Archivio mensile:Maggio 2017

Erminia Gecchele – Il silenzio

Il silenzio di Erminia Gecchele
Parlare di cose tristi, a grande distanza di tempo, rinnova nello spirito la sensibilità di allora. Con orrore, come una visione di sogno in un mondo di fantasia, passa davanti a noi la nostra storia, a colori marcati, a tinte lugubri, a visioni raccapriccianti; passa chiara e viva. Ci fa pensare, soffrire, godere, amare e disprezzare, e qualche volta spinge anche il nostro io a un’ardita ribellione all’opera dell’uomo, che a volte sa innalzarsi al di sopra delle stelle, a volte si abbassa al di sotto dei bruti. Se può essere alta soddisfazione conoscere profondamente la psicologia umana, non è altrettanto piacevole doverla studiare attraverso un’esperienza pratica cosi amara, da riportarne per la vita indelebili i segni delle sue opere. Ricordo un episodio da me vissuto nel tempo più infelice e disonorante della storia del popolo italiano. Entusiasta di un ideale e orgogliosa di portare il mio umile granello alla grande causa della libertà soffocata, ero entrata nelle file partigiane cercando di fare tutto quello che potevo. Alle ore 14 del 31 dicembre 1944, su una sgangherata bicicletta, transitavo in località Alte di Montecchio, dove dovevo consegnare a una staffetta un messaggio per il comando della divisione -II earemi •. La mia mansione stava per concludersi, quando alcuni colpi di pistola crepitarono al mio fianco e due voci, in tono risoluto e minaccioso, mi intimarono l’alt. I due fascisti buttarono nel fosso la mia bicicletta e puntarono l’arma alla mia testa. In quel momento ho perso la speranza della vita e ho visto intorno a me il buio. Ma mi sono subito ripresa e sono riuscita a ingoiare il biglietto del messaggio.

Al pressante interrogatorio che ne è seguito, ho provato a fingere di non saper niente, ma inutilmente. Ero stata tradita, e cosi, dopo un’abbondante porzione di legnate, venni portata alle carceri di Vicenza. Qui cominciò il calvario: l’alternarsi di interrogatori e torture. Per me il mondo si era rimpicciolito alle pareti della cella, e la speranza del sole, della libertà e della salvezza era completamente scomparsa. Mi sentivo definitivamente perduta, rassegnata a sentivo di minuto in minuto stritolare dagli artigli di quegli inumani briganti senza dio e senza legge, dalle mani insanguinate e dalla bocca sporca. Dopo due giorni di tale trattamento, mi portarono a Palazzo Giusti, alla scuola del maggiore Carità e delle sue degenerate figliole, solerti e instancabili ideatrici e operatrici delle più vergognose, barbare operazioni, prodotti indimenticabili di esclusiva marca fascista. A Palazzo Giusti non ero più sola; avevo con me altri disgraziati, persone di alto e universale valore letterario e scientifico, come i professori Meneghetti, Palmieri, Volpara, Ponti, «Ascanio», Faccio e tanti altri, che con le loro sagge parole sapevano rinforzare la nostra tempra, rinsaldare la nostra volontà, riaccendere la speranza, risollevarci al di sopra del fango nel quale dovevamo vivere, trascorrendo con profondi sospiri i lenti e lunghi minuti degli snervanti interrogatori e delle torture sempre nuove e perfezionate, fatte per strapparci nello spasimo del dolore qualche indicazione, qualche nome, qualche piano. Sarebbe bastato pronunciare un nome per provocare la catastrofe di un paese, per gettare nel rogo della rappresaglia persone, famiglie, paesi. L’enorme responsabilità della segretezza pesava sulla nostra coscienza e ci rendeva più forti della ferocia fascista. Tutto finiva nell’assoluto silenzio, unica sperimentata salvezza. Quello che ho passato a Palazzo Giusti fino al 27 aprite del 1945, giorno in cui per opera del Patriarca di Venezia, del Vescovo e del Questore di Padova venni portata al collegio delle Suore Canossiane, mi è sempre vivo e presente. Due giorni dopo, il 29 aprile, potei tornare libera al mio paese, riabbracciare i miei cari e testimoniare agli amici con i segni profondi e indelebili della tortura la mia sofferenza, la mia fede e il mio contributo alla causa della libertà.
Tratto da

RITORNO A PALAZZO GIUSTI
TESTIMONIANZE DEI PRIGIONIERI DI CARITÀ A PADOVA (1944-45)
A cura di Taina Dogo Baricolo
La Nuova Italia Firenze
Edizione 1972

Giuseppe Ungaretti – Non gridate più

Giuseppe Ungaretti
Non gridate più
 
Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.

Salvatore Quasimodo – Uomo del mio tempo

 

Salvatore Quasimodo

 

Uomo del mio tempo
Sei ancora quello della pietra e della fionda,

 

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
– t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
“Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace,
e’ giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Sergio Boscardin – Per l’uomo nuovo

Sergio Boscardin

Per l’uomo nuovo

Ovunque voi siate,
fratelli, amici,
in cielo o in tetra solitari
tra gJi uomini,
lasciate ch’io soffra con voi,
ch‘io pensi a voi
e pianga
nellanima mia e senta
cos[ piangere la vostra.
*
Lasciate ch’io sorrida
e veda
un’alba luminosa di speranze
sul vostro volto,
come intendo vederla in me.
*
Lasciatemi ascoltare
le vostre voci
così diverse e umane
come io pure sono uomo
e ascolto
la mia parlarvi oltre il linguaggio
che ci rende stranieri
e mortali.
*
Lasciate ch’io vi raggiunga
e ascolti in voi
la parola buona o l’angosciosa,
le speranze tradite
o la fede nell’Uomo
che fu ancora in noi tutti
incoronato
di terribili spine,
trafitto e straziato in ogni luogo
dove vi fu l’odio
e la tenebra.
lo e voi,
noi tutti, infine, oggi
come ieri
e più ancora domani,
guardiamo all’Uomo
ospite ignorato e avvinto
alla terra gemente e insanguinata,
risollevato dagli orrori
vivente in un germe
di speranze e ideali,
rigenerato
per ciò che in lui ha ucciso
lantica legge,
perché sia fatta libera la via
al divenire.
*
Fratelli, amici,
ascoltate la voce che in noi
parla sommessa
nel frastuono d’oggi
come in una tragica, furibonda
guerra di ieri;
ascoltate la voce che ci dona
la gioia bella
di sentire le nostre calde mani
in una ferma stretta,
i nostri occhi aperti
e chiari
guardarsi l’un l’altro e dire:
*
Ciò che tu vuoi
amico
io lo voglio
Per l’uomo nuovo
e non è menzogna d’una voce
anonima,
ma è chiarezza di pensieri
purità di cuori
benignità d’opere umane;
non v‘è più Germania
o Francia
od Inghilterra o Russia:
vi è soltanto l’Uomo
per l’uomo,
ed è in lui uno spirito grande
che risorge
dalle macerie della legge
fino alla gloria
che ci rende amici nell’amore,
non più servi dell’odio.
*
Ovunque voi siate
fratelli, amici,
lasciate ch’io vi parli
e la voce
dell ‘Uomo nuovo vi giunga
nelle sfere sublimi
dove il vostro dolore è sacro
pane di vita al Cosmo,
o sulla terra
dov’esso traccia come aratro al sole
i nuovi solchi
e non si volge al passato.
*
Questo io vi dico
e non sono più io che parlo,
bensì è lUomo in me.

