Archivio mensile:agosto 2016

I Lager Tedeschi – Chelmno

Chelmno

Costituzione: 8 dicembre 1941
Ubicazione: fra Poznan e Varsavia

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Realizzato nelle vicinanze del villaggio di Chelmno nad Nerem, ribattezzato dai nazisti in Kulmhof, il Lager è stato uno dei luoghi principali nei quali si perpetrò il genocidio degli ebrei. Un castello, che si trovava nella vicinanza del villaggio, servì come epicentro della barbara iniziativa. Intorno a questo castello (Das Schloss) sorsero, negli immensi boschi che lo circondavano, le baracche del campo ed ivi furono sepolte in fosse comuni o semplicemente bruciate in immense cataste, le spoglie delle vittime.
A Chelmno i nazisti sperimentarono la soppressione degli ebrei, stivati in camion appositamente attrezzati, a mezzo del gas del tubo di scappamento. Da un rapporto rinvenuto casualmente negli archivi della direzione centrale delle SS si legge testualmente «nel giro di sei mesi tre di questi camion hanno "trattato" 97.000 "pezzi" senza inconvenienti di sorta».
Le vittime di Chelmno furono almeno 360.000, in gran parte provenienti dal ghetto di Lodz. Ma vi furono anche trasferiti ed uccisi i bambini provenienti da Lidice, il villaggio cecoslovacco raso al suolo per rappresaglia.
Prima di abbandonare il campo, sotto la pressione dell’avanzata delle armate russe, i nazisti fecero sparire le tracce delle loro imprese, spianando ogni cosa, piantando alberi sulle fosse comuni.
Chelmno fu sciolto e sgombrato nel gennaio 1945. All’ultimo momento, nella confusione generale dell’evacuazione, alcuni deportati riuscirono a sopraffare le guardie e, impossessandosi delle loro armi, e a tentare di fuga. Alcuni furono ripresi e fucilati sul posto, pochi altri riuscirono a mettersi in salvo e furono poi i testimoni d’accusa dei propri aguzzini quando questi dovettero rendere conto del proprio operato alla giustizia democratica.

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Tratto da

ANED – Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti

Testimonianze di superstiti del campo

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Testimonianze di superstiti del campo

Come si viveva, come si moriva alla Risiera? Lo spiegano alcune testimonianze di superstiti, raccolte per la prima volta nel volume “Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera” pubblicato nel 1974 a cura dell’ANED di Trieste.

 

PINO KARIS di Trieste

«Mi arrestarono gli appartenenti alle «Guardie nere» verso la fine del 1944. Mi condussero direttamente in Risiera, nella cella n. 6. Dopo due o tre giorni mi portarono all’interrogatorio assieme a Ujcic e a Peloza di Mune. Dopo alcuni giorni venni condotto all’interrogatorio al comando delle SS in piazza Oberdan (via Carducci). Là venni interrogato più volte e torturato, quindi mi rinchiusero nel bunker. Da lì fui condotto al Coroneo.

Ero rimasto rinchiuso in Risiera per un mese e mezzo circa. Una sera condussero parecchie persone da un rastrellamento a Servola. Dal Coroneo il 20 aprile trasferirono in Risiera 60 persone; tra queste c’erano anche Enzo Vidali (Brigata Garibaldi) e il commissario di battaglione di questa Brigata che era di Pola e portava la barba. Non ricordo il suo nome. Sua moglie venne da me dopo la liberazione per avere delle informazioni e mi mostrò la lettera che egli le aveva mandato dalla Risiera nelle ultime ore prima di venir bruciato. Vidali era venuto in Risiera a piedi nudi. Mia moglie gli portò poi un paio di scarpe».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic)

 

GIUSEPPE GIANECHETTI di Trieste

«Qui giunto, come prima cosa mi percossero abbondantemente. Il più feroce dei bastonatori era un maresciallo, che al posto della mano aveva un uncino e ci faceva correre attorno alla vasca che serviva per i rifiuti, lavare le gavette e i vasi da notte insieme. Poi fui rinchiuso nelle celle. La mia portava il numero 4. Queste celle erano spesso occupate da 4 persone e provvisoriamente anche da sei. La notte non si poteva dormire, perché una lampadina fortissima era accesa giorno e notte. La sentinella o le sentinelle delle SS molto spesso aprivano le porte, e sempre gridando, e questo per farci vivere in un continuo stato di terrore. Cosicché si può dire che, finché rimasi là dentro, non ebbi pace neanche un minuto».

(Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

Inizio

BRANKA MARICIC di Fiume

«Quando ci portarono in Risiera non sapevamo ancora dove ci trovavamo. Ci misero in uno stanzone. Al piano superiore erano rinchiusi alcuni militari italiani, dei ragazzi giovani. Avevano smosso le tavole del soffitto e ci domandarono di dove fossimo, dicendo di non conoscere il motivo del loro arresto.

