Luigi Gaiani

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I Compagni di Firenze

Memorie della Resistenza 1943 / 1944

Istituto Gramsci Toscano

1984

bandierarossa

LUIGI GAIANI

Luigi Gaiani è nato a Bologna il 26 Giugno 1910. Ha partecipato attivamente alla lotta antifascista. Nel 1931 fu condannato dal Tribunale Speciale a 3 anni di reclusione. Quindi nel 1932 entrò a far parte dell’organizzazione clandestina comunista. Arrestato nuovamente nel 1937 e deferito al Tribunale Speciale fu condannato a 18 anni di carcere. Liberato nell’estate del 1943, dopo l’8 settembre prese parte alla guerra di Liberazione prima in Emilia e poi in Toscana.

A Firenze fu organizzatore dei GAP, quindi divenne commissario politico del comando Militare CLN della Toscana, comandante della Divisione Garibaldi « Potente » e membro del Triumvirato insurrezionale toscano. Dopo la Liberazione ha fatto parte della segreteria nazionale dell’ANPI. Responsabile della Federazione Provinciale del PCI di Pistoia e poi di quella di Rovigo è stato eletto senatore nel 1958 e rieletto successivamente nel 1963.

Sono nato a Bologna il 26 giugno 1910. Mio padre era un ferroviere, provengo quindi da una famiglia di lavoratori; i miei fratelli erano operai. Io lavoravo come impiegato presso un ufficio privato. Ho iniziato la mia lotta politica insieme ad un gruppo di socialisti, sviluppando una certa attività fra i giovani, in collaborazione con Giustizia e Libertà ma anche con contatti con la Federazione Giovanile del partito. Questo alla fine del ’29-inizio del 1930. Poi venni arrestato e condannato a tre anni di reclusione per propaganda comunista a norma delle leggi speciali che erano ancora in vigore, il 26 giugno 1931. Fu in carcere che mi iscrissi al Partito Comunista, nel 1931, nella casa di pena nell’abbadia di Sulmona. Uscito con l’amnistia del decennale alla fine del 1932, ripresi subito la mia attività nelle file del partito; fui prima segretario di cellula e poi alla fine divenni, insieme al compagno Zanarini, il dirigente della Federazione Comunista di Bologna. Per questa mia nuova attività venni arrestato nel giugno del 1937 e condannato con l’art. 270 del codice penale Rocco, nel frattempo entrato in vigore, a 18 anni di carcere per direzione e ricostituzione del partito comunista italiano. Uscito dal carcere il 25 agosto 1943, dopo la caduta del fascismo, ripresi subito la mia attività nel partito e, dopo 1’8 settembre, fui incaricato insieme ad altri due compagni di organizzare il movimento militare nella provincia di Bologna, poi di Modena e di Ferrara. Effettuammo molte azioni militari, allora, nella città di Bologna, nella provincia di ßologna e a Modena, con risultati altamente positivi, ma per questa attività fui identificato e quindi ricercato dalla polizia tedesca e dalla polizia italiana. Pertanto il partito, decise di mandarmi a Firenze. Venni a Firenze il 15 marzo 1944; venni a sostituire il compagno Mattioli, « Cervo » il suo nome di battaglia, che da Firenze venne a Bologna e sostituire il sottoscritto e che, purtroppo, venne ucciso abbastanza presto. Entrai a far parte della delegazione del Comando delle Brigate Garibaldi per la Toscana, e quasi immediatamente, ne divenni responsabile perché il compagno Gino Menconí, anch’egli individuato a Firenze, dovette partire. A far parte della delegazione del Comando quindi, rimanemmo, in un primo tempo, io e il compagno Dino Saccenti; successivamente della delegazione del Comando delle Brigate Garibaldi venne a far parte il compagno Francesco Leone, credo alla fine di giugno.

