nel pomeriggio e la mattina seguente, gruppi di fascisti della brigata nera di Carpi e dei paesi vicini avevano rastrellato le frazioni di Migliarina, Rio Saliceto, Fossoli e Carpi per catturare partigiani e antifascisti, già noti ai repubblichini, perché segnalati da fascisti locali. Prudentemente molti di questi partigiani di Migliarina e Budrione quella notte dormirono fuori casa, come Walter Lusuardi, Enzo Neri, Aldo Corsari, Aldebrando Manfredini, Malavasi, Ganassi, Savani e altri giovani che avevano disertato. A Migliarina i fascisti tuttavia riuscirono a catturare una trentina di persone e a raggrupparle sotto la tettoia dell’osteria. Tra i fermati vi erano tutti gli uomini della famiglia di Walter Lusuardi: il padre Primo, il fratello Edmondo, che aveva sei figli, e il nipote Dino, di 15 anni. Il padre ed il nipote vennero lasciati liberi, mentre Edmondo fu fatto salire con altri sul camion, con la minaccia che, se non si fosse presentato suo fratello, avrebbero ucciso lui. Walter, che era nascosto in un rifugio partigiano nella valle di Migliarina, venne informato dell’arresto del fratello e sapendo che volevano proprio lui, non esitò: prese una bicicletta e raggiunse quel maledetto camion; fu portato a Carpi e imprigionato assieme al fratello ed agli altri arrestati. In quei pochi chilometri di strada che separano il rifugio partigiano dall’osteria dove erano i fascisti, Walter venne fermato diverse volte dagli amici e invitato a tornare indietro, ma la risposta fu sempre la stessa: «Non posso, mio fratello ha sei figli da crescere. Loro vogliono me». Nel pomeriggio i familiari degli arrestati, saputo che essi erano stati portati in una villa di fronte alla Caserma dei Carabinieri di Carpi, in viale XXVIII Ottobre (ora viale Odoardo Focherini), vi si recarono per avere notizie dei loro cari, ma poterono sentire solo i lamenti e le urla di dolore. Solo dopo si conobbe a quali torture fossero stati sottoposti: avevano loro strappate le unghie dei piedi e delle mani ed a Walter, in più, avevano fratturato un braccio. Verso sera, i sedici ostaggi, allineati in due file e quasi incapaci di reggersi in piedi per le torture subite, furono condotti in piazza dai componenti di una brigata nera non carpigiana. Furono fatti sdraiare a pancia a terra e uccisi a raffiche di mitra e un colpo alla testa. Dentro, carcerato, era rimasto solo Edmondo; nello stesso istante in cui riecheggiarono gli spari, si aprì la porta della cella e gli si avvicinò il capo della brigata nera di Carpi, che gli accese una sigaretta. Mettendogliela in bocca, gli disse: «Loro ti volevano uccidere, ma io ho mantenuto la promessa, anche perché hai sei figli. Puoi andare sei libero». Uscito, Edmondo si incamminò a piedi verso casa: il suo pensiero era tormentato dal mucchio di cadaveri che aveva visto da lontano, al centro della piazza, tra cui sapeva che doveva esserci quello del fratello Walter, che aveva dato la vita per lui. Nella sua mente dominava il pensiero di quando sarebbe giunto a casa. Il suo passo era lento. C’era il coprifuoco, ma voleva ugualmente arrivare; abbandonò la strada e attraversò i campi, avviandosi verso casa, verso quel disperato annuncio che doveva dare, assieme a un doloroso, ma caldo abbraccio, ai vecchi genitori.
***
Walter Lusuardi aveva 30 anni, lavorava come bracciante, a giornata. In quei giorni lavorava alla TODT assieme al fratello Edmondo: scavavano fossati anticarro per i tedeschi. Il loro padre, Primo Lusuardi, oltre ad essere stato presidente della Lega braccianti di Migliarina Budrione nei primi anni del Novecento era stato uno dei pochi che sapeva leggere e scrivere. Scriveva sul giornale socialista “Luce”, dove teneva una rubrica che si intitolava “Dalla vanga alla penna”: in essa invitava gli operai, gli uomini, ma specialmente le donne, a frequentare le scuole serali: gli uomini per avere il diritto di voto, perché a quei tempi votava solo chi “sapeva di lettera” e le donne perché avrebbero avuto almeno la soddisfazione di scrivere personalmente le lettere ai mariti, o ai fidanzati lontani, in guerra. Leggeva anche all’osteria ad alta voce, per i suoi amici, i giornali l’Avanti e Luce. Walter, cresciuto in questa famiglia socialista, e quindi antifascista, rientrato dal servizio militare in aeronautica, prima da Palermo, poi da Ferrara, trovò una situazione economica che non era affatto cambiata, anzi era peggiorata: la miseria era tanta, le giornate di lavoro poche e quindi anche i soldi erano pochi; per questo accettò l’ingaggio per andare in Germania a lavorare, per due anni, nei lavori stagionali, di raccolta delle patate. A quei tempi, per i giovani, l’unico divertimento era il ballo e a Migliarina, vi era una grande sala, chiamata “Salone Moderno” in cui, oltre alle serate danzanti, si poteva assistere a serate teatrali. Un gruppo di amici, ragazzi e ragazze, tra cui Walter, avevano formato una compagnia teatrale ed avevano allestito diverse commedie, come “Il Fornaretto di Venezia”; si esibivano anche cantando romanze delle opere più famose. Walter aveva una bella voce: molte volte, specialmente nelle serate all’osteria, dopo un bicchier di vino, veniva sollecitato a cantare. Le canzoni erano quelle che cantava Beniamino Gigli: “Non ti scordar di me”, “Mamma”, ma non mancavano l’inno socialista “L’Internazionale” o “Bandiera rossa”, ma queste ultime le cantava a bassa voce, mentre intorno si creava un vuoto. Molti dei presenti se ne andavano per paura di essere giudicati socialisti sovversivi; infatti in quel clima, a metà degli Anni Trenta, anche queste cantate erano un affronto per quei fascisti locali che, purtroppo, se ne ricordarono. Solo per questo l’hanno torturato senza pietà, strappandogli le unghie di mani e piedi, rompendogli un braccio davanti al fratello e l’hanno portato in piazza uccidendolo assieme a quindici innocenti. Pochi giorni dopo la liberazione, il Parroco dell’Ospedale di Carpi, che aveva dato la benedizione e ascoltato le ultime volontà dei sedici fucilati, invitò i familiari di Walter ad andare in curia di Carpi per ritirare i documenti del loro caro. Nel portafoglio c’era la foto della fidanzata Ebe Gualdi e un biglietto con scritto l’ultimo pensiero: Un abbraccio a mamma e papà e tutti, un forte abbraccio e baci a Ebe. “Vando”.
Le stragi nascoste – Quattro casi di ordinaria violenza, insabbiati
Le stragi nascoste
Quattro casi di ordinaria violenza, insabbiati
(4) Vicenza
La particolare tipologia delle stragi che tra la fine dell’aprile e l’inizio del maggio 1945 si accompagnarono all’estrema ritirata dei tedeschi e dei fascisti dalle vallate dell’Italia settentrionale è esemplificata da quanto avvenne a Lonigo (Vicenza) il 26 aprile. Una colonna di carristi tedeschi (Btg. Fallschirmjàger Rgt. 10) catturò cinque persone di età compresa tra i 16 e i 25 anni, armate di fucile modello 1891; si trattava di giovani improvvisatisi guerriglieri sull’onda dell’entusiasmo per l’imminente liberazione dell’Italia. Diffusasi la notizia della cattura, l’arciprete del luogo e un comandante partigiano si recarono dal maggiore Alfred Grundmann, cui richiesero di risparmiare le vite dei prigionieri, ottenendone ampie rassicurazioni: li si considerava quali ostaggi, trattenuti a garanzia della tranquillità della ritirata. Le cose andarono in modo diverso: «Nonostante il maggiore Grundmann avesse data a mons. Caldana la sua parola di ufficiale che, in ogni caso, non avrebbe fatto fucilare i cinque, questi venivano il giorno successivo trovati uccisi in un fossato di via Marona». Nel dicembre 1945 i carabinieri di Lonigo denunziarono al comando militare alleato e alla questura di Vicenza il maggiore Grundmann, del quale si forni Fidentikit: «statura m 1,78 circa, corporatura robusta, colorito roseo pallido, capelli biondi ondulati, età anni 36-38». Nei mesi successivi il maresciallo dei carabinieri raccolse le dichiarazioni di alcuni testimoni. Ecco la deposizione del partigiano che aveva parlamentato con Grundmann:
Mi disse che i giovani non li lasciava liberi ma li avrebbe trattenuti in ostaggio e nel contempo mi incaricò di far conoscere alla popolazione ch’egli avrebbe ordinato rappresaglia contro la cittadinanza qualora questa avesse arrecato dei danni ai soldati tedeschi. Continuò con l’affermare che avrebbe provveduto ad inviare i giovani a Montebello Vicentino, ove aveva sede altro comando germanico, ma assicurò nuovamente che gli stessi non avrebbero subito alcun danno fisico.
Verso le ore 20 dello stesso giorno [26 aprile 1945] i cinque fermati, scortati da due soldati tedeschi, partirono a piedi per Montebello Vicentino. Provvidi ad informare il comando della divisione partigiana ed il giorno successivo mi fu fatto sapere che i giovani non risultavano essere giunti a Montebello.
