Mario Fiorentini (Giovanni,Gandi )

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MARIO FIORENTINI

(GIOVANNI, GANDI, FRINGUELLO, DINO)

Gappista

Chi è Mario Fiorentini?

 

Se dovessi sintetizzare, direi che sono una persona normale che in due periodi della mia vita, per effetto di una straordinaria volontà, sono riuscito a realizzare cose per me importanti, e mi riferisco ai venti mesi della guerra di liberazione in Italia e agli anni del mio impegno scientifico e accademico come matematico. La mia storia politica inizia nel 1941. Del fascismo conoscevo soltanto quello che allora veniva rappresentato pubblicamente non avendo, come quasi tutti, la benché minima cultura politica per capire già allora cosa realmente fosse. Anch’io come tutti i ragazzi del tempo fui condizionato dalla propaganda patriottarda; ricordo una professoressa che ci recitava spesso: «… non vedo più relegato nelle lontananze dell’avvenire il giorno in cui i gonfaloni dei combattenti precederanno le bandiere lacere e gloriose…» e via dicendo. I fascisti sostenevano che avevano salvato il paese dal baratro in un momento di grande confusione, quando le istituzioni non funzionavano. Questa propaganda, unita a orientamenti e a venature di stampo sociale, in una prima fase apparentemente molto sentite e successivamente sacrificate dagli stessi fascisti all’esigenza di conservare il potere, faceva sì che il fascismo riscuotesse un consenso generalizzato.

Premetto che il fascismo a mio avviso non può essere giudicato in blocco, innanzitutto perché ci sono stati tanti fascismi. Per intenderci: il fascismo italiano, quello rumeno, quello portoghese sono tre esperienze differenti

Nel 1941, come dicevo, ho avuto i primi contatti che risulteranno poi fondamentali per la mia esperienza politica. Innanzitutto con Fernando Norma, che aveva uno studio di ebanista nel quartiere romano di Prati ed abitava in via Arco della Ciambella, singolare strada romana alla quale è dedicato un suggestivo romanzo autobiografico di Giovanni Gaglioffi. Poi Paolo Emilio Manacorda e, a Positano, con Sibilla Aleramo e Franco Matacotta, poeta e più tardi partigiano a Roma e nelle Marche. Nella seconda metà del 1941, partecipai attivamente alle vicende politiche; conobbi Fabrizio Onofri, Valentino Gerratana, Mario, Enrico e Carlo Socrate, Mario e Carlo Lizzani, Ruggero Iacobbi, Ennio de Conciasi, Giuseppe de Santis, Gerardo Guerrieri, Giuseppe Antonella e tanti altri.

Ebbi qualche contatto con Guido Carli con il quale intrattenni alcune discussioni su argomenti letterari, economici e politici. Con Ennio de Concini portammo avanti discorso di rinnovamento del Cinema italiano auspicando l’apertura verso temi sociali e di forte impegno civile e di rinnovamento della Chiesa. Ebbi vari contatti con Luchino Visconti al quale proponemmo soggetti cinematografici che non furono realizzati, ma credo su di lui qualche influsso lo ebbero certamente anche a giudicare dal favore che sempre mi accordò più tardi, quando iniziai la guerra clandestina. Ruggero Iacobbi allora fu un personaggio chiave al centro del mondo della letteratura, delle arti figurative, del teatro, del cinema, e della musica. Poi Vasco Pratolini e Franco Calamandrei che furono inquadrati nelle file della Resistenza romana e svolsero la loro attività di Gappisti soprattutto nella IIIa zona. Le idee politiche che circolavano allora? Fernando Norma, che fu ucciso alle Fosse Ardeatine, era un repubblicano di antica tradizione poi passato a Giustizia e Libertà. Paolo Manacorda, in un primo tempo era liberale con influenze risorgimentali e socialiste; poi insieme simpatizzammo per il nuovo Partito Comunista.

 

Come ha vissuto la notte del 25 luglio del 1943, quando cadde Mussolini?

 

Appena appresa la notizia alla radio ero in piazza a manifestare nelle vie di Roma con Plinio de Martis. Eravamo pochissimi, al centro della città, gridavamo slogans contro Mussolini e la guerra. Fu un crescendo fantastico. Dapprima credevamo di trovare una resistenza da parte dei fascisti, ma le case del fascio o erano chiuse o furono attaccate e danneggiate.

