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Ricordi personali di Toscano

Ospedale di Careggi 4 Agosto 1944

Mi si permetta di ricordare

Un pezzo importante della mia vita

All’inizio di agosto la linea del fronte passa attraverso Firenze, i partigiani scendono dalle montagne e convergono sulla città, alleati e tedeschi si fronteggiano in riva all’Arno. La popolazione si prepara alla battaglia di Firenze.

L’autore è testimone diretto di quell’esperienza e della vita della zona di Firenze vicina all’Ospedale di Careggi di quegli anni.

"“Il 4 o 5 agosto 1944 i tedeschi fecero sfollare e racchiudere dentro l’ospedale di Careggi tutti gli abitanti della zona. Con barroccini portammo materasse o altro e ci adattammo nelle corsie nei padiglioni di Careggi, laddove le cliniche erano vuote.”"

"“In quell’area avevano trovato rifugio anche dei partigiani che stavano chiusi nella clinica che noi si chiamava "Il Lazzeretto". Grande fu l’aiuto che il personale, dottori ed infermieri dettero a tutti ricoverando perfino nel reparto tubercolotici dei partigiani, credo della Brigata Fanciullacci, per coprirli usavano uno stratagemma.”"

"“I partigiani e gli altri uomini validi mettevano in bocca della polvere d’uovo e tossendo sputavano delle patacche gialle, in questo modo i tedeschi scansavano quel reparto da come ne erano terrorizzati.”"

"“Per venticinque giorni abbiamo vissuto sotto l’arbitrio e la dominazione tedesca e sotto l’incubo dei cannoneggiamenti di chi non si sa.”"

"“In questi bombardamenti a casaccio morirono sfollati e malati, morì anche la compagna Primetta Bartolini, staffetta partigiana. Per sostenerci fummo costretti a mangiare granturco in chicchi, tralci di vite, erba dei giardini. Ma quando li trovammo facemmo grande festa agli animali da laboratorio: fra i quali i polli, i conigli e le cavie del reparto sperimentazione dell’ospedale.”"

"“In particolare ricordo il maiale: a detta di mio padre macellaio era di una grossezza spaventosa, fu ucciso e lo mangiammo in tanti. E in tanti il giorno dopo si affollavano nei locali di decenza e prati vari.”"

"“Dopo l’insurrezione di Firenze, l’11 di agosto, e l’avvicinamento del fronte le persone che avevano trovato rifugio nell’ospedale cominciarono a scappare per la fogna. La via di fuga era un po’ scomoda: 1500 metri nelle fogne dall’interno dell’Ospedale fino a Piazza Dalmazia.”"

"“Fu tirata una corda e si cominciò l’esodo. Qualcuno vide e fece la spia, i tedeschi minarono le fogne per impedire la fuga dall’ospedale, ferirono e catturarono due sfollati, li curarono e poi li fucilarono alla presenza dei familiari.”"

"“Il 27 agosto i tedeschi mi presero ma mi fu possibile fuggire: grazie ad una carica di mortaio che ferì i rastrellatori e il mio amico Mario. Lui, che era di costituzione più robusta della mia, venne ripreso da un tedesco ferito che gli montò a cavalcioni e si fece portare al comando situato in una delle ville signorili sopra Careggi. Mario tornò a casa nel luglio 1945.”"

"“Poi la mattina del 31 agosto arrivarono i partigiani della 3° Rosselli. Liberarono e rastrellarono il complesso ospedaliero tra lacrime di gioia, saluti, urla: come erano belli!”"

"“Oddio, il primo che vidi non era certo un bel "Ribelle della Montagna", piccolo e secco, scuro al di fuori dei canoni dell’immaginazione popolare. Seppi dopo che era un calabrese che aveva fatto tutta la trafila in montagna dall’8 settembre in poi e che aveva posato l’occhio su una bella "Luger" che avevo alla cintola dei pantaloni.”"

"“Arrivarono anche dei compagni conosciuti e mi senti meglio, il calabrese mi guardò con l’occhio meno cupido e tutto fu risolto.”"

"“La vita riprese e si ritornò nelle case, si facevano grandi progetti.”"

"“Intanto i tedeschi avevano fatto saltare delle abitazioni, in particolare il casamento in angolo tra Via delle Panche e Via Michelazzi, e nascosto sotto le macerie delle mine. Erano dappertutto: nei campi, dietro le porte, sotto i letti, sugli alberi. Le "mine" divennero il terrore delle genti.”"

"“Tante furono individuate e segnalate secondo le istruzioni ricevute dal Gen. Alexander, segnalate con un cartello "MINEN" e ci prendemmo le prime critiche per la strana dizione italiana.”"

"“Il 1° settembre di sera ci fu uno scontro con una pattuglia di guastatori tedeschi, uno fu preso prigioniero. Ma non fu possibile consegnarlo agli alleati perché fece un tentativo di fuga.”"

"“Fu stabilito di organizzare per il 3 settembre una festa per i partigiani e ci demmo da fare. Con Nino andammo a caccia di bevande. In una casa vinicola trovammo una vasca di marsala, ma trovammo anche una diecina di soldati inglesi che bevevano usando il tipico elmetto a scodella, dopo un poco erano sufficientemente ubriachi per farsi portar via un revolver a tamburo che avrebbe fatto invidia ad un cowboy, e una piccola damigiana di marsala.”"

"“Ritornammo verso la casa del popolo, si doveva passare sulle macerie, all’andata un anziano era scivolato, la mina non era scoppiata e gli "esperti" che ci sono sempre in ogni momento dissero che erano finte. Ma Nino mi disse "dammi la damigiana la porto io, tu vai avanti". io ubbidii. Avevo appena passato le macerie quando fui investito da uno spostamento d’aria e sassi che mi scaraventò a 5 metri più in là.”"

"“Mi alzai stordito e dolorante, mi girai e Nino non c’era più; era stato squartato e buttato a venti-venticinque metri sulle macerie, il busto senza gambe, la testa mezza staccata: come un automa cominciai a raccogliere i pezzi, piangevo e tremavo, la gente guardava come sbigottita.”"

"“Poi vennero i Fratelli della Misericordia di Rifredi e mi portarono via, mi dissero dopo che avevo raccolto quasi tutto quanto era possibile.”"

"“La madre di Nino non resse al dolore del secondo figlio morto in guerra e morì poco dopo.”"

"“A Primetta Bartolini venne dedicata una cellula femminile della Sezione delle Panche del PCI, a Vinicio Bagaglini (Nino) una cellula maschile.”"

Nota

L’autore desidera dedicare queste sue memorie ai tre caduti partigiani della zona di Firenze detta "Le Panche": Primetta Bartolini, Vinicio Bagaglini e Carlo Carmonini, quest’ultimo caduto a Montorsoli e segnalato sulla lapide come Carlo Cremonini.

