Tommaso Di Francesco – Giorno di pioggia alle Fosse Ardeatine
Tommaso Di Francesco
Giorno di pioggia alle Fosse Ardeatine
«In una mattina al principio dell’aprile 1944 andai con le signore Benticenti, Baglívo, Rodella e Lionelli alla ricerca delle Fosse. Camminammo tanto prima di arrivare. Finalmente alcuni ci indicarono le grotte. Che buio. Anche il babbo doveva essere là dentro e fuori era tornata la primavera»: sono le parole messe nell’appendice di note «memorie per alcune poesie» dalla stessa autrice, Lia Albertelli, a spiegare la cronaca drammatica quanto indicibile che sta dietro i’ versi del poemetto «Giorno di pioggia alle Fosse», pubblicato con altre 21 poesie nel marzo del 1948 «nel quarto anniversario delle Ardeatine».
Lia Albertelli traccia in questo libretto che ha la voce lunga di un poema il ritratto degli ultimi mesi di vita del marito, Pilo Albertelli medaglia d’oro della Resistenza, trucidato alle Fosse Ardeatine. L’autrice scrive mossa dal desiderio di richíamare alla memoria dei figli la figura del padre, semplicemente, stemperando la tensione retorica nel racconto quasi diaristico della scomparsa di Pilo Albertelli, dando voce, in versi precisi quanto a misura e con una musicalità straziante, ad una rabbia e ad un dolore profondi, ad una nostalgia che sconfina nella memoria femminile del corpo dell’uomo amato.
Così scrive, rivolta ai figli ormai giovinetti, nella prima nota al testo Lia Albertelli; «Il vostro Babbo che, durante il periodo della lotta clandestina, lasciati gli studi diletti, imbracciò le armi come capo dell’organizzazione militare del Partito d’Azione, fu arrestato dai fascisti il primo marzo 1944 e rinchiuso in una pensione, trasformata in prigione e luogo di tortura, all’ultimo piano di una casa in Via Principe Amedeo n. 2. Dopo qualche giorno dal suo arresto, poiché il suo corpo era sfinito per i tormenti che gli infliggevano e temeva di non resistere più a lungo, tentò di togliersi la vita tagliandosi le vene dei polsi con una lente degli occhialí. Voleva così salvare la vita dei compagni e lasciare a voi fecondo e intatto il seme dei suoi ideali». Poi continua a raccontare ancora, in un’altra nota alla poesia Vana minaccia: «Per la seconda volta il Babbo tentò di uccidersi nella stessa pensione ‘Oltremare’ perché un giorno, riusciti vani tutti i tentativi e mezzi per costringerlo a parlare, gli fecero questa minaccia: ‘Domani andremo a prendere sua moglie e i bambini, faremo anche a loro qualche carezza. Allora lei parlerà, professore: Ma il Babbo che ci amava tanto, per non vederci soffrire e per non tradire la causa, spalancò la finestra per buttarsi nel vuoto. Al rumore dell’armadio da lui spostato per liberare la finestra, accorsero due agenti che lo afferrarono appena in tempo mentre stava per compiere li suo atto eroico e disperato». Il 21 marzo del 1943, «tutti e tre», Lia Albertelli e i suoi due bambini andranno in visita a Pilo Albertelli a Regina Coeli dove i fascisti lo hanno trasferito, convinti che ormai «sarebbe morto piuttosto che parlare». Fu l’ultima volta che vedranno marito e padre, ridotto ormai «all’ombra di se stesso, tanto aveva sofferto». Il 24 marzo fu prelevato dai tedeschi – ne resta traccia nella firma «tremula» lasciata sul registro del carcere romano – e trucidato alle Ardeatine con altri 334 ostaggi, tutti uccisi per rappresaglia contro l’attentato partigiano di Via Rasella in cui erano morti 32 tedeschi.
[A cura di Tommaso Di Francesco]
Articolo tratto dal Settimanale “Il Manifesto 1995
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