Archivio mensile:agosto 2011

Bruno Fanciullacci

 Bruno Fanciullacci

Medaglia D’oro al V.M

«Reduce dal confino per morivi politici l’8 settembre 1943 iniziò la sua attività partigiana compiendo audaci atti di sabotaggio e temerari colpi di mano che disorientarono l’avversario

Arrestato una prima volta e ridotto in fin di vita dalle pugnalate infertegli dalla sbirraglia, veniva salvato dai compagni accorsi generosamente a liberarlo. Ripreso, ancora il suo posto di lotta, veniva nuovamente arrestato. Venuto a conoscenza che le S.S. nazi-fasciste erano in possesso di un documento compromettente 1a vita dei suoi compagni, tentava con somma audacia di saltare da una finestra per avvertirli del pericolo incombente su loro ma nel compier l’atto veniva raggiunto da una raffica di mitra che gli stroncava la vita

La morte del filosofo Gentile

Le torture e il suicidio.

Da patria indipendente l 31 marzo 2005

Per niente convincente ci appare l’ipotesi che la eliminazione di Gentile debba farsi risalire più o meno direttamente ad altri sommi docenti universitari, che si erano espressi anche duramente nei suoi confronti per la scelta compiuta, oppure a decisioni prese dal centro romano del PCI o, addirittura, a direttive provenienti dai comandi angloamericani, l’uno e gli altri impegnati in problemi di ben maggiore portata. Invece appare molto più attendibile e corrispondente alla situazione del momento, nonché alle caratteristiche organizzative dei GAP fiorentini, la dichiarazione di Luigi Gaiani, all’epoca responsabile militare del PCI a Firenze, fatta a chi scrive nella prima metà degli anni Settanta, secondo la quale la decisione di effettuare l’azione contro Gentile sarebbe stata presa in seno al comando militare comunista di Firenze nell’intento, di carattere esclusivamente politico, di contrapporre alle stragi terroristiche naziste – e proprio in quei giorni erano in corso i massacri di massa in Casentino – la capacità della Resistenza fiorentina di colpire anche una figura fonte di alto prestigio per la RSI e, nel contempo, di porre termine all’opera di disorientamento della gioventù e di quella parte del mondo della cultura ancora incerta delle sue scelte che di fatto era svolta dal filosofo. C’è infine da precisare – cosa, anche questa, troppo spesso dimenticata – che il dissenso sorto all’interno del CTLN tra il PCI da un lato, il PdA, la DC ed il PLI dall’altro a proposito di quest’azione fu una questione tutta locale e tale rimase: infatti mentre si possono comprendere le posizioni degli ultimi due partiti in virtù della loro impostazione moderata, quelle assunte dagli azionisti fiorentini – e rese pubbliche sul loro giornale La libertà – circa l’opportunità di eliminare il Gentile, a meno di ricondurle a rapporti culturali o amicizia con quest’ultimo, appaiono inspiegabili se si tiene conto dell’intransigente lotta contro il fascismo da essi condotta. Posizioni che non ebbero echi sugli altri organi azionisti pubblicati in Italia: l’unica presa di posizione sulla eliminazione del Gentile, di segno completamente diverso da quello del PdA fiorentino, apparve sull’edizione romana del periodico azionista L’Italia libera del 20 maggio 1944, n. 21; le altre edizioni dello stesso periodico, quella lombarda e quella piemontese, non dettero alcuno spazio all’avvenimento.

Anche negli ambienti più vicini al mondo azionista all’estero, in particolare negli Stati Uniti, l’episodio venne valutato come un atto di guerra, indipendentemente dalla personalità della vittima: sul numero del 1° maggio 1944 de L’Italia libera, pubblicata a New York, Enzo Tagliacozzo, studioso e antifascista assai vicino a Gaetano Salvemini, concludeva l’articolo “A proposito dell’uccisione di Giovanni

Gentile” con queste parole: «Gentile ha tradito la filosofia, ha tradito la cultura italiana, è stato un corruttore della gioventù italiana ed ha meritato di finire sotto le armi vendicatrici dei patrioti».

