Archivio mensile:marzo 2013

La battaglia di Cetica

La battaglia di Cetica
di Giovanni Baldini, 21-8-2003, Creative Commons – Attribuzione 3.0.
La progressiva organizzazione e l’asserragliamento dei partigiani sulle montagne fra il Valdarno e il Casentino valse alla zona il nomignolo di "piccola repubblica del Pratomagno", anche se si trattava di una realtà meno complessa rispetto alle vere repubbliche partigiane sul versante emiliano dell’Appennino.
Cetica, già da tempo interessata da attività partigiana, era una delle possibili vie di accesso alle montagne più alte e quindi era presidiata da alcuni distaccamenti della Brigata "Lanciotto".

L’alba del 29 giugno 1944 truppe tedesche, fra le quali unità di élite come uno dei battaglioni della "Brandemburg", e repubblicane salirono verso Cetica utilizzando avanguardie travestite da partigiani.

Scoperti a pochi chilometri dall’abitato iniziarono ad azionare i mortai e a convergere da più parti. Una squadra della II compagnia della "Lanciotto" viene accerchiata e annientata ma gli attaccanti si concentrano soprattutto nella demolizione delle case e in violenze sulla popolazione. I partigiani ricevono rinforzi dai monti e riescono a fermare i nazi-fascisti e infine a respingerli, salvando parte del paese ed il mulino.

Sulla via del ritorno i tedeschi verranno a loro volta attaccati dai partigiani di Lazio Cosseri che li avevano preceduti.
Alla fine della giornata saranno contati dodici partigiani e undici civili fra le vittime dell’attacco, gli aggressori avranno perso cinquantacinque soldati.

Cetica è ricordata come il primo deciso successo in battaglie di difesa, un tipo di azione inconsueto per i partigiani, e che soprattutto fu scuola per l’avvenire.

L’impiccagione di Ernesto Mucci e Torello Petrucci

L’impiccagione di Ernesto Mucci e Torello Petrucci
di Roberto Daghini, 16-7-2009, Tutti i Diritti Riservati.
Tra le stragi e gli omicidi perpetrati nella zona del comune dell’Abetone dalle truppe tedesche in ritirata va segnalato anche quello avvenuto a fine settembre del 1944 di cui furono vittima Ernesto Mucci (esercente) e Torello Petrucci, abitanti a San Marcello Pistoiese.
I due erano nella zona di Cutigliano quando i tedeschi fecero un rastrellamento perché i partigiani avevano ucciso due soldati, li catturarono e li rinchiusero dentro il Lanificio Tronci per la notte insieme ad altri ostaggi.

Al mattino furono portati all’Abetone: i tedeschi con molta probabilità li usarono per trasportare materiale, come aiuto alla smobilitazione visto che il fronte era in continuo movimento e gli alleati si avvicinavano.

Forse per togliersi velocemente l’impiccio li uccisero e li appesero ad un palo usato per collegare i fili dell’energia elettrica, in località Sant’Antonio.

Le cattive condizioni atmosferiche e le operazioni belliche nella zona fecero sì che i corpi rimanessero appesi fino al 24 aprile 1945, quando furono recuperati dalla Croce Rossa di San Marcello.
I loro corpi erano chiaramente in condizioni pietose, furono poi portati a San Marcello e sepolti nel locale cimitero.
Nel registro degli interventi della Croce Rossa di San Marcello si legge:

26-4-1945 Fu provveduto alla rimozione dei cadaveri uccisi dai tedeschi all’Abetone: Mucci Ernesto e Petrucci Torello.

Trasportati alla chiesa alle ore 18 sono stati fatti i funerali col concorso di tutto il popolo. Militi che hanno partecipato all’operazione: Baldassarri Giuseppe, Arcangeli Amato, Fini Silverio, Preti Savonarola, Zinanni Luciano. Presenti due carabinieri.