Non ricordo se il crematorio fosse già in funzione quando arrivammo in Risiera. Penso che abbiano sistemato le celle e il forno dopo aver razziato per i paesi e aver portato in Risiera prigionieri, merce d’ogni specie e bestiame che avevano prelevato nei villaggi. Quando le SS tornavano dalle loro scorrerie, si potevano udire un gran trambusto e delle grida. Vidi proprio di fronte a me qualcosa che ardeva nel capannone. Notai delle SS che trascinavano per le spalle della gente, che giaceva immobile per terra, nell’interno del capannone dal quale usciva quella luce. Vedendo questo provavo una paura indicibile. Arrivò una SS che mi cacciò in malo modo dalla finestra minacciandomi. Penso che fossero i primi di aprile quando condussero una donna anziana. L’avevano portata in Risiera assieme alla governante. Questa venne rilasciata, mentre lei venne trattenuta. La poverina ci faceva molta pena perché non poteva assolutamente muoversi da sola. Si lamentava a causa dei dolori e ciò fece andare in bestia le SS. L’avvolsero in una coperta e si misero a trascinarla per i gradini dal terzo piano. Gridava in modo atroce. Dicono che morì quando la trascinarono fino al pianterreno. Proveniva da una famiglia triestina stimata e molto ricca. Suo marito era stato ufficiale durante la I Guerra Mondiale ed era stato decorato. Non ricordo come lei si chiamasse.

Un giorno condussero un gruppo di ebrei arrestati a Rab. Erano in prevalenza di Zagabria e tra loro c’era una stupenda greca. Li portarono in un campo di concentramento tedesco, penso ad Auschwitz. Su quel treno si trovava pure un membro della famiglia Grguric di Susak. Quando li condussero in Risiera, li spogliarono di tutto. Spiavamo attraverso le fessure della porta come le SS li perquisivano e cacciavano nelle proprie tasche le monete e gli oggetti d’oro. Quando gli ebrei se ne andarono con il treno si accomiatarono da noi dicendoci: “beati voi che rimanete”. Sapevano dove li stavano portando e che cosa li attendeva.

Doveva essere il 14 maggio quando sentii provenire dal cortile delle urla e degli spari. Venimmo a sapere che avevano fucilato due dei militari che si trovavano al piano superiore».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic)

 

FRANCESCO SIRCELJ da Celje (Jugoslavia)

«ll 12 marzo 1945 circa alle 22,30 venne un SS, chiamò per nome e cominciò ad aprire le celle. Il mio nome era il primo, aprì la cella; seguirono altri quattro. Dalle celle ci condussero in una baracca che stava nel cortile proprio di fronte alle celle stesse. La porta era di fronte al camino. Nella baracca vidi un mucchio di vestiti e di stracci. Ci fu ordinato di spogliarci. Mentre lo facevamo condussero altri sette prigionieri portati da fuori, forse dalle carceri. Tra loro c’era anche una donna di circa 45 anni. Quando fummo spogliati tutti, ci misero in fila cominciando a spingere uno dopo l’altro attraverso la stretta porticina sulla sinistra. All’interno infatti la baracca era divisa in due parti. Nell’ambiente più grande c’era una specie di magazzino, nell’altro, al lato, dove all’esterno si ergeva l’alto camino della fabbrica, si trovava invece il fondo del crematorio.

Le vittime venivano prelevate da un polacco SS, uno dei peggiori nella Risiera. Mi sembrava, quando erano sparite dalla porta, che passassero per una scala. Sentii una voce di donna, lamenti, sospiri, come una specie di mormorio di una persona che venga colpita alla nuca. Dieci vittime erano già passate per quella porta stretta. In quel momento sarei dovuto passare io. Dietro a me c’era anche un triestino, di cui non ricordo il nome, che era stato portato alla Risiera alcuni giorni prima. Doveva avere circa 20 anni. In quel momento però a quella porta apparve improvvisamente Schultz e gridò: “Los, Ios! In bunker”.

Non mi mossi. Ero come insensibile, confuso, impietrito. Mi spinse in modo che insieme al triestino cademmo come due pesi morti. “Los, los”. mi diede un calcio, aprì lo porta e ci sospinse indietro, ciascuno nella propria cella. Forse c’era stato un allarme aereo.

(Testimonianza raccolta da Albin Bubnic).

 

GIOVANNI MILLO di Trieste

«Ho preso tante legnate e tanti pugni sulla faccia che avevo letteralmente rotti tutti i denti. Quando ci portavano qualcosa da mangiare era una brodaglia nera. Non so quanti colpi di moschetto mi sono preso in tutte le parti del corpo. In ogni momento del giorno e della notte ci interrogavano facendoci le domande più strane. Quando siamo usciti, quelli che sono usciti, dopo 40 giorni, pare incredibile ma è la verità, tali erano state le sofferenze fisiche e morali che quando ci siamo trovati fuori non ci conoscevamo più l’un l’altro. Una parte di coloro che sono stati rastrellati in quella circostanza è stata trasportata nei campi di sterminio in Germania. Durante la mia permanenza in Risiera ho potuto vedere per strane combinazioni, che vi erano dentro pure dei bambini e adolescenti da 8 a 15 anni».

(Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

 

GOTTARDO MILANI nato a Cavarzere (Venezia) abitante a Torino

«Ricordo che un giorno, circa dopo tre settimane dalla mia entrata, le SS hanno portato nel cortile con un furgoncino un alto ufficiale – credo colonnello delle SS – comandante generale della Risiera. L’ho riconosciuto perché l’avevo già visto in Risiera e c’era anche lui quando ci avevano proposto di collaborare con loro. Quando l’hanno portato in Risiera, io stavo lavorando nel cortile interno.

Un altro giorno ho visto un camion Fiat pieno di cadaveri, di uomini e donne. Poi ho visto delle SS – dicevano che fosse un ucraino – che nel reparto più piccolo del capannone, dove c’era il forno crematorio, tagliava con una mannaia i cadaveri. Un giorno prima che portassero il cadavere del comandante delle SS e prima ancora della divisione in due gruppi, ci hanno chiamati tutti nel cortile e ci hanno fatto assistere alla fucilazione di due nostri compagni. Dicevano che si erano ribellati o risposto male a un sergente delle SS. Uno di questi si chiamava Pairolero ed era da Veneria (presso Torino), e l’altro era di Torino, ma non ricordo il nome. I tedeschi hanno scelto 8 o 10 detenuti del nostro gruppo, li hanno consegnato i fucili ed ordinato di fucilare i due compagni, mentre le SS – con i mitra in mano – stavano da parte».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic)

 

GIOVANNI HAIMI WACHSBERGER di Fiume

«Ho veduto massacrare di botte un povero vecchio che, spazzando il cortile, non aveva messo l’immondizia nel punto esatto ordinatogli da una SS. Durante un bombardamento, mentre i tedeschi si erano rifugiati nei bunker, due prigionieri riuscirono a fuggire dalle celle. Per rappresaglia furono fucilati tutti i loro compagni. Nel giugno del 1944 mi accorsi realmente di ciò che stava succedendo. Le vittime venivano uccise nel garage, la porta di accesso al forno crematorio vero e proprio era mascherata da un mobile di cucina. Una sera vedemmo un camion carico di soldati morti: si intravedevano soltanto le scarpe perché i corpi erano coperti da tendoni. Quando il camion entrò nel garage ci fecero portar dentro la legna che precedentemente avevamo segato. Penso che quei soldati fossero tedeschi. Di notte sentivamo nel cortile un andirivieni di gente che implorava pietà e mandava urla strazianti. Per coprire le urla i tedeschi alzavano il volume degli apparecchi radio, accendevano i motori degli autocarri, aizzavano i carni di guardia affinché latrassero.

Eravamo troppo vicini per non renderci conto di ciò che stava succedendo ma non riuscimmo mai a sapere come quei disgraziati venissero uccisi. Il giorno dopo, i loro abiti si trovavano nel magazzino e non erano quasi mai macchiati di sangue. Gli ucraini e i mongoli incaricati delle esecuzioni venivano ubriacati nelle prime ore del pomeriggio, affinché di notte fossero in forma. Anche qualche tedesco partecipava a queste orge. Una notte, dalla mia camerata vennero prelevate cinque persone, che non fecero più ritorno. Una domenica arrivarono due autobus pieni di gente che mi sembrò triestina. Fu ammassata tutta in un antro senza finestre chiamato la cella della morte: nella notte sparirono tutti. Penso si trattasse di ostaggi presi in città durante una retata».

(Testimonianza raccolta da Ricciotti Lazzero).

 