Il rapporto del movimento militare con il partito era un rapporto costante, continuo; si svolgeva soprattutto a livello regionale, ma io ho partecipato anche ad alcune riunioni del comitato federale della Federazione di Firenze. Quando io venni a Firenze, il compagno responsabile del partito per la Toscana era Piero Montagnani, che io avevo conosciuto nel passato. Senonché il compagno Montagnani si ammalò di febbre maltese e dovette partire; pertanto per un certo periodo il partito venne tenuto in mano dal compagno Bitossi e dal compagno Roncagli, che allora era segretario della Federazione Comunista di Firenze. Io venivo invitato a tutte le riunioni di questo comitato regionale del partito. Solo in un secondo momento ritornò il compagno Giuseppe Rossi che ne divenne praticamente il responsabile e il segretario. Devo dire che in questo comitato si svolgeva un intenso dibattito politico: quello più importante fu sulla svolta di Salerno. Venne il compagno Barbieri, ero presente io, il compagno Bitossi, il compagno Roncagli, mi sembra fossero presenti anche i compagni Montelatici e Saccenti e in via Ricasoli, nel magazzino dei libri di Montelatici, si svolse questa discussione. Il compagno Roasio faceva la relazione, ci parlò del- l’intervento di Togliatti a Salerno; l’orientamento prevalente tra noi era che la lotta di liberazione avrebbe dovuto finire con la fine del fascismo e naturalmente anche della monarchia che era responsabile dello stesso fascismo.

Ora, la svolta di Salerno inseriva qualcosa di nuovo in questo quadro politico; cioè l’esigenza di estendere il fronte antifascista a tutte le forze che in quel momento erano disposte a combattere i tedeschi ed i fascisti e quindi il compagno Togliatti propose l’accantonamento della questione istituzionale, che avrebbe potuto essere risolta successivamente; mi sembra che allora si parlò dell’Assemblea Costituente, poi, invece, si decise di fare il referendum. Naturalmente ciò pose dei problemi, si discusse a fondo, durò una giornata la discussione, ma alla fine concordammo tutti che era una linea politica giusta, valida, e serviva a raggiungere l’obiettivo fondamentale per il paese, per la nazione, che era quello di cacciare i tedeschi e liquidare il fascismo. Per questo era necessario raccogliere tutte le forze che erano decise a combattere per raggiungere questi obiettivi, quindi anche i badogliani, gli anarchici avrebbero dovuto partecipare insieme a noi, insieme al C.L.N., al movimento militare già esistente.

Questo avvenne nel mese di maggio, quindi subito dopo il discorso di Togliatti.

Furono naturalmente anche fatte riunioni con compagni che partecipavano alla lotta partigiana e partecipavano al movimento dei GAP. In tutti i contatti che io ho avuto con questi compagni, ho sempre fatto uno sforzo costante, continuo, per indicare loro gli obiettivi di fondo per i quali combattevamo. Per dar loro una maggiore coscienza politica della lotta che stavamo conducendo: dove volevamo andare, cosa andavamo a fare, quali prospettive avevamo davanti a noi; non solo. Ma siccome appartenevamo in definitiva tutti al partito, cercavo di dar loro anche i primi elementi di una coscienza di classe. Fresco degli studi in carcere, parlavo addirittura del marxismo, del Manifesto dei comunisti, in modo da allevare in loro una coscienza politica che li rendesse più capaci, più fermi, più coerenti, nella battaglia che conducevano contro i fascisti e contro i tedeschi. Così quando incontrai il compagno Aligi Barducci che divenne poi il famoso, leggendario, comandante « Potente », ebbi con lui una discussione che durò una giornata. Era un ufficiale dell’esercito, aveva origini proletarie, il padre era un ferroviere, ma evidentemente era all’oscuro dei problemi di fondo dell’ideologia del partito, dei fini che si proponeva. Con lui feci una discussione lunghissima,e quando partì mi disse: « Ti ringrazio di questa discussione perché adesso ho le idee più chiare, so per cosa lottiamo davvero. Io lottavo istintivamente contro il fascismo per la libertà, la democrazia. Lo sentivo, vengo da una famiglia di democratici e di compagni, però adesso tu mi hai dato un orizzonte diverso: mi hai aiutato ad avere una coscienza più esatta di questa grande battaglia contro il fascismo e i tedeschi, per fare un’Italia nuova… ».

