Franco

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Franco
(23 marzo 1945)
Franco, il cui vero nome era Arrigo Diodati, era nato a La Spezia nel 1926 e ancora ragazzo aveva dovuto emigrare in Francia, insieme col padre, a causa delle persecuzioni fasciste. Si formò sempre nell’ambiente dell’emigrazione antifascista, se­guendone le vicissitudini e le lotte. Ritornato in Italia partecipò alla costituzione del Fronte della Gioventú in rappresentanza del Partito Comunista e passò poi a far parte del comando gene­rale delle squadre d’azione patriottiche genovesi.
La mattina del 26 dicembre 1944 Franco si recò come al so­lito all’ufficio dove, vicino a piazza dell’Annunziata a Genova, le squadre di azione patriottica avevano organizzato il loro co­mando. Dopo essersi fermato a comperare un flacone di in­chiostro tipografico necessario per il ciclostile, sali le scale e apri la porta: di fronte a lui si trovavano agenti della questura che avevano scoperto l’ufficio e lo stavano perquisendo. Ritornò sui suoi passi e scese come un bolide le scale, ben presto inse­guito dai poliziotti. Nella precipitazione batté la fronte contro un muro e ruzzolò, mentre il flacone di inchiostro che aveva in tasca andava in mille pezzi. Gli inseguitori in un attimo gli furono addosso, convinti di averlo ferito gravemente, e quando cercò ancora di sfuggire lo colpirono con i calci delle pistole facendogli perdere i sensi.
Franco restò in questura 28 giorni, durante i quali gli in­terrogatori, le percosse, le torture si ripeterono sempre piú rab­biose. Lo colpirono al ventre e al viso, gli dilatarono lo stomaco con acqua introdotta con tubi attraverso il naso. Per alcuni gior­ni i fascisti non riuscirono neppure a identificarlo e la sua iden­tità rimase un problema. Franco, che aveva con sé dei docu­menti falsi, non voleva essere riconosciuto nel timore che gli facessero domande delle quali conosceva le risposte; inoltre sperava che i suoi compagni avessero il tempo di adottare misure di sicurezza. La sua situazione divenne disperata quando, a causa 3 del tradimento di un compagno, un certo Franchi di Sanpierdarena, venne identificato. La polizia nell’ufficio aveva sequestrato fra l’altro, un questionario per il censimento dei quadri, richiesto dal PCI, e da questo documento risultava chia‑
ramente quale fosse l’attività che egli aveva svolto in Francia.
Da allora i colpi e le pressioni aumentarono portando Franco ai limiti di sopportazioe. Un giorno cercò la morte: mentre lo portavano all’ufficio di Veneziani, noto torturatore e capo della squadra politica, cercò di buttarsi dalla finestra, ma i suoi cu­stodi riuscirono ad afferrarlo per le caviglie. Varie brigate nere se lo contesero, poiché ciascuna credeva di poter far parlare Franco, ma Franco non parlò.
Il 28 gennaio 1945 Franco fu trasferito alla "Casa dello studente," sede delle SS tcdesche e successivamente al carcere di Marassi, ritenuto il carcere più duro riservato ai detenuti po­litici. Qui Franco ritrova un gruppo di ragazzi del Fronte della Gioventú, membri delle SAP dipendenti dal suo comando. Nel tentativo di liberare il famoso gappista Malnata, ferito e de­stinato ad essere fucilato quei ragazzi si erano impossessati di un camion dell’Ansaldo che si bloccò a S. Fruttuoso, proprio davanti alla sede della X Mas. Dal camion Quartini tenne a ba­da i fascisti col mitragliatore permettendo a molti dei suoi com­pagni di eclissarsi, ma Sordi, Riberti e Bruno furono feriti e Quartini stesso alla fine venne catturato.

Anche nel carcere di Marassi c’era un clima di ter­rore. 1 fascisti erano imbestialiti dalla paura: gli alleati avanzavano su tutti i fronti, dalla Francia verso la Germania, in Italia risalivano la linea Gotica, i sovietici dopo aver liberato Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, stringevano in una morsa le stanche armate tedesche verso le loro basi di partenza, in Germania; i partigiani in Italia dopo la liberazione di Firenze e di Bologna avevano raggiunto un’efficienza che non dava tregua ai fascisti; in Liguria operava la brigata Volante che at­taccava e si spostava rapidamente: di qui derivava il suo nome. In quei giorni poi c’era stata la "giornata della spia": : ogni GAP se n’era scelta una e l’aveva pedinata e giustiziata lo stesso giorno.