Clemente Rebora – Voce di vedetta morta

Clemente Rebora

Voce di vedetta morta

 

C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l’uomo
E la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Sòffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch’è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t’ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai.

Giovanni Pesce – Milano, cronaca di un gappista

Milano, cronaca di un gappista
Giovanni Pesce
Febbraio, marzo, aprile, e poi la Liberazione nelle memorie di Giovanni Pesce, “Visone”, comandante della 3ª brigata GAP “Rubini”, Medaglia d’Oro al Valor militare
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Giovanni Pesce, “Visone”, con Onorina Brambilla, la partigiana “Sandra”, che nel luglio 1945 divenne sua moglie
Il 28 febbraio tre gappisti, eludendo la vigilanza della sentinella, collocano all’altezza di Affori, sulla linea ferroviaria Milano-Torino una bomba interrompendo il traffico per parecchie ore. Marzo si avvicina e la liberazione è nell’aria, annunciata da fatti, dai discorsi della gente sui tram o davanti ai negozi in attesa della distribuzione dei generi tesserati.
Si impreca al fascismo quando appaiono le squadre delle brigate nere. Le donne, davanti agli spacci, maledicono la guerra, il fascismo, Hitler. Sempre più spesso si ode la frase: «sta per finire», oppure «la va a pochi». Le spie e i delatori si danno ancora da fare, molti cittadini vengono ancora incarcerati o deportati in Germania. Ma la gente ha meno paura. Soprattutto gli operai delle fabbriche rispondono ad ogni provocazione fascista, manifestando apertamente l’opposizione al regime organizzando veri e propri comizi all’interno delle officine. Scioperi e manifestazioni per la difesa del diritto alla vita, per il pane si succedono ovunque. La parola d’ordine è: “farla finita con i nazifascisti”. I gerarchi fascisti che in alcune fabbriche cercano di intimorire le maestranze, sono interrotti al grido di “A morte il fascismo! Via i tedeschi! Basta con la guerra!”.
Il primo marzo mi incontro con Clocchiatti (Ugo) che mi informa dell’uccisione di Curiel, vicino a piazzale Baracca. La notizia si diffonde rapidamente in città: hanno ucciso Curiel, il fondatore del Fronte della Gioventù, il direttore dell’Unità.
Avevo conosciuto Curiel a Ventotene nel 1940: ne ricordavo la figura slanciata, l’affabilità, la viva intelligenza, l’abitudine di tenere sempre un libro in mano. Lo incontravo spesso con Frausin, l’operaio di Trieste che fu poi bruciato vivo dai tedeschi nel 1944. Avevo rivisto Curiel nel luglio del ’44 in via Marcona, con Dozza. Li scortai da lontano senza avvicinarmi. Curiel aveva saputo forse più di ogni altro capire i giovani, spronarli alla lotta aperta; solo così, diceva, i giovani potranno formarsi la coscienza per continuare poi, su un piano diverso, la battaglia per la libertà e la democrazia.
Per la 3ª GAP l’uccisione di Curiel è un nuovo motivo per intensificare gli attacchi. I gappisti sono mobilitati 24 ore su 24. I fascisti e i tedeschi sentono ormai prossima la fine, sospettano di tutto e di tutti, rimangono chiusi nelle loro caserme. E quando ne escono, camminano in gruppo, guardinghi, armati fino ai denti. Ma ormai l’iniziativa è nostra. Sono del marzo 1945 l’esecuzione del colonnello Cesarini, il boia della Caproni, del sottufficiale rastrellatore della GNR Angelo Contini, del maresciallo della Wehrmacht che si distinse nelle repressioni nel quartiere Lambrate, del noto squadrista Romualdo Papa; l’esecuzione di alcuni ufficiali della “Resega”, comandanti di reparti che si distinsero negli ultimi feroci rastrellamenti contro le brigate partigiane di montagna. E ancora: l’attacco e la quasi eliminazione di una nota spia la cui attività era costata la vita a numerosi patrioti; l’azione contro un ritrovo fascista, in via Delfico; il recupero di armi in casa di un noto fascista, sulla strada di Novate Milanese; il disarmo di diversi fascisti della X Mas.
Le azioni incessanti dei gappisti agevolano le agitazioni degli operai. In questo clima, il 28 marzo, scendono in sciopero i lavoratori di oltre cento fabbriche milanesi. La parola d’ordine è “Basta con la guerra, via i tedeschi, morte ai fascisti”.
I comandanti delle brigate nere, della Muti e dei reparti tedeschi schierano davanti alle fabbriche militi, soldati, SS. Gli operai non li temono più. Numerosi comizi e manifestazioni vengono organizzati nonostante le repressioni, le minacce, gli arresti. E mentre gli operai manifestano, i partigiani della 3ª GAP e le squadre SAP attaccano: industriali collaborazionisti, spie, militi, repubblichini, soldati e ufficiali tedeschi, seviziatori delle SS vengono abbattuti in pieno giorno per le strade, nelle loro case, davanti alle caserme. E le caserme stesse vengono attaccate con rapide azioni di squadre di due o tre uomini. Gli spari delle pistole e lo schianto delle bombe preannunciano la fine della tirannia.
In una delle ultime azioni cade Giancarlo, un gappista giovanissimo.