L’indomani fui avvertito che in Via Marona, in un fossato laterale alla strada, si trovava il corpo di cinque giovani fucilati. Erano i cinque partiti da Lonigo, sul conto dei quali era stata data la assicurazione sulla loro incolumità. Essi sono: Burattini Pietro, Fasolin Dino, Zigiotto Alberto, Zigiotto Angelo e certo Mussopapa, siciliano. Presentavano scariche di mitra alla testa ed al petto.
La stessa mattina del rinvenimento dei giovani, il maggiore Grundmann si era allontanato da Lonigo.
La parte conclusiva della verbalizzazione della donna austriaca utilizzata dai tedeschi quale interprete nelle trattative con le autorità locali evidenzia quali fossero le reali intenzioni dell’ufficiale germanico, dietro la parvenza rassicurante e le dichiarazioni bonarie:
Prima di allontanarmi ebbi ancora modo di parlare col maggiore Grundmann, al quale rinnovai preghiera di lasciar liberi i giovani, poiché ritenevo che essi si trovavano chiusi in qualche luogo quali prigionieri. Ottenni sempre dal maggiore le stesse affermazioni ed assicurazioni.
Il Grundmann in compagnia del tenente si allontanò dall’albergo uno o due giorni dopo, di buon mattino. Prima di partire il tenente si rivolse ai 1, suoi due soldati e disse: «Meglio sarà fucilare anche la donna austriaca». Io intesi la proposta, feci una svolta fra i corridoi e mi nascosi in un’abitazione vicina, sino a che i militari non si allontanarono definitivamente.
Non conosco il nome del tenente, né quello dei soldati. Il maggiore Grundmann, a quanto appresi da un soldato, è nativo di un paese della Prussia occidentale o nei pressi di Berlino. Egli parlava bene, con accento berlinese che io conosco bene.
Nel maggio 1946 il maresciallo dei carabinieri di Lonigo concluse le sue indagini, rammaricato che non gli fossero «pervenute richieste di alcun genere, relative all’episodio in questione, da parte di autorità alleate». Era questa una delle situazioni ricorrenti di impulso iniziale all’individuazione dei responsabili che, forte a livello locale, non trovava riscontri ai livelli superiori. L’Ufficio procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi stabilì peraltro che «la responsabilità dell’imputato appariva evidente, dato che nella sua qualità di
comandante di battaglione poteva egli soltanto decidere sulla sorte dei 5 partigiani fatti prigionieri, della cui incolumità personale si era, anzi, in un primo tempo fatto garante, come da assicurazione data alle varie personalità che si erano recate da lui per ottenere addirittura il rilascio dei catturati». Si valutò dunque che «dalle prove acquisite agli atti risultano sufficienti elementi di responsabilità a carico dell’imputato, motivi per cui l’istruttoria può ritenersi ultimata». Il fascicolo contro il maggiore Grundmann rimase celato per
mezzo secolo nell’inaccessibile sede della Procura generale militare. Riaperte le indagini, nel 1997 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Padova, ritenuto «che la fucilazione di 5 uomini catturati con armi e in atteggiamento ostile alle FFAA germaniche non appare essere atto contrario ai principi di diritto bellico» archiviò il procedimento.
Tratto da
Le stragi nascoste
Di Mimmo Franzinelli
Editore Le Scie Mondadori 2002
Le stragi nascoste Quattro casi di ordinaria violenza, insabbiati (4) Vicenza
Le stragi nascoste
Quattro casi di ordinaria violenza, insabbiati
(4) Vicenza
La particolare tipologia delle stragi che tra la fine dell’aprile e l’inizio del maggio 1945 si accompagnarono all’estrema ritirata dei tedeschi e dei fascisti dalle vallate dell’Italia settentrionale è esemplificata da quanto avvenne a Lonigo (Vicenza) il 26 aprile. Una colonna di carristi tedeschi (Btg. Fallschirmjàger Rgt. 10) catturò cinque persone di età compresa tra i 16 e i 25 anni, armate di fucile modello 1891; si trattava di giovani improvvisatisi guerriglieri sull’onda dell’entusiasmo per l’imminente liberazione dell’Italia. Diffusasi la notizia della cattura, l’arciprete del luogo e un comandante partigiano si recarono dal maggiore Alfred Grundmann, cui richiesero di risparmiare le vite dei prigionieri, ottenendone ampie rassicurazioni: li si considerava quali ostaggi, trattenuti a garanzia della tranquillità della ritirata. Le cose andarono in modo diverso: «Nonostante il maggiore Grundmann avesse data a mons. Caldana la sua parola di ufficiale che, in ogni caso, non avrebbe fatto fucilare i cinque, questi venivano il giorno successivo trovati uccisi in un fossato di via Marona». Nel dicembre 1945 i carabinieri di Lonigo denunziarono al comando militare alleato e alla questura di Vicenza il maggiore Grundmann, del quale si forni Fidentikit: «statura m 1,78 circa, corporatura robusta, colorito roseo pallido, capelli biondi ondulati, età anni 36-38». Nei mesi successivi il maresciallo dei carabinieri raccolse le dichiarazioni di alcuni testimoni. Ecco la deposizione del partigiano che aveva parlamentato con Grundmann:
Mi disse che i giovani non li lasciava liberi ma li avrebbe trattenuti in ostaggio e nel contempo mi incaricò di far conoscere alla popolazione ch’egli avrebbe ordinato rappresaglia contro la cittadinanza qualora questa avesse arrecato dei danni ai soldati tedeschi. Continuò con l’affermare che avrebbe provveduto ad inviare i giovani a Montebello Vicentino, ove aveva sede altro comando germanico, ma assicurò nuovamente che gli stessi non avrebbero subito alcun danno fisico.
Verso le ore 20 dello stesso giorno [26 aprile 1945] i cinque fermati, scortati da due soldati tedeschi, partirono a piedi per Montebello Vicentino. Provvidi ad informare il comando della divisione partigiana ed il giorno successivo mi fu fatto sapere che i giovani non risultavano essere giunti a Montebello.
L’indomani fui avvertito che in Via Marona, in un fossato laterale alla strada, si trovava il corpo di cinque giovani fucilati. Erano i cinque partiti da Lonigo, sul conto dei quali era stata data la assicurazione sulla loro incolumità. Essi sono: Burattini Pietro, Fasolin Dino, Zigiotto Alberto, Zigiotto Angelo e certo Mussopapa, siciliano. Presentavano scariche di mitra alla testa ed al petto.
La stessa mattina del rinvenimento dei giovani, il maggiore Grundmann si era allontanato da Lonigo.
La parte conclusiva della verbalizzazione della donna austriaca utilizzata dai tedeschi quale interprete nelle trattative con le autorità locali evidenzia quali fossero le reali intenzioni dell’ufficiale germanico, dietro la parvenza rassicurante e le dichiarazioni bonarie:
Prima di allontanarmi ebbi ancora modo di parlare col maggiore Grundmann, al quale rinnovai preghiera di lasciar liberi i giovani, poiché ritenevo che essi si trovavano chiusi in qualche luogo quali prigionieri. Ottenni sempre dal maggiore le stesse affermazioni ed assicurazioni.
Il Grundmann in compagnia del tenente si allontanò dall’albergo uno o due giorni dopo, di buon mattino. Prima di partire il tenente si rivolse ai 1, suoi due soldati e disse: «Meglio sarà fucilare anche la donna austriaca». Io intesi la proposta, feci una svolta fra i corridoi e mi nascosi in un’abitazione vicina, sino a che i militari non si allontanarono definitivamente.
Non conosco il nome del tenente, né quello dei soldati. Il maggiore Grundmann, a quanto appresi da un soldato, è nativo di un paese della Prussia occidentale o nei pressi di Berlino. Egli parlava bene, con accento berlinese che io conosco bene.
Nel maggio 1946 il maresciallo dei carabinieri di Lonigo concluse le sue indagini, rammaricato che non gli fossero «pervenute richieste di alcun genere, relative all’episodio in questione, da parte di autorità alleate». Era questa una delle situazioni ricorrenti di impulso iniziale all’individuazione dei responsabili che, forte a livello locale, non trovava riscontri ai livelli superiori. L’Ufficio procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi stabilì peraltro che «la responsabilità dell’imputato appariva evidente, dato che nella sua qualità di
comandante di battaglione poteva egli soltanto decidere sulla sorte dei 5 partigiani fatti prigionieri, della cui incolumità personale si era, anzi, in un primo tempo fatto garante, come da assicurazione data alle varie personalità che si erano recate da lui per ottenere addirittura il rilascio dei catturati». Si valutò dunque che «dalle prove acquisite agli atti risultano sufficienti elementi di responsabilità a carico dell’imputato, motivi per cui l’istruttoria può ritenersi ultimata». Il fascicolo contro il maggiore Grundmann rimase celato per
mezzo secolo nell’inaccessibile sede della Procura generale militare. Riaperte le indagini, nel 1997 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Padova, ritenuto «che la fucilazione di 5 uomini catturati con armi e in atteggiamento ostile alle FFAA germaniche non appare essere atto contrario ai principi di diritto bellico» archiviò il procedimento.