Poste queste premesse veniamo alla figura di Bruno Fanciullacci. Coloro che ne detraggono la figura poiché politicamente e culturalmente stanno ancora dall’altra parte della barricata è ovvio che non si domandino chi fosse il Fanciullacci e quali fossero le sue motivazioni, perché se lo facessero dopo si troverebbero in difficoltà a qualificarlo “assassino”; invece loro hanno bisogno dell’«assassino » per cercar di criminalizzare la Resistenza. Meraviglia, invece, che coloro che si sono profusi nelle molteplici ricostruzioni dell’avvenimento non abbiano tenuto nel dovuto conto il suo passato e la sua sorte, come se si potesse valutare una persona sulla base di una sua singola azione o di un periodo della sua vita.

Bruno Fanciullacci è l’esempio di uno dei tanti giovani cresciuti nel periodo fascista, per i quali il regime fu sempre la espressione di una realtà ostile. Nato a Pieve a Nievole nel novembre del 1919 da una coppia di fiorentini colà trasferitisi nel 1907, quarto di sei figli, Fanciullacci crebbe in una famiglia che rifletteva gli orientamenti socialisti fortemente marcati di libertarismo del padre, che aveva anche fatto parte degli “Arditi del Popolo” della zona. Questi, provetto artigiano fontaniere ma capace di svolgere altrettanto bene vari altri lavori, per alcuni anni poté vivere del suo lavoro, malgrado fosse noto a tutti come la pensasse, ma nel 1930, essendosi opposto alla bastonatura del padre di un esule politico, il fascio locale fece in modo che nessuno gli desse più lavoro; così nel 1932 i Fanciullacci dovettero tornare a Firenze.

Qui, si sistemarono in S. Spirito – uno dei quartieri più popolari, dove avevano casa e laboratorio tanti di quegli artigiani che avevano reso famosa la città, insorti nel 1921 contro il fascismo e piegato solo con l’impiego del cannone e dei primi mezzi corazzati – ed iniziarono il calvario per ottenere il libretto di lavoro, che veniva rilasciato solo a chi risiedeva nel comune per più di sei mesi: per i Fanciullacci occorsero due anni, poiché nessuno di essi aveva la tessera del PNF. Fu un periodo di ristrettezze estreme, che non mancò di lasciare il segno su Bruno che crescendo manifestava una intelligenza al di sopra della norma ed un personalità forte ed introversa. Anch’egli resto, come tanti ragazzi dei ceti popolari, dovette portare il suo contributo all’economia familiare: garzone da un lattaio per le consegne a domicilio, agli inizi dell’inverno del 1936 da solo si trovò un posto meglio retribuito presso un albergo del centro cittadino, prima come addetto agli ascensori, poi come aiuto alla reception. Era ormai divenuto un adolescente e, al pari di tanti suoi coetanei, avrebbe dovuto presto prendere parte ai corsi di premilitare, che il regime aveva reso obbligatori per giovani della sua età come tanti di essi Bruno, che era riuscito fino ad allora ad evitare l’inquadramento nelle organizzazioni giovanili del regime, cercò di sottrarsi al nuovo obbligo e riuscì ad escogitare una scappatoia, grazie al suggerimento di un compagno di lavoro.

Quest’ultimo era un’antifascista già a contatto con un gruppo di avversari del regime formatosi spontaneamente, che aveva iniziato un’efficace opera di propaganda contro il regime e si stava allargando,in virtù dell’adesione di tanti giovani; avendo avuto modo di apprezzare l’intelligenza e la serietà del ragazzo, lo fece entrare nella cospirazione e Bruno vi dedicò la sua intelligenza e la sua attività che ben presto lo misero in luce fra i suoi compagni. La polizia, messa in allarme dai volantini diffusi dal gruppo, non riusciva a individuarne i componenti, sia perché nello stesso tempo in città circolava la propaganda contraria al regime messa in circolazione da Giacomo Lumbroso – che era stato uno squadrista, distaccatosi però da tempo dal regime inizialmente per la sua intransigenza, poi per l’avvicinamento del fascismo al nazismo germanico e, infine, per il montare del razzismo antisemita – sia perché gli appartenenti al gruppo di cui faceva parte il Fanciullacci erano giovani che non avevano precedenti presso la polizia politica fiorentina.