Giancarlo, minuto, magro, dall’aspetto insignificante, lento nell’esprimersi era molto astuto, pieno di sensibilità e di coraggio. Giancarlo e Mantovani avevano attaccato in pieno giorno la caserma di via Cadamosto tirando bombe e sparando raffiche di sten contro i briganti neri che stavano davanti alla porta, dietro sacchetti di sabbia. Continuano a sparare anche quando i fascisti reagiscono; bloccano col fuoco chi tenta di uscire, o si affaccia alla finestra. Poi i due ragazzi tentano la fuga in bicicletta. Mantovani si allontana. A Giancarlo si rompe la catena. Circondato continua a sparare fino a quando è colpito. Cade a terra e con lo sten costringe ancora gli inseguitori a rifugiarsi nei portoni; si rialza, riprende a correre; si lascia di nuovo cadere a terra, fingendosi morto. Nelle mani stringe una sip, a cui ha già tolto la sicura. Quando il gruppo dei fascisti gli è vicino lancia la bomba. Catturato, pochi minuti dopo, portato in caserma, gli promettono di salvarlo se rivela dei nomi. «Se non parli, non rivedrai più la tua famiglia».
Dopo tre ore di interrogatorio e di torture, Giancarlo viene portato fuori, appoggiato al muro di fronte alla caserma. Mentre i briganti neri puntano il fucile, Giancarlo grida: «Viva i partigiani! Compagni andate avanti».
Sembrano frasi ricostruite dalla leggenda. Invece Giancarlo è proprio morto così. Lo abbiamo saputo dai medesimi briganti neri che lo hanno ucciso quando, poche ore dopo, abbiamo dato l’assalto alla caserma di via Cadamosto e i responsabili della fucilazione di Giancarlo, prima di morire, ci hanno restituito la statura ideale del nostro compagno.
L’insurrezione è nell’aria: le strade sono affollate; fascisti e tedeschi circolano a bordo di mezzi blindati, i loro visi tesi. “Arrendersi o perire”, ammonisce l’ultimo manifesto. Non c’è scampo per chi non butta subito le armi.
È il 24, il giorno in cui si spara. Non sono più piccole squadre di GAP ad attaccare. Gruppi di cittadini armati si scontrano con il nemico in veri e propri combattimenti.
All’Arcivescovado si svolgono trattative, i fascisti chiedono “garanzie”, una resa condizionata. La città è un fermento: a Niguarda una squadra di GAP e di SAP dà l’assalto ad una caserma di repubblichini.
Nel pomeriggio del 24, all’ingresso dell’abitato di Niguarda, da un camion tedesco partono raffiche di mitra: alcuni proiettili colpiscono mortalmente la compagna Gina Bianchi, staffetta del comando regionale.
La sera mi incontro con Busetto, comandante dei SAP. Mi dice che l’ora dell’insurrezione è vicina. Mobilito tutte le staffette e trasmetto a mia volta l’ordine a tutti gli uomini della 3ª GAP: «pronti per l’insurrezione. I fascisti e i tedeschi che non si arrendono devono essere colpiti».
Trascorro alcune ore su una sedia a sdraio in un appartamento di via Macedonio Melloni, sede del comando della 3ª GAP.
Di tanto in tanto mi alzo e spio dalla finestra la strada. C’è del movimento. Fascisti che fuggono o fascisti che si preparano a difendersi? Verso il mattino mi addormento. Mi sveglia il trillo del telefono, all’alba. È Vergani. Pronuncia le parole che aspetto ormai da tanto tempo. Il momento è giunto. Tutte le pene, i lutti, le persecuzioni stanno per finire. Mi pare impossibile. Non avrei mai immaginato di ascoltare al telefono quelle parole dalla voce di Vergani: «La città insorge, agisci con la tua brigata secondo il piano stabilito». Forse mi ero sempre figurato che le parole fossero gridate da un altoparlante alle folle sulle piazze.
Milano, 25 aprile 1945
Scendo in strada. È il 25 aprile. C’è gente. Ci sono operai armati, squadre di giovani che corrono verso le caserme abbandonate nella notte dai fascisti. Vogliono anch’essi, questi ragazzi, impugnare un’arma. Il nemico non è ovunque battuto: asserragliato nei fortilizi e nei punti strategici, tenta la fuga su mezzi corazzati.
Dalla Casa dello Studente, in viale Romagna, sparano. Alcuni giovani tentano di snidarli. Trecento metri più avanti, in piazza Piola, squadre di operai armati hanno occupato la Olap, la loro fabbrica, e sono pronti a difenderla dalla distruzione. Finalmente mi sento in un mondo pieno, completo, vivo. Io che per mesi senza fine ho lottato con piccoli gruppi di tenaci patrioti; io che per mesi mi sono mosso come un’ombra, isolato, senza contatti se non quelli (tanto rari e fuggevoli da sembrare irreali) con esponenti del comando regionale, con le staffette o con pochi altri compagni della brigata; io, in mezzo a tutta questa gente, a questi operai, a questi giovani, a queste donne mi sento come immerso in un grande mare di affetto. Fino a ieri ho camminato nelle strade di questa grande città considerando i passanti potenziali nemici, dubitando di tutti, sospettando di ognuno. Oggi, confuso in questa folla amica, è come se uscissi da un incubo. […]
È un grande giorno. È il grande giorno.
C’è tutta la città che corre che grida, che risorge. Per ore e ore le squadre dei GAP e dei SAP, degli operai, dei giovani, in attesa delle formazioni di montagna in marcia verso Milano, corrono da un quartiere all’altro per eliminare un nido di resistenza fascista, per arrestare un gerarca, per costringere alla resa un reparto tedesco.
Quarantotto ore prima eravamo pochi, ora siamo folla. Però, dietro di noi a sorreggerci, ad aiutarci, a nasconderci, a sfamarci, a informarci, c’è sempre stata questa massa di popolo che ora corre per le strade, si abbraccia e ci abbraccia, e grida: “Viva i partigiani”.
(Tratto dal libro di Giovanni Pesce «Senza tregua – La guerra dei Gap», Editore Feltrinelli, 1973)