Quando venni a Firenze, io ero raccomandato dal compagno Fontani, che ben presto mandammo a Pisa perché temevamo che fosse stato individuato, e a Pisa continuò la sua battaglia nelle file del partito e del movimento partigiano. Fontani venne sostituito dal compagno Cesare Massai, a sua volta però inviato anche lui nella zona della Lucchesia. Quando andò via Massai, venne Elio Chianesi che è medaglia d’oro e che tutti conoscono. Morto Chianesi, venne sostituito negli ultimi giorni, quando oramai eravamo alla fine, dal compagno Bruno Fanciullacci, che nel frattempo era venuto fuori dal suo rifugio in cui lo avevamo messo dopo che era stato portato via dall’ospedale perché gravemente ferito per le torture subite nel primo arresto. Purtroppo venne arrestato successivamente e venne ucciso, come tutti sanno. Voglio anche aggiungere che questa delegazione di comando delle Brigate Garibaldi aveva un’attività abbastanza intensa nei rapporti coi partigiani in montagna, con la zona di Siena, attraverso il compagno Achille Tagliaferri, con la zona di Arezzo, attraverso il compagno Ciampaglini. I rapporti da tutta la Lucchesia fino al Carrarino, a Pisa, a Livorno, erano in mano a una direzione politica e quindi anche militare perché si confondevano un po’ le funzioni a certi livelli presieduta dal compagno Bitossi. Avevamo anche altri servizi: per esempio un’officina, dove preparavamo bombe a tempo, micce particolari per far saltare per aria binari ferroviari. Occorrevano delle mine fatte in un certo modo, per poterle inserire dentro gli scambi delle rotaie e poi occorreva la miccia a ritardamento.

Si trattava di sapere quanto doveva essere questo ritardamento a seconda dell’azione che si conduceva. Avevamo addirittura acquistato un camion e assegnato ai compagni Rocchi, Capini ed altri che non ricordo, i trasporti di armi, di generi alimentari, di viveri in montagna e dalla montagna i compagni mandavano giù dell’olio, di cui facevamo una certa distribuzione fra la popolazione civile. Tutto questo gruppo che viveva a Firenze era nell’illegalità. E allora bisognava fornir loro un piccolo stipendio (200 lire al mese); in più davamo loro le tessere per l’acquisto dei generi alimentari. Tessere di cui noi eravamo in possesso grazie a un’azione partigiana. Un nostro compagno aveva fatto dei timbri speciali con i quali si poteva andare nelle trattorie e nelle botteghe per acquistare generi alimentari; questo era un mezzo per difendersi e per vivere, perché la situazione a Firenze andava sempre più peggiorando. Ai primi di giugno venne costituito il Comando Militare Toscano.

Al movimento partigiano ormai partecipavano non solo le Brigate Garibaldi, ma anche gruppi di Giustizia e Libertà, gruppi di socialisti, gruppi di vario genere, perfino un gruppo di liberali. La battaglia si andava intensificando, il movimento si consolidava, nelle fabbriche gli operai lottavano, sabotavano, scioperavano. La situazione andava via via maturando verso il momento nel quale avremmo dovuto fare delle azioni decisive contro il nemico. E allora il Comitato di Liberazione Nazionale decise di dar vita a un comando militare unificato e questo venne istituito, mi pare, nel mese di giugno, con la partecipazione di Nello Lipori, colonnello di complemento, che venne nominato comandante; io, che venni nominato commissario politico, e un certo Nereo Tommasi che rappresentava, come vicecomandante, la Democrazia cristiana. Poi vi era Dino Del Poggetto che era segretario del movimento dei partigiani socialisti, Achille Mazzi che era un maggiore dell’esercito in servizio effettivo che rappresentava i liberali, politicamente non molto qualificato ma bravo partigiano: un comandante, una persona molto idonea. Quando ci riunimmo la prima volta, la riunione venne presieduta da un rappresentante del partito liberale, un certo Fantoni, il quale ascoltò con molta attenzione. Si divisero i compiti, si istituirono incarichi, si decise che il comitato avrebbe avuto sede in piazza Davanzali. Naturalmente ogni formazione espose l’attività che svolgeva, gli impegni che aveva, gli armamenti che aveva, di cosa aveva bisogno, in denaro e in armamenti, e ovviamente venne fuori che gli armati erano molti, erano migliaia.