La pratica venne allora assunta dall’OVRA, che fece ricorso ad uno degli stratagemmi più collaudati – l’infiltrazione di un agente provocatore – che, in virtù dell’inesperienza dei cospiratori, dette ancora una volta i frutti sperati. Inseritosi nell’organizzazione, il delatore consentì alla polizia di identificare tutti coloro che entravano in rapporti con lui, provocando l’arresto di 96 persone.

Bruno fu arrestato nella notte fra l’11 e il 12 luglio 1938, quando non aveva ancora compiuto diciannove anni, e rinviato a giudizio presso il Tribunale Speciale con 71 dei suoi compagni per organizzazione e propaganda antifascista. Malgrado la sua giovanissima età, durante gli interrogatori – e gli interrogatori dell’OVRA erano noti per la loro spietatezza – tenne un comportamento estremamente fermo, facendo solo ammissioni su aspetti secondari e solo in sede di confronto, tanto che i funzionari della polizia politica – dei quali si può dire tutto ma non che non fossero intelligenti e incapaci di valutare le persone – lo considerarono fin da allora un elemento “molto pericoloso” per la sicurezza del regime.

Condannato nell’aprile del 1939 a sette anni di carcere, Fanciullacci fu inviato a scontare la pena nel penitenziario di Castelfranco Emilia, dove si inserì nella vita del “collettivo” dei detenuti, chiarendo rapidamente il suo orientamento politico, concluso con l’adesione al PCI, e dedicandosi con grande passione a migliorare la sua preparazione politica e culturale. Le malsane condizioni del carcere ed il pessimo nutrimento incisero negativamente sul fisico del giovane, ancora in corso di sviluppo, al punto di costringerlo a richiedere agli inizi del 1942 il trasferimento in un carcere situato in zona montana. Così Bruno venne trasferito al carcere di Saluzzo, dal quale fu dimesso nel luglio del 1943, una ventina di giorni prima della destituzione di Mussolini, a seguito di un condono di due anni concesso in occasione della nascita di una principessa della casa reale.

Durante il periodo del governo Badoglio, Fanciullacci ristabilì i contatti con l’organizzazione comunista cittadina, cosa che non aveva fatto prima per ovvii motivi di prudenza, e dopo l’8 settembre, ricercato immediatamente dalla polizia, dovette entrare in clandestinità e fece parte di uno dei primi gruppi partigiani formatisi nei dintorni di Firenze. Lo scioglimento del gruppo di cui faceva parte, individuato e inutilmente attaccato dai nazifascisti, e i disagi della vita alla macchia, che riacutizzarono i problemi di salute contratti a Castelfranco Emilia, fecero comprendere a Bruno che non era adatto per la lotta sui monti così entrò afar parte dei GAP fino dal momento della loro costituzione, partecipando fin dall’inizio alle azioni da essi compiute, compresa quella contro Gentile, nella quale sostituì all’ultimo momento uno dei due compagni che dovevano eseguirla, riconosciuto da un occasionale passante.

