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I sedici martiri massacrati sulla piazza di Carpi La storia di Walter Lusuardi: si fece fucilare al posto del fratello

I sedici martiri massacrati sulla piazza di Carpi
La storia di Walter Lusuardi:
si fece fucilare al posto del fratello
 
Il 16 agosto si celebra l’anniversario della strage di sedici persone, per rappresaglia all’uccisione del console della milizia della Repubblica di Salò, Filiberto Nannini. Egli si era trasferito da Parma a Migliarina, frazione di Carpi e si era stabilito nella villa Segrè, abbandonata dai proprietari di religione ebraica. Dalla zona di Parma, dove il console aveva operato, erano arrivati numerosi rapporti sulle spietate azioni repressive di cui egli era stato responsabile, tra cui molte fucilazioni di partigiani e renitenti alla leva. La mattina del 15 agosto il console era partito in bicicletta per Carpi, come faceva di solito, ma a metà strada venne ucciso forse da un commando dei Gap. Già nel pomeriggio e la mattina seguente, gruppi di fascisti della brigata nera di Carpi e dei paesi vicini avevano rastrellato le frazioni di Migliarina, Rio Saliceto, Fossoli e Carpi per catturare partigiani e antifascisti, già noti ai repubblichini, perché segnalati da fascisti locali. Prudentemente molti di questi partigiani di Migliarina e Budrione quella notte dormirono fuori casa, come Walter Lusuardi, Enzo Neri, Aldo Corsari, Aldebrando Manfredini, Malavasi, Ganassi, Savani e altri giovani che avevano disertato. A Migliarina i fascisti tuttavia riuscirono a catturare una trentina di persone e a raggrupparle sotto la tettoia dell’osteria. Tra i fermati vi erano tutti gli uomini della famiglia di Walter Lusuardi: il padre Primo, il fratello Edmondo, che aveva sei figli, e il nipote Dino, di 15 anni. Il padre ed il nipote vennero lasciati liberi, mentre Edmondo fu fatto salire con altri sul camion, con la minaccia che, se non si fosse presentato suo fratello, avrebbero ucciso lui. Walter, che era nascosto in un rifugio partigiano nella valle di Migliarina, venne informato dell’arresto del fratello e sapendo che volevano proprio lui, non esitò: prese una bicicletta e raggiunse quel maledetto camion; fu portato a Carpi e imprigionato assieme al fratello ed agli altri arrestati. In quei pochi chilometri di strada che separano il rifugio partigiano dall’osteria dove erano i fascisti, Walter venne fermato diverse volte dagli amici e invitato a tornare indietro, ma la risposta fu sempre la stessa: «Non posso, mio fratello ha sei figli da crescere. Loro vogliono me». Nel pomeriggio i familiari degli arrestati, saputo che essi erano stati portati in una villa di fronte alla Caserma dei Carabinieri di Carpi, in viale XXVIII Ottobre (ora viale Odoardo Focherini), vi si recarono per avere notizie dei loro cari, ma poterono sentire solo i lamenti e le urla di dolore. Solo dopo si conobbe a quali torture fossero stati sottoposti: avevano loro strappate le unghie dei piedi e delle mani ed a Walter, in più, avevano fratturato un braccio. Verso sera, i sedici ostaggi, allineati in due file e quasi incapaci di reggersi in piedi per le torture subite, furono condotti in piazza dai componenti di una brigata nera non carpigiana. Furono fatti sdraiare a pancia a terra e uccisi a raffiche di mitra e un colpo alla testa. Dentro, carcerato, era rimasto solo Edmondo; nello stesso istante in cui riecheggiarono gli spari, si aprì la porta della cella e gli si avvicinò il capo della brigata nera di Carpi, che gli accese una sigaretta. Mettendogliela in bocca, gli disse: «Loro ti volevano uccidere, ma io ho mantenuto la promessa, anche perché hai sei figli. Puoi andare sei libero». Uscito, Edmondo si incamminò a piedi verso casa: il suo pensiero era tormentato dal mucchio di cadaveri che aveva visto da lontano, al centro della piazza, tra cui sapeva che doveva esserci quello del fratello Walter, che aveva dato la vita per lui. Nella sua mente dominava il pensiero di quando sarebbe giunto a casa. Il suo passo era lento. C’era il coprifuoco, ma voleva ugualmente arrivare; abbandonò la strada e attraversò i campi, avviandosi verso casa, verso quel disperato annuncio che doveva dare, assieme a un doloroso, ma caldo abbraccio, ai vecchi genitori. 