Edoardo Semmola Io cosi vicino a Dachau

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Io, così vicino a Dachau
Sui treni di Hitler da Pisa alla Germania: così si salvò un ragazzo di sedici anni. La cattura, il lavoro con l’aratro, il ritorno. I ricordi di Piero Giusti: «La sorte mi ha aiutato»
La memoria prima di tutto. «‘‘Per non dimenticare’’, ce l’hanno ripetuto per anni, ‘‘dobbiamo raccontare, per non dimenticare’’: ogni storia è importante quando si tratta di tenere viva la memoria del nazismo e delle deportazioni».
Piero Giusti però ci ha messo 60 anni a raccontare la sua storia perché per tanto tempo ha pensato che, in confronto a molti altri, aveva sofferto di meno. I tedeschi lo presero mentre tornava a casa, alle Molina di Quosa, nella campagna di Pisa, il 27 agosto ‘44. E lo portarono al campo di concentramento di Fossoli, sei mesi dopo Primo Levi. Poi al carcere di Peschiera. Lo deportarono in Germania, aveva 16 anni e i pantaloni corti. Ma no, lui no, nei luoghi dell’orrore non ci andò: fu invece portato a lavorare nelle campagne, a tirare l’aratro con i buoi per sfamare le truppe tedesche; non ha mai realmente rischiato la vita, o almeno non con la drammaticità che siamo abituati a leggere nei resoconti dell’Olocausto. Quando nel giugno del ‘45 riuscì a tornare a casa, il suo primo pensiero fu mettere nero su bianco la sua esperienza, fermare su carta le emozioni, la paura, i tentativi di fuga, le urla dei soldati tedeschi. E iniziò a raccontare la sua Pisa durante la guerra e sotto le bombe e l’occupazione, i piccoli grandi problemi di un ragazzino che avrebbe voluto solamente finire l’anno scolastico, ma i bombardamenti alleati prima e i rastrellamenti tedeschi poi, cercavano di impedirglielo a tutti i costi.
Iniziò a scrivere ma subito si fermò: «Quando uscì Se questo è un uomo di Primo Levi e lessi delle terribili sofferenze che aveva vissuto, provai un sussulto: come potevo io raccontare la mia odissea? Sarebbe stato un insulto nei confronti di chi aveva vissuto l’esperienza di un campo di sterminio». Ha aspettato 60 anni. Poi, un giorno, passeggiando per il mercatino di piazza dei Cavalieri, vede un volume spuntare dal mucchio: Diario di un rifugiato sui monti pisani. La calda estate 1944 (Lischi editore) di Carlo Vallini. Lo prende, lo sfoglia, e corre subito alla pagina in cui si racconta del 27 agosto, quando fu preso dalle Ss insieme ad altre 250 persone. «Poche e scarne erano le righe dedicate a quell’accadimento per me epocale, e ci sono rimasto male. Quella è stata la molla che mi ha convinto a scrivere Racconti di un deportato in Germania» (Felici editore).
La storia delle memorie di Giusti — iniziata con le prime parole nell’estate del ’45 — è una descrizione lucida, quasi «serena» di fatti drammatici visti con gli occhi di un ragazzo pieno di vita e sentimenti positivi. Inizia e finisce a Pisa, dalla vita ai tempi di guerra al ritorno e all’Anno Zero. «La zona di Pisa non è così tanto presente quanto avrebbe meritato, nei racconti di guerra e occupazione — ci racconta Giusti — Gli americani rimasero per 40 giorni a sud dell’Arno mentre a pochi chilometri di distanza i tedeschi operavano rastrellamenti casuali». In uno di questi, 4 giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate, anche il sedicenne Piero fu preso e deportato. «Ho avuto la fortuna e la furbizia di evitare di essere assegnato all’industria; dissi che non sapevo leggere né scrivere, e mi mandarono all’agricoltura insieme a un milione e mezzo di schiavi che come me dovevano dare da mangiare all’esercito; e tanti venivano dalla Versilia e dal pisano, gente di campagna: ho schivato i bombardamenti e non ho sofferto la fame — ospitato da una famiglia di agricoltori bavaresi — E ho sfiorato il campo di Dachau per pochissimo. La sorte mi ha aiutato». Dal settembre 1944 al 1 maggio 1945 ha vissuto in una fattoria, spingendo l’aratro, «e mi tenevo sempre in allenamento con i ricordi di scuola, ripetendo le lezioni ai buoi al pascolo, forse gli unici che non avrebbero pensato che ero un deficiente che parlava da solo»; era il più giovane, l’ultimo arrivato nella fattoria, ed era benvoluto. «Tanto che in più di un’occasione sia il Borgomastro che la moglie si sono esposti per me con i soldati per evitare che mi portassero via».
Asciutto, «leggero» per quanto possibile, ricco di episodi che l’autore definisce «ridicoli e simpatici» perché «ogni tanto facevo il birichino, a casa, e qualche rischio l’ho corso», il racconto della sua epopea e del lungo viaggio di ritorno a casa durato due mesi con non poche peripezie, è fuori dagli schemi nel grande panorama della letteratura sull’Olocausto. Una piccola storia che scorre vicina e veloce come una freccia alle emozioni semplici di chi l’orrore fortunatamente non lo ha vissuto. E che raggiunge con semplicità il suo scopo: tenere viva e presente la memoria. «Oh, poi, alla fine, ce l’ho fatta: correndo come un pazzo verso sud, verso casa, sono riuscito a tornare in tempo: l’ho recuperato quel maledetto anno scolastico!».
Edoardo Semmola

Storia di informatori

Storia di informatori
di Roberto Daghini, 12-12-2008, Tutti i Diritti Riservati.
Questa storia si svolge nel comune di Sambuca Pistoiese (PT).