Sisto Monti Buzzetti – E’ la prima notte che ho passato al fronte

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Sisto Monti Buzzetti
E’ la prima notte che ho passato al fronte
Col di Lana
Sisto Monti Buzzetti racconta battesimo del fuoco, vita in trincea, famiglia, mamma a Col di Lana (BL), dintorni il 24 marzo 1916
L’aspirante ufficiale Sisto Monti Buzzetti è al fronte con il 60° fanteria, la zona è una di quelle più famose per le cruenti battaglie che vi si combattono, è la zona del Col di Lana, le cui posizioni vengono alternativamente presidiate, come riferiscono i diari storici, dai due reggimenti della brigata Calabria
Cartolina Postale del 24 marzo 1916

Cara mamma, stanotte è stata la prima che ho passato al fronte. Ho dormito comodissimamente senza sentire punto freddo e pensare che mi trovavo oltre i 2000 m. Come vi dissi ieri, sono destinato alla 7ma compagnia e più precisamente al 4° plotone. Non ho veduto ancora nessun alleronese perché la maggior parte stanno al 3o battaglione mentre io sono al secondo. Ho già ricevuto l’entrata in campagna e quando fra qualche giorno andremo a riposo vi spedirò ciò che non mi abbisogna…

Cartolina Postale del 25 marzo 1916

Caro babbo, non so se avete ricevuto nessuna mia. Io ho scritto molte volte; appena vi giunge il mio indirizzo rispondetemi. Scrivetemi molto perché desidero di leggere molto. Questa notte sono stato per la prima volta in trincea. Te lo figuri, neh, tuo figlio davanti al nemico di notte mentre infuria la tormenta? eppure ti dico che non ho avuto freddo; e poi per la grandezza d’Italia sapremo sopportare ben altre cose…

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Cartolina Postale del 26 Marzo 1916 dalle terre irredente

Mia cara Vilge, ho già scritto a babbo e mamma ed ora mi rivolgo a te. Io possibilmente vi scriverò ogni giorno, ma non vi dovete allarmare se qualche volta mancherò alla mia promessa perché quando si è in trincea non si ha sempre la possibilità di potere scrivere. Farai intanto tanti saluti a Lola, a Filomena, a Eusebio e digli che faccia dei buoni fuochi e si riscaldi anche per parte mia, specialmente poi a Dario. Saluti a nonno, agli zii, a tutti . Tante cose all’Ada; come sta? cammina ancora? oppure sta sempre a divertirsi, a giocare a tombola? Si ricordi che l’ho sfidata a correre per quando ritorno e adesso mi alleno quassù.
Dopodomani o al più tardi il 29 andremo a riposo…

Cartolina Postale del 27 Marzo 1916 dalla trincea

Cara mamma, ti scrivo dalla trincea a poca distanza dal nemico. La giornata è splendida ed un sole veramente primaverile ci consola un po’. Dinanzi a questa estensione infinita di neve, in mezzo a tanta esuberanza di candidissima luce, su queste eccelse vette, a pochi passi dalle dolomiti mi sento grande; grande come immensa distesa di neve, grande come gli ideali della patria. Giunge di tanto in tanto qualche colpo di cannone, ma gli artiglieri nemici tirano male. Domani è il mio onomastico; attendo per oggi vostre lettere: le attendo ansiosamente; spero che stasera quando torno ai baraccamenti ne troverò…

Cartolina Postale del 28 Marzo 1916 dal fronte

Babbo mio, oggi è il mio onomastico. Come dissi ieri a mamma attendevo lettere ma la posta non è ancora venuta, spero che fra poco giungerà e possa avere qualche cosa di straordinario dagli altri giorni, come per festeggiarlo. D’altra parte ho pensato però anche a festeggiarlo, perché siccome oggi non sono ai posti avanzati ho mandato a prendere dello “champagne” per fare un po’ di festa con gli altri ufficiali della compagnia. Scenderemo a riposo il 31 ed allora vi scriverò lettere, poiché ora non ne ho la possibilità…

Cartolina Postale del 30 Marzo 1916 dal fronte

Cara mamma, ieri non ti ho potuto scrivere perché ebbi molto da fare in trincea. I signori austriaci tirarono i soliti “ta-pum” con i soliti effetti di far ridere molto. Però stanotte nel tornare dalla trincea ho passato qualche momento brutto, causa una orribile tormenta. Ma ora è più nulla. Attendevo da due giorni vostre lettere ma non ho ancora ricevuto nulla. La posta oggi non è ancora giunta; in essa spero che ci sarà qualche cosa. Domani a notte scenderemo a riposo. Allora ti scriverò lunghissime lettere. Quando scrivete, scrivete molto ma molto; ditemi tutto quello che accade costaggiù nella nostra Italia per la quale combattiamo…

Lettera del 31 Marzo 1916 dalle trincee

Caro babbo, oggi mi sono inteso per la prima volta fischiare le palle vicino. Stamane pareva che i signori austriaci l’avessero proprio con me. Mentre stavo ispezionando le vedette mi hanno tirato due fucilate l’una più vicina dell’altra. Non sono stato ad attendere la terza che molto probabilmente avrebbe avuto l’ardire di farmi la pelle; ma mi sono appostato dietro una feritoia ad attendere che l’audace nemico mostrasse la sua testa, per restituirgli quello che mi aveva mandato; ma ho atteso per un’ora inutilmente. Ebbene andrà per un’altra volta. Non ho ancora ricevuto vostre lettere e ciò comincia ad impazientirmi più delle pallottole tedesche. Stanotte scenderemo a riposo. Domani sera vi scriverò una lettera…

Massimo Coltrinari – Prigionieri di guerra italiani

Massimo Coltrinari

Prigionieri di guerra italiani

700.000 militari italiani prigionieri in Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Unione Sovietica, 650.000 internati in Germania. Le condizioni di detenzione. Il ritorno nel nostro Paese

La guerra, voluta da Mussolini, doveva finire nell’estate del 1940 con la resa dell’Inghilterra. In breve ci si sarebbe messi al tavolo della pace e l’uomo di Predappio avrebbe svolto il ruolo di mediatore tra le sconfitte democrazie occidentali e il leone tedesco. Secondo certe leggende, stando dalla parte del vincitore, Mussolini avrebbe dovuto svolgere un ruolo di contenimento alle pretese quasi illimitate della Germania.

Ma, contro ogni aspettativa, la Gran Bretagna resistette e tutto ciò non avvenne; il nostro Paese dovette così affrontare una guerra a cui non era assolutamente preparato.

Le inevitabili sconfitte cui andò incontro portarono, tra lutti e rovine, anche a lasciare nelle mani del nemico oltre 700.000 militari prigionieri che furono dispersi in tutte le regioni del mondo. Prigionieri italiani furono detenuti per la maggior parte dalla Gran Bretagna (circa 400.000), dagli Stati Uniti (circa 125.000), dalla Francia (circa 50.000) e dall’Unione Sovietica il cui numero, al termine del conflitto, risultò essere di circa 12.000 prigionieri anziché i previsti 60-80.000. A questa massa di uomini – il fior fiore delle classi di leva – si andarono ad aggiungere altri circa 650.000 militari italiani, catturati dai tedeschi dopo l’armistizio ed internati in Germania.

La gestione dell’uscita dalla guerra fu così disastrosa che dovemmo pagare anche questo enorme prezzo in termini di sofferenze e privazioni. In più i militari catturati dai tedeschi non ebbero nemmeno lo status di prigionieri secondo la convenzione di Ginevra del 1929, ma lo status di «internati», essendo considerati «non belligeranti» non essendoci nel settembre 1943 tra Italia e Germania uno stato di guerra dichiarato.