***
   Walter Lusuardi aveva 30 anni, lavorava come bracciante, a giornata. In quei giorni lavorava alla TODT assieme al fratello Edmondo: scavavano fossati anticarro per i tedeschi. Il loro padre, Primo Lusuardi, oltre ad essere stato presidente della Lega braccianti di Migliarina Budrione nei primi anni del Novecento era stato uno dei pochi che sapeva leggere e scrivere. Scriveva sul giornale socialista “Luce”, dove teneva una rubrica che si intitolava “Dalla vanga alla penna”: in essa invitava gli operai, gli uomini, ma specialmente le donne, a frequentare le scuole serali: gli uomini per avere il diritto di voto, perché a quei tempi votava solo chi “sapeva di lettera” e le donne perché avrebbero avuto almeno la soddisfazione di scrivere personalmente le lettere ai mariti, o ai fidanzati lontani, in guerra. Leggeva anche all’osteria ad alta voce, per i suoi amici, i giornali l’Avanti e Luce. Walter, cresciuto in questa famiglia socialista, e quindi antifascista, rientrato dal servizio militare in aeronautica, prima da Palermo, poi da Ferrara, trovò una situazione economica che non era affatto cambiata, anzi era peggiorata: la miseria era tanta, le giornate di lavoro poche e quindi anche i soldi erano pochi; per questo accettò l’ingaggio per andare in Germania a lavorare, per due anni, nei lavori stagionali, di raccolta delle patate. A quei tempi, per i giovani, l’unico divertimento era il ballo e a Migliarina, vi era una grande sala, chiamata “Salone Moderno” in cui, oltre alle serate danzanti, si poteva assistere a serate teatrali. Un gruppo di amici, ragazzi e ragazze, tra cui Walter, avevano formato una compagnia teatrale ed avevano allestito diverse commedie, come “Il Fornaretto di Venezia”; si esibivano anche cantando romanze delle opere più famose. Walter aveva una bella voce: molte volte, specialmente nelle serate all’osteria, dopo un bicchier di vino, veniva sollecitato a cantare. Le canzoni erano quelle che cantava Beniamino Gigli: “Non ti scordar di me”, “Mamma”, ma non mancavano l’inno socialista “L’Internazionale” o “Bandiera rossa”, ma queste ultime le cantava a bassa voce, mentre intorno si creava un vuoto. Molti dei presenti se ne andavano per paura di essere giudicati socialisti sovversivi; infatti in quel clima, a metà degli Anni Trenta, anche queste cantate erano un affronto per quei fascisti locali che, purtroppo, se ne ricordarono. Solo per questo l’hanno torturato senza pietà, strappandogli le unghie di mani e piedi, rompendogli un braccio davanti al fratello e l’hanno portato in piazza uccidendolo assieme a quindici innocenti. Pochi giorni dopo la liberazione, il Parroco dell’Ospedale di Carpi, che aveva dato la benedizione e  ascoltato le ultime volontà dei sedici fucilati, invitò i familiari di Walter ad andare in curia di Carpi per ritirare i documenti del loro caro. Nel portafoglio c’era la foto della fidanzata Ebe Gualdi e un biglietto con scritto l’ultimo pensiero: Un abbraccio a mamma e papà e tutti, un forte abbraccio e baci a Ebe. “Vando”.

Cronaca della strage di Carpi

Cronaca della strage di Carpi
Dalla Cronaca Carpigiana di don Ettore Tirelli
– Trascrizione Anna Maria Ori

16 Agosto 1944.
Dalla casa del fascio repubblicano la salma del colonnello Filiberto Nannini è trasportata solennemente in Duomo per le esequie. Si riforma il corteo e all’altezza del Municipio si scioglie. Movimento insolito di truppe. Due compagnie di Camicie Nere si allineano in doppia fila nel mezzo della piazza, entrata in castello verso il Torrione. Cantano inni guerreschi, nel mentre un plotone di Guardie repubblicane si unisce alle Camicie Nere. È il plotone di esecuzione. Sono le ore 20, mentre la salma del Nannini ha sepoltura nel nostro cimitero, 16 individui di tutte le età, sono portati in piazza e per rappresaglia uccisi.