  Pochi giorni dopo l’azione contro Gentile, il Fanciullacci fu catturato per una mera fatalità dai fascisti; riconosciuto e portato in una caserma di via della Scala, fu ripetutamente pugnalato al basso ventre a seguito del suo rifiuto di parlare, causandogli ferite che costrinsero i suoi seviziatori a farlo internare all’ospedale nella speranza di poter riprendere gli interrogatori appena migliorate le sue condizioni. Ricoverato nell’ospedale provvisorio che aveva sede nell’Istituto tecnico per ragionieri “Galilei” di via Giusti, piantonato giorno e notte, Fanciullacci venne curato dal primario prof. Greco, già in contatto con la Resistenza, che ne prolungò la degenza per cercare di non riconsegnarlo ai nazifascisti ed infatti i gappisti, con un’azione spericolata, riuscirono a portarlo via, lo nascosero in varie case sicure, fra cui quella del pittore Ottone Rosai, e lo fecero curare clandestinamente dal dott. Filippelli.

 Bruno Fanciullacci – Un dipinto del pittore Ottone Rosai

Appena guarito Fanciullacci riprese il suo posto di lotta, ma in quegli stessi giorni l’organizzazione gappista fiorentina cadeva quasi al completo nelle mani del nemico e Fanciullacci, nuovamente catturato, venne portato a villa “Triste”, dove, per evitare il rischio di cedere alle torture, si gettò da una finestra del terzo piano, procurandosi gravissime ferite che dovevano portarlo alla morte dopo alcuni giorni di agonia, durante i quali non aperse bocca; solo alla fine sussurrò il suo nome di copertura e l’indicazione che abitava a Porta Romana, preoccupato anche in fin di vita di non mettere in pericolo né famiglia, né compagni.

Era il 17 luglio 1944, tre settimane prima dell’arrivo degli Alleati:

Bruno non aveva ancora compiuto venticinque anni.

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Per dati più completi su Bruno Franciullacci consultare

I libri

Gianni Zingoni – La lunga strada

Vita di Bruno Fanciullacci

Nuova Itala editrice

Aldo Fagioli – Partigiano a 15 anni

Alfa edizioni Firenze

Carlo Francovich – La Resistenza a Firenze

La nuova Italia

Radio CO – RA

 
Radio «CORA»
Nel periodo della Resistenza fu necessario occuparsi anche del controspionaggio, le informazioni raccolte dai singoli partiti venivano passate al C.L.N e da quì dovevano essere vagliate e passate ai comandi alleati
Si rivelò utilissimo ed essenziale in questa situazione il servizio « Cora » (commissione radio) del P. d’A.
Fino dall’8 settembre i dirigenti del P. d’A. di Fi­renze, a cominciare da Carlo Ragghianti, si erano preoc­cupati di creare un collegamento via radio tanto con gli alleati e con il governo italiano del Sud, quanto con i vari centri della Resistenza nell’Italia occupata dai tedeschi e con le bande armate operanti nelle diverse zone.
Diremo subito che quest’ultimo tentativo non fu mai realizzato, sia per le insufficienze tecniche generiche, sia per la mancanza di un numero adeguato di radiotelegra­fisti, sia per le repressioni poliziesche, che piú di una volta sconvolsero i piani in via di concretarsi, ma soprat­tutto perché vennero a mancare gli aiuti del comando alleato, che non vide di buon occhio una simile possibi­lità, .
Fu invece possibile, dopo aver superato una lunga serie di ostacoli, entrare in diretto contatto con il comando degli alleati.
Facevano parte del comitato tecnico di « Cora » il fisico Carlo Ballario, lo studente d’ingegneria Luigi Morandi, il capitano d’aeronautica Italo Piccagli e molti altri an­cora, alcuni dei quali si occupavano della organizzazione, dei servizi collaterali e sussidiari : questi consistevano parti­colarmente nella raccolta e nel vaglio delle informazioni utili da trasmettere o nella creazione di basi per l’ appa­recchio trasmittente, per cui era necessario affittare vari appartamenti sicuri da sfruttare alternativamente, onde sfuggire alla radiolocalizzazione della polizia.
Dopo vari tentativi falliti per entrare in diretto contatto con il comando alleato, finalmente, verso la metà di gennaio, l’avv. Enrico Bocci riuscí a mettersi in contatto con una missione dell’VIII Armata, sbarcata sulle coste del­l’Adriatico, a nord della linea Gustav, e composta da due italiani : Nicola Pasqualin ed il radiotecnico noto soltanto con il nome di Renato il Pomero. Costoro, forniti di cifra­rio e di un apparecchio trasmittente, mediante Enrico Bocci furono messi in contatto con il gruppo « Cora», di cui a partire da quel momento Bocci divenne l’animatore ed il cervello dirigente.
L’identità della missione delI’VIII Armata fu controlla­ta richiedendo con il cifrario fornito dal Pasqualin un mes­saggio di conferma da radio Bari con la frase convenzio­nale : l’Arno scorre a Firenze. Avuta la conferma, ogni dubbio scomparve e cominciò il lavoro delle trasmissioni in stretta collaborazione con la commissione informazioni del P. d’A.