Questa enorme massa di prigionieri, che coinvolgeva tantissime famiglie in Italia, non poteva non avere, al momento del rimpatrio, un suo peso ed una sua valenza sulle scelte che il nostro popolo andò ad affrontare per darsi una vita istituzionale rispondente alle proprie necessità. In altri termini i prigionieri di guerra e gli internati, che nel loro totale, secondo la relazione Facchinetti del 1947, ammontarono a 1.350.000 considerando tutti gli aspetti in cui la prigionia italiana si articolò nella seconda guerra mondiale, al momento del loro ritorno in Patria portarono un loro contributo diretto o indiretto alla rinascita della vita politica del nostro Paese. Dal maggio 1945 al febbraio 1947 quasi tutti i prigionieri italiani furono restituiti all’Italia e ognuno ebbe la possibilità di partecipare alle decisioni di quegli anni difficili e determinanti. Così, a seconda dell’esperienza vissuta, i prigionieri di guerra poterono dare un loro contributo.

Il documento di un militare italiano prigioniero degli inglesi (da http://m.coratolive.it/rubriche/334/ seconda-guerra-mondiale-lettere- dalla-prigionia-di-soldati-coratini)

Iniziamo da quelli più numerosi, quelli in mano alla Gran Bretagna. La prigionia inglese fu severa, non certamente piacevole, ma corretta. Gli italiani ebbero modo di vedere da vicino il modo di essere degli inglesi nel mondo e come stavano gestendo il loro Impero. Una esperienza sicuramente positiva fu quella dei prigionieri in Kenya, in Sud Africa, a Ceylon, in Australia e, in parte, in India; un po’ meno per quelli che inizialmente furono tenuti nel Nord Africa ed in Palestina o inviati in Inghilterra dove anche questi ultimi ebbero modo di vedere lo stile di vita anglosassone. In linea generale ne trassero insegnamenti favorevoli ed un senso di ammirazione – non certo elevato ma sostanzialmente reale – del modo di vivere inglese. Saranno costoro che in Italia – in linea di massima – aderiranno con sincerità ai principi democratici di stampo occidentale.

Lo stesso discorso vale per i soldati italiani prigionieri degli Stati Uniti. Gli statunitensi al momento della cattura avevano assunto – e questo non solo nei confronti degli italiani ma anche dei giapponesi e dei tedeschi – un atteggiamento pedagogico. Erano convinti che questi soldati, educati nel clima della dittatura, potessero essere orientati su principi democratici; sicuramente se messi in contatto con il sistema di vita americano, i prigionieri, una volta rientrati nel loro Paese, sarebbero stati ottimi veicoli di propaganda per gli Stati Uniti.

Con questo atteggiamento la prigionia negli Stati Uniti fu umana, accettabile e, se paragonata a tutte le altre, la migliore.

Sbarco di prigionieri italiani provenienti dai Paesi anglo-americani

II segno cambia completamente con le altre due prigionie, quella sovietica e quella francese. Quella sovietica diede vita nel 1945-’47 a roventi polemiche che incisero molto nella vita politica di quegli anni. Da una parte si sosteneva che le tesi espresse dall’URSS erano accettabili, dall’altra si era convinti, davanti alla mancanza di informazioni, che grandi masse di italiani erano ancora tenute prigioniere nell’Unione Sovietica, senza nessuna possibilità di restituzione.

Nella realtà – ormai è acclarato – oltre il 90% dei prigionieri caduti, dopo la ritirata del gennaio 1943, in mano sovietica, morì nei mesi di febbraio, marzo, aprile e maggio 1943.

Le cause di ciò sono ben descritte da chi subì la prigionia russa fin dagli anni 50: condizioni ambientali orrende, tifo, mancanza di alimentazione, malattie, interminabili marce nella neve, campi di concentramento in condizioni igieniche pessime; tutto contribuì ad elevare il tasso di morte dei nostri prigionieri. E ciò senza colpe specifiche da attribuire ai sovietici impegnati in una guerra per la sopravvivenza; non c’era spazio per attenzioni o risorse da dedicare ai prigionieri nemici. In Italia rientrarono circa 12.000 soldati dalla Russia dei previsti 60-80.000.

Le polemiche che, come detto, accompagnarono questi rientri, misero un po’ in ombra l’altra grande tragedia: quella dei prigionieri italiani in mano francese.

Giuridicamente i francesi di De Gaulle non avrebbero dovuto tenere prigionieri soldati italiani in quanto l’Italia con la Francia aveva concluso un armistizio. Ma De Gaulle dettò le sue regole e non solo trattenne come prigionieri quei soldati italiani che le sue truppe avevano catturato in Nord Africa, ma pretese – per l’economia dell’Algeria e della Tunisia, disse – altri 15.000 soldati italiani catturati da americani ed inglesi. Questa prigionia francese fu veramente crudele. Rifacendosi alla cosiddetta «pugnalata alla schiena» del 1940 i francesi commisero sui nostri connazionali ogni sorta di sopruso, non accettando nemmeno in linea teorica di avere gli italiani come loro collaboratori, come invece fecero americani ed inglesi, e usando nei campi un trattamento che non è secondo a quello dei campi tedeschi. Sia per i reduci dalla prigionia russa che da quella francese, si manifestò, una volta arrivati in Italia, un’avversione così radicata verso i loro detentori. Saranno questi reduci che – imputando le loro sofferenze a chi nel 1940 dichiarò la guerra – negli anni del dopoguerra, opteranno per una scelta rinnovatrice e democratica.

Si può anche dire che se l’Italia non è scivolata nella guerra civile, nello scontro armato – come era facile accadesse soprattutto nel momento di massima crisi con l’attentato a Togliatti – in parte lo si deve anche al senso di misura e di equilibrio di questa massa di giovani e meno giovani ex combattenti, che attraverso le sofferenze della guerra e della prigionia non era più disposta a risolvere i contrasti interni con l’uso delle armi.

L’epoca delle avventure, che loro avevano pagato duramente, era per fortuna terminata.

Da “Patria indipendente” n. 10/11 del giugno 1996

Gino Ricceri – Carissima madre

"Carissima madre, ancora mi trovo vivo"

Cesare, detto Gino, Ricceri racconta paura, morti, combattimenti, mamma, famiglia a Porte del Pasubio il 4 luglio 1916

Li 4-7-1916
Carissima Madre
Con molta impressione ti scrivo queste due righe per farti sapere che ancora mi trovo vivo per buona fortuna ed in ottimo stato di salute. Cara Madre vengo ad annunziarti che ieri giorno 3 dopo un gran bombardamento alle ore 11 precise abbiamo iniziato l’avanzata che dopo un breve scambio di fucilate ci anno fatti andare all’assalto non puoi credere in quel momento il mio cuore cosa mi faceva. Dunque andati all’assalto abbiamo fatto diversi prigionieri quattro mitragliatrici ed altro materiale da guerra. Cara Madre non ò potuto fare a meno di non piangere quando ò veduto quei bei giovani che come me si trovano in queste brutte condizioni più inpressione e stata quella nel vedere gran numero di feriti e anche diversi morti dove senza avvedersene a qualcuno passavamo di sopra più lamenti che facevano straziare il cuore nel vedere tante giovani vite così massacrate. Cara Madre mi sono di già visto perso perché ancora non si parla di cambio e nel medesimo tempo sono spesse volte che me la sono cavata a pulito. Come ti annunziavo in una mia antecedente che avevo avuto notizie da Riccardo e che tutto ti dicevo quanto esso mi mandava a dire ed io subito gli risposi ed attendo nuovamente da lui risposta per sapere come si trova più quando tu mi rispondi anche tu fammi sapere notizie in proposito di lui. Cara Madre credi che qua su questi altissimi monti ancora perdura la sete e la fame e per buona fortuna il giorno tre abbiamo potuto mangiare qualche scatoletta dei viveri dagli Austriaci lasciati.
Altro non mi prolungo con la speranza di tornare tra voi salvo o prima o dopo. Cesso di scrivere perché ancora non sono tornato nel mio primiero stato con queste impressioni.
Saluta tutti chi ti domanda di me saluta tanto le sorelle più ricevi i più cari ed affettuosi saluti tuo figlio Gino

Gino Frontali–Una bomba fra due uomini

Una bomba tra due uomini

Gino Frontali racconta bombardamenti, feriti, morti, orrori a Ponte del Pissandolo (BL) il luglio 1915

Il sottotenente medico Gino Frontali descrive un bombardamento e gli effetti che provoca.