17 Agosto 1944.
Giornata di costernazione espressa sul volto di tutti. Quasi squallida la piazza sebbene giorno di mercato. Le salme sono ancora supine a terra, e le scene di profondo dolore si susseguono appena un congiunto ravvisa un suo caro. Alle ore 9 sono incassate e allineate sul verde al fianco destro di chi entra in Castello. Alle ore 11 comincia il trasporto di questi disgraziati innocenti, e due per due sopra un camioncino senza onori funebri sono trasportati al cimitero.
Ecco i nomi delle vittime

Arturo Aguzzoli, anni 30, di Carpi;
Augusto Artioli, anni 60, di Carpi;
Aldo Biagini, anni 39, di Rio Saliceto;
Agostino Braghiroli, anni 41, di Carpi;
Remo Brunati, anni 36, di Mirandola;
Enzo Bulgarelli, anni 27, di San Felice sul Panaro;
Dino Corradi, anni 41, di Carpi;
Martino Del Bue, anni 48, di Rio Saliceto;
Umberto De Pietri, anni 26, di Carpi;
Fernando Grisanti, anni 24, di Milano;
Costantino Iotti, anni 18, di Rio Saliceto;
Walter Lusuardi, anni 30, di Migliarina Carpi;
Pierino Rabitti, anni 19, di Rio Saliceto;
Fermo Rossi, anni 24 di Rio Saliceto;
Avio Storchi, anni 26, di Rio Saliceto;
Giuseppe Zanotti, anni 30, di Carpi.

29 Agosto 1944.
La rappresaglia non è finita: i fascisti, non sazi di vendetta, hanno voluto superare anche nel crimine i loro alleati nazisti. Dopo due settimane dalla strage della piazza, in via Guastalla a Migliarina, proprio nel punto dove era stato giustiziato il fascista console Nannini, venivano uccisi quattro partigiani di Soliera, prelevati nelle loro case, portando il numero delle vittime a venti. I fascisti avevano voluto così dimostrare di essere i più spietati, assassinando venti persone innocenti per l’uccisione di un solo fascista, superando, anzi, raddoppiando i dieci contro uno delle Fosse Ardeatine.
I nomi dei quattro partigiani uccisi

Erio Fieni, anni 38;
Romano Bianchini, anni 38;
Fernando Loschi, anni 19;
Dante Loschi, anni 43.

N.B. – Il colonnello Antonio Petti, comandante provinciale della “Guardia Nazionale Fascista” responsabile dell’uccisione dei 16 innocenti in Piazza a Carpi, venne condannato a morte. L’esecuzione avvenne il 5 ottobre 1945 al Tiro a segno a Cibeno.

Tratto da
Patria e Libertà

Franco Fortini – Dopo una strage

Franco Fortini
Dopo una strage

da Lu Hsun
Le notti lunghe di primavera le passo ormai
con moglie e figlio. Fragili alle tempie i capelli.
Vedo in sogno imprecise lacrime di una madre.
Sulle mura hanno mutato le grandi bandiere imperiali.
Vite di amici diventano spettri, non resisto a vederle.
In ira contro siepi di spade cerco una piccola poesia.
Non lamentarsi. Chino il capo. Non si può scrivere più.
Come acqua la luna illumina la mia veste oscura.

Strage di Colle del Turchino

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Strage di Colle del Turchino

Colle del Turchino, sull’Appennino Ligure, durante l’occupazione tedesca dell’Italia fu caratterizzato da un’intensa attività partigiana e, proprio per questo, il passo omonimo venne scelto dai nazisti quale luogo di fucilazioni esemplari di prigionieri.

Qui, il 19 maggio 1944 vennero fucilati 59 prigionieri politici per rappresaglia all’attentato gappista avvenuto al cinema Odeon di Genova, dove erano rimasti uccisi quattro marinai tedeschi, andando ben oltre il rapporto 10 a 1 previsto dal bando Kesselring per vendicare l’uccisione di anche un solo soldato del Reich.

La maggior parte delle vittime, molte sotto i vent’anni, erano state prelevate dal carcere genovese di Marassi. 17 di queste erano partigiani catturati durante il rastrellamento della Benedicta, avvenuto in aprile.