Perciò i questurini della Repubblica di Salò erano esasperati. Qualcuno, impaurito, tagliava la corda o tentava il doppio gioco, ma quelli di Marassi si abbando­navano alle piú feroci e sadiche vendette.
11 23 marzo, al mattino, alle 2 circa, i detenuti fu­rono svegliati bruscamente da un viavai insolito. Passi di stivali e parole tedesche risuonavano nei corridoi della "sezione politici." Era buio. I prigionieri nelle celle pensavano che organizzassero una nuova rappresaglia; infatti pochi giorni prima sei giovani prelevati nella stessa maniera non avevano piú fatto ritorno, mentre la loro biancheria era stata consegnata, proprio il gior­no prima, alle famiglie. Il viavai durò fino verso le tre del mattino. Ad un tratto il tintinnio di un mazzo di chiavi fece sussultare i detenuti; alcuni detenuti, pre­levati dalla cella accanto a quella di Franco, vengono al­lineati contro il muro. Poi venne letto ad alta voce an­che il nome di Franco:
"Diodati Arrigo."
Franco comprese e si vesti in fretta, mentre lo sguardo dei compagni si fece cupo e triste. Anch’essi avevano capito, e cercavano con sguardi e parole di confortare Franco. Ma questi nei loro volti lesse proprio quello che volevano nascondergli.
Passarono alcuni minuti. Franco dette l’ultimo ab­braccio e l’addio ai compagni. Usci e raggiunse gli al­tri detenuti, già allineati nel corridoio. Si convinse ancora di piú che non si trattava di una partenza per il campo di concentramento; erano troppo pochi, una quindicina, tutti giovanissimi.
Li fecero scendere a pianterreno e là, con grande sor­presa, trovarono altri cinque ragazzi che Franco rico­nobbe immediatamente; erano quelli dell’infermeria, quelli che parteciparono all’azione per la liberazione del partigiano Masnata, condannato a morte, fallita tra­gicamente. C’era Tino (Renato Quartini), con una gam­ba amputata; Bruno, che aveva avuto lo stomaco per­forato dalle sevizie; Antibo, con un braccio amputato. Tutti erano sfiniti, con la barba lunga.
Franco e Tino proposero di rimandare indietro i pochi indumenti personali affinché fossero distribuiti ai compagni che ne avevano bisogno.
Avevano appena finito questa operazione che due marescialli delle SS pronunciarono alcune parole rau­camente, con modi bruschi strapparono di dosso ai par­tigiani cappotti, sciarpe e a qualcuno anche la giacca. I prigionieri furono ammanettati per due. Era ancora notte buia quando la colonna delle auto di scorta si mise in marcia.
"Accovacciati gli uni sugli altri," racconta Franco, "nell’oscurità, ci stringemmo fra di noi, mentre ognuno cercava di dimostrarsi piú bravo e piú forte del l’altro. Fu una vera gara. Nessuno pensava ai suoi cari e alla casa. La lotta mortale contro i fascisti ed i nazisti era ormai giunta ad un clima cosí rovente e la coscicnza dell’importanza storica di quella lotta era ormai tale da farci considerare come privilegiati. Pensammo all’Italia, pensammo a coloro che avrebbero continuato a lottare per la vittoria ormai prossima e alla nuova società che sarebbe sorta da quel conflitto, condotto e vinto dalle forze popolari di tutto il mondo.
"Dopo un quarto d’ora di cammino discutevamo an­cora fra noi vivacemente, quando ci venne l’idea di fa­vorire la fuga di qualcuno di noi. Eravamo preoccupati di essere soppressi senza che le nostre famiglie e i nostri amici sapessero dov’erano i nostri corpi. La fuga di qualcuno avrebbe fatto conoscere la nostra sorte.