Tratto da
Le stragi nascoste
Di Mimmo Franzinelli
Editore Le Scie Mondadori 2002
I sedici martiri massacrati sulla piazza di Carpi La storia di Walter Lusuardi: si fece fucilare al posto del fratello
I sedici martiri massacrati sulla piazza di Carpi
La storia di Walter Lusuardi:
si fece fucilare al posto del fratello
Il 16 agosto si celebra l’anniversario della strage di sedici persone, per rappresaglia all’uccisione del console della milizia della Repubblica di Salò, Filiberto Nannini. Egli si era trasferito da Parma a Migliarina, frazione di Carpi e si era stabilito nella villa Segrè, abbandonata dai proprietari di religione ebraica. Dalla zona di Parma, dove il console aveva operato, erano arrivati numerosi rapporti sulle spietate azioni repressive di cui egli era stato responsabile, tra cui molte fucilazioni di partigiani e renitenti alla leva. La mattina del 15 agosto il console era partito in bicicletta per Carpi, come faceva di solito, ma a metà strada venne ucciso forse da un commando dei Gap. Già nel pomeriggio e la mattina seguente, gruppi di fascisti della brigata nera di Carpi e dei paesi vicini avevano rastrellato le frazioni di Migliarina, Rio Saliceto, Fossoli e Carpi per catturare partigiani e antifascisti, già noti ai repubblichini, perché segnalati da fascisti locali. Prudentemente molti di questi partigiani di Migliarina e Budrione quella notte dormirono fuori casa, come Walter Lusuardi, Enzo Neri, Aldo Corsari, Aldebrando Manfredini, Malavasi, Ganassi, Savani e altri giovani che avevano disertato. A Migliarina i fascisti tuttavia riuscirono a catturare una trentina di persone e a raggrupparle sotto la tettoia dell’osteria. Tra i fermati vi erano tutti gli uomini della famiglia di Walter Lusuardi: il padre Primo, il fratello Edmondo, che aveva sei figli, e il nipote Dino, di 15 anni. Il padre ed il nipote vennero lasciati liberi, mentre Edmondo fu fatto salire con altri sul camion, con la minaccia che, se non si fosse presentato suo fratello, avrebbero ucciso lui. Walter, che era nascosto in un rifugio partigiano nella valle di Migliarina, venne informato dell’arresto del fratello e sapendo che volevano proprio lui, non esitò: prese una bicicletta e raggiunse quel maledetto camion; fu portato a Carpi e imprigionato assieme al fratello ed agli altri arrestati. In quei pochi chilometri di strada che separano il rifugio partigiano dall’osteria dove erano i fascisti, Walter venne fermato diverse volte dagli amici e invitato a tornare indietro, ma la risposta fu sempre la stessa: «Non posso, mio fratello ha sei figli da crescere. Loro vogliono me». Nel pomeriggio i familiari degli arrestati, saputo che essi erano stati portati in una villa di fronte alla Caserma dei Carabinieri di Carpi, in viale XXVIII Ottobre (ora viale Odoardo Focherini), vi si recarono per avere notizie dei loro cari, ma poterono sentire solo i lamenti e le urla di dolore. Solo dopo si conobbe a quali torture fossero stati sottoposti: avevano loro strappate le unghie dei piedi e delle mani ed a Walter, in più, avevano fratturato un braccio. Verso sera, i sedici ostaggi, allineati in due file e quasi incapaci di reggersi in piedi per le torture subite, furono condotti in piazza dai componenti di una brigata nera non carpigiana. Furono fatti sdraiare a pancia a terra e uccisi a raffiche di mitra e un colpo alla testa. Dentro, carcerato, era rimasto solo Edmondo; nello stesso istante in cui riecheggiarono gli spari, si aprì la porta della cella e gli si avvicinò il capo della brigata nera di Carpi, che gli accese una sigaretta. Mettendogliela in bocca, gli disse: «Loro ti volevano uccidere, ma io ho mantenuto la promessa, anche perché hai sei figli. Puoi andare sei libero». Uscito, Edmondo si incamminò a piedi verso casa: il suo pensiero era tormentato dal mucchio di cadaveri che aveva visto da lontano, al centro della piazza, tra cui sapeva che doveva esserci quello del fratello Walter, che aveva dato la vita per lui. Nella sua mente dominava il pensiero di quando sarebbe giunto a casa. Il suo passo era lento. C’era il coprifuoco, ma voleva ugualmente arrivare; abbandonò la strada e attraversò i campi, avviandosi verso casa, verso quel disperato annuncio che doveva dare, assieme a un doloroso, ma caldo abbraccio, ai vecchi genitori.
***
Walter Lusuardi aveva 30 anni, lavorava come bracciante, a giornata. In quei giorni lavorava alla TODT assieme al fratello Edmondo: scavavano fossati anticarro per i tedeschi. Il loro padre, Primo Lusuardi, oltre ad essere stato presidente della Lega braccianti di Migliarina Budrione nei primi anni del Novecento era stato uno dei pochi che sapeva leggere e scrivere. Scriveva sul giornale socialista “Luce”, dove teneva una rubrica che si intitolava “Dalla vanga alla penna”: in essa invitava gli operai, gli uomini, ma specialmente le donne, a frequentare le scuole serali: gli uomini per avere il diritto di voto, perché a quei tempi votava solo chi “sapeva di lettera” e le donne perché avrebbero avuto almeno la soddisfazione di scrivere personalmente le lettere ai mariti, o ai fidanzati lontani, in guerra. Leggeva anche all’osteria ad alta voce, per i suoi amici, i giornali l’Avanti e Luce. Walter, cresciuto in questa famiglia socialista, e quindi antifascista, rientrato dal servizio militare in aeronautica, prima da Palermo, poi da Ferrara, trovò una situazione economica che non era affatto cambiata, anzi era peggiorata: la miseria era tanta, le giornate di lavoro poche e quindi anche i soldi erano pochi; per questo accettò l’ingaggio per andare in Germania a lavorare, per due anni, nei lavori stagionali, di raccolta delle patate. A quei tempi, per i giovani, l’unico divertimento era il ballo e a Migliarina, vi era una grande sala, chiamata “Salone Moderno” in cui, oltre alle serate danzanti, si poteva assistere a serate teatrali. Un gruppo di amici, ragazzi e ragazze, tra cui Walter, avevano formato una compagnia teatrale ed avevano allestito diverse commedie, come “Il Fornaretto di Venezia”; si esibivano anche cantando romanze delle opere più famose. Walter aveva una bella voce: molte volte, specialmente nelle serate all’osteria, dopo un bicchier di vino, veniva sollecitato a cantare. Le canzoni erano quelle che cantava Beniamino Gigli: “Non ti scordar di me”, “Mamma”, ma non mancavano l’inno socialista “L’Internazionale” o “Bandiera rossa”, ma queste ultime le cantava a bassa voce, mentre intorno si creava un vuoto. Molti dei presenti se ne andavano per paura di essere giudicati socialisti sovversivi; infatti in quel clima, a metà degli Anni Trenta, anche queste cantate erano un affronto per quei fascisti locali che, purtroppo, se ne ricordarono. Solo per questo l’hanno torturato senza pietà, strappandogli le unghie di mani e piedi, rompendogli un braccio davanti al fratello e l’hanno portato in piazza uccidendolo assieme a quindici innocenti. Pochi giorni dopo la liberazione, il Parroco dell’Ospedale di Carpi, che aveva dato la benedizione e ascoltato le ultime volontà dei sedici fucilati, invitò i familiari di Walter ad andare in curia di Carpi per ritirare i documenti del loro caro. Nel portafoglio c’era la foto della fidanzata Ebe Gualdi e un biglietto con scritto l’ultimo pensiero: Un abbraccio a mamma e papà e tutti, un forte abbraccio e baci a Ebe. “Vando”.
Le stragi Nascoste – Udine
Le stragi nascoste
Quattro casi di ordinaria violenza, insabbiati
(3) Udine
Quel medesimo 25 agosto 1944 — data delle due stragi di Lagacciolo e di Podemuovo — la rappresaglia si abbatteva su Torlano, borgata montana in provincia di Udine. Due giorni prima i partigiani avevano scacciato dal paese i cosacchi, rifugiatisi sotto protezione germanica nel presidio di Nimis. Solo poche famiglie rimasero nelle loro abitazioni: gran parte della popolazione si allontanò per timore della vendetta. Dopo una breve sparatoria, una colonna di tedeschi e di fascisti entrò a Torlano e vi uccise 34 civili, i cui cadaveri furono carbonizzati nel rogo delle due abitazioni rurali nelle quali si era consumato l’eccidio. Un giovane salvatosi per caso ha narrato lo svolgimento del primo dei due massacri:
Verso le ore 6 della mattina sono arrivati1,Torlano repubblicani insieme alla SS tedesca. Hanno disposto che per le ore 7 tutte le persone vicine alla mia casa si riunissero dentro la cantina della mia abitazione e io, avendo compreso, essendo giovane, che correvo pericolo di esser prelevato, mi sono nascosto nella mia camera.
Ho guardato da una finestra e dalla porta che dava sul cortile il movimento, e ho visto che venivano uno alla volta condotte fuori dalla casa le persone adunate e venivano uccise.
I miei genitori e una mia sorella di anni 22, che erano rimasti in cantina, vennero uccisi dentro la cantina stessa. Ho visto che dopo l’eccidio di tutte le persone i tedeschi hanno preso le fascine di legna, le hanno buttate sopra i cadaveri e hanno dato fuoco.
Ho udito che fra i tedeschi vi erano anche repubblicani, perché parlavano perfettamente in italiano e mi venne poi confermata la notizia dai superstiti. [ … ] Mentre la casa era in fiamme, essendosi i tedeschi e i repubblicani allontanati, io sono sceso in cantina e ho visto i miei genitori e mia sorella uccisi e sono riuscito ad allontanarmi mentre la casa ardeva.