Poi ci fu l’otto settembre, l’Armistizio. Furono settimane di grande incertezza e confusione. Ci furono incontri febbrili di gruppetti e non sapevamo come comportarci soprattutto nei confronti dei militari visto che eravamo in regime militare e di guerra. Con Antonio Cicalini e Antonello Trombadori, Fernando Norma e qualche militare che agiva sotto stretto incognito e qualche cristiano sociale come Rodano, Tatò, e Ossicini costituimmo gli «Arditi del Popolo». Era importante sottolineare il carattere popolare e interpartitico di questa organizzazione, il cui principale obiettivo era quello di riscattare l’Italia dalla vergogna del fascismo. Ricordo anche che effettuammo una specie di parata militare in Viale Giulio Cesare. Noi sfilavamo in gruppetti, Lucia Ottobrini, unica donna, era al mio fianco, dietro di noi c’erano elementi del partito d’azione e altri. Non eravamo armati, ma aleggiava in noi un po’ lo spirito dell’alleanza popolare antifascista in Francia, e in Spagna del Fronte Popolare.

Nella giornata del 9 settembre ero nella zona ostíense mentre infuriavano i combattimenti a Porta

San Paolo. In quella giornata, mentre si stava compiendo lo sfacelo dell’esercito italiano col Re in fuga, Roma tentò di resistere ai tedeschi con una straordinaria unità ira militari (in particolare granatieri ma anche nuclei di carabinieri e popolazione civile. Il ricordo di Porta San Paolo è per me soprattutto il ricordo di volti. La figura .allampanata di Alcide Moretti, operaio antifascista altissimo dal volto scavato; accanto a lui Adriano Ossicini e anche Tonino Tatò e Giuseppe Gozzer.

Quello stesso giorno attaccammo una piccola caserma in Via Rasella dove erano custodite delle armi e alcuni fucili. La caserma era presidiata da un colonnello in divisa e tre militari che si opposero energicamente. Ci fu una colluttazione furibonda tra me e i militari e nel frattempo i miei compagni rapinarono il grosso delle armi. Proprio di fronte alla caserma abitava un operaio della Breda con la sua famiglia e nella sua casa Tonino Tatò ed io avevamo fatto delle riunioni clandestine. Quell’uomo mi disse che la folla che assisteva tutto intorno era rimasta impressionata dal fatto che io, nonostante fossi magrissimo e pallido in viso essendo in convalescenza, avevo dimostrato un’energia impensabile lottando con quei militari, fisicamente più robusti di me.

 

Ricorda l’entrata dei tedeschi a Roma?

 

È stato questo uno dei momenti più drammatici. Ero in via del Tritone e una colonna imponente di carri armati prendeva possesso della capitale. Fui colto da una furia incontenibile a cui però seguì una fase di lucidità. Pensai che eravamo come in fondo a un pozzo, immersi nella melma fino alla cintola. Inglesi e francesi ci avversavano perché avevamo assecondato Hitler in una guerra sciagurata; i tedeschi ci odiavano perché si ritenevano traditi. L’unica strada da seguire era schierarsi decisamente nel fronte degli alleati combattendo una guerra senza quartiere contro i tedeschi. Non attesi che la colonna terminasse di sfilare, presi per mano Lucia (Ottobrini) e con lei mi recai alla periferia di Roma, alla Madonna del Riposo, sulla Via Flaminia, alla Pineta Sacchetti, a Monte Mario a fare incetta di armi.

Fu una mia idea quella di concentrare gli sforzi per impossessarci di bombe di ogni tipo. A parte le bombe tedesche e italiane che erano più o meno conosciute, ricordo che ci procurammo anche bombe cecoslovacche di cui non conoscevamo l’uso e alcune mine. Smistammo poi questo materiale nei luoghi più impensati.

 

Ci furono azioni armate prima della costituzione dei Gap? Cosa successe nelle prime settimane,della Resistenza armata romana?

 

Io cominciai, insieme a Lucia Ottobrini e Franco di Lernia ad usare queste armi soprattutto contro automezzi tedeschi in transito o in sosta. Ricordo che per queste azioni mi forni il materiale esplosivo un impiegato del Banco di Roma, Mario Pressenda, che era un funzionario di grande qualità, un oratore elegante con notevoli qualità professionali e che fu purtroppo emarginato a ruoli e compiti secondari ai tempi di Scelba.