Valerio Tosi e la battaglia di Riva del Garda

Valerio Tosi e la battaglia di Riva del Garda
I. B.
Classe 1928. La Brigata “Cesare Battisti”. L’assassinio dei suoi compagni di scuola. La conquista di Riva. La Liberazione e i partigiani-operai dell’officina X Fiat. Fra Italia e Norvegia, a occuparsi di reattori e acqua pesante
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Valerio Tosi di fronte alla foto della brigata “E. Impera”, dopo la liberazione di Riva. Il giovane Valerio è il ragazzo col maglione bianco
16 dicembre 2014, Valerio Tosi è a Padova per il funerale del fratello Giorgio. Pronuncia poche parole: del fratello rammentava su tutto un abbraccio – quello scambiato a liberazione di Riva e di Giorgio avvenute – improvviso, inaspettato, col mitra ancora al collo, a intralciare l’affetto di due fratelli ritrovati, sopravvissuti alla guerra.
Infanzia e adolescenza – Valerio Tosi nasce a Rimini il 5 ottobre del 1928, secondo di quattro fratelli: Giorgio (classe 1925), Gabriella e Franca.
Il padre, guardia forestale militarizzata durante la guerra, si sposta molto per lavoro, fino a giungere, con la moglie Carla Casalotti e i primi tre figli, a Riva del Garda nel 1938. Lì, pochi anni dopo, Valerio si iscrive – come suo fratello – al Maffei, dove – come scrive Giorgio Tosi nel suo Zum Tode – «i giovani del “Littorio” entrati balilla al ginnasio si trovarono presto al liceo, adolescenti e avanguardisti ma con la divisa che urticava, la mente arrovellata, l’animo turbato» (1); furono alcuni dei loro professori a «svegliare dal letargo» i ragazzi: Leonardi, Gori e Franchetti.
Al professor Gori, insegnante di lettere, «bastava una terzina di Dante ad accendere gli animi contro il tiranno, rivelando all’insegnante sgomento e felice che i suoi alunni si stavano trasformando anche per suo merito in apprendisti uomini, insofferenti al regime, pronti a ribellarsi»; Gastone Franchetti (leva 1920), invece «aveva un fisico atletico, perfetto, da statua greca. Era spavaldo e tenero, rude e generoso, incolto e irrequieto. Fascista, volontario in guerra, alpino e valoroso soldato, torna a Riva con un alone di leggenda per le sue imprese in battaglia», (2) insegna educazione fisica.
Gli studenti sono affascinati da questi loro professori, così diversi e complementari, che si conoscono e simpatizzano in breve.
Da “Figli della Montagna” a “Fiamme Verdi”: la brigata “Cesare Battisti” – Molto prima dell’armistizio, Franchetti prende una posizione netta sul regime e – sicuro ormai di poter contare sulla loro fiducia – la palesa ai suoi ragazzi, inventandosi anche i “Figli della Montagna”, un’associazione che accompagnò la «delicata trasformazione dei giovani studenti da fascisti ciechi a fascisti critici, e infine ad antifascisti» (3).

Alcuni dei compagni più stretti di Valerio e suo fratello, in quel periodo, erano Eugenio e Romana Impera, Enrico Meroni, Renato Ballardini, Giulio Poli e Luciano Baroni.
Nell’ottobre ‘43 i “Figli della Montagna” si trasformano nelle “Fiamme Verdi”-Brigata “Cesare Battisti”, vero e proprio movimento clandestino di Resistenza, Franchetti assume il nome di battaglia di “Ettore Fieramosca” e altri uomini entrano nell’organizzazione, tra cui il comunista Dante Dassatti (“Dario”) e il padre dei Tosi, Alessandro.
Si stabiliscono contatti coi gruppi partigiani lombardi e veneti, col CLN milanese; si stringono poi i nodi di una rete che – nei comuni limitrofi – collega i resistenti di Riva al movimento operaio, al PCI, al PSI, ai gruppi di GL.
L’eccidio del 28 giugno 1944 – Purtroppo però nemmeno la presenza prudente e guardinga di Dassatti riuscì a scongiurare l’infiltrarsi, nella brigata, di una spia. Fiore Lutterotti, amico di Franchetti, gli si presenta nell’aprile del ’44, asserendo di essersi arruolato nelle SS per salvarsi la vita dopo l’8 settembre (che lo aveva colto in Germania) ma di essere un amico dei “ribelli”, capace – con la sua tessera delle “teste di morto” – di farli passare dappertutto, anche armati.
Franchetti gli crede, l’inganno riesce e porta – nel giugno del ‘44 – alla cattura e alla morte di decine di persone.
La politica del gauleiter Hofer per il Trentino era stata, dopo l’armistizio, particolarmente morbida e tollerante con i civili, la contropartita però era l’obbedienza assoluta e l’assenza totale di focolai di Resistenza in un Trentino strategico, per cui passava la linea del Brennero, vitale per la Wehrmacht.

Per questo era necessario stroncare sul nascere ogni organizzazione clandestina avversa al nazi-fascismo.
All’alba del 28 giugno 1944 a Riva e nei comuni vicini, reparti della polizia di sicurezza e del battaglione Bozen, guidati dalle SS, trucidarono 11 partigiani e ne arrestarono a decine.
Vengono arrestati, tra gli altri, Gastone Franchetti e Giorgio Tosi.
Viene freddato, sorpreso e assonnato nella stanza da letto, il diciannovenne Eugenio Impera; viene torturato e ucciso nella sede della Feldgendarmerie di Riva il coetaneo Enrico Meroni. A molti altri venne riservata la stessa sorte.
Franchetti verrà torturato e infine fucilato per rappresaglia il 29 agosto del 1944 a Bolzano.
I fratelli Valerio e Giorgio Tosi sono sorpresi mentre dormono. Prelevano soltanto Giorgio (che finirà in carcere prima a Trento, poi Bolzano e Silandro), cosicché Valerio – allora sedicenne – può correre subito dopo ad avvisare le famiglie di altri due compagni, che così si mettono in salvo.
Restano pertanto, nella casa dei Tosi, soltanto le donne: la nonna Cecilia, la madre Carla e le due sorelline Franca e Gabriella; il padre era già stato incarcerato per la soffiata di un suo milite che lo accusava di reperire materiale per i partigiani.
La battaglia di Riva e la Liberazione – Tra l’autunno 1943 e il giugno 1944 le gallerie della Gardesana Occidentale erano state trasformate in un impianto di produzione bellica.
La brigata “Cesare Battisti”, distrutta con l’eccidio del giugno ’44, rinacque nel nome di uno dei suoi caduti: “Eugenio Impera”, ora brigata garibaldina guidata dal comunista “Dario”. Valerio ne è membro ed è inviato al tornio dell’officina X della Fiat, in una delle gallerie della Gardesana. Si tratta di un’officina “particolare”, gestita in pratica da operai partigiani: le macchine si inceppavano, pochissimi pezzi uscivano di lì e il boicottaggio era ben camuffato.
Riva, nei giorni convulsi dell’aprile 1945, fu liberata, occupata, nuovamente liberata.
Il 25 aprile comincia la ritirata di massa delle truppe tedesche dall’Italia, ma i nazisti difendono Riva ad oltranza; il Comando partigiano decide di sferrare l’azione decisiva nelle primo pomeriggio del 28 aprile.
I tedeschi, però, ricattano i garibaldini minacciando di scaricare le loro batterie sulla città: Dario decide che è una posta troppo alta e si ritira coi suoi alle periferie di Riva. Da Salò giungono, di rinforzo ai tedeschi, i repubblichini.
Durante la battaglia per la liberazione di Riva, Valerio Tosi si trovava in piazzetta Marocco (nel centro storico del paese) e lì vide transitare, marziali, i partigiani-operai dell’officina X Fiat, anch’essi ora agli ordini di Dario. Poco dopo, in uno scontro in via Montanara, cadeva uno di loro, Cesare Maffiodo operaio di 22 anni. Poco distante, vicino a via Fiume, cadono Alvaro Bellettati, un altro operaio di 25 anni, e Andrea Berlanda.
Le forze partigiane arretrano verso Deva, Pranzo e Tenno, da dove si può comunque sbarrare la ritirata ai tedeschi.
Intanto dalle pendici del monte Baldo avanzano gli alleati; la mattina del 30 aprile il battaglione partigiano libererà, da solo, definitivamente Riva. Un’ora dopo circa arrivano le prime pattuglie canadesi.
Valerio, assieme a Ervino Betta (il cui padre era stato ucciso dalle SS il 28 giugno ’44), deve andare a prendere il gauleiter di Riva, Kuhne, scortato incolume fino al Comando partigiano.
Ai partigiani viene concesso di restare armati in città per circa un mese, è per questo che il mitra di Valerio si mette di traverso nell’abbracciare il fratello Giorgio, che il 3 maggio aveva ottenuto il lasciapassare per uscire dal carcere di Silandro e tornare finalmente a casa.