Le modalità di fucilazione, come già per la strage alle Fosse Ardeatine, furono particolarmente crudeli. I prigionieri venivano fatti salire a gruppi di sei su delle passerelle di legno disposte su una grande fossa in modo che ognuno, prima di subire la stessa sorte, potesse vedere i cadaveri dei suoi compagni.

Strage di Civitella

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Strage di Civitella

Civitella, Val di Chiana – Arezzo.
Presso il circolo ricreativo del paese, dei partigiani uccidono in uno scontro a fuoco 3 soldati tedeschi. Il comando locale nazista lancia un ultimatum alla popolazione affinché si facciano i nomi dei responsabili, ma non ottiene alcun risultato.

Il mattino del 29 giugno 1944 reparti della divisione Hermann Goring e gruppi di repubblichini circondano il paese di Civitella e le vicine frazioni di Cornia e San Pancrazio e danno inizio ad una feroce rappresaglia, in cui vengono uccise a bruciapelo tutte le persone incontrate, e gli edifici dati alle fiamme.
La furia non risparmia nemmeno gli anziani ricoverati in una casa di riposo e i fedeli riuniti a messa dove, i nazifascisti, aprono il fuoco uccidendo anche il parroco.

Il tragico bilancio della strage è di 189 morti.

In seguito al processo relativo alla strage di Civitella, il 21 ottobre 2008, la Corte di Cassazione ha imposto alla Germania il risarcimento ai familiari delle vittime, in quanto crimine compiuto da soldati dell’esercito tedesco in servizio.

Strage di Cavriglia

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Strage di Cavriglia
Alla fine del mese di giugno del 1944 vengono concentrate nella provincia di Arezzo varie unità dell’esercito tedesco per far fronte all’avanzata degli angloamericani e contrastare, con l’aiuto di fascisti locali, le azioni di sabotaggio di bande di partigiani.

Il 29 giugno, grazie all’interrogatorio di un prigioniero, gli occupanti ottengono i nomi di alcuni resistenti nativi del territorio e il 4 luglio danno inizio alla rappresaglia.
Reparti tedeschi della divisione Hermann Goring agiscono nei comuni di Castelnuovo dei Sabbioni, Meleto, Massa, San Martino in Pianfranzese, Le Matole, rastrellando e uccidendo 191 civili maschi fra i 14 e gli 85 anni e dando alle fiamme i paesi

Strage delle Fosse Ardeatine

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Strage delle
Fosse Ardeatine

Roma, presso le antiche cave di via Ardeatina il 24 marzo 1944 si consuma l’eccidio di 335 civili e militari italiani per mano nazista.

Ad organizzare ed eseguire la strage sono l’ufficiale delle SS Herbert Kappler all’epoca anche comandante della polizia tedesca a Roma, il capitano Erich Priebke e Albert Kesselring.

L’eccidio matura come rappresaglia per vendicare 33 militari tedeschi morti in un’azione partigiana a via Rasella il 23 marzo. I tedeschi, dietro ordine diretto di Hitler, applicano alla lettera il principio di fucilare 10 ostaggi italiani per ogni tedesco ucciso. Vengono per errore inseriti 5 nomi in più alla lista.

L’esecuzione, che avviene con un colpo alla nuca, è di proporzioni enormi tanto che gli stessi comandi nazisti la rendono pubblica, insieme all’azione partigiana, solo a cose fatte e dopo aver fatto saltare le cave con delle mine per rendere più difficoltoso il ritrovamento dei corpi.

Le vittime, prelevate dal carcere di Regina Coeli e dal comando di via Tasso, sono per lo più partigiani e antifascisti o presunti tali, militari, ebrei, ma non mancano detenuti comuni.

I tedeschi hanno così anche infranto il patto con gli Alleati di considerare Roma ‘città aperta’, in modo da evitare coinvolgimenti della popolazione civile. Infatti gli angloamericani entreranno nella capitale una volta ritirati i tedeschi.

Strage di Boves

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Strage di Boves

Dopo la strage avvenuta il 19 settembre 1943, dove vennero uccise 32 persone – uno dei primi episodi di rappresaglia nazista contro la popolazione civile in risposta alle azioni dei gruppi partigiani -, si ha a Boves (Cuneo) una seconda feroce rappresaglia, che ha inizio il 31 dicembre e che si concluderà solo il 3 gennaio 1944.