Poco dopo i militari compivano una seconda strage di civili, nella stalla di Ruggero Dri, con modalità analoghe. Anche in questa circostanza una persona scampò la morte e poté poi descrivere l’esatta
dinamica dell’azione omicida, portata a termine da Fritz Wunderle con una bestialità incredibile. Il ricordo del sopravvissuto — il cinquantenne Giovanni Dri — ha la precisione meticolosa del racconto di chi, scampato a un incubo, non riesce a scordarne neppure un particolare e si trova sempre dinanzi agli occhi le fasi sconvolgenti del macabro spettacolo di cui è stato suo malgrado spettatore:
Sono scampato insieme a un bambino di 6 anni che sono riuscito a salvare, come ora dirò. [ … ] Un tedesco in motocicletta entrava nella corte della casa di mio fratello, scendeva e iniziava la ricerca dei partigiani. Mi avvicinai a lui per chiedere che cosa cercasse e mi rispose altezzoso: «Partisan, parti-san…». Gli dissi che nelle nostre case non vi erano partigiani, ma egli penetrava in tutti i posti, forzando anche le porte e facendo una perquisizione sommaria. Tutte le persone abitanti nei caseggiati vicini si adunavano nella stalla di mio fratello. Erano donne, bambini, uomini, giovani e vecchi, e si sono messi a recitare preghiere, perché si percepivano colpi di arma da fuoco, in quanto i partigiani, messi in allarme, si erano trasferiti in una vicina collina per attaccare. Il tedesco andato nella stalla chiese il motivo perché tutte quelle persone stavano riunite in quel luogo. Non sapendo io parlare tedesco, invitai mio cugino Comelli Giovanni a spiegare che quelle persone erano impaurite per quanto accadeva. Il tedesco volle contare quante erano le persone riunite nella stalla (erano infatti 28) e disse a mio cugino di stare tranquilli perché in quel posto erano sicuri; poi se ne andò dirigendosi al crocevia della strada dove era la casa dirimpetto a quella nostra, e dove erano state adunate altre persone prelevate nella borgata di Torlano.
Stando a guardare sulla soglia del cortile ho visto che lo stesso tedesco che era il noto boia di Colonia (Fritz), perché così era conosciuto, chiamava dalla casa di Comelli Giobatta una alla volta le persone che erano riunite, e dopo averle fatte uscire nel cortile della stessa casa, le uccideva con due colpi per ciascuno sparati sotto il mento.
Mi sono subito ritirato nella stalla insieme agli altri. Erano tutti impauriti, feci loro coraggio, mentre continuavano a pregare. Attorno alla casa dove mi trovavo erano state messe postazioni di mitragliatrici. Nel cortile erano due tedeschi armati di mitra per impedire la fuga. Tutte le persone andate nella stalla avevano udito le grida della famiglia Comelli Giobatta, nel momento in cui veniva tutta assassinata e compresero quanto accadeva.
Compiuto il massacro nella corte di Comelli Giobatta, il boia tedesco venne dove eravamo noi, aprì con l’arma puntata uno spiraglio nella porta della stalla, chiamò per primo mio cugino Comelli Giovanni, quello che sapeva parlare tedesco, e avutolo fuori gli sparava due colpi alla nuca e poi chiamava il figlio del Comelli e lo uccideva nello stesso modo del padre; poi chiamava mio fratello Ruggero e gli sparava due colpi alla nuca, così successivamente per tutti gli altri uomini che cadevano uno sull’altro davanti il muro a circa 5 metri vicino la tettoia, nel sottoportico accanto la stalla.
Da un finestrino della stalla guardavo come il tedesco uccideva le persone. Ho pensato subito di nascondermi dentro la tromba che era nella stalla. Presi con me il bambino Bortoli Giampaolo e ci siamo nascosti in modo da non essere visti. Una bambina che era sorella del Bortoli e che si chiamava Gina venne avvertita da me, essendo vestita di nero, di nascondersi in un angolo della stalla in modo da non farsi vedere. Non vi era alcuna possibilità per gli altri di trovare nascondigli. Erano rimasti soltanto le donne e i bambini.
Il boia tedesco dopo aver ucciso tutti gli uomini è entrato nella stalla spalancando le porte e con una ripetuta raffica uccideva tutte le donne e i bambini. Quindi si dirigeva all’interno della stalla e tentava di far uscire tre mucche, che non è riuscito a tirar fuori. Mentre stava per fare questa operazione sono state condotte, non so se da repubblicani o tedeschi, altre due persone davanti alla porta della stalla. Il boia tedesco le uccideva con due colpi alla nuca. Da una fessura della tromba ho riconosciuto tra gli uccisi il Petrossi Valentino, che era un venditore di gelati di Torlano.
Profittando dell’attimo in cui il boia tedesco si occupava di uccidere quelle due persone, essendomi accordo — guardando dalla fessura della tromba — che un bambino, fratello di quello che tenevo in braccio dentro if tromba, era rimasto sotto il cadavere della mamma che era stata uccisa con un altro bambino che teneva nelle braccia, avendo udito che il poverino gemeva per il peso della mamma morta, ho tentato di sottrarlo dal pericolo e tirarlo presso di me, ma non sono riuscito in tempo perché il boia tedesco è ritornato, ed essendosi accorto che il bambino era ancora vivo e ritenendo che vi fossero altri vivi, ha ripassato con raffiche di mitra tutti i caduti, e così anche il bambino è morto.
Quindi il tedesco penetrato nella stalla tirò fuori le tre mucche, con molta difficoltà perché le bestie non volevano passare sopra i cadaveri e, dopo avere fatto uscire le bestie, coprì tutti i cadaveri di paglia, buttò sopra la paglia un liquido infiammabile e diede fuoco, allontanandosi.
Rimasto solo col bambino che tenevo nella tromba tra il fienile e la stalla, sentendomi soffocare dal fumo, fui costretto ad uscire. Da un finestrino feci allontanare il bambino, che è riuscito a prendere la fuga nascondendosi tra le pannocchie del granoturco. Visto che nel cortile non vi erano più persone, mi sono premurato di strappare di dosso alla bambina rimasta nascosta nell’angolo della stalla le vesti che ardevano, e la lasciai fuggire tutta nuda e tutta ustionata.
Per mettermi in salvo ho attraversato rapidamente il campo retrostante alla stalla e sono andato a buttarmi in un fosso d’acqua marcia che trasportava i rifiuti della borgata.
Nella stalla di Ruggero Dri vennero trucidate 22 persone. I coniugi Giovanni e Anna Comelli furono uccisi insieme ai loro 7 figli. Il capofamiglia era rimasto in paese in quanto mai aveva aiutato i partigiani e quindi riteneva di non aver nulla da temere, mentre l’eventuale fuga avrebbe procurato seri problemi alla numerosa prole.
Giovanni Comelli «era un uomo esperto e parlava il tedesco, ed era convinto che la cosa migliore fosse di tenersi vicino i propri figlioli senza alcun timore e di essere in grado di ragionare con i tedeschi, ma il suo modo di pensare purtroppo gli è stato fatale».
Della famiglia De Bortoli rimasero in vita soltanto la nonna Elisabetta e la nipotina Gianna. L’anziana donna fu risparmiata da un soldato tedesco che, trovatala in camera, le fece segno di nascondersi sotto il letto. La tredicenne Gianna De Bortoli perse, con i genitori, le sorelline Vilma (11 anni), Onelia (9), Bruna (6), Emma (4) e il fratellino Luciano (2).
L’eccidio di Torlano fu principalmente opera di Fritz Wunderle,
segnalato nell’immediato dopoguerra dal testimone Giovanni Dri: «è quello stesso che ha partecipato alla impiccagione nella villa Fior di Nimis dei partigiani Buttolo Carlo e Blasutto Evaristo». Ulteriori e più precise notizie provennero da un interprete tedesco. Alla fine del 1946 la Sezione speciale di Corte d’assise di Udine processò un paio di collaborazionisti coinvolti nell’eccidio, mentre non procedette contro Wunderle in quanto militare straniero. Il pubblico ministero lo segnalò al procuratore generale del Tribunale militare di Roma, aggiornato sugli elementi utili all’individuazione e alla cattura del criminale di guerra:
Autore dell’eccidio il maresciallo tedesco Fritz Wunderle nativo di Wutenberg-Sakkingen.
Il criminale di guerra tedesco è notissimo tra le popolazioni del Friuli e specialmente a Torlano, Nimis, Tarcento e Udine, per i gravi delitti commessi durante la invasione tedesca.
Nelle sue azioni delittuose era di una particolare e inaudita ferocia, perché uccideva e sterminava non soltanto gli appartenenti alle forze italiane della Resistenza, ma donne, vecchi e bambini, come risulta dagli atti istruttori raccolti.
Le complete generalità del Fritz, indicato nei verbali istruttori con il solo nome, sono state fornite dall’interprete tedesco che prestava servizio presso la SIPO germanica di Udine, Kitzmiller Joann, attualmente residente a Assemini (Cagliari).
Il Fritz Wunderle, oltre all’eccidio di Torlano, ha proceduto anche a impiccagioni e fucilazioni di partigiani in varie località del Friuli. È noto a Villa Fior di Nimis per avere impiccato i comandanti partigiani Gianni (Buttolo) e Blasutto Evaristo (ten. Carlo) e altri.
Le indagini istruttorie, trattandosi di militare tedesco, non appartengono a questo ufficio del Pubblico ministero, ma alle Corti militari britanniche in Italia.