E dopo? – Valerio si laurea in fisica a Roma, si specializza in fisica nucleare e diviene assistente di Amaldi, ma guadagna troppo poco, così tenta di lavorare nell’industria.
Si presenta alla Bombrini Parodi Delfini, il colloquio va bene, le proposte sono per ruoli dirigenziali, ma alla fine gli chiedono di avere le carte militari. Al secondo colloquio Valerio si sente dire che, data la sua qualifica di partigiano combattente nella brigata Garibaldi “Eugenio Impera”, non potrà avere il posto. Erano gli anni di Scelba.
Fortunatamente, grazie all’Euratom, Valerio può partire per la Norvegia, un po’ amareggiato – però – dato che la Patria per la cui libertà aveva combattuto non lo accettava proprio per il suo passato partigiano.
Dopo sette anni rientrerà in Italia, dove lavorerà per il CNEN (poi ENEA) per mettere in piedi il CIRENE, il reattore di concezione italiana.
Riceve la croce di guerra al valor militare.
Valerio Tosi in piazzetta Marocco, teatro di feroci scontri durante la battaglia di Riva
Nell’84 si riapre la possibilità di tornare in Norvegia, sempre con un contratto ENEA, così Valerio arriva ad Halden, a occuparsi di “acqua pesante”, che in Norvegia si produceva anche durante la guerra, quando i tedeschi tentarono di appropriarsene, fermati dai partigiani norvegesi grazie ad una mirabolante azione.
Nel frattempo incontra e sposa Unni.
Tornano spesso, però, in Italia, a Riva. L’8 luglio 2015 Valerio ha raccontato di nuovo la sua straordinaria storia sulle sponde del lago di Tenno.
Giorgio Tosi, Zum Tode – a morte, Ibisk

La Banda Carità – Il laboratorio dell’umiliazione di Amleto Sartori

Il laboratorio dell’umiliazione di Amleto Sartori

Sono stato arrestato due volte. La prima volta verso il 12 febbraio 1945 circa alle 10 del mattino. Mi trovavo nella canonica della Chiesa di S. Prosdocimo dove avevo un appuntamento col parroco don Antonio Varotto per metterei d’accordo circa un lancio di manifestini e la fabbricazione di documenti per i partigiani indiziati. C’erano con me, oltre al parroco, il partigiano Fernando Cardellin (Giga), il capo partigiano di Solesino e il capo partigiano Marcello Olivi (Ronco). Ad un tratto fummo avvertiti che la casa era circondata dalle SS. Non facemmo in tempo a muoverci. Subito dopo, attraverso la vetrata opaca della stanza, riconobbi la nota figura del tenente Trentanove. Lui e altri due o tre figuri irruppero nella stanza e ci portarono fuori dividendoci l’uno dall’altro. Dopo un sommario accertamento dei documenti, gli altri furono rilasciati e io portato a Palazzo Giusti: ebbi uno stringato interrogatorio circa le ragioni per le quali ero in contatto con il parroco. Fui accusato e minacciato violentemente dal Corradeschi, da Mario Chiarotto e dal Trentanove. Negai ogni addebito e addussi la giustificazione di certi lavori di scultura che avevo in corso per la chiesa. Non venni battuto. Alla sera fui rilasciato. li secondo arresto avvenne a circa un mese di distanza dal primo. Mi trovavo nell’atrio dell’Istituto d’Arte «Pietro Selvatico », dove insegno, circa alle nove e mezzo del mattino. Senza farsi notare, entrò un uomo con un giaccone di cuoio che mi sembrava aver visto altrove. Si trattava del Cecchi; quando lo riconobbi, il custode mi aveva già indicato a lui. Fui dal Cecchi pregato di seguirlo, perché, disse, « il maggiore Carità ha bisogno di qualche informazione da voi ». Ebbi appena il tempo di raccogliere il soprabito e di avvertire un amico perché fosse dato l’allarme. Andammo a Palazzo Giusti a piedi Dopo circa un’ora e mezza di attesa fui introdotto in una stanza (l’ultima a destra entrando nel salone dallo scalone), dove il tenente Trentanove sedeva alla scrivania parlando animatamente con un tipaccio che seppi poi essere lo Squilloni. Vi erano anche altre persone. Il Trentanove mi riconobbe subito e mi ricordò l’aria offesa che avevo assunto al mio primo arresto, protestando la mia innocenza. lo Squilloni ‘ si fregava le mani e beveva gran sorsate di grappa da una bottiglia. L’interrogatorio cominciò con una cortesia esagerata e quindi sospetta. Ad un tratto, per effetto delle mie continue negazioni, lo Squilloni s’infuriò; trasse dal cassetto una tavoletta di legno e mi chiese se la riconoscevo (si trattava di una xilografia rappresentante un asinello con un carrettino carico di sigarette che era stata fatta per beffeggiare le autorità ricordando il trafugamento di quattro quintali di sigarette per i nostri partigiani come strenna natalizia; il legno era stato trovato in tasca di Renato il giorno in cui era venuto a morte per mano loro). Lo Squilioni ribatté alla mia negazione battendomela più volte violentemente sulla testa. lo reagii urtandolo. Fui preso alle spalle da qualcuno e tenuto fermo affinché lo Squilloni potesse picchiarmi coi pugni sulla bocca e sul naso, e coi gomiti sul ventre. Quando dio volle lo Squilloni fu chiamato in un’altra stanza. Restai senza fiato e tramortito. Ricordo vagamente che qualcuno rideva di me e del sangue che mi usciva di bocca. Poco dopo fui portato nell’ufficio del maggiore Carità. Vi erano presenti molte persone, tra le quali ricordo il medico Pugliese, il Chiarotto e un colonnello dell’aviazione in divisa con il rombo rosso di squadrista. lo Squilloru mi illustrò come l’incisore della copertina del Pinocchio e di tutte le vignette apparse sui giornali clandestini, dicendo di avere assolto il suo mandato e mantenuta la sua promessa individuandomi e arrestandomi. Mentre Squilloni parlava, fui perquisito e spogliato di quanto possedevo; mi si lasciò solo il fazzoletto inzuppato di sangue.