MAJDA RUPENA di Trieste

«La prima domanda che mi rivolsero appena fui messa in cella è stata questa: Come vanno le cose sul fronte? Nessuno pronunciava il proprio nome, avevamo sempre paura che ci fosse qualche spia tra noi. A spiegarmi che cosa succedeva là dentro fu un certo Kabiglio, un negoziante ebreo di origine spagnola, abitante a Mostar. “Guardi il camino, mi disse sottovoce: bruciano la gente”. Ho visto due o tre volte uomini e donne sparire nel locale del forno. Capitava sempre verso le dieci e mezzo o le undici di sera. Per coprire il rumore, spesso le SS mettevano in moto un autocarro o un’automobile o accendevano le radio. Mi ricordo come se fosse adesso: un milite andava a prendere i condannati. Talvolta essi restavano in silenzio, talvolta si mettevano a gridare. Sul selciato lo strascichio dei passi. Le donne portavano sandali, i sandali fanno più rumore delle scarpe. Io mi sono messa ad annotare quel tragico andirivieni. Una notte ho contato i passi di 56 persone che andavano dal cortile fino alla bocca del forno; un’altra notte 73. Poi non sono riuscita più a continuare. Avevo con me in cella mia figlia Sandra. di appena 14 anni. Quando il milite entrava nel camerone, mi coprivo la testa con le mani per non urlare. Sentivo dei tonfi, come un corpo morto che cade su qualcosa di vuoto e poi urla strazianti: “Mamma! Mamma!” in tutte le lingue. La prima notte che entrai in cella ci fu un bombardamento aereo. I prigionieri gridavano: “Giù. Giù bombe. Cadete qui! Almeno potessimo morire subito”. All’alba chiesi a mia figlia: “Di che colore sono i miei capelli?” credevo fossero diventati grigi per lo spavento».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Bicciotti Lazzero).

 

CRISTINA SLUGA da Villa del Nevoso (Istria)

«Già durante il primo giorno dopo il trasferimento nella stanza al secondo piano, guardavo sul cortile attraverso la finestra. Dovevano essere circa le 19: nel cortile c’erano approssimativamente 20 tra uomini e donne, legati e sotto stretta sorveglianza. A due a due venivano condotti dalle SS al crematorio. Era terribile: sentivo delle grida laceranti e il forte rumore del motore di un camion o un’auto blindata che si trovava nel cortile. Le SS hanno portato velocemente a termine il loro lavoro. I poveretti scomparivano letteralmente per la porta del crematorio. Respiravo appena, il fumo maleodorante mi soffocava. C’era un forte odore di carne bruciata. Quelle ore sono state le più terribili che abbia mai vissuto.

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic; Cristina Sluga fu in Risiera dal 4 settembre alla fine di settembre 1944)

I Lager tedeschi – Buchenwald

Buchenwald

 

Costituzione: 16 luglio 1937
Ubicazione: nelle vicinanze di Weimar

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Un comando di circa 300 deportati, provenienti dal disciolto campo di concentramento di Lichtenburg, presso Lipsia, eresse, con attrezzi primitivi ed insufficienti, le prime baracche del campo di Buchenwald, ricavando il legname dalla vicina foresta di Ettersberg, che fu a suo tempo prediletta da Goethe.
Nel settembre dello stesso anno Buchenwald ospitava 5.382 prigionieri, ma alla fine dello stesso mese questi erano già 8.634. Alla fine del dicembre 1943 le immatricolazioni indi cavano 37.319 presenze che salirono a 63.084 alla fine del dicembre 1944 ed a ben 80.436 verso la fine del marzo 1945, cioè pochi mesi prima della fine della guerra. In tutto pare che per Buchenwald siano transitate 230.000 persone. I morti accertati e registrati ammontano a 56.554. Come sempre queste cifre sono inesatte dato che anche in questo Lager avvennero esecuzioni sommarie delle quali non è rimasta alcuna traccia. Buchenwald è stato uno dei campi affidati alla cosiddetta autogestione da parte dei «triangoli verdi» cioè di delinquenti comuni. I prigionieri politici, contrassegnati dal «triangolo rosso» dopo aspre contese ebbero il sopravvento e poterono arginare il potere dei «verdi» che si esprimeva soprattutto in delazioni e in violenze nei confronti dei propri simili.
Buchenwald si distingueva dagli altri campi perché lì, più che mai, fu sperimentato ed applicato lo sterminio a mezzo del lavoro. La costruzione stessa del campo, delle strade e delle installazioni accessorie fu portato a termine a costo di un’ecatombe di deportati. Le cifre che si sono potute accertare di cono solo in parte la verità su questa vicenda.
Oltre alla costruzione del campo, i deportati furono utilizzati come manodopera nei 130 comandi esterni e sottocampi situati nelle vicinanze degli stabilimenti industriali d’ogni genere, ma prevalentemente orientati verso produzioni di interesse militare che, per ragioni varie, ma prima di tutto di convenienza economica, avevano accettato i vantaggiosi contratti d’appalto offerti loro dalle SS.
La presenza fra i deportati di numerosi dirigenti politici, in special modo del partito comunista, favorì i contatti fra i vari gruppi nazionali esprimendosi in una solidarietà grazie alla quale fu possibile aiutare i più deboli e perfino salvare da sicura morte, nascondendoli con ingegnosi accorgimenti, alcuni che gli aguzzini avevano condannato per motivi spesso futili.
A poco a poco si costituì e si sviluppò nel campo un movimento di resistenza che permise la costituzione di un comitato clandestino internazionale che riuscì addirittura a creare una propria organizzazione militare. Grazie al coraggioso contributo di deportati che lavoravano nelle officine e nelle fabbriche d’armi dei dintorni, fu possibile trafugare componenti di armi, che furono poi riassemblate di nascosto e che servirono come dotazione a vere e proprie formazioni destinate ad intervenire al momento opportuno.
L’occasione venne quando nei primi giorni dell’aprile 1945 le SS decisero di sgombrare il campo e fecero partire un primo convoglio di circa 28.000 deportati verso altri campi. Il comitato clandestino internazionale, a mezzo di una emittente che era stata costruita in gran segreto, si mise in contatto con le truppe americane che avanzavano nella zona, chiedendo immediato aiuto e nello stesso tempo ordinando l’insurrezione generale.
Quando gli alleati giunsero a Buchenwald, il campo era già stato liberato dagli stessi deportati ed il comitato internazionale ne gestiva la vita democraticamente. Era il 13 aprile 1945.