Il fascicolo n. 1954 del ruolo generale contiene testimonianze impressionanti sui delitti commessi dal sottufficiale germanico; ciò nonostante, il procuratore generale militare Enrico Santacroce lo archiviò «provvisoriamente» il 14 gennaio 1960 per non avere ricavato dal materiale istruttorio «notizie utili per l’accertamento delle responsabilità». Nel 1995 quel fascicolo sarebbe giunto sulla scrivania del sostituto procuratore militare di Padova, Sergio Dini, che cercò di rintracciare il «boia di Torlano». Le indagini si chiusero nel marzo 1998 con una comunicazione del direttore del Servizio Interpol italiano: «Wunderle Fritz nato il 12 luglio 1912 in Soeckingen (D) risulta morto in Augsburg 1’8 febbraio 1991 ed il decesso è stato trascritto presso l’anagrafe di quel comune al numero 463».16 Il prolungato occultamento del materiale giudiziario da parte di vari procuratori militari generali evitò al criminale di guerra Wunderle un processo dal quale sarebbe uscito sicuramente con la condanna all’ergastolo. Nella strage di Torlano due fascisti — Francesco Patriarca e Francesco Bignolini — coadiuvarono i tedeschi, fornendo loro informazioni logistiche e accompagnandoli nelle varie fasi dell’eccidio. Mentre Patriarca rimase latitante, Bignolini fu arrestato e condannato il 29 luglio 1946 dalla Corte d’assise straordinaria di Udine a 12 anni di Mr reclusione (5 condonati). Il suo ricorso in cassazione fu accolto, in quanto la sentenza si sarebbe limitata «ad affermare che egli prese parte ad azioni nel corso delle quali si procedette ad esecuzioni sommarie di partigiani e a saccheggi di private abitazioni, senonché l’affermazione della Corte di merito non precisa quale parte il detto ricorrente abbia avuto nelle indicate azioni, né stabilisce con il dovuto controllo delle prove se egli abbia personalmente compiuto o concorso a compiere saccheggi o uccisioni di patrioti».17 In realtà la sentenza annullata riferiva precise testimonianze contro Bignolini, raccolte dai carabinieri di Nimis, ed è piuttosto la motivazione della cassazione a risultare imprecisa, indicando «uccisioni di patrioti» mentre a Torlano le vittime furono unicamente civili. La Corte d’assise di Treviso, cui il processo fu assegnato amnistio il collaborazionista
Tratto da
Le stragi nascoste
Di Mimmo Franzinelli
Editore Le Scie Mondadori 2002
Le stragi nascoste – " 2° Firenze”
Le stragi nascoste
QUATTRO CASI DI ORDINARIA VIOLENZA INSABBIATI
(2) Firenze
Il secondo caso qui preso in esame riguarda l’eccidio, in località Lagacciolo e Podernuovo (Firenze), il 25 agosto 1944, di 19 civili, per mano dei soldati del tenente colonnello Karl Ortlieb, comandante del Grenadier-Regiment 754° della 334a Infanterie-Division) senza che apparissero chiari i motivi di un comportamento così feroce. A Villa Podernuovo vennero massacrate otto persone inermi (quattro donne) di età variante dai 14 ai 48 anni; a Villa Lagacciolo furono uccisi nove civili (inclusi — insieme alla madre — quattro fratellini dai 5 ai 12 anni e un loro cuginetto di 7 anni) e due vecchi coniugi residenti in una fattoria vicina. Tra le 15 persone rimaste seriamente ferite vi erano sei donne, un bimbo di 3 anni, uno di 4, uno di 5 e due di 9.
Questa la ricostruzione dei fatti contenuta nel fascicolo n. 657 del Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi, nel paragrafo intitolato «Particolari del reato»:
Verso le ore 19 del 25 agosto 1944 una pattuglia di 4 uomini, dipendente dal 7406.0 reparto tedesco, di transito in quella località, dopo aver rastrellato 18 persone, le rinchiuse nella stanza da bagno della villa di Lagacciolo e ivi, a colpi di bombe a mano, ne uccise 8 e ne ferì 7.
La stessa pattuglia, recatasi poco dopo nella villa e fattoria del signor Taddei Raffaello, in Podernuovo, distante circa 350 metri, a colpi di bombe a mano e con raffiche di mitra uccise altre 10 persone e ne ferì 7.
Il mattino successivo ritornarono a Lagacciolo, ove uccisero un’altra persona e ne ferirono 2, tra cui una donna. Le testimonianze dei civili sfiorati dalla morte comprovano la premeditazione della strage e descrivono le ruberie seguite al massacro. Questo il ricordo di una giovane di 34 anni, abitante in una località montana nei pressi di Lagacciolo:
Il giorno 25 agosto 1944, verso le ore 13, passò e si fermò in casa mia un soldato tedesco ferito ad un braccio. Egli era in compagnia di altri due o tre Soldati, ma camminava bene. Gli domandai come si era ferito, ed egli mi rispose che era stato ferito dai partigiani nel bosco e, facendomi cenno con la mano, mi indicò le vette delle montagne comprese fra la Consuma e Secchietta (Reggello).
Poco dopo il soldato andò via, dirigendosi per la strada che conduce alla località Fossi e Alpi Recise (Rufiria).
Alle ore 16 dello stesso giorno 25, passarono 14 soldati tedeschi armati di fucile mitragliatore che andavano verso la località Albergo Nuovo, che dista circa 30 metri dalla strada statale Pontassieve-Consuma.
Appena passati i 14 soldati, un maresciallo tedesco che stava da diversi giorni in casa mia, mi disse che quei militari andavano ad una casa grande, situata oltre la strada grande (strada statale Consuma-Pontassieve) per ammazzare 80 civili, compresi bambini e donne, per rappresaglia del soldato che era stato ferito la mattina.
Il giorno 26 successivo, ripassarono, provenienti dalla parte dell’Albergo Nuovo e diretti verso i Fossi, una quindicina di soldati tedeschi, portavano: borse da spesa, cartelle da scuola e sacchetti pieni di biancheria. Sapendo che in località Lagacciolo-Podernuovo i tedeschi avevano ucciso diverse persone, pensai che quella roba l’avessero presa in quelle case.
L’interrogatorio di una donna sessantenne, scampata fortunosamente all’eccidio, dimostra con quale facilità la violenza potesse dirottarsi dall’una all’altra località, da questo a quel gruppo di civili, senza giustificazioni oggettive bensì sulla base di impressioni estemporanee o più semplicemente del caso:
Il 25 luglio 1944, verso le ore 16.30, vidi nei pressi della località Albergo Nuovo, circa 15 soldati tedeschi che venivano verso casa mia e difatti poco dopo giunsero e piazzarono tre mitragliatrici intorno alla mia casa. Avvicinai uno di essi domandandogli cosa dovevano fare. Mi risposero che dovevano ammazzare tutti i civili e che l’indomani sarebbero tornati a vedere i morti. Presero subito mio marito e Giulio Consumi, per portarli via. Poi mio marito fu lasciato libero e Consumi lo trattennero. Io prima mi raccomandai di lasciarci vivere e poscia offrii loro pane e formaggio che accettarono. Subito dopo venne un certo Rinaldi Rinaldo da Firenze, sfollato a Podernuovo, che sapeva parlare il tedesco, e parlando con alcuni dei soldati riuscì a dissuaderli ed accompagnarli oltre l’abitato, verso la località Laga&ciolo. Poco dopo il Rinaldi tornò dicendo che erano andati via e che non c’era più paura.
Circa due ore dopo sentimmo sparare verso Lagacciolo raffiche di mitra e bombe a mano. E dopo circa mezz’ora quei tedeschi tornarono e incominciarono a sparare, con le bombe a mano e con le mitragliatrici, uccidendo e ferendo diverse persone residenti e sfollate a Podernuovo.
Tra le vaghe ipotesi circa il movente della strage, si ipotizzò «la misteriosa morte di un militare tedesco», oppure «la sepoltura data da quella popolazione ad un aviatore inglese, caduto la sera del 25 luglio 1944, e sulla cui tomba era stata scritta un’epigrafe in lingua inglese». Nel dopoguerra le responsabilità furono ricondotte «sul tenente colonnello Horlib, che dette l’ordine di eseguire l’eccidio» e sui quattro militari che lo perpetrarono. Quando l’istruttoria poteva «ritenersi ultimata circa l’accertamento dei fatti e le modalità con cui si svolsero», la pratica finì negli scaffali della Procura generale militare e, insieme a centinaia di altre, seguì la sorte dell’insabbiamento, con la tardiva e inefficace riapertura delle indagini a metà anni Novanta.