Il maggiore Carità ringraziò lo Squilloni e cominciò a dire di essere ormai in possesso di tutte le prove contro di me e di poter disporre della mia vita come voleva e che mi conveniva parlare se volevo salvare la pelle. Ebbi offese di tutti i generi. io negavo. Il colonnello durante un attimo di tregua aggiunse: «Carità è troppo buono, ma io ti porto via con me e ti faccio impiccare ad un albero della mia caserma». L’interrogatorio si protrasse per più di due ore. Fui poi portato al piano superiore in una sala dove c’era un caminetto e li rimasi da solo, sorvegliato da un aguzzino che seppi poi chiamarsi Marzotto. Questo tristo figuro, probabilmente per indurmi a fare delle delazioni, ebbe l’animo di raccontarmi quello che avrebbe fatto di me se non aderivo alle richieste del maggiore, raccontandomi dei mezzi che erano a loro disposizione. Mi sentii sollevato quando vidi apparire col pentolone della broda l’amico Zanocco. Scambiai due parole con lui, di nascosto, mi misi d’accordo su certi punti in caso di confronti personali. Rividi Zanocco a sera con l’altro pasto e gli parlai ancora. Durante tutto il giorno fino al cambio dei secondini ebbi il Marzotto alle costole, poi l’Accomanni. Verso le undici di notte fui chiamato dal Carità. Ebbi da lui ancora minacce e dovetti rispondere a molte domande. Quando il Carità se ne andò, rimasi con lo Squilloni ubriaco. Erano presenti il Cecchi, Mario Chiarotto e altri che non ricordo. Fui nuovamente accusato. Negai. Questo infuriò lo Squilloni che si levò l’orologio da polso, il soprabito e la giacca e mi picchiò alla cieca fino a perdere il fiato e a mostrarmi compiangendosi le mani gonfie e arrossate. io temendo di essere tacciato di vigliacco e di irritarlo gridando, non mi lamentavo. Questo lo irritava ancor più. Per battermi non adoperò più le mani e riprese la tavoletta di legno, che era il massimo capo d’accusa, il calcio di una pistola e la guaina di un pugnale che era sul tavolo. Smise di battermi quando fu chiamato al telefono dal maggiore Carità che gli chiedeva a quale punto fosse arrivata la conversazione. Lui rispose che con le buone maniere mi aveva quasi « convinto ». Avevo la testa in fiamme e doloravo dappertutto. Mi lasciò dichiarandomi fortunato perché aveva una cosa più importante da fare, altrimenti mi avrebbe scavato tutto quella sera. Il Cecchi e il Chiarotto non fecero parola durante tutto l’interrogatorio. Da come mi trattarono, credo che ispirassi loro pietà. Passai la notte nella sala del caminetto su una seggiola, col solo guardiano. Mancavano i vetri alle finestre; il freddo, le umiliazioni e le botte mi provocarono una gran febbre; avevo forti brividi alla schiena, la testa era infiammata. Il mattino seguente lo Squilloni mi fece ancora chiamare. Ebbi altri colpi. Alla sera lo stesso. Il bastonatore era furibondo. All’interrogatorio del mattino aveva assistito anche una signorina bionda che seppi poi essere la figlia maggiore di Carità. Ricordo che essa rise di gusto vedendo la mia faccia pesta con la bocca gonfia e storta. Alla sera, questa stessa, probabilmente accecata da qualcosa che ignoro o per pura malvagità, mi si avvicinò e dandomi due schiaffi mi disse: «Che non si riesca a vedere umiliato questo delinquente! ». Ricordo che per l’umiliazione, il male che sentivo dappertutto e specialmente per l’alito odorante di grappa dello Squilloni, quella sera svenni due volte. . Dopo l’interrogatorio fui portato nuovamente al piano superiore, dove poco più tardi mi alloggiarono in una cella già abitata da sette od otto persone. Ricordo che mi si aperse il cuore quando vidi il professor Zamboni. Nella mia ingenuità gli ricordai che lo conoscevo e che l’avevo visto parecchie volte dal tipografo Zanocco. » Per carità! – esclamò lo non sono mai stato da Zanocco, non lo conosco neppure ». Capii che avevo fatto male e che un eventuale delatore o un compagno debole avrebbe potuto rovinarci. Zamboni era, credo, il più anziano ospite di Palazzo Giusti e la sua esperienza era tale che i consigli che ebbi da lui mi furono di molto conforto e aiuto. Con noi nella cella vi erano: don Giovanni Apolloni, il signor Faccio di Vicenza, il dottor Miraglia e altri di cui mi sfugge il nome. Nella cella accanto c’era, assieme a molti altri, il professar Meneghetti: per mezzo di Zanocco, ci accordammo di non conoscerci. Con i miei buoni compagni di cella passai tre giorni durante i quali ebbi altri due o tre interrogatori: uno con lo Squilloni che mi somministrò qualche altro schiaffo, gli altri col maggiore Carità, presente il tenente Trentanove che con le sue pretese esperienze artistiche era il mio maggiore accusatore. In quei giorni ebbi forti malesseri e febbri. Alla mattina del terzo giorno di cella, chiesi visita e il dottor Pugliese decise di farmi ricoverare in ospedale dicendo che li sarei stato un po’ tranquillo perché altrimenti il Carità e lo Squilloni mi avrebbero « accoppato ». Nel pomeriggio mi trasferirono. In infermeria trovai il professar Cestari che aveva appena superato una pleurite traumatica contratta in seguito ai colpi avuti, il signor Avossa, il dottor Sotti ancora sofferente di commozione cerebrale per i colpi ricevuti, l’ingegner Casilli di Venezia. Dopo un giorno o due vi fu portato anche un partigiano con una gamba ingessata, che noi chiamavamo Mario, e don Luigi Panarono, parroco di Nove di Bassano, con costole rotte e il viso e il corpo pieni di lividure. In quei giorni fui lasciato tranquillo. Alle ansie, ai batticuori, ai tormenti morali e fisici si deve aggiungere una sera di spavento terribile. Si tratta dell’ultimo bombardamento notturno di Padova. Di solito, al segnale d’allarme, i detenuti venivano portati al piano terra e guardati a vista. Quella sera, subito dopo il segnale d’allarme, si udirono sopra la città i ronzii degli apparecchi. Le guardie con i detenuti pronti si recarono come al solito al piano terra. Noi dell’infermeria eravamo tutti a letto e ci mancò il tempo di vestirci che già trovammo le porte chiuse. Dovemmo rimanere dov’eravamo, col solo soffitto che ci proteggeva, all’ultimo piano e in zona relativamente vicina alla stazione di San Sona. Udimmo le prime bombe cadere lontano e sentimmo il palazzo tremare. Alla prima scarica, ne fecero seguito parecchie altre sempre più vicine. Sentivamo i sibili delle bombe e degli spezzoni sopra la testa. Dalla finestra aperta sul giardino vedevamo gli scoppi e le colonne di fumo levarsi. Entravano vampate d’aria calda. La casa ballava sotto i piedi. A meno di duecento metri da noi un edificio bruciava. I nostri aguzzini erano al sicuro in un trincerone che i nostri compagni avevano scavato nel cortile. Dopo circa dieci giorni, fui chiamato ancora una volta per essere interrogato. Mi interrogò il Corradeschi. Lui compilò anche un verbale. Fu chiamato per la perizia della xilografia il professar Francesco Canevacci, direttore dell’Istituto d’Arte «Pietro Selvatico »: risultò negativa (almeno per loro). Fui rilasciato nelle prime ore del pomeriggio dopo aver firmato una dichiarazione che imponeva il silenzio su quanto avevo visto e sentito a Palazzo Giusti.