"Approfittammo del fatto che la nostra scorta non comprendeva l’italiano e ci mettemmo d’accordo fra noi. Scegliemmo i due piú giovani (ve n’erano di 16 e 17 anni). Cominciammo a cantare ‘Noi siamo i ribelli della montagna’ e ‘Fischia il vento,’ in modo da far confusione. Con un chiodo facemmo scattare la serratu­ra delle manette. I due ragazzi si avvicinarono al nostro angolo esterno per gettarsi di sotto, ma il grosso telone lo impediva. Allora, sempre col chiodo riuscimmo a fare uno squarcio nel telone. Ora la possibilità di gettarsi c’era, ma dietro al camion vigilava l’auto con due ufficiali delle SS e il direttore del carcere. Li avevo visti salire alla partenza; uno biondo, magro e l’altro bruno, flaccido. Indossavano cappotti grigioverde. Uno di essi era il feroce aguzzino Otto Aseniberg.
C’erano poi altre auto di scorta cariche di tedeschi e brigatisti neri.
"Ad una curva abbastanza lunga approfittammo del breve distacco dell’auto che ci seguiva e un ragazzo si gettò di sotto, sul selciato; per alcuni istanti i nostri cuori batterono piú forte e i nostri respiri restarono so­spesi. Nell’oscurità lo scorgemmo rialzarsi e scompa­rire; nessuno lo aveva notato. Piú oltre anche l’altro compagno ripeté il tentativo e riuscí. Fummo cosí con­tenti e il nostro entusiasmo fu tanto palese che attiram­mo l’attenzione dei tedeschi. Ma non si accorsero di nulla tanto erano stanchi e insonnoliti.
"Rimasti in diciotto, ci stringemmo e ci mettemmo a cantare inni rivoluzionari. Ci sembrava bello sentirci uniti, e anche contenti, contenti, sí, proprio cosí, contenti di sentirci forti.
"Intanto il camion percorse tutta Genova, verso Sampierdarena e il Bisagno. Attraversammo la zona dove ci sono le case dei ferrovieri, dove abitavano Quar­tini ed altri e Certosa, ove abitava la famiglia di Ro­berti. Tutte fabbriche, ciminiere, case popolari dove avevamo vissuto la nostra infanzia. Quartini si affacciò allo squarcio del telone e mi indicò Certosa, dove abitava suo padre. Oggi stesso sarebbe venuto a por­targli il nuovo apparecchio per la gamba, comprato con tanti sacrifici per strapparlo alla morte. Lo abbracciai.
"Quando superammo l’autostrada senza entrarvi e imboccammo il Polcevera verso i monti, la certezza della nostra funesta sorte aumentò, sebbene la speranza fosse dura a morire; qualcuno infatti pensava ancora ad uno scambio di prigionieri fascisti che avrebbe dovuto effettuarsi in montagna. A Isoverde ci fecero scendere tutti dal camion e fummo circondati da tanti soldati tedeschi giunti con i camion che ci avevano seguiti.
‘1 tedeschi erano tanti e sempre piú arroganti ed eccitati. Cercammo di sapere perché tanto spiegamento di forze e lo sapemmo direttamente dai nostri aguzzini,fra risate e scherni: giorni prima una pattuglia tede­sca mentre operava razzie di viveri nella zona di Cravasco e di Campo Morone si era scontrata in aperta battaglia con la brigata partigiana Balilla del comandan­te Battista, e nel combattimento aveva perduto 9 no­mini. Per questo il comando tedesco aveva deciso di compiere una rappresaglia; la nostra fucilazione e la distruzione dei villaggi. Ci incatenarono tutti. A Quar­tini con brutale disprezzo gettarono via le stampelle. Lassú incominció il nostro calvario. Le privazioni del carcere, il sonno ed i maltrattamenti si facevano sentire. I tedeschi ci colpivano con i calci dei fucili, con pedate. Ci domandavano quale fosse il numero dei nostri stivali: non ci avevano ancora ammazzati e già pensavano alle nostre scarpe.
"In quelle condizioni i tedeschi ci imposero di mar­ciare verso la montagna, prima lungo il sentiero, poi facendoci arrampicare lungo un canalone ripido. Ma le manette ci straziavano talmente che ogni movimento ci faceva emettere grida di dolore. Tino soffriva terri­bilmente; da quando gli avevano gettato via le stampelle doveva camminare con una gamba sola, compiendo mo­vimenti umilianti e grotteschi. Io e Campi lo sostenem­ino, ma noi stessi barcollavamo, ormai provati dallo sforzo. Altri compagni, che a causa della nostra lentezza ci avevano distanziati, si voltavano indietro a guardare, avrebbero voluto aiutarci, ma i tedeschi glielo impedi­vano e li cacciavano avanti. Tino continuava a soffrire terribilmente. Non diceva nulla, anzi faceva tutti gli sforzi possibili per non attirare l’attenzione; mi guardava e mi sorrideva, ma il suo sguardo tradiva il dolore atroce che gli dava la gamba incancrenita, piena di piaghe e sanguinante, e le braccia stremate dallo sforzo. Non riusciva piú a sostenersi, malgrado strisciasse come una bestia.