 

Lei si incontrò nei primi giorni di ottobre del 1943 a Ponte Sisto con altri antifascisti. Cosa avvenne in quell’incontro?

 

Occorreva superare la tendenza attendista di rinviare la lotta armata a un’ipotetica ora x, cioè l’ora dell’insurrezíone che doveva scattare solo al momento dell’arrivo degli Alleati. L’attendismo si manifestava in forme differenti; c’era soprattutto il timore di rappresaglie e perciò c’era chi diceva che non bisognava compiere azioni in città, soprattutto se potevano assumere rilevanza militare; c’era chi sosteneva che non bisognava attaccare i fascisti perché erano italiani anche loro. Pensate che c’era addirittura una frangia anarchica che arrivava all’assurdo affermando che attaccando i tedeschi si diventava uno strumento degli imperialisti anglo-americani, posizione, questa, spesso fomentata e fatta circolare dagli si essi nazifascisti. In quella riunione a Ponte Sisto venne ribadito con energia che bisognava indebolire il potenziale bellico nazista attaccando con azioni improvvise gli obiettivi militari, bisognava che Roma non fosse utilizzata per il transito delle colonne di rifornimenti dirette al fronte. Bisognava minare seriamente il morale delle truppe tedesche di guarnigione nella città, oppure quelle operanti al fronte facendo sentire la presenza di un sercito, quello partigiano, insidioso e pericoloso. Si dovevano rendere più efficienti ed aggressive le formazioni patriottiche, demolendo la fama di invincibilità della Wehrmacht, con azioni fulminee di piccoli gruppi che colpivano duramente i reparti tedeschi. Infine bisognava attaccare senza respiro militi e ufficiali della Milizia fascista. Eravamo al tramonto di una calda giornata d’ottobre, qualche giorno prima avevo ricevuto l’ordine da Fabrizio Onofri di recarmi in quel posto, lì, a Ponte Sisto incontrai Carlo Salinari che già conoscevo, Danilo Nicli e Giulio Cortini. Decidemmo che bisognava staccare dall’organizzazione militare delle zone, alcuni elementi particolarmente arditi, preparati, i quali avrebbero attaccato i tedeschi senza tregua. Quell’incontro fu decisivo: nacquero i Gap centrali.

Già nel mese di settembre un primo nucleo formato da me, Lucia Ottobrini e Franco di Lernia e altri tra cui Giuseppe Regis e Luciano Vella avevamo portato a termine numerose azioni sia contro le pattuglie di fascisti e di tedeschi sia contro gli automezzi in transito. Tuttavia la stampa e la radio non citavano le nostre azioni e questo fatto diffondeva tra noi un senso di incertezza. Dovette trascorrere almeno un mese dalla riunione di Ponte Sisto prima di formare definitivamente i Gap centrali. Verso la fine di ottobre si aggiunsero a noi Rosario Bentivegna e Carla Capponi, che mi fu segnalata da Enrico de Angelis in via Piave. Non ho mai dimenticato gli occhioni grandi e sgranati, il viso pallido fortemente incipriato, la figura snella e svelta e il modo spontaneo di parlare di Carla. Chi avrebbe potuto immaginare che Carla sarebbe diventata forse la partigiana più ardimentosa e popolare della guerra di Liberazione? Carla fu un acquisto importantissimo dei Gap, fu al fianco mio e di Lucia nelle prime due azioni dei Gap contro automezzi tedeschi. Tra Carla e Lucia si strinse un affetto e una stima rimasti inalterati nel tempo.