Lo scoppio era lacerante come un grido di ferocia sovrumana e dava una certa emozione a carattere viscerale. La ventata di uno di questi scoppi fu sufficiente a gettare a terra Frattari, il mio caporale di sanità mentre discorreva in piedi con me seduto.
Le prime vittime furono due portatori di filo spinato, che trasportavano a spalla il rotolo infilato sopra un paletto. Il proiettile doveva essere scoppiato fra l’uno e l’altro perché aveva asportato la parte posteriore del cranio scucchiaiandone buona parte del cervello a quello che stava davanti e la faccia, un braccio e una gamba a quello che stava  di dietro. Ambidue erano anneriti come da fuligine e agitavano i loro corpi moribondi in un viscidume vermiglio. D’allora in poi il mio lavoro subì delle recrudescenze ad ogni colpo che cadeva in pieno sulla nostra truppa naturalmente priva di ricoveri blindati. Consumavo in poche ore le mie riserve di medicatura e rimanevo un po’ stordito dalle grida dei feriti che s’affollavano impazienti davanti al posto di medicazione. Medicai anche qualche artigliere ferito leggermente da schegge di rimbalzo. Perché il medico degli artiglieri se ne stava a S. Stefano ed arrivava in automobile, chiamato per telefono, invariabilmente quando i suoi feriti erano già medicati.

Valerio Tosi e la battaglia di Riva del Garda

Valerio Tosi e la battaglia di Riva del Garda
I. B.
Classe 1928. La Brigata “Cesare Battisti”. L’assassinio dei suoi compagni di scuola. La conquista di Riva. La Liberazione e i partigiani-operai dell’officina X Fiat. Fra Italia e Norvegia, a occuparsi di reattori e acqua pesante
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Valerio Tosi di fronte alla foto della brigata “E. Impera”, dopo la liberazione di Riva. Il giovane Valerio è il ragazzo col maglione bianco
16 dicembre 2014, Valerio Tosi è a Padova per il funerale del fratello Giorgio. Pronuncia poche parole: del fratello rammentava su tutto un abbraccio – quello scambiato a liberazione di Riva e di Giorgio avvenute – improvviso, inaspettato, col mitra ancora al collo, a intralciare l’affetto di due fratelli ritrovati, sopravvissuti alla guerra.
Infanzia e adolescenza – Valerio Tosi nasce a Rimini il 5 ottobre del 1928, secondo di quattro fratelli: Giorgio (classe 1925), Gabriella e Franca.
Il padre, guardia forestale militarizzata durante la guerra, si sposta molto per lavoro, fino a giungere, con la moglie Carla Casalotti e i primi tre figli, a Riva del Garda nel 1938. Lì, pochi anni dopo, Valerio si iscrive – come suo fratello – al Maffei, dove – come scrive Giorgio Tosi nel suo Zum Tode – «i giovani del “Littorio” entrati balilla al ginnasio si trovarono presto al liceo, adolescenti e avanguardisti ma con la divisa che urticava, la mente arrovellata, l’animo turbato» (1); furono alcuni dei loro professori a «svegliare dal letargo» i ragazzi: Leonardi, Gori e Franchetti.
Al professor Gori, insegnante di lettere, «bastava una terzina di Dante ad accendere gli animi contro il tiranno, rivelando all’insegnante sgomento e felice che i suoi alunni si stavano trasformando anche per suo merito in apprendisti uomini, insofferenti al regime, pronti a ribellarsi»; Gastone Franchetti (leva 1920), invece «aveva un fisico atletico, perfetto, da statua greca. Era spavaldo e tenero, rude e generoso, incolto e irrequieto. Fascista, volontario in guerra, alpino e valoroso soldato, torna a Riva con un alone di leggenda per le sue imprese in battaglia», (2) insegna educazione fisica.
Gli studenti sono affascinati da questi loro professori, così diversi e complementari, che si conoscono e simpatizzano in breve.
Da “Figli della Montagna” a “Fiamme Verdi”: la brigata “Cesare Battisti” – Molto prima dell’armistizio, Franchetti prende una posizione netta sul regime e – sicuro ormai di poter contare sulla loro fiducia – la palesa ai suoi ragazzi, inventandosi anche i “Figli della Montagna”, un’associazione che accompagnò la «delicata trasformazione dei giovani studenti da fascisti ciechi a fascisti critici, e infine ad antifascisti» (3).

Alcuni dei compagni più stretti di Valerio e suo fratello, in quel periodo, erano Eugenio e Romana Impera, Enrico Meroni, Renato Ballardini, Giulio Poli e Luciano Baroni.
Nell’ottobre ‘43 i “Figli della Montagna” si trasformano nelle “Fiamme Verdi”-Brigata “Cesare Battisti”, vero e proprio movimento clandestino di Resistenza, Franchetti assume il nome di battaglia di “Ettore Fieramosca” e altri uomini entrano nell’organizzazione, tra cui il comunista Dante Dassatti (“Dario”) e il padre dei Tosi, Alessandro.
Si stabiliscono contatti coi gruppi partigiani lombardi e veneti, col CLN milanese; si stringono poi i nodi di una rete che – nei comuni limitrofi – collega i resistenti di Riva al movimento operaio, al PCI, al PSI, ai gruppi di GL.
L’eccidio del 28 giugno 1944 – Purtroppo però nemmeno la presenza prudente e guardinga di Dassatti riuscì a scongiurare l’infiltrarsi, nella brigata, di una spia. Fiore Lutterotti, amico di Franchetti, gli si presenta nell’aprile del ’44, asserendo di essersi arruolato nelle SS per salvarsi la vita dopo l’8 settembre (che lo aveva colto in Germania) ma di essere un amico dei “ribelli”, capace – con la sua tessera delle “teste di morto” – di farli passare dappertutto, anche armati.
Franchetti gli crede, l’inganno riesce e porta – nel giugno del ‘44 – alla cattura e alla morte di decine di persone.
La politica del gauleiter Hofer per il Trentino era stata, dopo l’armistizio, particolarmente morbida e tollerante con i civili, la contropartita però era l’obbedienza assoluta e l’assenza totale di focolai di Resistenza in un Trentino strategico, per cui passava la linea del Brennero, vitale per la Wehrmacht.