"Il monte sembrava si facesse sempre piú ripido e le nostre gambe vacillavano. Non riuscivamo ad andare ú avanti, ma i tedeschi che avevamo alle calcagna, ec­citati dalle nostre sofferenze non ci permettevano di ri­prendere respiro, di riposare per riprendere forze. Ti­no non ce la faceva piú e prese un ramo d’albero per arrangiarselo un po’ a bastone per fare qualche altro centinaio di metri. Per sostenerlo, io e Campi, con le manette ai polsi provavamo un dolore atroce che ci strappava le carni. Il cammino si fece impraticabile e dovemmo abbandonare anche questo mezzo. Per procedere mi caricai Tino sulle spalle. Egli stringeva i denti per nascondere la sua sofferenza, il suo stato feb­brile. Eppure quando i tedeschi gli si avvicinavano schernendolo e maltrattandolo gridava ancora in faccia a loro il suo odio.
"Eravamo ridotti come bestie, irriconoscibili dal su­dore e dal fango, costretti ad arrampicarci con le mani e le ginocchia in quel canalone del torrente Rissone. Ogni tanto dalla terra veniva un odore di vita, di fre­sco. Cominciava a far giorno e la natura si manifestava in tutta la sua smagliante forza. Dovendo arrampicarci avevamo quasi sempre la faccia rivolta al terreno. Per­ciò vedevo tutta la vegetazione primaverile; i fili di erba che sbucavano anche dalle pietre, gli anemoni e le vio­lette.
"Ebbi qualche momento di rimpianto. Non paura, ma nostalgia della vita. Ad un tratto Tino si alzò e con sforzi sovrumani su una gamba sola saltellando andò avanti, poi ricadde. Lo ripresi ancora per qualche passo. Mi supplicava di non abbandonarlo, perché se non avesse potuto andare avanti i tedeschi lo avrebbero freddato lí, mentre lui voleva morire con noi. Lo rassicurai che non lo avrei mai abbandonato. Intanto il primo scaglione dei nostri compagni era arrivato, lontano da noi.
Guardandoli lassú in alto ci sentimmo mancare le forze. Ci eravamo un po’ soffermati ed i tedeschi ci colpirono negli stinchi e sulla schiena coi calci dei loro fucili

Tino lo trascinammo a braccia. Bestemmiava esasperato che Cristo quando percorse la via Crucis almeno aveva tutt’e due le gambe.

"Infine con un ultimo sforzo raggiungemmo esausti la cima del monte. Di lassú, a perdita di vista si domina­vano le nude e povere vallate che si estendevano davanti a noi. La vista del cimitero poco lontano non ci spa­ventò, e anzi esercitò su di noi un’attrazione. Qual­cuno emise grida di gioia. Finalmente avrebbero avuto termine le nostre sofferenze.
"Nel frattempo si era schierato il plotone di esecuzio­ne tedesco. Il gruppo dei compagni che erano arrivati per primi fu fatto allineare lungo la spalliera della scar­pata. Erano 9 partigiani, giovani e no. Ricordo il giudi­ce Nicola Ponevino, il tenente colonnello Capitò ed altri, in abiti civili, senza giacca, alcuni malvestiti e laceri. Erano tutti calmi e sereni, i nostri compagni. Nell’aria con forza risuonarono le loro voci: ‘Viva l’Ita­lia!’, ‘Viva il Comunismo!’
"Una serie di raffiche, e caddero. I due marescialli tedeschi che ci avevano accompagnati si avvicinarono a loro e con rabbia li finirono con colpi nella faccia ad uno ad uno. Il milite Riso, l’unico fascista che ci aveva seguiti provvide a togliere loro le manette. Quella morte ci sembrò un evento grande, maestoso, nobile che fugò le ultime esitazioni.