L’archiviazione appariva tanto più immotivata in quanto contro gli uomini del tenente colonnello Ortlieb pesavano, oltre alle risultanze dell’indagine italiana, i circostanziati riscontri dell’inchiesta condotta nel settembre 1944 dalla Commissione alleata d’indagine del quartier generale della 5a armata — composta dal maggiore Edwin S. Booth (commissario per i crimini di guerra dell’esercito degli Stati Uniti), dal maggiore Milton R. Wexler (avvocato militare), dal capitano Charles N. Bourke (avvocato difensore) e da due tecnici (interprete e verbalizzante) — che il 20 settembre aveva raccolto le testimonianze di sei sopravvissuti. La commissione effettuò un sopralluogo a Villa Podernuovo: «L’esame della stanza ha dimostrato che dal lato opposto dell’entrata entrambe le mura erano segnate da numerosi piccoli buchi che sarebbero potuti essere stati causati dalle bombe a mano; le macchie sul muro e sulla vasca da bagno avevano un carattere tale da essere state probabilmente causate da sangue umano». Categoriche le convinzioni tratte dagli inquirenti: «Non esiste indizio di alcuna provocazione che possa giustificare questo massacro». Lo scatenamento della violenza risultava sconcertante alla luce dell’ospitalità ricevuta dai soldati a Villa Podernuovo fino al 23 agosto. Tornati dopo due giorni, essi avevano manifestato in un primo momento sentimenti amichevoli, tranne mostrare improvvisamente il volto spietato dell’occupante:
Alla Villa Lagacciolo essi chiesero del cibo, che gli venne dato, e tutte le persone all’interno della casa furono raggruppati all’interno di un bagno di dimensioni pari a 9 piedi per 12 piedi [m 2,75 x 3,65] che si trovava al piano terreno. I tedeschi, quindi, consumarono il pasto che queste persone avevano preparato e successivamente uno dei tedeschi scese verso il bagno e lanciò due bombe a mano nella stanza. Dopo di ciò, lo stesso sparò con il suo fucile all’interno della stanza per essere sicuro che tutti fossero morti.10
Tre settimane dopo l’eccidio uno degli abitanti della villa, Mario Taddei, lasciato per morto dai tedeschi, rilasciò alla Commissione militare statunitense una testimonianza sul livello di brutalità dei militari del 745° reggimento granatieri:
Tutta la famiglia era pronta per andare a mangiare. Sentimmo una mitragliatrice sparare davanti all’ingresso della casa. Io andai vicino alla porta e` vidi il mio cane ferito, e cercai di scoprire perché fosse ferito. Vidi un soldato tedesco con una bomba nella mano pronto a lanciarla. Alzai le mani e dissi «camerata», ma vidi che il tedesco era pronto per lanciarla. Tornai indietro per avvertire tutti quelli presenti nella casa di scappare, e la bomba di mano passò attraverso la porta ed esplose nella prima stanza. Io scappai con undici persone della famiglia verso il seminterrato. Tra le undici persone vi erano quattro bambini che stavano strillando ed erano spaventati. Durante questo arco di tempo altre tre o quattro bombe a mano erano esplose intorno alla casa e le mitragliatrici continuavano a sparare. Un soldato tedesco, che sarei in grado di riconoscere in qualsiasi momento, scese al piano inferiore. Una donna chiese pietà perché vi erano quattro bambini fra di loro. Il tedesco non rispose e lanciò due bombe a mano dentro la stanza. Dopo di ciò essi iniziarono a sparare con il fucile perché volevano essere sicuri che tutti fossero morti. Quattro persone furono uccise dalle bombe a mano, tre dai fucili e due furono ferite. Io riuscii a scampare perché feci finta di essere morto. I quattro morti erano sopra di me.
A conclusione dell’inchiesta, il quartier generale della 5′ armata
indicò senza ombra di dubbio la formazione militare responsabile dell’eccidio: «il reparto interessato appare essere, con assoluta evidenza, il 754° reggimento granatieri».
Tratto da
Le stragi nascoste
Di Mimmo Franzinelli
Editore Le Scie Mondadori 2002
Le Stragi nascoste – Cuneo
Le stragi nascoste
QUATTRO CASI DI ORDINARIA VIOLENZA, INSABBIATI
(1) Cuneo
Un esame più dettagliato del materiale processuale «provvisoriamente archiviato» dalla Procura generale militare può essere condotto attraverso lo studio a campione di quattro fascicoli rappresentativi della gran massa della documentazione occultata, relativi ad aree geografiche eterogenee e a fasi differenti della campagna militare: gli incartamenti intestati rispettivamente al maggiore Alfred Grundmann (fascicolo numero 1191 del ruolo generale), al capitano Richard Henning (n. 192), al tenente colonnello Karl Ortlieb (n. 657) e al sottufficiale Fritz Wunderle (n. 1954).
L’ultima settimana del luglio 1944 due reparti della divisione Brandenburg effettuarono una manovra a tenaglia nell’alta valle Tanaro, in provincia di Cuneo, per distruggere le formazioni partigiane autonome e garibaldine che minacciavano la sicurezza della strada statale n. 28. Secondo i piani concepiti dalla Geheime Feldpolizei 751 di stanza a Savona, la 13a compagnia Panzerjàger al comando del capitano Josef Tochtrop sarebbe scesa su Garessio dal Colle San Bernardo, mentre la 6′ compagnia, guidata dal capitano Richard Henning, avrebbe investito la cittadina dalla parte meridionale della vallata.’ Il 25 luglio 1944 questo secondo reparto, proveniente da Ceva, travolse le linee partigiane nei pressi della frazione Pievetta (comune di Priola), rastrellò casa per casa l’abitato e si macchiò di violenze efferate:
Uccisione di un vecchio di 80 anni da parte di un soldato tedesco.
Uccisione di un uomo di 61 anni e ferimento di un altro di 50 anni da parte di un ufficiale.
Ferimento di un uomo di 65 anni.
Uccisione di 9 uomini tra i 28 e i 65.
Uccisione di altri 2 uomini, uno di 45 e l’altro di 41, mentre si trovavano presso la salma del padre, poco prima ucciso dai tedeschi.
Uccisione e distruzione del cadavere di un uomo di 52 anni, sorpreso dai tedeschi mentre cercava di mettere in salvo le sue bestie.
Uccisione di un uomo di 36 anni, in presenza della moglie, mentre cercava di accompagnarla in un luogo sicuro.
Uccisione di un uomo di anni 57.
Uccisione di un uomo di anni 41, per giunta mutilato a un braccio.
Uccisione di un uomo di anni 46, trasportato in Bagnasco e poscia impiccato al balcone soprastante la porta d’ingresso alla farmacia di quel comune.
Inoltre due donne vennero violentate.
Le 19 uccisioni si accompagnarono a distruzioni e a ruberie di ogni genere, il paese fu dato alle fiamme (bruciarono 55 case su 80) e ai civili fu intimato di non spegnere l’incendio, a meno di incorrere nella più dura repressione:
I tedeschi mediante fosforo ed altre sostanze infiammabili incendiarono l’abitato, dopo averlo suddiviso in tre zone e vietarono ogni tentativo di spegnimento del fuoco.
Furono così distrutte moltissime case, tra cui quella parrocchiale, ed altre furono gravemente danneggiate, nonché mobili e masserizie. Infine i tedeschi saccheggiarono le abitazioni, rimaste incustodite, asportandovi tutti gli oggetti di maggior valore ed anche vini e liquori, con i quali si ubriacarono. Considerando tutto il paese preda di guerra, i tedeschi s’impossessarono anche di macchinario, di viveri e di capi di bestiame.3
Ai rastrellamenti seguì una massiccia deportazione di forza-lavoro in Germania: circa quattrocento civili dell’alta valle Tanaro furono catturati e inviati nel Reich.
Il 10 maggio 1945 il comune di Priola e l’ANPI di Cuneo denunziarono al ministero della Guerra l’incendio e il massacro di Pievetta, «onde giustizia sia resa a questa popolazione». Le prime testimonianze furono raccolte dalla Commissione alleata d’indagine. L’incartamento predisposto nel 1945-46 per la Commissione delle Nazioni Unite per i delitti di guerra rimarcò la responsabilità di Henning, «tanto più che egli, quale comandante della colonna, dette ai suoi dipendenti l’ordine di essere "spietati" nei riguardi della popolazione civile della borgata Pievetta». Le imputazioni a carico del capitano concernevano la violazione degli articoli 185, 187 e 187 del Codice penale militare di guerra: violenza con omicidio contro privati nemici, saccheggio, incendio, distruzioni e gravi danneggiamenti; il caso ricadeva nella disciplina prevista dall’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale sui crimini di guerra. Nelle «Note sul procedimento» si prefigurò la probabile strategia difensiva dell’ufficiale, del quale si riteneva essenziale l’arresto:
Non è possibile stabilire su quali elementi l’imputato baserà la propria difesa, e cioè se escludendo qualsiasi iniziativa personale egli cercherà di attenuare le sue responsabilità, affermando di aver agito in ottemperanza a ordini superiori circa la rappresaglia da porre in atto anche contro inermi cittadini nelle zone occupate dai partigiani.
Soltanto dall’interrogatorio dell’imputato si potrà stabilire se vi siano o meno responsabilità di altre persone e in quale misura, e potranno trarsi inoltre elementi per l’identificazione del tenente e degli altri militari tedeschi che si sono resi colpevoli dei suddetti crimini di guerra.