La zona della montagna pistoiese e i suoi borghi durante il periodo bellico furono meta di rifugio di partigiani, che svolgevano la loro attività attaccando le truppe nazifasciste per poi ritirarsi e nascondersi con l’aiuto della popolazione nei boschi circostanti. Ma fu oggetto anche di operazioni di informazione utilissime per gli Alleati che risalivano la penisola.

Il comune di Sambuca Pistoiese per la sua vicinanza con Bologna era posto sulla cosidetta Linea Gotica. Importantissimo per le sue vie di comunicazione che portavano nel bolognese fu oggetto di una forte presenza di partigiani che dai paesi vicini – Pracchia, Taviano, Orsigna, San Marcello, la Collina, Cutigliano, Piteglio – attaccavano con piccole azioni di disturbo le truppe naziste. I comitati clandestini del C.L.N (Comitato di Liberazione Nazionale) svolgevano opera di assistenza ai civili e ai partigiani ed inoltre era stata creata in ogni paese un’importante rete di informatori che provvedevano a far arrivare agli Alleati notizie sugli spostamenti di truppe e a segnalare la presenza di spie fasciste in loco.

Nella località di Treppio, posta nel comune di Sambuca, nei primi anni ’40 era arrivato un funzionario addetto alla riscossione dei dazi. Questa persona si chiamava Luigi Piergallini ed era nato nel comune di Ripatransone (AP) il 1 novembre del 1906, si era sposato in seconde nozze con la signora Lina Bartoletti, originaria del posto.

La sua importante posizione aveva fatto sì che era stato proposto dal Segretario del Fascio di Sambuca per l’analoga posizione nella località di Taviano, questo perché nei confronti del precedente segretario di Taviano erano stati presi provvedimenti epurativi.
Il Piegallini però da tempo collaborava con il C.L.N bolognese attraverso il dottor Gastone Ferrari (medico del comune di Granaglione) e anche con altri antifascisti locali, specialmente con Tobia Gualandi e Aldo Totti i quali cercavano, in collaborazione con la Brigata Matteotti Bolognese, di organizzare a Taviano e Treppio un comitato d’azione che oltre a fare resistenza attiva aveva il compito di assistere i prigionieri Alleati fuggiti, rifornire i partigiani di viveri e informarli degli spostamenti nemici.

Il comitato fu formato: ne facevano parte Massiliano Gualandi (presidente), Tobia Gualandi (segretario), Gianni Cesare, Mario Ramazzotti, Aldo Totti, Sergio Ceccarelli e Dante Zaretti.

La prima iniziativa fu quella di prendere contatto con il dottor Gastone Ferrari del C.L.N bolognese, il quale, saputa la notizia del deferimento del segretario del Partito Repubblicano Fascista (P.R.F.) di Taviano, tramite Massimiliano Gualandi e il Totti propose al Piergallini di accettare di farsi eleggere segretario.
Gli fu assicurato che durante la sua carica sarebbe sempre stato protetto e a fine guerra riabilitato, promettendogli una carica amministrativa in misura del suo operato. Gli fu notificato il tutto e gli venne fatto fare un giuramento antifascista.
Il Piergallini prestò alla fine del 1943 il giuramento alla nuova Repubblica Sociale diventando il nuovo segretario del P.R.F. di Taviano: da quel momento iniziò l’attività della rete di spionaggio, fatta di frasi convenzionali e messaggi cifrati alla cabina telefonica di Treppio.

Molte delle informazioni venivano date dalla signora Elena Gualandi che in paese godeva della fiducia di tutti. Proprio grazie a questa bella donna che si era guadagnata la stima del maresciallo dei carabinieri Santolini e del suo collaboratore Serrotti furono scongiurati molti arresti di antifascisti locali. Il Piergallini con il suo tatto diplomatico riuscì non solo a raccoglie preziose informazioni ma anche a far sì che nel paese di Treppio nessuno aderisse al nuovo partito fascista.