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Tratto da

ANED – Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti

Ho Chi Minh – Diario del carcere V°

Ho Chi Minh
Da Diario del carcere

Gli scacchi
Per occupare il tempo,
ci si allena agli scacchi.
Pedoni e cavalieri
s’affrontan di continuo.
Ripiegare in un attimo,
attaccare in un attimo:
piede veloce cervello pronto
avanzano e vincono.
Larghezza di vedute,
e cura del dettaglio!
Premere senza tregua,
risoluto e tenace.
A che servon le torri
se sei stato accerchiato?
Può vincere la partita
una pedina audace.
L’equilibrio iniziale
rende incerto lo sbocco;
ma la vittoria infine
da una parte si piega.
Prepara bene i colpi,
tieni i piani segreti
forse in te c’è la stoffa
di un grande condottiero.
*
Nostalgia
Da una a cella,
Ad un tratto,
sale un’aria nostalgica
la nota divien gemito,
la cadenza singhiozzo.
Dolore di vedersi
oltre i monti e le valli!
Su di una soglia,
un’ombra attende pensierosa.

Ho Chi Minh – Diario dal carcere – IV

Ho Chi Minh
Diario dal carcere

 

Insonnia

 

Una notte insonne—
due notti insonni…
una terza notte…
il sonno non arriva
e m’agito angosciato.
Una quarta,
una quinta notte…
Sto sognando o vegliando?
Sento le cinque punte
di una stella nel corpo.*’
*

 

Lontano dalla lotta

 

Piuttosto morire
che vivere servi!
Quando le libere bandiere
si spiegano
che gran dolore
stare in fondo
a una cella
senza potersi battere
in campo aperto!

 

*La stella rossa a cinque punte

della bandiera vietnamita.

Tobino – A Mario Pasi

A Mario Pasi
Questa poesia di Tobino, messa in musica da Hans Werner Henze, è dedicata a Mario Pasi, antifascista, medico e dirigente partigiano, con il nome di battaglia di “Montagna”, delle formazioni operanti nel bellunese. Catturato dalle SS alla fine del 1944, fu torturato e seviziato per quattro mesi e ridotto in fin di vita dal famigerato tenente Georg Karl, comandante della Gestapo di Belluno, ma rifiutò sempre di fornire informazioni. In una sua lettera (pubblicata in
“Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana (1943-45)”) scriveva:

“Cari compagni
mandatemi del veleno
non resisto più.
Montagna”

Il 10 marzo 1945 fu portato insieme ad altri nove partigiani sulle colline sopra Belluno. Il Pasi fu fatto trasportare dai suoi stessi compagni perché non camminava nemmeno più, con le gambe fracassate dalla bastonate, una già divorata dalla cancrena.
Furono tutti impiccati in un luogo chiamato Bosco delle Castagne.

Il Pasi era un giovanotto
veniva dalla Romagna,
insieme eravamo giovani,
si camminava muovendo le spalle,
le donne avean per noi debolezza.
Lui lo impiccarono i tedeschi
dopo sevizie che non ho piacere si sappiano,
io ho un cappotto di anni,
ma, o Pasi, sei stato
il più bell’italiano di mezzo secolo.

Anonimo – Pagina delle Muse

pugno
Anonimo
La pagina della … Musa.
Questi dattilografi!?!?!?!