Dalla Testimonianza per il processo alla banda Carità.

Tratto da

RITORNO A PALAZZO GIUSTI

TESTIMONIANZE DEI PRIGIONIERI DI CARITÀ A PADOVA (1944-45)

A cura di Taina Dogo Baricolo

La Nuova Italia Firenze

Edizione 1972

La Banda Carità – Una grande esperienza umana di Francesco De Vivo

Una grande esperienza umana di Francesco De Vivo
Quasi fotogrammi di una pellicola qua e là interrotta, qua e là sbiadita, riaffiorano alla mente nostra i ricordi, mentre tra l’una immagine e l’altra si creano vuoti incolmabili. Ma le immagini, pur isolate, rimangono vive perché ognuna di esse si identifica con una espressione dell’uomo: dell’uomo che ama, che soffre, che odia, che prega; di chi provoca in altri il dolore e di chi con tutte le forze sue mira a lenirlo … Immagini forse insignificanti a chi – non avendo vissuto la nostra esperienza – non può né potrà mai capire ciò che quella esperienza, profondamente umana, ha rappresentato per ciascuno di noi. Ma certo non insignificanti per noi, se solo per un istante facciamo rivivere nel nostro cuore (ancor piu che nella nostra mente) l’espressione di un volto, la parola appena sussurrata, la fugace stretta di mano … Perché di questo, soprattutto, ho parlato e parlo oggi ai miei figli: della grande scoperta dell’umanità che Palazzo Giusti mi ha permesso di fare. Al consorzio umano, pur nella belluinità dell’atto, appartenevano gli aguzzini che dimentichi del valore dell’uomo – percuotevano i propri simili sino a romper loro le ossa, irridendo al loro dolore (a quello della carne e a quello dello spirito), e maggiormente infierivano quanto maggiore era la resistenza. Come dimenticare l’estenuante attesa dell’interrogatorio, mentre dall’altra parte di qualcuna delle porte che davano sul « salone» giungevano le imprecazioni di chi interrogava e le grida soffocate di chi non si piegava? Come dimenticare la mano che pietosa bagnava il viso tumefatto di chi a mala pena tentava di aprire gli occhi lassù, nella «stanza del caminetto,. – cercando, dopo l’interrogatorio, un volto amico? E come descrivere il tormento della solitudine … Chi è costretto a vivere, giorno dopo giorno, solo con se stesso in una cella, sente quasi come una liberazione, quasi come un premio l’essere trasferito in una cella diversa, ove poter parlare con qualcuno … A questo punto mi rivedo fuori da una delle celle della nave, e portato in una delle … stanze della soffitta. Durante il trasferimento, ecco la «disumana,. impressione provocata in me dalla visione della « poltrona» riservata, nello stretto corridoio della « nave », a Sebastiano Giacomelli. Eccomi poi nella nuova", dimora »: c’è un posto libero, la branda accanto a don Giovanni Apolloni. Come dimenticare questa bella figura di uomo e di sacerdote, che ha saputo ridarmi fiducia nella vita anche nei momenti in cui pareva che tutto stesse crollando intorno? Sulla branda di fronte, proprio nell’angolo, ecco Adolfo Zambeni: era lui che mi faceva leggere qualche canto della Commedia, e poi, per la mia tendenza a cercare « la rifinitura della frase nella spiegazione », mi aveva definito il « retoricuzzo »! E Griso che, scherzando sul proprio cognome, rifaceva la scena del sogno di don Rodrigo? E spesso, ripetendo una frase di Churchill, esclamava: « Dateci le armi, e noi provvederemo alla bisogna! ». Le armi … oh, quel povero illuso, fanatico di BeneIli (uno dei carcerieri). Costui, più volte, come saluto serale, veniva sulla porta a dirci che « l’arma segreta dei tedeschi lui l’aveva vista passare per le vie di Padova; ed era lunga dal Prato della Valle all’angolo del Gallo». La sera: quando maggiore in tutti era un senso di malinconia, ecco – lungo il corridoio – un passo a noi noto. Era quello di Faccio, che si recava ai… servizi. E passando davanti alla porta della nostra stanza, faceva sentire la sua voce: « Don Giovanni, Iddio non paga il sabato! ». E don Giovanni, di rimando: «Ma quando el paga, el paga salàto. « E presto! », era la chiusa del breve dialogo da parte di Faccio. Ed ogni scusa era buona per rubare un po’ d’aria. «Chi viene a far pulizia in cortile? ». Vi ricordate, cari amici Filato, Agostini, Zancan, con quanta cura. raccoglievamo le foglie cadute dalle grandi magnolie del cortile del Palazzo? L’otto aprile: mentre si avvicinava la nostra «resurrezione alla libertà », ecco la celebrazione della Resurrezione del Cristo: lo conservo ancora il santino·ricordo donato a tutti noi da don Giovanni. Il volto del Cristo dolente sintetizzava la passione nostra, e soprattutto il sacrificio di coloro che non avrebbero goduto con noi il momento della riconquistata libertà. Un inno alla libertà fu l’abbraccio nel grande salone prima di lasciare, il 27 aprile, la nostra prigione: in quell’abbraccio, ancor oggi, a distanza di tanti anni, ci riconosciamo fratelli … Tutto qui? Si: piccoli momenti di una grande, irripetibile esperienza.