Per questo era necessario stroncare sul nascere ogni organizzazione clandestina avversa al nazi-fascismo.
All’alba del 28 giugno 1944 a Riva e nei comuni vicini, reparti della polizia di sicurezza e del battaglione Bozen, guidati dalle SS, trucidarono 11 partigiani e ne arrestarono a decine.
Vengono arrestati, tra gli altri, Gastone Franchetti e Giorgio Tosi.
Viene freddato, sorpreso e assonnato nella stanza da letto, il diciannovenne Eugenio Impera; viene torturato e ucciso nella sede della Feldgendarmerie di Riva il coetaneo Enrico Meroni. A molti altri venne riservata la stessa sorte.
Franchetti verrà torturato e infine fucilato per rappresaglia il 29 agosto del 1944 a Bolzano.
I fratelli Valerio e Giorgio Tosi sono sorpresi mentre dormono. Prelevano soltanto Giorgio (che finirà in carcere prima a Trento, poi Bolzano e Silandro), cosicché Valerio – allora sedicenne – può correre subito dopo ad avvisare le famiglie di altri due compagni, che così si mettono in salvo.
Restano pertanto, nella casa dei Tosi, soltanto le donne: la nonna Cecilia, la madre Carla e le due sorelline Franca e Gabriella; il padre era già stato incarcerato per la soffiata di un suo milite che lo accusava di reperire materiale per i partigiani.
La battaglia di Riva e la Liberazione – Tra l’autunno 1943 e il giugno 1944 le gallerie della Gardesana Occidentale erano state trasformate in un impianto di produzione bellica.
La brigata “Cesare Battisti”, distrutta con l’eccidio del giugno ’44, rinacque nel nome di uno dei suoi caduti: “Eugenio Impera”, ora brigata garibaldina guidata dal comunista “Dario”. Valerio ne è membro ed è inviato al tornio dell’officina X della Fiat, in una delle gallerie della Gardesana. Si tratta di un’officina “particolare”, gestita in pratica da operai partigiani: le macchine si inceppavano, pochissimi pezzi uscivano di lì e il boicottaggio era ben camuffato.
Riva, nei giorni convulsi dell’aprile 1945, fu liberata, occupata, nuovamente liberata.
Il 25 aprile comincia la ritirata di massa delle truppe tedesche dall’Italia, ma i nazisti difendono Riva ad oltranza; il Comando partigiano decide di sferrare l’azione decisiva nelle primo pomeriggio del 28 aprile.
I tedeschi, però, ricattano i garibaldini minacciando di scaricare le loro batterie sulla città: Dario decide che è una posta troppo alta e si ritira coi suoi alle periferie di Riva. Da Salò giungono, di rinforzo ai tedeschi, i repubblichini.
Durante la battaglia per la liberazione di Riva, Valerio Tosi si trovava in piazzetta Marocco (nel centro storico del paese) e lì vide transitare, marziali, i partigiani-operai dell’officina X Fiat, anch’essi ora agli ordini di Dario. Poco dopo, in uno scontro in via Montanara, cadeva uno di loro, Cesare Maffiodo operaio di 22 anni. Poco distante, vicino a via Fiume, cadono Alvaro Bellettati, un altro operaio di 25 anni, e Andrea Berlanda.
Le forze partigiane arretrano verso Deva, Pranzo e Tenno, da dove si può comunque sbarrare la ritirata ai tedeschi.
Intanto dalle pendici del monte Baldo avanzano gli alleati; la mattina del 30 aprile il battaglione partigiano libererà, da solo, definitivamente Riva. Un’ora dopo circa arrivano le prime pattuglie canadesi.
Valerio, assieme a Ervino Betta (il cui padre era stato ucciso dalle SS il 28 giugno ’44), deve andare a prendere il gauleiter di Riva, Kuhne, scortato incolume fino al Comando partigiano.
Ai partigiani viene concesso di restare armati in città per circa un mese, è per questo che il mitra di Valerio si mette di traverso nell’abbracciare il fratello Giorgio, che il 3 maggio aveva ottenuto il lasciapassare per uscire dal carcere di Silandro e tornare finalmente a casa.

E dopo? – Valerio si laurea in fisica a Roma, si specializza in fisica nucleare e diviene assistente di Amaldi, ma guadagna troppo poco, così tenta di lavorare nell’industria.
Si presenta alla Bombrini Parodi Delfini, il colloquio va bene, le proposte sono per ruoli dirigenziali, ma alla fine gli chiedono di avere le carte militari. Al secondo colloquio Valerio si sente dire che, data la sua qualifica di partigiano combattente nella brigata Garibaldi “Eugenio Impera”, non potrà avere il posto. Erano gli anni di Scelba.
Fortunatamente, grazie all’Euratom, Valerio può partire per la Norvegia, un po’ amareggiato – però – dato che la Patria per la cui libertà aveva combattuto non lo accettava proprio per il suo passato partigiano.
Dopo sette anni rientrerà in Italia, dove lavorerà per il CNEN (poi ENEA) per mettere in piedi il CIRENE, il reattore di concezione italiana.
Riceve la croce di guerra al valor militare.
Valerio Tosi in piazzetta Marocco, teatro di feroci scontri durante la battaglia di Riva
Nell’84 si riapre la possibilità di tornare in Norvegia, sempre con un contratto ENEA, così Valerio arriva ad Halden, a occuparsi di “acqua pesante”, che in Norvegia si produceva anche durante la guerra, quando i tedeschi tentarono di appropriarsene, fermati dai partigiani norvegesi grazie ad una mirabolante azione.
Nel frattempo incontra e sposa Unni.
Tornano spesso, però, in Italia, a Riva. L’8 luglio 2015 Valerio ha raccontato di nuovo la sua straordinaria storia sulle sponde del lago di Tenno.
Giorgio Tosi, Zum Tode – a morte, Ibisk

Nilo – Ricordi di vita trascorsa

pugno
Nilo
Ricordi di vita trascorsa.
La 79° Brigata Garibaldi

Sul piccolo destriero
A capo scoperto
S’avanza un guerriero
Un capo di certo.
Le ghette ai polpacci
Pistola pendente
Binocoli al collo
Statura imponente.
*
Lo sguardo feroce
Testin ricciolino
Sarà nostro duce
Il gran Giacomino.
*
S’ode un chiasso, un gran fragore
La fascetta tricolore
Indovino? Indovino?
Ed il piccolo:
‘La Brigata Giacomino’
Bravo! Ecco una caramella

 