La dattilografia è certo un bel mestiere,
si batte con le dita e si resta a sedere.
Ma qui al Comando Unico, per contentarli tutti,
bisogna far buon viso e pigliar dei farabutti.
*
Qui Monti vuol le linee, i punti un po’ in dentro,
l’oggetto e il protocollo spostati verso il centro.
Qui Miro preferisce la lettera inquadrata,
l’intestazione a manca o un po’ più in su la data.
*
C’è Berel responsabile all’ufficio informazioni
si cura della firma, non dell’intestazione.
Arriva tosto Aldo, ci prega vivamente
di far ben attenzione a non ometter niente.
*
E Febo (perdonate! M’ero dimenticato)
mette sì il soggetto, ma lascia il predicato.
Roberto, calmo e esplicito, munito di pazienza,
è quel che più transige … fa parte all’Intendenza.
*
Ed ecco il singor Guido (inver non canta male)
"necessita urgentissima la spesa decadale".
Gianni Vice Intendente al Comando neo arrivato
omette gli indirizzi pel … desco apparecchiato.
*
Già! Sacchi vuol la copia come l’originale
"Ferma! Metti la data: se no così non vale".
Tamara, rompiscatole, per ripartire il lancio
ti mette sotto a scrivere, ti fa saltare il rancio.
*
Sapete voi la nuova? Anch’io quasi casco:
arriva per l’elenco il Parroco … Don Vasco.
Oh! già voi perdonate (m’ero dimenticato)
abbiamo molti amici anche al … Commissariato.
*
E quando hai cenato e andresti anche a dormire
ecco che un seccatore "due righe, vuoi venire?"
È il caro Albertina che chiede innovazioni
ai gradi stabiliti per gli alti caporioni.
*
L’oggetto, la minuta, il protocollo avente,
è giusto? Sì. Va bene? ti pigli un accidente.
… E tanti e tanti ancora, che col sorriso aperto
ti fanno lavorare e ti fregan di concerto.
*
Le macchine camminano, si fermano i tranvai,
ma in sede di scrittura non ci si ferma mai.
Speriam con tutto il cuore che i tedeschi vadan via
così entrerà in servizio la tipolitografia.
*
Nessuno se ne offenda, ma rida e sia sereno
di quel che qui han scritto Rameris, Mas, Veleno.
Se non son ben scritte, mal non ci giudicate
deh’ non chiediamo molto … un poco di pietate.Tratto da
Poesia clandestina della Resistenza – Antologia dei …

Einsatzgruppen (“Squadre della Morte”)

Einsatzgruppen (“Squadre della Morte”)

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Soldati appartenenti a un’unità non identificata della Squadra della Morte C frugano tra i beni degli Ebrei massacrati a Babi Yar, una gola nei pressi di Kiev. Unione Sovietica, 29 settembre-1 ottobre 1941.

— US Holocaust Memorial Museum

Le Einsatzgruppen (in questo contesto da leggere come “unità mobili di sterminio”) erano vere e proprie Squadre della Morte composte principalmente da SS e da agenti di polizia. Comandate da ufficiali della Polizia di Sicurezza tedesca (Sicherheitspolizei, Sipo) e del Servizio di Sicurezza (Sicherheitsdienst, SD) le Einsatzgruppen avevano tra i loro compiti l’eliminazione di coloro che venivano considerati nemici, sia per motivi politici che razziali, e che si trovavano al di là delle linee di combattimento, nell’Unione Sovietica occupata dai tedeschi.

Tra le vittime vi furono Ebrei, Rom (Zingari), funzionari di Stato e funzionari del Partito Comunista Sovietico. Le Einsatzgruppen assassinarono anche migliaia di pazienti ospitati nelle strutture per disabili fisici e mentali. Molti studiosi sono convinti che lo sterminio sistematico degli Ebrei attuato dalle Einsatzgruppen e dai battaglioni della Polizia d’Ordine (Ordnungspolizei) nell’Unione Sovietica occupata, rappresentò il primo passo verso l’attuazione della “Soluzione Finale”, il programma ideato dai Nazisti per eliminare tutti gli Ebrei europei.

Durante l’invasione dell’Unione Sovietica, nel giugno del 1941, le Einsatzgruppen si posero al seguito dell’esercito tedesco mentre questi avanzava profondamente nel territorio nemico. Le Einsatzgruppen, spesso usufruendo dell’appoggio della polizia e delle popolazioni locali, portarono a termine numerose operazioni di sterminio di massa. Contrariamente ai metodi adottati successivamente, che prevedevano la deportazione degli Ebrei dalle città o dai ghetti verso i campi di sterminio, le Einsatzgruppen si recavano direttamente nelle comunità ebraiche e attuavano veri e propri massacri.

L’esercito tedesco fornì appoggio logistico alle Einsatzgruppen, inclusi rifornimenti, trasporto, alloggio e, occasionalmente, forza lavoro sotto forma di unità per il trasferimento e la sorveglianza dei prigionieri. In una prima fase, le Einsatzgruppen fucilarono principalmente gli uomini Ebrei. Alla fine dell’estate del 1941, tuttavia, ovunque le Einsatzgruppen si recassero uccidevano uomini, donne e bambini, senza curarsi dell’età o del sesso di appartenenza, seppellendoli poi in fosse comuni. Spesso grazie all’aiuto di informatori e interpreti della popolazione locale, gli Ebrei di una certa zona venivano identificati e portati nei punti di raccolta;da qui, i camion li trasportavano poi ai luoghi dell’esecuzione, dove le fosse comuni erano già state preparate. In alcuni casi, i prigionieri erano costretti a scavare loro stessi le loro future tombe. Dopo aver consegnato ogni oggetto di valore ed essersi spogliati, uomini, donne e bambini venivano fucilati, o in stile militare – in piedi, di fronte alla fossa – oppure già stesi sul fondo, uno accanto all’altro, secondo un sistema che venne ribattezzato in modo irriverente “a scatola di sardine”.