Le forze dell’esercito tedesco impiegate sono numerose e dopo un saccheggio capillare vengono distrutte, praticamente sventrandole, oltre 500 case e uccisi 157 giovani.

Canzone partigiana:

Non ti ricordi il 31 dicembre,

quella colonna di camion per Boves

che trasportavano migliaia di tedeschi,

contro sol cento di noi partigian.

Che trasportavano migliaia di tedeschi,

contro sol cento di noi partigian.

E da San Giacomo e poi la Rivoira

Castellare, Madonna dei Boschi

la s’infuriava la grande battaglia

contro i tedeschi, i fascisti e i traditor.

La s’infuriava la grande battaglia

contro i tedeschi, i fascisti e i traditor.

Dopo tre giorni di lotta accanita

tra vasti incendi e vittime borghesi

non son riusciti con la loro barbaria

noi partigiani poterci scacciar.

Non son riusciti con la loro barbaria

noi partigiani poterci scacciar.

Povere mamme che han perso i lor figli

povere spose che han perso i mariti

povera Boves ch’è tutta distrutta

sotto quei colpi del vile invasor.

Povera Boves ch’è tutta distrutta

sotto quei colpi del vile invasor.

Strage di Acerra

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Strage di Acerra

È la strage nazista di maggior violenza avvenuta in Campania, che ha visto l’uccisione di 110 civili.

In seguito al ferimento di un maresciallo tedesco, addetto alla requisizione ai civili di automezzi, viene incendiato l’intero paese di Acerra (Napoli). A chi tenta di uscire dalle case si spara contro.

Come in praticamente tutte le rappresaglie nazifasciste in Italia, la maggior parte delle vittime sono donne, bambini e anziani.

Ilaria Lonigro – Strage di Sant’Anna

12 Agosto 1944 La strage di Sant’Anna

di Ilaria Lonigro

La tragedia del 1944 non terminò quel 12 agosto, quando i nazisti trucidarono 560 tra uomini, donne e bambini. Ma continuò per oltre un mese in alcune grotte in cui i superstiti rimasero nascosti: "Avevamo paura che i tedeschi tornassero e completassero la strage"

“Eravamo degli zombie. Abbiamo vissuto nascosti nelle grotte, senza parlare, senza uscire, se non di notte. Il nostro terrore era che tornassero e completassero la strage”. Tutti sanno cosa accadde a Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto 1944, quando furono trucidati 560 tra uomini, donne e bambini. Ma il dopo, fatto di morti da seppellire e morti viventi che si lanciavano nella fossa con i propri cari, fu la prosecuzione dell’incubo. Quaranta giorni chiusi in una grotta, con il terrore che i mostri fossero ancora lì fuori. Lo racconta a ilfattoquotidiano.it Enio Mancini, 6 anni all’epoca, sopravvissuto al massacro grazie a un SS che sparò in aria. La sua fu una storia “fortunata”: suo padre, tornato dal bosco dove era nascosto con gli altri uomini del paese per sfuggire a quella che inizialmente sembrava solo una retata, trovò tutta la famiglia ancora in vita. “Il 15 di agosto mio padre radunò i parenti e alcuni amici, in tutto 23 persone. Ci portò a nasconderci in una grotta in fondo al paese. Aveva paura che tornassero i tedeschi per finire il lavoro. Quando la sera il vento di tramontana scendeva, portava l’odore acre della carne bruciata. Per me è l’odore della morte, è la morte. Non si sapeva quel che succedeva, si sentivano solo i rumori delle cannonate. Si usciva solo la sera, quando si faceva un fuoco per cucinare patate e fagioli”.

L’odore della carne bruciata
Solo la zia Doralice Mancini mancava all’appello. La andarono a cercare, abitava al borgo ai Franchi. “Lì ho visto la carneficina – racconta Enio, ora 77enne – Corpi dilaniati, deformi. Il sangue raggrumato aveva attirato sciami di mosche, i cadaveri erano neri. Quando ci si avvicinava le mosche se ne andavano e poi ritornavano, il rumore degli sciami… La sensazione che mi è rimasta nel tempo però è l’odore acre, nauseabondo di carne bruciata, di uomini e bestie rimaste nelle stalle, un odore che ha pervaso la vallata per giorni e giorni”. La piazza della chiesa era irriconoscibile. La sera prima gli sfollati avevano messo su un mercato, ceste di frutta e verdura allineate sui muretti e di una vacca squartata e appesa ai platani. Da una parte, cadaveri ammassati, resi irriconoscibili dal fuoco, appiccato con le panche trafugate in chiesa. Su tutto, il silenzio, interrotto solo dai latrati degli uomini che, usciti dai boschi, scoprivano cosa era successo.