 

Enrico Bocci

Tutto va bene fino a quei giorni di giugno il Partito d’Azione, ebbe a su­bire un colpo grave nelle sue conseguenze: la cattura degli uomini componenti il servizio « Cora ».
Questo servizio durante i mesi di aprile e di maggio aveva completato ed esteso la sua organizzazione. Nella notte fra il 2 ed i1 3 giugno, a Monte Javello nei dintorni di Prato, su richiesta di radio « Cora », erano stati paraca­dutati dal comando della VIII Armata cinque radiotele­grafisti italiani forniti di radio trasmittenti e di varie armi automatiche, per estendere le diramazioni del servizio al resto dell’Italia occupata. I cinque giovani furono quindi condotti a Firenze e ricoverati in alloggi sicuri.
Il servizio « Cora » veniva esercitato con la massima cautela. Le trasmissioni in genere si facevano mutando sede il piú spesso possibile; si cercava che sul posto si trovassero le persone strettamente necessarie, mentre al di fuori del locale, per la strada e per le scale, c’erano quasi sempre alcuni patrioti armati per prevenire sorprese improvvise. Tutto era avvolto nella piú grande segretezza. Inoltre si era sempre evitato di fare le trasmissioni dalla sede di piazza d’Azeglio, dove c’era l’archivio con i cifrari, la copia dei messaggi trasmessi, quelli ricevuti, quelli da trasmettere, ed altre cose ancora.

Il centro «Cora» di Piazza D’Azelio
Ma l’offensiva vittoriosa degli alleati, la rapida occu­pazione di Roma, lo sbarco in Normandia, che facevano presupporre imminente il crollo dei tedeschi e la libera­zione della stessa Firenze, l’aumentare delle defezioni in campo fascista, tutto questo aveva diffuso un ottimismo esagerato. Gli uomini, esasperati dalla tensione nervosa di tanti mesi vissuti sotto la continua minaccia di un pericolo incombente, nell’euforia di quelle notizie allentarono la solita vigilanza.
E cosí la sera del 7 giugno, verso le ore 19, si trasmet­teva (ciò avveniva già da diverso tempo) da piazza d’Aze­glio, senza scorta armata. Sul posto si trovavano Enrico Bocci, Luigi Morandi, Gilda Larocca, Carlo Campolmi, Franco Gilardini, Guido Focacci. Luigi Morandi era salito nella stanza dove si trovava l’apparecchio per iniziare la trasmissione; gli altri si erano accinti al lavoro di spoglio delle notizie pervenute, quando si senti suonare il cam­panello: erano i tedeschi che irrompevano nell’apparta­mento.
« Non si è mai potuto sapere con precisione — scrive la sentenza della Corte di Assise di appello in Bologna —come i tedeschi avessero potuto scoprire la radio clande­stina e al riguardo furono fatte varie ipotesi di cui la più attendibile appariva quella di una delazione ».
Mentre alcuni immobilizzavano con armi alla mano i patrioti, altri salivano le scalette dov’era la trasmittente in funzione. Luigi Morandi non si era accorto di ciò che stava succedendo, poiché aveva l’udito impedito dalla cuf­fia. Non si sa che cosa sia accaduto con esattezza in quegli istanti, ma certamente il Morandi — che era disarmato — riusci a impadronirsi della pistola del tedesco, che uccise, ferendone gravemente un altro. Egli fu però, a sua volta, mortalmente ferito. Morirà tre giorni dopo nell’Ospedale di via Giusti, dove invano i fascisti si recheranno per in­terrogarlo. Morandi non parlò.