"Ci fecero allineare un po’ piú lontano, proprio davanti al cimitero. Il sole si alzava e cosí vedevo quella che sarebbe stata la mia dimora. Mi sembrò strano, a pochi istanti dalla morte, essere cosí calmo, rassegnato. Pensai che potevo essere contento di me, ma quella constatazione non valeva solo per me. I soldati tede­schi caricavano le armi e sghignazzavano. Sembrava si preparassero per il tiro al piccione.
"Guardai i miei compagni. Erano tutti su. Alla mia destra rividi Bernardi, un bravo ragazzo che aveva la­sciato la moglie in carcere. Poi vicino a me c’era Campi, il piú anziano, che abbiamo dovuto aiutare a salire lassú.
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"Era come il nostro papà. Alla mia sinistra Tino, poi Riberti, Antibo, Oscar e due altri giovanetti. Tutti in­somma. Riso si avvicinò e ci tolse le manette. Voleva evitare d’insanguinarsi le mani come gli era accaduto col gruppo precedente. Non ebbe il coraggio di guardarci in faccia, lui che per mesi aveva vissuto quasi con noi. L’unica cosa che tutti gli chiedemmo fu di venirci a finire subito dopo il ‘fuoco,’ per non farci soffrire tanto. Ci baciammo e ci abbracciammo. Ci stringemmo forte, uno per uno. Anche noi con forza gridammo: ‘Viva l’Italia!’, ‘Viva il Comunismo!’
"Poi la raffica. E tutti caddero. Sí, caddero, perché io rimasi in piedi, incolume. Mi sembrava di sognare. Rimasi immobile ad attendere i colpi. I tedeschi, sbi­gottiti, si guardarono come per chiedersi chi di loro doveva spararmi. Si decisero, ma proprio in quell’atti­mo sentii Giulio Campi che rantolava ai miei piedi. Istintivamente mi piegai per soccorrerlo. Forse con quel movimento scansai la pallottola che doveva spac­carmi il cranio.
"Quella volta fui colpito, al collo. Fu come una stangata e mi accasciai a terra. Restai immobile, con la faccia a terra. Cosa mi succedeva? Ero sbalordito. Non riuscivo a capire perché conservavo ancora i sensi, perché il mio cervello ragionava, anche da morto. Ma ecco che i tedeschi si avvicinarono per finirmi. Te­mendo di non morire subito chiamai Riso affinché mi desse il colpo di grazia. Lo richiamai due o tre volte, ma non senti. Forse la mia voce non aveva suono? Forse i lamenti dei miei compagni soffocavano la mia flebile voce? O forse i tedeschi avevano colpito anche me ed era soltanto il mio subconscioche ragionava?
"Mi parve ancora di udire un tedesco che parlava l’i­taliano gridare: ‘Cani di italiani, adesso non gridare piú viva Italia!’ Udii colpi alla mia sinistra e alla mia de­stra. Erano diretti a me?
"Ero addosso al corpo di Tino, che si rovesciò su di me , coprendomi e inondandomi di sangue. Ogni mi­nuto che passava mi sentivo sempre piú leggero, etereo, convinto di essere morto o almeno al limite in cui si lascia la vita. Attendevo il trapasso definitivo. Tutti i miei compagni erano morti. Ed io che come loro ero stato mitragliato perché non avrei dovuto morire? Ma perché il mio cervello pensava ancora? Allora per un momento pensai di essere morto e che il mio spirito sopravvivesse e pensasse.
"Quello stato di torpore era però turbato dai gemiti che mi sembrava giungessero incerti, da lontano. Era­no i lamenti e i rantoli dei compagni che avevano gli ul­timi sussulti. Ma non capivo se erano rumori reali.
"Mi accorsi che un piede sentiva il contrasto della scarpa. Era una sensazione reale. Questa constatazione mi scosse ed ebbe il potere di richiamare la mia co­scienza. Cominciai allora a capire che non ero morto, ma soltanto ferito. Mi parve che dalla bocca sgorgasse copioso il sangue, poi constatai che il sangue mi colava nell’angolo della bocca dalla ferita del collo. Sempre immobile cercai di rendermi conto dello stato del mio corpo. Mi sentivo intirizzito come una statua e mi re­si conto che la gamba destra era immobile. Non ri­spondeva al comando dei miei nervi. Ma anche quella era una falsa impressione; l’avevo soltanto addormen­tata dall’arresto della circolazione del sangue dovuto al peso di un compagno che mi era sopra di traverso. Ancora immobile aprii appena gli occhi cercando di in­travedere, attraverso le ciglia. Udii un fischietto e poi voci e passi che si allontanavano. Erano i tedeschi che se ne andavano.