“I miei amichetti non sono stati più trovati”
Ne conoscevano di nascondigli, i bambini di Sant’Anna. Come Velio e Wilma Bartolucci, 7 anni, cuginetti. Erano loro i migliori amici di Enio. La sera prima avevano giocato insieme a nascondino e a uno-libera-tutti, lì, nella piazza della chiesa. Sperare che si fossero solo nascosti, quel giorno, non servì a niente. Nella casa di Wilma, ai Franchi, il piccolo Enio si affacciò. Vide dei piccoli resti umani bruciare sul letto, sotto una trave in fiamme. “Forse era Wilma” ricorda oggi. I suoi amici non sono mai stati riconosciuti. E davanti alla chiesa lui non ha più giocato. “Se nel 1943 eravamo 43 ragazzi nella scuola del paese, nel 1945, alla riapertura, eravamo in 12. Del famoso girotondo di bambini della fotografia, rimase viva una sola bambina, Leopolda Bartolucci”. Quel giorno Enio si fermò solo poche ore in paese. Il tempo di rendersi conto cosa fosse successo. Di essere abbracciato da un uomo che lo chiamava col nome del suo bambino morto.

La vita “di prima” spazzata dai ricordi
Della vita di prima, scandita dall’Ave Maria all’alba e dal Credo quando il sole si buttava in mare, non restava più niente. Saltarono tutte le regole, le credenze. Si ruppe la fede. Sant’Anna, protettrice delle mamme, quel giorno aveva pensato solo a se stessa. La sua statua rimase illesa mentre tutto andava a fuoco. Un egoismo che alcuni superstiti non le hanno mai perdonato. Un tempo, detto l’Ave Maria, l’acqua delle sorgenti non si poteva bere: si credeva vi finissero gli spiriti maligni; adesso era intoccabile perché infestata dai cadaveri. “C’era pochissima acqua buona e la mamma non voleva che la sprecassimo. Lavarci era sciupare l’acqua”.

Di tutto, Enio ricorda soprattutto la sporcizia. “La mancanza di igiene era opprimente. Eravamo in una condizione pietosa. Pieni di insetti, di pulci, di pidocchi”. Così, terrorizzati, sporchi, affamati, rimasero in silenzio nella grotta, come bestie, uscendo solo di notte. Fino a che non videro tornar su i soldati. “Fu la paura, il terrore. Gli adulti si raccomandavano a noi bambini che si stesse zitti, di non farci sentire. Poi qualcuno avvicinandosi si è accorto che non erano tedeschi. Tra cui mio padre, che veniva dalla guerra, pertanto conosceva perfettamente le divise. ‘Sono americani, sono americani!’ gridarono gli adulti. E allora siamo usciti tutti dalla grotta. Era il 21 o 20 settembre del 1944. Circa 40 giorni dopo la strage. ‘Aiuto! Aiuto!’ urlavamo”.

“Quando gli americani mi dettero il cioccolato per me fu la vera Liberazione”
Una corsa a perdifiato giù per il pendio scosceso, per raggiungere quei quattro o cinque soldati che, increduli, si erano fermati ad aspettare quegli uomini di Neanderthal che uscivano dalla grotta. “Erano la prima pattuglia americana venuta per capire quello che era successo. Tra loro c’era un nero. Io mi sono spaventato da morire. Urlavo, piangevo, andavo a nascondermi dietro le gonne delle donne. E quel soldato sorrideva, aveva capito, mi dette una cosa: la cioccolata. Così gli americani hanno conquistato la mia simpatia. A McBride, l’autore del libro Miracolo a Sant’Anna, avevo raccontato questo episodio. E allora lui ha visto il bambino che lecca il soldato di cioccolata. Quel giorno fu per me la vera Liberazione”.

Tratto dal

ilfattoquotidiano