Luigi Morandi

 

Gli altri, cui si aggiunse Italo Piccagli che si era av­viato verso l’appartamento ignaro di tutto, furono fatti salire su delle macchine e portati a «villa Triste ».
Ivi —narra Carlo Campolmi —
… ci attendeva una piccola folla di repubblichini che svelta­mente ci fecero salire al piano superiore, dove in un’anticamera debolmente illuminata fummo posti con il viso contro il muro e sempre con le braccia alzate. A breve distanza giunsero anche gli altri compagni e fummo lasciati tutti in custodia dei repubblichini. Questi ci furono addosso, con pugni e calci; uno di essi usava una lunga cinghia che ci dava sulle mani quando stanchi tendevamo ad abbassarle. Ricordo che venuto il mio turno prese a colpire la mia mano sinistra e ad altri che non potevo vedere, perché, come lui stesso, si trovavano alle mie spalle, faceva osservare che le mani erano come le foglie, tanto che si incurvavano sotto i lunghi colpi. A questo martirio non vi erano pause. Un tonfo e qualche grido represso mi dicevano che qualche compagno era caduto in terra; alle percosse si alternava una gazzarra oscena, con le ingiurie peggiori. Uno dei piú violenti era un siciliano; costui con una con­tinua giaculatoria, in cui diceva che g1i alleati avevano ucciso i suoi parenti in un bombardamento aereo, si lanciava contro ciascuno di noi. Si avvicinò a me ripetendo il noto discorso e mi colpi vio­lentemente il mento con qualcosa di metallico; sentii scorrere il sangue, ma non potevo fare niente per evitarlo, non potendo ab­bassare le braccia. Mi raggiunse nuovamente con un coperchio da cassa e con esso mi colpi alla testa; poi anche da un altro con accanimento fui colpito alla nuca, alle reni, allo stomaco. Caduto a terra alcune pedate mi raggiunsero in più parti. Sotto incitazioni selvagge fui obbligato a rialzarmi; come me venivano piú o meno trattati anche gli altri compagni. I tedeschi evidentemente erano a cena e noi dovevamo attendere per essere interrogati. Un colpo secco di arma da fuoco sparato nella stanza dove stavamo fece accorrere delle persone.
Era avvenuto che uno degli agenti aveva fatto partire inavver­titamente un colpo di mitra e la pallottola si era conficcata nel muro a un centimetro dalle gambe di Gilardini.
Ormai avevo perduto anche la nozione del tempo. Saranno state le dieci o le undici di sera quando i tedeschi, fumando per l’anticamera, raggiunsero gli uffici…
Sembra che il primo ad essere interrogato fosse Enrico Bocci. Dopo un po’ nell’anticamera furono sentite le sue grida, che, a detta di Guido Focacci, « non avevano piú nulla di umano ». Il Focacci sentiva anche come i tedeschi con insistenza chiedessero dove si trovava Codignola.
Infine, dopo che altri furono interrogati, venne il turno di Campolmi:
Fui introdotto in una stanza di forma irregolare.
Ad una scrivania sedeva un grosso niaresciallo, tedesco, piú in là, di fronte, ad un tavolinetto con una macchina da scrivere, sedeva il maresciallo Hager; un altro ufficiale tedesco era in piedi con uno staffile in mano ed era circondato da alcuni fascisti in borghese uno dei quali reggeva un lungo pezzo di legno (Essi furono poi identificati con i « quattro santi »). Guardai la scena per cercare di in­dovinare la procedura; ma non mi diedero il tempo di studiare molto; il maresciallo Flager si alzò dal tavolo e mi invitò a por­gere i polsi che furono stretti ín un paio di manette; poi in piedi con le braccia alzate in avanti fui obbligato