Il comando regionale era diretto da Antonio Cicalini e Pompilio Molinari. Talvolta ci furono tra me e il comando diversità di vedute e dissensi come per l’azione del teatro Adriano dove, il 18 novembre del 1943 si svolse un’adunata di autorità fasciste e alti ufficiali tedeschi. Era stato annunciato che un corteo avrebbe sfilato per la città e io avevo studiato un piano che comprendeva due azioni, una all’interno del teatro e l’altra contro il corteo nel caso in cui il primo attacco non fosse riuscito; in quell’occasione disponevo anche di un mitra che mi era stato fornito da Enzo Russo, uno studente di medicina. Nel palazzo all’ultimo piano adiacente al teatro Adriano abitava Emanuele Rocco, figlio del giurista fascista che poi sarebbe diventato giornalista della Rai. Con’ il suo aiuto, io e Sasà ispezionammo le terrazze per organizzare un’irruzione dall’alto. Il mio progetto di attaccare il corteo fu però rifiutato. Fu così collocato un estintore con otto chili di tritolo sotto il palcoscenico. Ma come tutti sanno la bomba non esplose e i gerarchi fascisti e i generali tedeschi sfilarono indisturbati per la capitale. Ma quel piano fu ripreso più tardi, il 10 marzo del 1944, quando, nello stesso luogo in cui era previsto l’attacco al corteo una squadra di 12 gappisti tra cui due donne, Marisa Musu e Lucia Ottobrini, in via Tomacelli, attaccò un corteo di fascisti preceduto da una colonna di centocinquanta giovani della Guardia Nazionale. In quattro attaccarono frontalmente la colonna e gli altri, dislocati in vari punti della strada crearono lo scompiglio tra i partecipanti al corteo. Io facevo parte del quartetto con Raul, Furio e Paolo. Quell’azione fu molto importante non solo perché destò grande impressione, tanto che fu istituita una taglia di cinquecentomila lire su di noi, ma soprattutto perché proprio in virtù di quell’azione così temeraria i tedeschi proibirono ai fascisti di sfilare per la città. Fu un duro colpo. Soltanto tredici giorni più tardi, il 23 marzo, si sarebbe dovuta svolgere a Roma la grande manifestazione di celebrazione del venticinquesimo anniversario della fondazione dei fasci di combattimento che i fascisti avevano preparato con grande cura e quella manifestazione non si svolse.

 

Che può dirci dell’azione in via Rasella?

 

Nella seconda quindicina di febbraio del 1944, vidi passare una colonna della gendarmeria tedesca che in pieno assetto di guerra sfilava per il centro della Capitale. Rividi sfilare la colonna di soldati tedeschi il quattro marzo. Subito mi venne in mente il piano d’attacco. Chiesi a Spartaco (nome di battaglia di Carlo Salinari) che aveva assunto il comando dei Gap centrali dopo l’arresto di Giacomo (Antonello Trombadori), di autorizzarmi ad attaccare, la colonna in via Quattro Fontane,. di fronte al museo Barberini. Salinari si riservò di interpellare il comando regionale. Finalmente giunse l’ordine di attaccare ma i soldati tedeschi non passarono. Successivamente mi incontrai di nuovo con Carlo Salinari e questi mi riferì che il comando aveva riconsiderato l’azione ed aveva disposto la sua realizzazione non più in via Quattro Fontane, ma in via Rasella e con forze più consistenti. Questa decisione mi trovò contrario per una serie di ragioni di natura strategica. Non sapemmo mai con precisione i veri motivi che determinarono il cambiamento del luogo dell’attentato ma la decisione fu presa quasi sicuramente dal comando regionale.

 

Lei è stato, quindi l’ideatore e il regista di quella azione,- come valutò, il C.N.L., l’azione di via Rasella? E come reagì alla strage delle Fosse Ardeatine?

 

Inizialmente ci fu un forte sbandamento, poi furono solidali con i garibaldini i liberali (Manlio Brosio) e Giustizia e Libertà (Riccardo Bauer). Pertini protestò perché voleva essere informato prima, ma fu solidale. Le Brigate del Popolo, almeno in un primo tempo, mostrarono smarrimento. I militari erano distrutti. Quando poi le radio alleate, e non solo Radio Londra, esaltarono il coraggio e lo stoicismo del popolo romano la situazione fu più chiara.

 

Quando ha conosciuto il professor Gesmundo, figura centrale della lotta di Liberazione a Roma, assassinato alle fosse Ardeatine nel marzo del 1944?

 

L’ho conosciuto a metà settembre del 1943, quando mi occupavo di organizzare la quarta zona delle brigate Garibaldi. Ricordo perfettamente i nostri incontri nella libreria Bertoni in via Sant’Agostino dove l’otto settembre, in una botola, io e Roberto Forti avevamo nascosto partè dei moschetti che il generale Carboni avéva consegnato alla popolazione.