Tratto da

RITORNO A PALAZZO GIUSTI
TESTIMONIANZE DEI PRIGIONIERI DI CARITÀ A PADOVA (1944-45)
A cura di Taina Dogo Baricolo
La Nuova Italia Firenze
Edizione 1972

La Banda Carità – Le nostre donne – Giordano Campagnolo

Le nostre donne di Giordano Campagnolo
Le staffette partigiane, queste capaci, silenziose, ubbidienti nostre collaboratrici, hanno dovuto anche loro pagare lo scotto per conquistare la libertà, passando parecchio tempo nelle celle di Palazzo Giusti, ospiti di Carità e della sua banda criminale. Anche a loro furono inflitte torture, frustate, sevizie di . ogni genere. Ed è con quell’amaro ricordo che qui voglio rammentare qualcuna delle molte che furono nostre compagne di galera. A riprova della volontà popolare di lottare contro la tirannia, è significativo notare che le donne imprigionate rappresentavano, e ben degnamente -direi, tutti i ceti sociali, e se in maggioranza erano laureate, studentesse, professioniste ecc., ciò era dovuto al fatto che Palazzo Giusti era la prigione riservata ai più compromessi nella lotta partigiana, in quanto gli elementi che componevano la banda Carità erano al diretto servizio del Reparto investigativo delle SS in Italia. Vi erano infatti rinchiusi: il CLN regionale veneto al completo, gran parte dei CLN provinciali di Venezia, Padova, Vicenza e Rovigo, nonché membri dei vari comandi militari provinciali. In più vi erano ex deputati, professori universitari, medici, sacerdoti, ingegneri, avvocati, ragionieri, commercianti, artigiani, operai ecc. Insomma tutte le classi sociali erano qui rappresentate. Sarebbe bello poter ricordare tutte, una per una, le nostre partigiane, e chiedo scusa alle ~ non citate, che sanno però di essere sempre vive nel mio cuore e nel mio pensiero.

Le care e simpatiche Berion, sempre sorridenti e fiduciose malgrado la batosta subita (tutta la famiglia incarcerala e i loro beni sequestrati e divisi tra i repubblichini). Taina Baricolo che scendeva lo scalone con « un incedere da regina» (è di mia sorella il paragone), e che a me invece dava l’impressione di una moderna monna Lisa. Ciò non toglie che molti di noi devono molto al suo atteggiamento che infondeva fiducia e coraggio a chi aveva la fortuna di vederla e a coloro che ne avevano sentito elogiare il comportamento. La cara Maria Fiorotto sempre in pena per il suo professar Palmieri e che mi ossessionava con l’insistente richiesta di sue notizie. E Maria Lana, anche lei in pensiero per Quartesan. Erminia Gecchele di Zanè (Vicenza), cosi crudelmente torturata da ispirare a Egidio Meneghetti .. La partigiana nuda»; chiunque nel rileggere questa poesia rivede il dramma che si svolge e sente un nodo stringere la gola. In quei versi si mescolano pietà e fierezza insieme: essi sono il più alto omaggio della Scienza e della Cultura al coraggio della povera operaia. Ida D’Este, veneziana, torturata, spogliata, frustata a sangue e schernita da cinque ceffi toscani, alla quale però la fede . non venne mai meno, e che con l’alterigia di una dogaressa rispondeva alle parolacce rivoltele: .. Anche cosi, mi sento come la Madonna …Ed essi non osarono oltre! Ultime, ricordo Nella Bordin, sempre con i capelli alla Cleopatra, con la frangetta, cosi carina e composta pur nel dolore comune e nelle privazioni; Elvia Maria Levi, consapevole che, a causa del suo nome e per l’attività svolta, il destino non le sarebbe stato benigno; invece il caso volle che potessimo tornare vivi dal campo di concentramento di Bolzano (ora essa dedica la sua scienza alla cura dei minorati psichici); Albertina Caveggion, vicentina, cresciuta (si fa per dire) alla nostra scuola. Una bambina sembrava, tanto che gli sgherri di Carità non le davano peso. Quanto si ingannavano! Sotto quei lineamenti minuti si nascondeva una volontà di ferro e una decisione irrevocabile per la causa cui si era votata. Tutte, comunque, malgrado la fame e le torture subite, si comportarono magnificamente. Sono degne di essere menzionate e noi siamo fieri di quelle che con rispettoso affetto abbiamo sempre chiamato ~ le nostre donne », «le nostre sorelle ».

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RITORNO A PALAZZO GIUSTI
TESTIMONIANZE DEI PRIGIONIERI DI CARITÀ A PADOVA (1944-45)
A cura di Taina Dogo Baricolo
La Nuova Italia Firenze
Edizione 1972