a chinarmi sulle ginocchia come se si trattasse di un esercizio ginnico. cosí i ginocchi rimanevano compressi fra le braccia ammanettate, e fra ginocchi e gomiti fu fatto passare il bastone che i due messeri tenevano con aria tanto compresa. Fui cosí sollevato, fino a farmi toccare con la schiena ìl pavimento. Mi rivolsero alcune domande, il tedesco che teneva lo staffile si avvicinò e alzando con forza le braccia comin­ciò a colpirmi; strinsi i denti per il dolore vivissimo e poi non sopportando urlai, ma come se niente fosse quello contò fino a 20 colpi. I due operatori manovrando l’asta mi fecero roteare e mi trovai cosí seduto sul pavimento. Mì rivolsero altre domande e dopo risposte inconcludenti si ripeté la manovra e altri 20 colpi raggiun­sero i primi, cosí per una terza volta, ma l’interrogatorio non an­dava come essi avrebbero desiderato; cominciavo a non capire più nulla, mi pareva di perdere i sensi, gli orecchi mi ronzavano e avevo la gola e la bocca secche. Si consultarono fra loro, quindi mossero verso di me, mi tolsero le scarpe e i calzini e nel fare quest’operazione rinvennero in un calzino un giornaletto clande­stino che avevo raccolto. Manovrando sempre col lungo bastone fui rimesso con la schiena sul pavimento, i 20 colpi questa volta mi furono dati sotto le piante dei piedi, ma non erano ancora soddi­sfatti; come per il primo procedimento, ripeterono la fustigazione ancora due volte. Fu un dolore atroce e piú volte persi i sensi…
Quando Campolmi fu condotto dai suoi torturatori in una cella erano le 3,30 del mattino.
Il piú torturato fu Bocci. Bocci e Piccagli si assunsero la responsabilità di tutta la organizzazione, scagionando cosí in parte i loro compagni di pena. Ma per tutti, gli interrogatori si prolungarono per giorni e giorni, alla pre­senza degli ufficiali tedeschi dello S.D. e di Mario Carità, che prestava ai tedeschi la sua lunga esperienza in fatto di torture ed il suo personale specializzato.
Al Bocci, sapendolo malato di cuore, prima di ogni interrogatorio veniva praticata una puntura cardiotonica, perché potesse fisicamente sopravvivere alla tortura. Ab­biamo la testimonianza di un medico, che a un certo momento fu chiamato dai tedeschi perché si temeva che la vittima potesse spirare prima che svelasse i segreti che loro premeva di conoscere. Il medico, Giuseppe Scotti, ebbe a dichiarare che trovò il corpo del povero Bocci coperto di ecchimosi, sul volto si notavano numerose contusioni; vo­lendo praticargli una iniezione, dovette fargliela sulla spalla, l’unico punto risparmiato dalle percosse. Inoltre riscontrò l’organismo completamente disidrizzato, poiché da quando si trovava a « villa Triste » — erano passati al­cuni giorni — non gli avevano mai permesso di bere. E nelle poche parole che poté scambiare, il Bocci chiese in­sistentemente al medico che lo facesse morire.
Anche gli altri furono trattati con estrema crudeltà. Gilda Larocca, segretaria del Bocci, tentò due volte il suicidio.
Come dice il Campolmi, alle minacce si aggiungeva lo spregio. Per esempio, all’ingegnere Guido Focacci, il quale, dopo le torture, aveva chiesto da bere ad un uffi­ciale tedesco che si stava sorbendo un’aranciata in ghiac­cio, fu dal medesimo gettato in faccia un recipiente pieno di orina tiepida.