 

Qual era l’atteggiamento di Gesmundo sul modo di condurre la lotta partigiana?

 

Ci fu tra noi una mirabile intesa su quello che era l’imperativo categorico del momento. Gesmundo convenne sull’opportunità di costruire speciali unità cospirative, Formate da pochi elementi, con il compito di attaccare i nazífascísti: quelli che poi si chiamarono i Gap. Gesmundo era d’accordo con me che gli attacchi dovevano essere compiuti sia contro i fascisti che contro i tedeschi.

Gesmundo ebbe chiarissima la consapevolezza che le azioni dei Gap centrali erano un avvenimento di estrema importanza. A Roma la polizia politica in quel periodo, e mi riferisco a Rotondano e a Quagliotta e agli altri dirigenti dell’Ovra, ha lavorato a ritmi ridotti. Se avessero dato un giro di vite le cose per noi sarebbero andate diversamente.. Io credo, e questa è una cosa che dico per la prima volta, che prima dello sbarco di Anzio la polizia politica controllava L’Unità e il quotidiano di Ginsburg e degli altri di G.L. Gesmundo fu arrestato proprio mentre lavorava al giornale.

 

Lei ha conosciuto anche Giorgio Labò, l’artificiere dei Gap, cosa ricorda di lui?

 

 

Ho conosciuto Giorgio Labò nella seconda metà del dicembre del 1943. Era iscritto alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano ed anche sergente del Genio minatori. Si era trasferito a Roma con Gianfranco Mattei e aveva organizzato la Santa Barbara di Via Giulia. Grazie alla sua collaborazione l’attività dei Gap subì una forte impennata, soprattutto per quanto riguarda l’efficacia delle azioni… Entrambi avevamo vissuto il dramma dell’Armistizio, quando l’esercito italiano si era sfaldato per i colpi di maglio della Wermacht e soprattutto per il disorientamento dei militari badogliani. La nostra collaborazione iniziò dopo avergli raccontato la mia avventura della sera dell’11 dicembre del ’43 quando tentai di lanciare un ordigno esplosivo contro i tedeschi che uscivano dal Cinema Barberini e si apprestavano a salire sui camion militari. Quella sera la miccia dello «spezzone» confezionato da un marmista del Verano non si accese, nonostante i miei ripetuti tentativi, anzi, cadde per terra con frastuono. Ma i tedeschi non si accorsero di nulla e potei mettermi in salvo riportando con me lo spezzone inesploso. Giorgio mi disse che ero stato protetto dalla dea bendata e che per la prossima azione avrebbe preparato lui l’ordigno. Il 18 settembre l’azione al Barberini andò a segno, lo spezzone di Giorgio funzionò alla perfezione. L’ultima volta che vidi Labò fu a Piazza Navona dove discutemmo seduti su una panchina di marmo. Con Giuseppe Felici e Lucia Ottobrini avevamo effettuato un sopralluogo per le strade intorno a via Arenula dove abitavano e avevano depositi di commercio molte famiglie ebree. Il giorno prima, nella piazzetta della fontanella delle tartarughe, dietro il ghetto, Trombadori, Felici ed io avevamo discusso un piano d’appoggio alla comunità ebraica nel caso che i tedeschi in ritirata avessero fatto razzie. Poche settimane più tardi Felici fu catturato dopo uno scontro a fuoco sul monte Tancia, era ferito, ma contro ogni legge di guerra i tedeschi lo fucilarono ugualmente.

 

È vero che lei è stato inviato in Svizzera per arrestare Mussolini? Ci può raccontare quell’episodio?

 

Dopo una pericolosa impresa solitaria – avevo marciate per venti chilometri sulla neve con le racchette ai piedi percorrendo la Valle del Saas, in Svizzera – ero giunto a metà aprile 1945 a Macugnaga. Avevo la febbre ed ero ustionato a causa del riverbero del sole sulla neve. Fui curato amorevolmente dalle suore di un convento. Poi passai in Valsesia dai garibaldini di Cino (Moscatelli) e Ciro (Eraldi) con l’intento di prendere contatti con il tenente americano Aldo Icardi. Il capitano Emilio Daddario era partito dalla Svizzera, si era unito a Icardi, che guidava la missione Chrisler dell’O.S.S. (Office service strategie), insieme si erano diretti in Lombardia con l’intento di catturare Mussolini. Io conoscevo bene i luoghi e le persone del comasco, e se fossi giunto in tempo a raggiungere i due ufficiali italo-americani avremmo preceduto Lampredi e Valerio, i due giustizieri del Duce. Tuttavia penso che sarebbe stato comunque difficile sottrarre Mussolini e i suoi compagni di fuga al furore popolare.