Per questo motivo fu molte volte richiamato dal direttorio che aveva incominciato a sospettare qualcosa del suo operato. Per citare qualche salvataggio basti ricordare che al patriota Dante Zaretti fu evitato l’arresto grazie all’intervento della Gualandi. Lo stesso Massimiliano Gualandi fu convocato in caserma e il comandante Santolini nel contestargli il possesso illegale di un moschetto tedesco gli disse: "so chi siete conosco in pieno i vostri precedenti, se vi trovate libero cittadino lo dovete provvisoriamente alle buone persone a cui ho prestato piena fiducia. Rettificatevi se non volete che vi capiti da un momento all’altro una legnata tra capo e collo".
Molte altre furono le informazioni dal Piergallini, fra le quali anche l’elenco dei nomi degli iscritti al P.R.F. del comune di Sambuca, consegnate tramite il compagno Totti al C.L.N. di Bologna.

La mattina del 17 aprile 1944 la formazione partigiana Bozzi era sul crinale della collina di Treppio.

Vari distaccamenti avevano frequentato la zona con l’obiettivo di rifornirsi di viveri e recuperare armi. In questa opera furono aiutati anche dal carabiniere Serotti che in caserma a Taviano facilitò l’asportazione di moschetti e altro materiale e anche tramite i fratelli Ramazzotti che trovarono muli da trasporto. Inoltre in collaborazione con i compagni Iovi, Giovannelli e i fratelli Massimiliano e Tobia Gualandi furono recuperate armi lanciate vicino a Treppio dagli Alleati. Nella fase finale i fratelli Gualandi e Vittorio Ceccherini perlustrarono le località Acqua e Treppio e benchè disarmati riuscirono a catturare un soldato tedesco guastatore.

Quella mattina però dalla strada camionabile si riversarono nella località alcune colonne di militi nazifascisti e carabinieri assieme a tutte le autorità fasciste provinciali (Prefetto, Federale, Capitano dei carabinieri, ecc.).

Queste forze erano pronte all’accerchiamento e i carabinieri avevano prelevato a Taviano il Piergallini e gli avevano imposto di fare da guida.
Iniziato il rastrellamento a Ca’ Zini il Piergallini abbandonò la colonna di testa e grazie alla conoscenza del territorio raggiunse i partigiani. Si qualificò e indicò le possibili vie di fuga a Monterosa e a Ca’ del Cucco, per poi dileguarsi nel bolognese.
La battaglia ebbe inizio senza esclusione di colpi e grazie alle circostanze metereologiche favorevoli e ai consigli ricevuti la formazione partigiana riuscì nonostante la perdita del comandante Magnino Magni a rompere l’accerchiamento. Al suo ritorno la cosa non era sfuggita ai carabinieri e ai fascisti, ma sul momento fu solo minacciato e lasciato andare. Al compagno Massimiliano Gualandi non disse nulla, ma fece in modo che capisse la gravità del momento e questi pensò bene di mettersi in salvo.

Il Piergallini fu arrestato dai carabinieri dopo alcuni giorni. Portato a Pistoia al comando tedesco di Groppoli fu interrogato ma non parlò.

La zona dopo dieci giorni fu bombardata dagli Alleati e in un primo momento riuscì a fuggire, ripreso quasi subito fu portato nel campo di Fossoli. Lì ricevette la visita della moglie incinta che purtroppo non riuscì a aiutarlo.
Venne trasferito il 24 giugno 1944 nel lager di Mauthausen e lì, nel sotto campo numero 40 "Schlier-Redl-Zipf", il 13 febbraio del 1945 troverà la morte per sfinimento.

Intanto a liberazione avvenuta il 12 settembre del 1945 il C.L.N. venne a conoscenza che le autorità giudiziarie bolognesi avevano spiccato un mandato d’arresto per il Piergallini.

Tale denuncia si basava solamente sulla carica di segretario dl P.R.F. ricoperta dal Piergallini. Il 28 settembre 1945 il C.L.N. di Sambuca inviò un’ampia relazione dove si spiegava la vera attività svolta dal Piergallini e non conoscendo ancora bene gli ultimi avvenimenti fu ipotizzato che fosse caduto, fucilato dopo lo scontro di Treppio.
Nel documento oltre a spiegare l’attività dell’accusato Aldo Totti, Massimiliano Gualandi e Dante Zaretti inoltrarono anche una dichiarazione della Brigata Matteotti bolognese dove si diceva che tutto ciò era stato fatto per non macchiare la memoria dell’eroe Piergallini che aveva dato la vita per un alto ideale.

La posizione del Piergallini fu finalmente chiarita e fu proposto per il conferimento di una medaglia d’oro al valore militare.