Contrariamente a queste premesse, la magistratura militare italiana evitò di processare i reparti della divisione Brandenburg responsabili del massacro. A una quindicina d’anni dai fatti, la Procura criminale di Dortmund pose sotto inchiesta Henning e Tochtrop, chiedendo informazioni all’amministrazione comunale di Priola e a esponenti del movimento partigiano di Cuneo. Il processo, apertosi il 23 ottobre 1962, proseguì sino al 24 gennaio 1967. Gli esecutori dell’incendio e delle uccisioni di civili si difesero con le consuete motivazioni della propria estraneità alle uccisioni e/o dell’obbedienza agli ordini. La corte assolse tutti, con motivazioni varianti dall’insufficienza di prove alla morte degli imputati. La documentazione reperita lasciava credere che l’ordine dell’operazione provenisse dalla Geheime Feldpolizei 751 di Savona, ma i suoi componenti furono prosciolti, prestando fede alle loro dichiarazioni:
Tutti i membri interrogati del Gruppo GFP 751 hanno assicurato di non essere a conoscenza dell’uccisione in totale di 27 civili italiani a Pievetta e Bagnasco, nel periodo che va dal 25 luglio al 22 agosto 1944 e neppure di aver mai prestato servizio in questi luoghi. Il contrario non può essere provato, tanto più che il sospetto si indirizza verso i membri del Gruppo GFP 751, in generale, solo a causa della connessione di tempo e spazio con i fatti accaduti a Garessio il 28 luglio 1944.5
Il dispositivo finale della sentenza getta una luce sconsolante sull’intero processo, suscitando l’impressione che esso sia servito più che altro a chiudere in via definitiva una vicenda «fastidiosa»: Per quanto persone conosciute o sconosciute abbiano collaborato oggettivamente all’uccisione di 31 civili italiani nel territorio di Garessio, nel periodo dal 25 luglio al 22 agosto 1944, un ulteriore procedimento penale non promette alcun successo, perché in queste uccisioni si tratterebbe di omicidio, ma non di omicidio premeditato.
1) Per quanto riguarda l’uccisione di 4 civili e del tentato omicidio di un’altra persona a Garessio il 28 luglio 1944, non esistono futili moventi, poiché, secondo le dichiarazioni al punto b.111.1 le vittime erano partigiani o persone che li aiutavano. Non sono emersi altri punti per l’applicazione del paragrafo 211 StGB.
2) Nel contesto dell’uccisione di 27 civili italiani a Pievetta e Bagnasco il 25, 26, 28 luglio e il 22 agosto 1944, non si sono potute accertare le precise circostanze. Si è solo venuti a conoscenza che 8 persone sono state «uccise» e che altre 6 persone sono «morte». Solo da queste dichiarazioni non si può dedurre in nessun caso che chiaramente si sia perpetrata un’uccisione sleale e spietata, o condotta con mezzi pericolosi per la pubblica incolumità.
Sui motivi delle uccisioni non si sa nulla. A parte il fatto che per ora non esiste possibilità alcuna di ottenere prove certe, gli imputati ascoltati in istruttoria certamente si appellerebbero al fatto che le vittime erano partigiani, o persone sospette di attività partigiana, oppure che le uccisioni, in via del tutto straordinaria, sono state misure di ritorsione o di rappresaglia.
Una simile giustificazione ha ottenuto un notevole supporto grazie alle informazioni dei testi S. e dott. E. e non può essere confutata. Dopo tutto, in nessun caso, si può provare con sicurezza la consistenza della fattispecie di assassinio. Il procedimento penale per omicidio non premeditato è caduto in prescrizione.
Tratto da
Le stragi nascoste
Di Mimmo Franzinelli
Editore Le Scie Mondadori 2002
Pietransieri: il massacro dimenticato Lelio La Porta
Pietransieri: il massacro dimenticato
Lelio La Porta
Nella frazione di Roccaraso, in Abruzzo, 128 fra uomini, donne e bambini trucidati dai nazisti il 21 novembre 1943. Nessun movente se non, forse, il desiderio di eliminare una popolazione che poteva intralciare le operazioni belliche dei tedeschi
Provenendo da Sulmona, la patria di Ovidio (“Sulmo mihi patria est”), del quale proprio quest’anno ricorre il bimillenario della morte, percorrendo tornanti molto addomesticati nella loro impervia percorribilità da un’opera di rifacimento abbastanza recente, si arriva al Piano delle Cinque Miglia. Il paesaggio è ben diverso da quello che il passeggero si è lasciato alle spalle: dal dominio quasi incontrastato di rocce e alberi si passa a un altopiano lussureggiante di splendente grano e appezzamenti di terreno coltivati. Si tratta di quei miracoli che la natura propone quando si impegna fino in fondo a essere se stessa. Questo altopiano è noto – credo ovunque in Italia ma anche fuori dal nostro Paese – in quanto vi si trovano, a poca distanza l’uno dall’altro, tre importanti centri turistici, invernali ma anche estivi, dell’Abruzzo e dell’Appennino centrale: Roccaraso, Rivisondoli, Pescocostanzo. Gente nelle strade, via vai continuo, grande traffico. Ma il passeggero, anzi, i due passeggeri che entrano in Roccaraso non sono alla ricerca di un “ubi consistam” dove riposare le membra stanche del viaggio; non chiedono informazioni su alberghi o ristoranti; chiedono, invece, dove si trovi Pietransieri. Ricevuta una risposta, tornano in macchina e si dirigono verso la piccola frazione di Roccaraso che prende, appunto, il nome di Pietransieri. Di nuovo il paesaggio lascia spazio alle sue rudezze rocciose ma lascia anche intendere la nuova pianura che si stende verso Sud, verso Napoli che sembra quasi intuirsi al di là dei monti.
Si arriva a destinazione: poche case, poca gente nelle strade, diventa quasi difficile chiedere un’informazione. Finalmente i passeggeri trovano il modo di avvicinare un anziano signore intento in un’attività che, in queste zone di grande freddo e grande neve, si esplica proprio in agosto: la raccolta della legna per il fuoco invernale. Chiedono dove è ubicato il posto da loro cercato. L’anziano signore, con aria quasi compiaciuta dal fatto di poter fornire proprio quell’informazione, indica loro la strada e aggiunge: «Lì furono trucidati!». Un sacrario dove sono raccolte le spoglie di 128 fra uomini, donne e bambini trucidati dai nazisti: il massacro dei Limmari di Pietransieri, 21 novembre 1943.
Quest’anno ricorre il 50° anniversario (15 luglio 1967) del conferimento della Medaglia d’Oro al Valor Militare a Pietransieri da parte dell’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Questo crimine perpetrato dalle truppe naziste in ritirata, però, non ha mai avuto il giusto spazio nella memoria del biennio 1943-45. Sotto certi aspetti, ha seguito la sorte delle Quattro giornate di Napoli, spesso messe nel dimenticatoio senza ricordare che la città partenopea fu la prima, fra le grandi città europee, a insorgere contro i tedeschi e a cacciarli ancor prima dell’arrivo delle truppe angloamericane. E, ancora sotto certi aspetti, il massacro di Pietransieri può essere collegato alla Liberazione di Napoli; infatti i tedeschi in ritirata si attestarono sulla linea Gustav che attraversava proprio il territorio del piccolo comune abruzzese davanti al quale si stendeva la “terra di nessuno”. Lì arrivano, il 17 ottobre 1943, i genieri tedeschi per iniziare i lavori di fortificazione della zona. Iniziano i rastrellamenti dei civili da impiegare nei lavori mentre, il 7 novembre, viene intimato lo sgombero del paese. Si tratta di andare verso Sulmona; alcuni abitanti obbediscono e molti troveranno la morte per assideramento o sfinimento durante il viaggio; altri, quasi duecento, si rifugiano in località Limmari, nella terra di nessuno, davanti alle linee difensive germaniche. I tedeschi sembra non si oppongano a tale decisione e nel frattempo distruggono il villaggio compresa chiesa e cimitero, bruciando viva nella sua casa una donna settantenne impossibilitata a muoversi.
Intanto continuano le razzie delle persone idonee al lavoro ma, non trovandone a sufficienza, i tedeschi cominciano a sfogare la loro rabbia sulla popolazione civile: il 15 novembre viene uccisa, senza alcun motivo, una donna nella sua casa. Il giorno seguente un reparto d’assalto rastrella 6 uomini che vengono trovati uccisi a colpi d’arma da fuoco. Il 17 novembre una settantenne e un ottantenne accorso in suo aiuto vengono uccisi dai soldati. Il 18 novembre viene uccisa una giovane donna e il giorno dopo un uomo di settant’anni, il figlio e una ragazza che era con loro. Lo stesso giorno un gruppo di paracadutisti aveva fatto nuovamente irruzione in paese devastando tutto quello che ancora era rimasto in piedi e uccidendo alcuni uomini i cui corpi furono rinvenuti nelle vicinanze.
Nell’ultima domenica di Avvento i protestanti tedeschi commemorano i defunti: per loro è la domenica dei morti e nel 1943 cadeva il 21 novembre. Quella domenica un gruppo di paracadutisti penetra in Limmari distruggendo ogni cosa e uccidendo gran parte degli abitanti; i sopravvissuti vengono riuniti nei pressi di una quercia, intorno a loro viene raccolto dell’esplosivo che viene fatto brillare. Chi non muore viene finito sul posto. Sopravvive una bambina di sette anni, Virginia Macerelli, che si nasconde sotto le gonne della madre e viene rinvenuta dalla nonna, Laura Calabrese, sfuggita al massacro.
Il capitano inglese Stayer, incaricato di indagare sul massacro, raccolse le testimonianze delle due donne il 3 novembre del 1947. Laura Calabrese: «Verso le 9,00 del 21 novembre 1943 un gruppo di 5 tedeschi arrivò al casolare e ci ordinarono di raccoglierci insieme nel cortile della trebbiatura. Immediatamente dopo 4 tedeschi aprirono il fuoco su di noi con i fucili automatici mentre il quinto metteva una mina sotto i cadaveri e la faceva esplodere facendoli saltare in aria. Riuscii a scappare gettandomi in un canale, proprio prima che esplodesse la mina. Io e la mia nipotina di sette anni siamo i soli superstiti di questo massacro. Dichiaro con assoluta certezza che i 5 tedeschi che compirono il massacro vivevano nelle case di Pietransieri e che in precedenza li avevo visti in parecchie occasioni. In quest’eccidio hanno trovato la morte mia figlia, 6 nipoti e altri 7 parenti, per lo più donne e bambini». Virginia Macerelli: «Una mattina i tedeschi vennero alla fattoria e ci fecero raggruppare; oltre a me c’era mia madre, 4 fratelli e mia sorella. I tedeschi cominciarono subito a sparare e io mi nascosi sotto la gonna di mia madre. Sentii tantissime grida, io rimasi ferita al braccio sinistro e ad ambedue le gambe. Mia nonna mi venne a prendere il giorno dopo, io ero ancora sotto le gonne di mia madre, che era morta. Oltre a mia madre i tedeschi uccisero i miei 4 fratelli e mia sorella di 16 anni».