 

Qualcuno ha detto che Mussolini è stato il più grande statista del secolo…

 

Mussolini, in alcuni momenti, era riuscito a creare intorno all’Italia un notevole consenso da parte delle diplomazie internazionali e in settori consistenti dell’opinione pubblica non solo italiana. Come si spiegherebbe altrimenti le pubbliche dichiarazioni di elogio a lui indirizzate da Ghandi e Churchill? L’avere associato l’Italia alle criminose imprese belliche di Hitler, a partire dalla guerra di Spagna, ha portato al nostro paese soIo lutti e sciagure.

 

Giorgio Bocca ha scritto che Roma è stata l’unica grande città italiana che mancò l’occasione insurrezionale, perché?

 

Roma l’insurrezione l’ha fatta, eccome! Subito dopo il 22 gennaio 1944, quando lo sbarco alleato di Anzio aveva fatto credere in una rapida liberazione della città. Le organizzazioni clandestine in Roma pagarono allora un prezzo molto alto in termini di arresti, torture, fucilazioni. Noi dei Gap centrali fummo mandati nelle retrovie e ogni notte attaccavamo le truppe e i mezzi che i tedeschi spostavano per evitare che dalla testa di ponte di Anzio gli alleati dilagassero verso la Capitale. C’è chi sostiene oggi che nella strategia della guerra lo sbarco in Normandia fu decisivo, mentre lo sbarco di Anzio era un diversivo per attirare forze consistenti tedesche distogliendole dal fronte principale. Le frasi di Giorgio Bocca sono state scritte trent’anni fa e rilette oggi mostrano la frettolosità di un giudizio incompleto e approssimativo. Occorre aggiungere che i romani erano corsi, armati come potevano, a Ostiense, alla Cecchignola, ad Acilia accanto ai granatieri e ai carabinieri nelle drammatiche ore seguite all’Armistizio, perciò Roma l’insurrezione l’ha fatta ben due volte.

 

Perché è stato partigiano? Cosa è stata la Resistenza e come bisogna parlarne oggi ai giovani?

 

Io posso rispondere per me, perché le motivazioni sono sempre personali. Ho fatto la guerra partigiana perché ho avvertito l’imperativo categorico di combattere a fianco degli alleati per risollevare l’Italia dalla disgrazia in cui era caduta e per fare questo, data la situazione, bisognava fare anche un certo tipo di guerra. Il risultato del mio impegno di gappista in città, e di combattente in montagna nel nord e di tutti quelli che hanno combattuto come me può essere riassunto da una foto: il Comando Generale del corpo dei Volontari della Libertà che sfila per Milano alla fine della guerra. C’era l’esercito, i liberali, i socialisti, gli azionisti, i garibaldini, i comunisti. C’erano tutti quelli che, pur con ispirazioni politiche e culturali diverse, avevano combattuto insieme per liberare l’Italia. Quella foto, in qualche modo, riassume la Resistenza, che per me rimane una delle pagine più belle della storia d’Italia. In quella-esperienza il popolo italiano fece emergere le sue qualità migliori. E tuttavia è un fatto della storia ormai passato; e non possiamo pretendere che continuamente dia i suoi frutti.

Come parlarne ai giovani?

Anni fa insegnavo in una scuola media a Roma. Era il 25 aprile e io stavo per iniziare la lezione quando entrò una professoressa che mi disse che era arrivato un fonogramma del Provvediiore che disponeva di celebrare la ricorrenza in aula e mi chiese di lasciarle il posto. Le risposi che la lezione di celebrazione dell’anniversario della liberazione l’avrei tenuta io. Era un periodo in cui c’era una recrudescenza di nostalgia per il fascismo e anche in aula c’erano degli studenti che simpatizzavano per la destra, ma io la prima cosa che dissi fu: «io oggi parlerò della Resistenza per fascisti e antifascisti…» . Parlai per due ore e tutti mi ascoltarono con grande attenzione.

 

 

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