Tratto da
Poesia clandestina della Resistenza – Antologia dei …

Maurizio Orrù – un Partigiano sardo in Continente

Un partigiano sardo in Continente
Maurizio Orrù
La storia di Pinuccio Tinti, di Monserrato in provincia di Cagliari, combattente della Brigata Mameli nel territorio tra il Valdarno e il Casentino
Guai a dimenticare il passato. Le associazioni antifasciste e resistenziali devono scrivere la Storia senza retorica e senza enfasi. È necessario riappropriarsi della Storia contemporanea italiana, dei suoi personaggi e dei fatti che sono entrati prepotentemente nella memoria collettiva. Partendo da questi saldi presupposti è utile e necessario ricordare attraverso la testimonianza di vita vissuta “i percorsi resistenziali” dei tanti uomini e donne che hanno contribuito in maniera significativa e determinante alla nascita della nostra democrazia. Non ci fu in Sardegna l’attività partigiana per ragioni geografiche, ma per ragioni politiche e militari. Nell’isola non ci fu l’esperienza triste e drammatica contro il nazifascismo che imperversava nel Nord Italia. Ma i sardi hanno contribuito attivamente nelle file della Resistenza italiana e all’estero. In ogni brigata partigiana c’era la presenza degli isolani. La presenza dei sardi nella Resistenza è rappresentata soprattutto dai militari che dopo l’otto settembre 1943, o perché sbandati, o perché bloccati per le oggettive difficoltà di trasporto e di comunicazione con l’isola, si trovavano ad alimentare e contribuire alla formazione delle prime bande partigiane. Molti i sardi coinvolti nelle bande partigiane. «I soldati che nel settembre scorso – scrive Giaime Pintor- traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti (…)».
Molti i sardi nelle bande partigiane. A tal proposito, utile e doveroso menzionare la figura di Pinuccio Tinti (Monserrato, 8 settembre 1924, 24 agosto 2015). Facciamo un passo indietro. Pinuccio Tinti proveniva da una ricca e laboriosa famiglia contadina sarda. Anche Pinuccio fin dalla giovane età faceva l’agricoltore. All’età di diciotto anni, dopo le consuete visite mediche partiva come aviere di leva. Eravamo nel gennaio 1943. La prima destinazione militare di Pinuccio fu l’aeroporto militare di Firenze. Il periodo del servizio di leva, trascorreva, come prassi, con guardie armate ed esercitazioni. Firenze veniva bombardata dagli Alleati il 25 settembre 1943. In questa occasione ci furono un numero imprecisato di morti e di feriti.
 
Con l’armistizio avveniva un generale sbandamento, tanto che i militari restavano senza ordini e disposizioni. Questo stato d’animo d’incertezza gravava sull’intera popolazione italiana. Pinuccio Tinti, assieme ad altri commilitoni prendeva la strada delle montagne. Una fortuita coincidenza permise al gruppo dei militari di incontrare un capitano dell’Esercito di nome Rodolfo Chiosi. Questo ristretto gruppo di uomini, comandati dal Capitano Chiosi, costituiva la brigata partigiana Mameli. Col tempo la Brigata raggiungeva il numero di 240 partigiani. I compiti che perseguiva la Brigata Mameli erano molteplici: protezione e tutela della popolazione civile, riparazione dei caseggiati ed altre incombenze militari. Solo in seguito la Brigata Mameli, inquadrata nei “Volontari della Libertà”, riceveva ordini dal CLN che assegnava una precisa zona di operazioni. I vertici della Brigata erano costituiti dal Comando Brigata e dalla squadra Comando “Varo Falli” affidata a Pinuccio Tinti. La zona di competenza della “Mameli” era il vasto territorio tra il Valdarno e il Casentino, ovvero una zona caratterizzata da una imponente presenza partigiana, che il 15 agosto 1944 liberava con il supporto militare di alcuni reparti regolari inglesi il paese di Loro Ciuffenna (Arezzo). Molteplici gli episodi militari di cui furono protagonisti i partigiani della Brigata Mameli e le forze antagoniste nazifasciste. «(…) Cercavamo sempre – spiega Pinuccio Tinti – ove possibile, di non coinvolgere i civili ma, talvolta, in seguito a qualche nostra azione, ci sono state delle rappresaglie e molte persone hanno perso la vita. Bastava un semplice sospetto a scatenare la reazione dei nemici che portavano le vittime davanti a grandi alberi dove le impiccavano. (….) Sono orgoglioso della mia Brigata, perché il primo nucleo è partito, si può dire, dal nostro gruppo di otto sardi: ci siamo dati da fare in tutti i sensi e siamo sempre rimasti uniti (…)» (tratto dall’intervista rilasciata da Pinuccio Tinti in “Storia e Memoria”, Le scuole in Rete, Nuoro, 2003).
Importanti e degni della massima considerazione gli attestati che ebbe Pinuccio Tinti: “Partigiano Combattente” volontario della guerra di Liberazione, decorato con la Croce al merito di guerra e con la Medaglia di Benemerenza per i Volontari della seconda guerra mondiale. Inoltre il 27.12.1984 veniva conferita al partigiano sardo, l’onorificenza di Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana (su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
Pinuccio Tinti rientrava in Sardegna il 26 ottobre 1944 con destinazione Elmas e, in seguito, il campo d’Aviazione di Monserrato; veniva congedato nel giugno del 1947.
Nel tempo, Pinuccio Tinti non ha mai lasciato gli ideali resistenziali, infatti per anni ha ricoperto il prestigioso incarico di Presidente della Federazione degli ex Combattenti e Reduci di Pirri (Ca) e membro del Direttivo Nazionale della stessa organizzazione. Anche l’ANPPIA (Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti) della Sardegna conferiva a Pinuccio Tinti la tessera onoraria. «(…) È un “testimone” importante che ci parla di coraggio, di coerenza, che ci racconta la storia di un ragazzo come noi che ha vissuto anni bui, ha avuto paura, ha tremato, ma che ha combattuto per consentirci di vivere in un mondo libero… anche se non proprio giusto con lui e con quanti hanno rischiato la vita o l’hanno persa per costruirlo (…)» (Storia Memoria”, cit.).
Maurizio Orrù, giornalista, Segretario regionale ANPPIA Sardegna

“Quello studente ricercato dalla Brigata Nera ero io”

“Quello studente ricercato dalla Brigata Nera ero io”
Gianfranco Pagliarulo
La scomparsa di Primo De Lazzari, “Bocia”. Partigiano a 17 anni e membro del Fronte della Gioventù di Eugenio Curiel. Una vita di impegno sociale, politico, culturale. Determinato e riservato, sempre testimone attivo del suo tempo. La sua lunga collaborazione con “Patria Indipendente”