"Potei calcolare quanto tempo era passato dalla par­tenza da Marassi e conclusi che forse si erano allontana­ti per mangiare e ritornare dopo per seppellirci. In quello stato rimasi forse due ore. Sentii i compagni mo­rire senza riuscire a muovermi.
"A mezzo pomeriggio fui scosso da passi pesanti, e da voci chiaramente riconoscibili. Erano tedeschi che tornavano. Istintivamente cercai di nascondermi dissi­mulandomi fra i corpi dei caduti: furono minuti terribilmente lunghi. Udii i tedeschi avvicinarsi ancora, poi alla mia altezza si fermarono. Erano in due e pensai che ci avrebbero seppelliti. Quindi mi avrebbero buttato vivo nella fossa! Invece cercavano soltanto gli scarpo­ni dei morti. Poi ripartirono. Allora pensai che non si sarebbero piú occupati di noi. Per la prima volta mi saltò in mente l’idea di salvarmi. Tremai dall’emozione. Pensai che se avessi potuto raggiungere la notte avrei potuto dileguarmi. Come era possibile quel cam­biamento di stato d’animo? Non so. So che pensai in­tensamente, entusiasticamente a salvarmi. Rimasi im­mobile ancora per tre o quattro ore. Non udendo piú nulla mi azzardai per la prima volta a guardare intorno. Non c’erano tedeschi, ma compagni trucidati. Vidi il cimitero ed i tre cipressi che ne adornano l’entrata.
"Pensai al pericolo di un ritorno dei tedeschi, perciò volevo nascondermi. Mi trascinai nel piccolo cimitero. Poi decisi di arrampicarmi su un cipresso. Con uno sfor­zo di volontà riuscii a trovare le forze ed a salire. Nel­la mia testa prendeva corpo un nuovo piano: attendere la notte e poi raggiungere di nuovo i compagni.
"Il sole calava alle mie spalle, dietro i monti. Da quell’osservatorio potei distintamente vedere il villaggio di Crevasco e le cascine incendiate, la gente che fug­giva spaventata ed i tedeschi che portavano via il be­stiame.
"Alla sera, quando mi sembrò che le ombre potesse­ro proteggermi ridiscesi dal cipresso. Mi sembrò d’es­sere un redivivo. Mi avviai verso una cascina. Incon­trai alcune persone che alla mia vista fuggirono spaventate; ero un mostro intriso di sangue incrostato. Sol­tanto un uomo addetto alla macellazione dei vitelli a Pietra-Cavezzara osò avvicinarmi. Ebbi cosí le prime cure e le prime medicazioni. Intanto i contadini e il parroco provvidero a seppellire i morti, come i tedeschi avevano ordinato 11 fosse, compresa la mia. Difatti il contadino fece la tomba anche per me altrimenti in tedeschi mi avrebbero cercato. Io rimasi nascosto in una baita; su un giaciglio di foglie di castagno dormii un sonno di pietra fino al giorno dopo."
L’indomani mattina, il 24, Franco si rianimò. Il sole del mattino dava tutt’altri colori al luogo. La brezza mat­tutina pungeva, stimolava al movimento e risvegliava alla vita.
Rifocillato, Franco prese la strada di Colle della Boc­chetta, per raggiungere la brigata partigiana che operava nella zona. Procedé fra i campi, rasente alle piante per tenersi celato ai tedeschi. Ma la notizia della incredibile avventura del giovane partigiano era corsa fra la gen­te, piú lesta di lui. I contadini lo riconoscevano, al suo passare, anche per la grande fasciatura bianca intorno al collo. Alcuni lo rifornirono di cibi e lo incitarono con parole di conforto.
Franco raggiunse la brigata Pio della divisione gari­baldina Mingo. Raccontò la sua storia, che parve tanto inverosimile da destare sospetti nei comandanti parti­giani.
Fortunatamente, da Genova arrivò Guglielmo, l’uomo addetto al collegamento, che conosceva personal­mente Franco.
Un mese piú tardi, Franco, inquadrato nella brigata, partecipò alla battaglia di Forte dei Giovi e alla liberazione di Genova.
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