Terribile è la testimonianza resa da Italino Oddis, all’epoca guardia municipale, che descrive nel modo seguente il rinvenimento dei corpi della moglie e dei due figli: «… riconobbi mia moglie e mio figlio Evaldo rimasto in ginocchio e con gli occhi aperti e lo sguardo in su. Gli presi la testa tra le mani, pareva volesse dirmi qualcosa ma una pallottola gli aveva forato la tempia; l’abbracciai, lo baciai e ribaciai e lo stesi poco lontano (…), poi presi mia moglie e la misi accanto a lui. L’altro mio piccolo bambino, Orlando, era sotto la madre in una pozza di sangue; presi anche lui e lo stesi vicino alla madre e al fratello».
Nella zona, come attestato dai documenti dello stesso esercito tedesco, non c’era attività partigiana, almeno in quel periodo. È vero che il 13 novembre furono rinvenuti i cadaveri di due soldati tedeschi, ma furono ritenuti vittime degli Alleati. D’altronde, fra il rinvenimento dei due cadaveri e il massacro era passato troppo tempo e i tedeschi, invece, erano sempre molto immediati nelle rappresaglie. Inoltre, solitamente, rendevano pubbliche le loro azioni per dar maggior valore di monito. Si aggiunga che, dalla testimonianza di Laura Calabrese, risulta che i massacratori erano soldati di Pietransieri: è noto che le rappresaglie, in linea di massima, erano affidate dai tedeschi a truppe non di stanza nei luoghi degli eccidi. Quindi, quale il movente? Ne resta uno solo che, nella sua disarmante e inumana insensatezza, suscita quesiti tremendi circa la natura umana applicata alla guerra e al terrore usato nei confronti dei civili: la popolazione di Pietransieri non aveva obbedito ai proclami con cui i tedeschi chiedevano lo sfollamento verso Sulmona e si era andata a sistemare nella terra di nessuno fungendo da intralcio alle operazioni belliche dell’esercito germanico. Non ci fu da parte nazista nessun tentativo di dissuadere i pietransieresi dal recarsi verso la terra di nessuno (anzi, per molti versi, furono proprio i tedeschi a indurre la popolazione a spostarsi lì dove non avrebbe dovuto essere); da ciò il massacro che, oltre tutto, nella sua dinamica e nella sua realizzazione, entrava in rotta di collisione con le stesse leggi di guerra tedesche in quanto non c’era stata attività partigiana.
Ha scritto Roberto Battaglia: «È (…) l’Abruzzo a pagare il prezzo della sua precoce resistenza e della prossimità della linea del fronte con un ingente e tuttora pressoché ignorato contributo di sacrifici e di sangue. Il 21 novembre 1943 nel villaggio di Pietransieri – che aveva tardato ad eseguire l’ordine di evacuazione impartito dalle autorità germaniche – irrompono le truppe tedesche e fanno strage di 130 civili, in gran parte donne e bambini (così efferato e anche inesplicabile il massacro, che nasce una candida leggenda popolare, secondo la quale, il generale tedesco che ordinò la strage sarebbe tornato nell’immediato dopoguerra sul posto, in veste di ignoto pellegrino, per invocare perdono dall’unica superstite, tale Virginia Macerelli)» [1].
Nel modo seguente il senatore a vita Paolo Emilio Taviani si esprimeva sul massacro nella Prefazione al volume di Paolo Paoletti a esso dedicato: «L’indagine accurata (…) ha accertato che la causa dell’orribile mattanza non fu una rappresaglia, bensì l’intenzione di liberare la “fascia di sicurezza” dalla presenza di estranei, potenziali collaboratori del nemico. (…) Anche per il codice militare di guerra tedesco e per il diritto internazionale (…) la strage di Pietransieri è un crimine di guerra. Il capitano Georg Schulze, supposto mandante della strage, è uno dei tanti criminali di guerra morti nel proprio letto» [2].
Nell’agosto 2016 l’Anpi di Pescara ha lanciato un grido di allarme intorno allo stato di abbandono in cui versano i luoghi del massacro. Resta il fatto che i due passeggeri che si sono recati sul posto hanno avuto qualche difficoltà a trovare lo stesso sacrario perché la segnaletica è assolutamente insufficiente. Nei loro occhi rimane, però, bene impressa l’immagine del volto dell’anziano che ha fornito l’indicazione sull’ubicazione del luogo: il suo sguardo diceva il dolore ma non la rassegnazione all’abbandono e alla dimenticanza; il suo sguardo diceva il sollievo per la rinascita di una memoria che non può e non deve essere cancellata; il suo sguardo era un invito per quante e quanti volessero recarsi lì dove la montagna degrada verso il fiume Sangro e dove la storia parla ancora la lingua della violenza ma anche, e soprattutto, quella di una rinnovata e sempre più necessaria resistenza.
Lelio La Porta, docente nei licei, membro della International Gramsci Society, collaboratore di Critica marxista, saggista
[1] R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964, p. 145.
[2] P. Paoletti, L’eccidio dei Limmari di Pietransieri (Roccaraso): un’operazione di terrorismo. Analisi comparata delle fonti scritte italiane e straniere, Comune di Roccaraso, 1996; nel presente articolo si cita dalla stampa anastatica del 2003, p. 7.
Tratto da
Patria Indipendente
Cronaca della strage di Carpi
Cronaca della strage di Carpi
Dalla Cronaca Carpigiana di don Ettore Tirelli
– Trascrizione Anna Maria Ori
16 Agosto 1944.
Dalla casa del fascio repubblicano la salma del colonnello Filiberto Nannini è trasportata solennemente in Duomo per le esequie. Si riforma il corteo e all’altezza del Municipio si scioglie. Movimento insolito di truppe. Due compagnie di Camicie Nere si allineano in doppia fila nel mezzo della piazza, entrata in castello verso il Torrione. Cantano inni guerreschi, nel mentre un plotone di Guardie repubblicane si unisce alle Camicie Nere. È il plotone di esecuzione. Sono le ore 20, mentre la salma del Nannini ha sepoltura nel nostro cimitero, 16 individui di tutte le età, sono portati in piazza e per rappresaglia uccisi.
17 Agosto 1944.
Giornata di costernazione espressa sul volto di tutti. Quasi squallida la piazza sebbene giorno di mercato. Le salme sono ancora supine a terra, e le scene di profondo dolore si susseguono appena un congiunto ravvisa un suo caro. Alle ore 9 sono incassate e allineate sul verde al fianco destro di chi entra in Castello. Alle ore 11 comincia il trasporto di questi disgraziati innocenti, e due per due sopra un camioncino senza onori funebri sono trasportati al cimitero.
Ecco i nomi delle vittime
Arturo Aguzzoli, anni 30, di Carpi;
Augusto Artioli, anni 60, di Carpi;
Aldo Biagini, anni 39, di Rio Saliceto;
Agostino Braghiroli, anni 41, di Carpi;
Remo Brunati, anni 36, di Mirandola;
Enzo Bulgarelli, anni 27, di San Felice sul Panaro;
Dino Corradi, anni 41, di Carpi;
Martino Del Bue, anni 48, di Rio Saliceto;
Umberto De Pietri, anni 26, di Carpi;
Fernando Grisanti, anni 24, di Milano;
Costantino Iotti, anni 18, di Rio Saliceto;
Walter Lusuardi, anni 30, di Migliarina Carpi;
Pierino Rabitti, anni 19, di Rio Saliceto;
Fermo Rossi, anni 24 di Rio Saliceto;
Avio Storchi, anni 26, di Rio Saliceto;
Giuseppe Zanotti, anni 30, di Carpi.
29 Agosto 1944.
La rappresaglia non è finita: i fascisti, non sazi di vendetta, hanno voluto superare anche nel crimine i loro alleati nazisti. Dopo due settimane dalla strage della piazza, in via Guastalla a Migliarina, proprio nel punto dove era stato giustiziato il fascista console Nannini, venivano uccisi quattro partigiani di Soliera, prelevati nelle loro case, portando il numero delle vittime a venti. I fascisti avevano voluto così dimostrare di essere i più spietati, assassinando venti persone innocenti per l’uccisione di un solo fascista, superando, anzi, raddoppiando i dieci contro uno delle Fosse Ardeatine.
I nomi dei quattro partigiani uccisi
Erio Fieni, anni 38;
Romano Bianchini, anni 38;
Fernando Loschi, anni 19;
Dante Loschi, anni 43.
N.B. – Il colonnello Antonio Petti, comandante provinciale della “Guardia Nazionale Fascista” responsabile dell’uccisione dei 16 innocenti in Piazza a Carpi, venne condannato a morte. L’esecuzione avvenne il 5 ottobre 1945 al Tiro a segno a Cibeno.
Tratto da
Patria e Libertà
Mimmo Franzinelli – Le stragi nazifasciste