Non dovrebbe quindi destare meraviglia se in seguito alle torture, sotto l’effetto di un collasso nervoso, qualche nome e qualche indirizzo sfuggi all’uno o all’altro degli arrestati. Lo stesso Focacci, accusato durante il processo di Lucca da alcuni fascisti incriminati di avere fatto rive­lazioni, usci in questa esclamazione onesta ed umana: « Nessuno di noi si è messo a disposizione di quei signori, per quanto possa darsi anche che qualcosa sia trapelato dalle nostre bocche durante le torture… Dio ci perdoni, se ciò e avvenuto, ma né io né altri abbiamo fornito cifrari… ».
Villa «Triste»
Fu così che nella notte tra l’8 e il 9 giugno, poco piú di ventiquattro ore dagli arresti di piazza d’Azeglio, tre dei cinque soldati paracadutati nei pressi di Prato fu­rono sorpresi dai fascisti nel nascondiglio, presso la fami­glia di un patriota dove avevano trovato asilo.
L’inchiesta fini, almeno per la maggior parte degli arrestati, il giorno 12. Nella nottata Italo Piccagli, tre paracadutisti ed uno sconosciuto furono fatti salire su una macchina e vennero portati a Cercina, la pieve già ricor­data posta tra Trespiano e Monte Morello. Insieme con loro, in quella notte di esecuzioni, doveva cadere anche una giovane donna. Infatti prima di partire per Cercina, due tedeschi, accompagnati dall’interprete Giancarlo Fi­nazzo, si presentarono al carcere di Santa Verdiana e pre­levarono Anna Maria Enriques. Essa si trovava nel car­cere, dopo il soggiorno a « villa Triste», già da una ventina di giorni; i tedeschi, dopo gli interrogatori sner­vanti dei primi giorni sembravano averla dimenticata, ed essa come le altre detenute aspettava la ormai inevitabile liberazione della città, liberazione che poteva essere anti­cipata da qualche colpo di mano dei partigiani. In car­cere aveva avuto il conforto di vedere sua madre, arrestata anch’essa insieme alla figlia. Ma nella notte del 12 giu­gno, invece della liberazione, giunse il drappello dei tede­schi e la sua sorte fu inspiegabilmente accomunata a quella di Italo Piccagli e dei suoi compagni. Fatti scendere tutti dalla macchina, i tedeschi li avviarono lungo un sentiero che s’inerpicava fra gli estremi lembi del bosco e — giunti dopo poco in una piccola radura — senza I’ ombra di un processo nemmeno sommario li fucilarono. Essi era­no Anna Maria Enriques, il capitano Italo Piccagli, il sergente Pietro Ghergo di Recanati, il caporale Dante Romagnoli di Macerata, il soldato Ferdinando Panerai di Firenze, ed un altro ancora di cui non si è mai cono­sciuto il nome e che probabilmente, come Anna Maria, non aveva niente a che vedere con radio « Cora ».
Sappiamo dai suoi compagni di prigionia che Italo Piccagli affrontò sereno gli ultimi istanti. Si affacciò allo spioncino della cella di Franco Gilardini, dicendogli: « Mi dispiace quello che ti è capitato, perché sei tanto giovane; speriamo che la nostra patria si salvi ». E poi, a voce alta, perché lo sentissero in tutte le celle del sotterraneo: « Ad­dio ragazzi, coraggio! » E infine un saluto particolare alla sua compagna Ruth che, pur essendo israelita, si era volontariamente presentata per seguire la sorte del marito e si trovava in quel momento in una cella accanto alla sua : « Addio moglie! ».
Sul posto dell’esecuzione, come ufficiale, chiese l’onore di essere fucilato per ultimo e di essere colpito nella parte sana del petto, poiché nell’altra aveva il pneumotorace.
Un semplice cippo con i nomi, sperduto tra gli alberi, ricorda il loro sacrificio.,:

Cercina – Cippo ai Caduti di radio Cora
Le salme furono ricuperate il giorno 15 dal Pievano di Cercina che provvide anche alla inumazione.