Nome di battaglia “Bocia”. Leggo ora un suo capitoletto dal volume Io sono l’ultimo, lettere di partigiani italiani, a cura di Stefano Faure, Andrea Liparoto, Giacomo Papi. Quando scrive “Era metà aprile del ’45. La Brigata Nera di Mestre (XVIII Bartolomeo Asara) vuole catturare lo studente per distruggere il gruppo di ragazzi da lui organizzato mesi prima a Marcon e dintorni. Molti sanno chi è lo studente, ma nessuno parla, nessuno fornisce indicazioni ai militi”. E poi racconta di quello studente finito nella lista dei ricercati e dei suoi persecutori, successivamente processati come criminali di guerra. E ancora scrive degli amici di quello studente. E conclude: “Diciassettenne scolaro, in quell’aprile, lo studente ero io”.
Nome di battaglia “Bocia”, all’anagrafe Primo De Lazzari. Se n’è andato il 15 febbraio, qualche mese prima dei suoi novant’anni di schiena dritta, da quando scelse – allora – il senso della sua vita.
La sua biografia: nasce a Mestre (Venezia) il 23 giugno 1926, giornalista e dirigente della FGCI e dell’ANPI. Col nome di battaglia di “Bocia” era stato giovanissimo partigiano combattente nella Brigata Garibaldi “Erminio Ferretto” e organizzatore del Fronte della Gioventù di Eugenio Curiel.
Dopo la Liberazione De Lazzari ha fatto parte della Direzione della Federazione Giovanile Comunista Italiana e fu segretario regionale della FGCI per il Veneto. È stato Consigliere nazionale ANPI, Vicepresidente dell’ANPI Roma-Lazio e dirigente delle attività per la Memoria storica nelle scuole.
Redattore capo della rivista culturale Conoscersi, è stato uno dei redattori della rivista dell’ANPI Patria Indipendente ed ha scritto numerosi saggi sulla guerra di Liberazione in Italia e all’estero, a cominciare da quello, uscito nel 1977, sulla Resistenza cecoslovacca.
Nel 1981, De Lazzari, ha pubblicato con l’editore Teti Eugenio Curiel. Al confino e nella lotta di liberazione. Con l’editore Mursia ha stampato, nel 1996, una Storia del Fronte della Gioventù nella Resistenza.
Primo continuava a collaborare con Patria Indipendente.
Dunque il “Bocia” ci ha lasciato. In questo numero di Patria Indipendente è ospitata l’intervista ad Anna Assandri, 23 anni, presidente della sezione ANPI di Silvano d’Orba, in provincia di Alessandria. Non c’è più il combattente diciassettenne della Resistenza; c’è la ragazza piemontese che si propone un nuovo dialogo antifascista con le giovani generazioni. Un passaggio di testimone, e di testimoni del tempo. Primo – credo – ha vissuto intensamente, come tutti coloro che hanno scelto il senso della propria vita. E ha vissuto tutte le epoche del suo percorso. Dalla Seconda guerra mondiale al Medioriente in fiamme. Dalla Resistenza alla grande crisi. Del suo tempo è stato quindi testimone attivo, protagonista. Insomma, uomo a trecentosessanta gradi, con la sua specifica e irripetibile umanità. Determinata e riservata, mi è parso. Volitiva e silenziosa. Perché, pur essendo un eccellente oratore, non si perdeva mai nelle parole. Al punto – ha scritto la sua carissima Serena D’Arbela, nostra collaboratrice – che “ci ha lasciato per sempre, in silenzio, come al solito”.
E se n’è andato. Dove, dipende dai punti di vista, dalle concezioni del mondo, dal credo religioso di ciascuno. Certamente ora è in un Pantheon degli umani laico e sobrio, dove riposano i tanti come lui. Quelli che in quegli anni persero la vita sotto le bombe o le torture dei nazifascisti. Quelli che sono scomparsi nei decenni successivi per l’ineluttabile legge che ci fa finiti e provvisori. Quelli, come lui, con la schiena dritta. Il Pantheon della Repubblica democratica nata dalla Resistenza. No, no, nessuna retorica sia chiaro: solo la verità dei fatti che attestano che senza Primo, senza i partigiani, senza quella lotta armata e civile, culturale e sociale, non avremmo avuto il dono di un Paese che, nonostante tutto, si mantiene libero perché ancorato alla Costituzione.
A Primo siamo debitori. A quello che ha fatto. A quello che ha scritto. Vita e opere, si dice. È così. I suoi volumi sono – ancora – una testimonianza di vita, a cominciare da Ragazzi della Resistenza, introdotto da Massimo Rendina, e Le SS italiane, con prefazione di Arrigo Boldrini. Lì dentro come in uno specchio apparivano i giovani di quegli anni: da una parte quelli che avevano scelto di combattere per la libertà e l’eguaglianza, dall’altra coloro – italiani – che giurarono fedeltà ad Adolf Hitler. Partigiani e repubblichini. Se li legga, quei volumi, chi ancora ha la mezz’idea di mettere tutti sullo stesso piano, o chi immagina una Repubblica “terza” rispetto a fascisti e antifascisti, o chi infine pensa che tutto ciò sia “il passato” perché è sordo e cieco. Senza mai sentire, senza mai vedere il ritorno delle idee, delle organizzazioni e delle pratiche più o meno naziste e fasciste che stanno inquinando tanta parte dell’Europa.
Scriveva “Mario”, Pietro Tajetti
Qualcuno voleva impedirti
che altri uomini, altre donne, altri bambini
vivessero in un mondo diverso
fatto di lavoro, di benessere, di felicità
non so se oggi si possa dire
che tutto si sia realizzato,
ma i sogni restano
e quelli nessuno potrà toglierteli
vecchio partigiano.
Sì, Primo. I sogni restano. E nessuno potrà toglierteli, vecchio partigiano. Né a te, né ad altri. Perché i tuoi sogni, “Bocia”, i sogni di uno studente ricercato dalla Brigata Nera, sono oramai diventati i nostri sogni.
Pubblichiamo un video postato su Youtube da Maridarbi l’8 aprile 2012: l’incontro di Primo con gli studenti e le sue appassionate considerazioni. Di Primo De Lazzari avevamo già parlato con l’articolo pubblicato il 16 ottobre 2015 (questo il link: http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/profili-partigiani/primo-de-lazzari-bocia-un-ragazzo-della-resistenza/)