La fucilazione fu il sistema più usato dalle Einsatzgruppen; tuttavia, alla fine dell’estate del 1941, Heinrich Himmler, avendo constatato il peso psicologico che tale sistema di sterminio aveva sui suoi uomini, richiese l’adozione di un modo più “comodo” di perpetrare le uccisioni. Il risultato di tale richiesta fu la creazione delle camere a gas mobili: montate su furgoni per il trasporto merci, e con il sistema di scappamento modificato, esse venivano usate per asfissiare i prigionieri con il monossido di carbonio. Le camere a gas mobili fecero la propria apparizione per la prima volta sul fronte orientale, alla fine dell’autunno del 1941, e furono poi utilizzate, insieme alle fucilazioni, per assassinare Ebrei e altre vittime nella maggior parte delle zone in cui le “Squadre della Morte” operavano.

Le Einsatzgruppen al seguito dell’esercito tedesco in Unione Sovietica erano composte da quattro gruppi operativi, ognuno delle dimensioni di un battaglione. L’ Einsatzgruppe A partì dalla Prussia Orientale e si spinse attraverso la Lituania, la Lettonia e l’Estonia verso Leningrado (oggi San Pietroburgo). Questa unità massacrò gli Ebrei a Kovno, Riga e Vilna. L’Einsatzgruppe B partì invece da Varsavia, nella Polonia occupata, e attraverso la Bielorussia si spinse verso Smolensk e Minsk, massacrando gli Ebrei a Grodno, Minsk, Brest-Litovsk, Slonim, Gomel e Mogilev, solo per citare alcuni luoghi. L’Einsatzgruppe C cominciò le proprie operazioni da Cracovia, attraversando poi l’Ucraina occidentale e proseguendo verso Kharkov e Rostov sul Don. I suoi uomini operarono massacri a Lvov, Tarnopol, Zolochev, Kremenets, Kharkov, Zhitomir e Kiev. Qui, il sottogruppo 4A delle Einsatzgruppen, nel corso di due intere giornate, portò a termine quello che divenne poi tristemente famoso come “massacro della gola di Babi Yar”, in cui vennero assassinati 33.771 Ebrei di Kiev. Delle quattro unità, la Einsatzgruppe D operò invece nella parte più a sud: questa squadra portò a termine numerosi massacri nella parte meridionale dell’Ucraina e della Crimea, in particolare a Nikolayev, Kherson, Simferopol, Sebastopoli, Feodosiya e nella regione di Krasnodar.

Le Einsatzgruppen ricevettero vasto appoggio dai soldati tedeschi e dagli altri eserciti dell’Asse, così come da collaboratori locali e da altre unità delle SS. I membri delle Einsatzgruppen venivano reclutati tra le SS, le Waffen SS (reparti militari delle SS), nel Sipo e nel SD, tra le forze della Polizia d’Ordine e in altre forze di polizia.

Alla fine della primavera del 1943, le Einsatzgruppen e i battaglioni della Polizia d’Ordine avevano già assassinato più di un milione di Ebrei sovietici e decine di migliaia di commissari politici, partigiani, Rom e persone disabili. Il cosiddetto “sterminio mobile”, in particolare la fucilazione, si dimostrò un metodo inefficiente e psicologicamente pesante per gli uomini coinvolti. Già nel periodo in cui le Einsatzgruppen portavano a termine le loro operazioni, le autorità tedesche cominciarono a pianificare e poi costruire strutture fisse all’interno dei campi di sterminio, per uccidere – tramite gas venefico – del più vasto numero possibile di Ebrei

Tratto da

Enciclopedia dell’Olocausto

Repubblica di Carnia e Friuli Orientale

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Repubblica di Carnia e Friuli Orientale