Carmine Nastri – Storia di un giovane partigiano taciturno

Carmine Nastri
Storia di un giovane partigiano taciturno
Giuseppe Lopresti, romano di origini calabresi: la cospirazione, la lotta clandestina, i GAP. E poi via Tasso, la tortura, fino alla morte nel massacro delle Ardeatine. Il ricordo di Claudio Pavone
Nel prezioso libro “LA MIA RESISTENZA – Memorie di una giovinezza”, edito da Donzelli nel 2015, Claudio Pavone ci rende partecipi dei suoi ricordi, delle sue riflessioni. Nelle memorie del periodo 25 luglio 1943-25 aprile 1945 di giovane militante antifascista e partigiano, emergono indimenticabili personaggi che con lui hanno condiviso scelte, dubbi, paura, carcere. Alcuni sono stati per lui guida, maestro.
Più volte ricorre nel libro il nome, il ricordo di Giuseppe Lopresti: un suo caro amico, compagno fraterno di studi e di banco, già dalle prime classi del ginnasio Tasso di Roma ed ancora allo stesso liceo. Poi, all’Università di Roma alla Facoltà di Giurisprudenza. Con lui condivise momenti e difficili scelte nei 45 giorni dal 25 luglio all’8 settembre del 1943, quindi l’adesione alla militanza clandestina romana. Claudio Pavone definisce Giuseppe Lopresti “un giovane di straordinaria nobiltà e di finezza d’animo”. A venticinque anni fu ucciso alle Fosse Ardeatine insieme ad altre 334 vittime della ferocia nazista. È stato insignito della medaglia d’oro al valore militare alla memoria. Era consapevole Giuseppe Lopresti di ciò che irrimediabilmente gli sarebbe accaduto. Ce lo rivela in poche righe, su un foglietto scritto a matita, senza data, ritrovato tra le sue carte: “Questa notte il respiro si è fatto più faticoso, il battito del cuore più debole. Con uno sforzo sono riuscito ad alzarmi dal letto, ad avvicinarmi al tavolo e a sedermici davanti: il gatto, svegliato dai miei movimenti, ha stirato svogliatamente le zampe anteriori, incominciando a fare le fusa; …forse continuerà anche dopo. Prima di arrivare alla poltrona ho battuto contro lo spigolo del tavolo, ma non ho avvertito alcun dolore. Sono certo che non durerà molto, per questo ho ceduto all’impulso di venire a scrivere, scrivere per non dare un ultimo saluto alla vita, il che non m’interessa, bensì perché mi tormenta l’idea di scomparire completamente dal mondo: ho speranza che, facendo questo, riuscirò a far sopravvivere qualcosa di me, dopo che sarà accaduto ciò che irrimediabilmente deve accadere. Ma questa mia speranza non sarà soltanto follia?”. La redazione (tra i suoi componenti Claudio Pavone) del periodico Incontri, mensile politico culturale, volle pubblicare nell’ottobre 1954 quelle poche righe; nel leggerle, i tanti redattori avevano riscontrato che “il senso umano che le pervade e lo stato d’animo da cui appaiono ispirate le mettono vicino alle lettere dei condannati a morte della Resistenza”.
Giuseppe Lopresti era un giovane romano di origini calabresi (il padre Antonio, colonnello medico del Regio Esercito, era nato a Palmi in provincia di Reggio Calabria). L’8 settembre 1943, senza esitazione alcuna, fu tra i primi ad intraprendere la lotta per la liberazione di Roma. Operò nell’organizzazione militare clandestina del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, tra le “Brigate Matteotti”, al comando di Giuliano Vassalli, Giuseppe Gracceva. Nonostante la sua giovane età gli venne affidata ben presto la responsabilità di comando della 6ª zona di Roma che comprendeva i quartieri Appio, Esquilino e Celio. Aveva dimostrato da subito una maturità che sorprese dirigenti e capi militari del Partito Socialista cui aveva aderito. La sua zona fu una delle più organizzate ed efficienti e tutte le azioni che vi si svolsero videro Lopresti affrontare la propria parte di rischio. Lo storico Peter Tompkins ricorda Giuseppe Lopresti eroico capo zona, insieme ad altri 21 partigiani, quasi tutti romani e morti alle Fosse Ardeatine e alla Storta, che diedero con le loro azioni di informatori un considerevole contributo alle forze alleate anglo-americane nel gennaio 1944. Il 13 marzo 1944 Giuseppe Lopresti fu arrestato dalle SS tedesche a piazza Indipendenza. Era sfuggito altre volte alla cattura, anche quando aveva compiuto azioni rischiose. Rimase vittima di un falso appuntamento al quale non aveva voluto sottrarsi. Portato a via Tasso insieme al suo compagno Paolo Possamai, fu torturato e con il suo atteggiamento e silenzio riuscì a salvare la vita a questi. Il partigiano Possamai in un articolo pubblicato sull’Avanti! giovedì 24 aprile 1947, il giorno dopo la concessione a Lopresti della medaglia d’oro, così ricordò la sua salvezza ed il martirio del giovane eroe: “Entrati a via Tasso, fu torturato in una maniera bestiale. Dopo aver rivendicato a sé tutte le responsabilità cercando di scagionare gli altri, non una parola, non un lamento uscì dalle sue labbra. Si ridestò dal suo mutismo quando gli chiesero chi ero. Giurò che non c’entravo affatto con la lotta clandestina. Ero un suo compagno di Università incontrato casualmente dopo tanto tempo. E solo quando si accorse che l’avevano creduto, solo quando fu sicuro di avermi salvato la vita, rientrò nel suo silenzio”.
Da via Tasso Lopresti, sfigurato, “irriconoscibile in quell’ammasso di carne il bel viso ispirato”, fu tradotto al carcere di Regina Coeli. Pochi giorni dopo, il 24 marzo, fu portato alle cave Ardeatine, luogo del martirio di 335 vittime, uccise per rappresaglia dalle belve naziste. Si concludeva così il suo lungo cammino: la lotta clandestina, la tortura di via Tasso, il terzo braccio di Regina Coeli e quindi le Fosse Ardeatine.
Eugenio Colorni – figura eccelsa di partigiano ebreo, medaglia d’oro della Resistenza, morto il 30 maggio a Roma a seguito di un agguato fascista – gli dedicò un necrologio apparso postumo il 19 agosto 1944 sull’Avanti! (Colorni ed i compagni di redazione decisero di rinviare la stampa del ricordo del partigiano Lopresti per non far apprendere ai familiari, preoccupati ed in apprensione per le sorti del congiunto, dal giornale clandestino che leggevano che Giuseppe era tra le 335 vittime dell’eccidio delle Ardeatine) iniziava con queste parole: “Egli era veramente – e non solo oggi dopo il suo martirio – il migliore, il più serio, il più sensato, il più profondamente puro dei nostri giovani. Aveva 25 anni”. Il martirio, l’eroismo, l’ardore giovanile gli valsero la medaglia d’oro che fu consegnata alla madre il 25 aprile1947, secondo anniversario della Liberazione, dall’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi.
Motivazione della medaglia d’oro al valore militare alla memoria (Museo storico di Via Tasso – Roma)
Quel giorno un altro compagno della lotta clandestina, anche lui compagno di studi al Liceo Tasso, lo storico Ruggero Zangrandi, volle ricordare il suo amico Beppe con il seguente scritto, apparso sul giornale La Repubblica d’Italia il giorno dopo: “Quando domandai cosa era successo dei compagni, non riuscii a sapere di tutti. Di Lopresti seppi solo dopo alcuni mesi che era morto alle Ardeatine. Poi seppi il perché. Non dico che mi sorprese, perché la sorpresa non è più dei nostri anni. Mi colpì, tuttavia, la strada che aveva fatto. Lo avevo visto l’ultima volta, nella primavera del 1942, all’Università, sottotenentino in licenza esami. Parlammo un poco di politica, e capii che aveva capito da un pezzo, anche se parlava poco. Parlava sempre poco, per natura. Lo lasciai bruno, smilzo, alto ma quasi disarmato, pur nella bella divisa da ufficiale. Pensai che avrebbe camminato molto, ma che doveva armarsi. Ora mi sono detto quanto ha camminato, da quella mattina di primavera, per una strada che io avevo cominciato solo a percorrere: cospirazione, lotta clandestina, GAP. È saputo andare fino in fondo: via Tasso, la tortura, le Ardeatine. Restando sempre, io credo, oltre che taciturno, disarmato. Anche oggi, che gli danno la medaglia d’oro, Lopresti se ne sta nella povera bara, laggiù alle Fosse, scarno, disarmato – se fosse per lui – taciturno. Non è colpa sua se lo sentiamo parlare di più, dentro di noi, da due anni”.
Claudio Pavone aveva detto dell’amico Giuseppe che aveva lasciato di sé una testimonianza non affidata a scritti, ma solo allo svolgimento esemplare della sua breve esistenza. In essa è anche compresa una delicata storia d’amore con Graziella Ferrero. La signora Graziella ha oggi 93 anni. Vive a Roma nel quartiere Testaccio. Vedova, è madre di due figli e nonna di tre nipoti. Custodisce caramente i ricordi della loro gioventù tragicamente stroncata. Oggi, si fa ancora accompagnare alle Fosse Ardeatine dalla nipote di Giuseppe Lopresti, signora Stefania, e lascia ogni volta sul sarcofago numero quattro un fiore.
La storia del nostro partigiano dimora certo nei ricordi di chi lo conobbe, ma essa, così densa di eventi e di sentimenti, come le storie di tanti altri partigiani, poco conosciute, quasi anonime, ha bisogno di essere memoria e diventare patrimonio delle nuove generazioni di partigiani, consapevoli del debito di riconoscenza verso chi ha sacrificato la propria vita, con l’impegno quotidiano di rigenerarla costantemente.
Carmine Nastri, dell’ANPI di Reggio Calabria