Con l’armistizio, il Friuli Venezia Giulia entra a far parte della “Zona di operazioni del litorale adriatico”, direttamente amministrata dai tedeschi. Dal marzo 1944 sono attive nell’area della Carnia e del Friuli orientale le formazioni garibaldine, alle quali si affiancano presto le Osoppo. I tentativi di unificazione tra i comandi delle formazioni sono vani, ma talvolta tra Garibaldi e Osoppo si instaura, a livello di brigate, una buona collaborazione, almeno fino all’estate del 1944. In agosto, l’offensiva partigiana porta alla liberazione di vaste aree del territorio – circa 2.500 kmq per 80.000 abitanti di 38 comuni – che vanno a comporre la «più estesa zona liberata dalle formazioni partigiane sul territorio nazionale». Nascono così CLN comunali, CLN di vallata e, l’11 agosto, il CLN carnico, che il mese successivo raggruppa i rappresentanti dei partiti antifascisti e due delegati militari, uno per le Garibaldi e uno per le Osoppo. Il CLN organizza le elezioni delle giunte comunali (agosto-settembre 1944), la lotta al mercato nero, il controllo dei prezzi e un efficace sistema di approvvigionamenti, che riesce a far sopravvivere la zona libera nonostante l’accerchiamento da parte dei nazifascisti. Il 26 settembre 1944 nasce il Comitato zona libera, che ha funzioni di governo provvisorio e dà vita alla Guardia del popolo (polizia municipale), mentre riorganizza il sistema scolastico (con revisione dei libri di testo), delibera in materia fiscale e istituisce il Tribunale del popolo.

Con l’autunno, la situazione interna al movimento partigiano si complica, per il prevalere delle correnti moderate all’interno delle Osoppo e il legame sempre più stretto tra le Garibaldi e la Resistenza iugoslava. Riprende, inoltre, l’offensiva nazista che, dopo una battaglia di quasi tre mesi, ha la meglio sulla zona libera. In Carnia e nelle Prealpi si insediano tra i 20 e i 40.000 cosacchi e caucasici, che hanno combattuto al fianco delle truppe tedesche. Gli occupanti danno vita a una loro “repubblica cosacca”, che reggerà fino alla liberazione (maggio 1945).

(fonte: M. Puppini, Carnia e Friuli orientale, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2006, pp. 501-503).

Repubblica dell’Ossola

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Repubblica dell’Ossola

La Repubblica viene istituita, sulla spinta dei successi partigiani dell’estate, il 10 settembre 1944, quando le divisioni autonome Valtoce (comandata dal tenente Alfredo Di Dio) e Valdossola (guidata dal maggiore Dionigi Superti) entrano a Domodossola, appena abbandonata dai tedeschi in base a un accordo con gli stessi partigiani. Oltre agli autonomi, protagonisti dei successi del movimento di liberazione nell’estate del 1944 sono i garibaldini, che tuttavia non condividono l’esito della trattativa tra partigiani e tedeschi: questi ultimi, secondo i comunisti, avrebbero dovuto ritirarsi in Svizzera.

Occupata Domodossola, il comando degli autonomi dà vita a una giunta provvisoria di governo dell’Ossola, ma le sue decisioni non sono sostenute né dal CLNAI di Milano, né dai garibaldini né della popolazione. Nessuno di loro, infatti, è stato interpellato in merito. Ciononostante, la giunta, presieduta dal socialista Ettore Tibaldi e composta da rappresentanti dei partiti antifascisti e del clero, riesce a insediarsi e a dar vita a un suo organo di stampa, il “Bollettino Quotidiano d’Informazione”, diretto dal comunista Umberto Terracini. Viene anche costituito il CLN di Domodossola, e si diffondono i giornali delle diverse formazioni partigiane.

La breve vita della repubblica è funestata da numerose difficoltà, tra le quali i «[…] difficili rapporti con i comandi partigiani di Superti e Di Dio, che tendono a sovrapporsi alla giunta e a discriminare politicamente le sinistre e i garibaldini», e le «non distese relazioni con il Clnai, che accusa il governo ossolano di eccesso di autonomismo». Ciononostante, i risultati conseguiti sono significativi: si pensi all’abolizione del sindacato fascista e alla ricostituzione delle organizzazioni sindacali libere, che avviano subito trattative salariali; si pensi alla regolamentazione del mercato e dei prezzi, alla riorganizzazione del sistema scolastico (con revisione dei libri di testo), alla nomina di commissari per i comuni, alla ripresa della produzione industriale e degli scambi commerciali con la Svizzera (che sostiene la repubblica e la riconosce ufficialmente). Alcuni dei provvedimenti assunti dalla repubblica, grazie alla collaborazione di intellettuali del calibro di Piero Malvestiti, Gianfranco Contini e il già citato Umberto Terracini, saranno d’ispirazione per la redazione della Costituzione italiana.

Il 10 ottobre 1944 si avvia la controffensiva tedesca e fascista. Le forze partigiane, oltre a essere spesso non concordi tra loro, non hanno armi né munizioni a sufficienza, ma cercano comunque di difendersi. Quando la sconfitta è ormai prossima, i partigiani, la giunta e parte della popolazione cercano scampo in Svizzera, mentre una divisione garibaldina e una autonoma rifluiscono nelle valli confinanti, da dove continueranno la lotta. Il 23 ottobre l’esperienza della repubblica dell’Ossola è definitivamente conclusa.

(fonte: M. Giovana, Ossola, repubblica dell’, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2006, pp. 513-516).