In Firenze erano 3.000 perché c’erano i gruppi (l’azione patriottica, c’erano le cosiddette SAP. Quando il Fantoni senti che avevamo un armamento notevole, diffuso, abbastanza vasto, come numero di partecipanti e così via, si lasciò sfuggire un’osservazione: « Ma poi come faremo, dopo la liberazione, a togliere le armi al popolo, a tutta questa gente? ». Naturalmente ci fu un dibattito in cui noi, chi rappresentava il comando, io soprattutto, gli fece rilevare che non era il momento di parlare di togliere le armi ai partigiani anche nella prospettiva del momento, bensì di trovare altre armi, di ampliare la nostra influenza, la nostra capacità di combattimento, la nostra lotta, di organizzarci, per combattere i tedeschi. Lo dico perché voglio indicare che i partiti che formavano il C.L.N. erano partiti diversi. Evidentemente ciò che ci univa era la battaglia contro i tedeschi e contro i fascisti; quel che volevamo fare era un’Italia nuova, senza fascisti, democratica, libera, e indipendente dallo straniero. Questo ci univa tutti, ma evidentemente era un compromesso che ci teneva uniti in una battaglia comune: poi naturalmente ciascuno avrebbe preso la propria strada nella vita democratica futura, come è avvenuto in realtà. Ma era un compromesso necessario, indispensabile, e dopo Salerno questo compromesso si estese anche alle forze monarchiche, alle forze più conservatrici; era indispensabile per unire le forze necessarie a vincere la battaglia.

Nell’imminenza della lotta decisiva per Firenze, il partito, come fece successivamente in tutte le altre regioni dell’alta Italia, istituì, per coordinare meglio la lotta insurrezionale, il cosiddetto Triumvirato Eccezionale. A Firenze venne costituito dal compagno Rossi, che era il rappresentante regionale del partito, dal compagno Roncagli, perché era segretario della Federazione Comunista di Firenze, e da me perché facevo parte del C.T.R., del Comando Militare, ed ero responsabile della delegazione di comando delle Brigate Garibaldi nella Toscana. Era un punto di collegamento con tutte le forze che avevamo. Queste riunioni si tenevano, in via Masaccio e vennero sempre presiedute dal compagno Roasio. In un secondo tempo, nella previsione dell’imminenza della lotta di liberazione della città di Firenze, quando si sapeva che ormai gli Inglesi, gli Americani erano a pochi chilometri dalla città, decidemmo di dividerci in due gruppi: di qua d’Arno, rimanemmo io, il compagno Rossi e il compagno Francegeo Leone che faceva già parte della delegazione di comando delle Brigate Garibaldi e che soprattutto curava la parte del movimento. Mentre invece il compagno Roasio e il compagno Roncagli fu deciso che si sarebbero recati di là d’Arno per organizzare la lotta dall’altra parte della città, in previsione che vi fosse una sortita del movimento e della lotta di liberazione. Le riunioni di questo secondo gruppo furono pochissime perché ormai eravamo alla vigilia dello stato d’emergenza.

Ecco, volevo accennare a due argomenti ancora: cioè ai problemi della organizzazione militare, del modo in cui doveva essere affrontato l’avversario in città. In montagna si sapeva: la « mobilità doppia », la necessità di muoversi rapidamente, la solita tattica del « lupo » partigiano. In città, l’esperienza che io avevo già acquisito nella veste di responsabile del comitato, mi diceva che per affrontare un avversario generalmente agguerrito, che stava all’erta, anche per attaccare un solo dirigente tedesco o dirigente fascista armato, occorreva avere una certa preparazione. Le persone che compivano l’azione dovevano essere sempre almeno due; vi doveva essere una ritirata garantita, protetta, per cui sempre non meno di quattro persone in copertura. Infatti, all’attentato che costò la vita al colonnello fascista vicino al Ponte Vecchio parteciparono sei persone: chi proteggeva la ritirata da un lato, chi da un altro, e chi colpiva. L’altro problema che non sono riuscito sempre, per dir la verità, a risolvere, era quello della esigenza di misure di protezione cospirativa. Avere più punti di ritrovo, non incontrarsi mai nello stesso posto, cambiare le ore, avere più case per abitarvi, nel caso che una casa venga scoperta, quando un compagno viene arrestato, tagliare completamente tutto ciò che poteva legare a lui.

Abbiamo subito alcuni colpi perché queste misure non sono state sempre prese. Non voglio citare i fatti perché non so se sia il caso, però ci sono dei compagni che hanno perso la vita appunto perché non hanno rotto i ponti immediatamente e non hanno smesso di andare dove normalmente andavano, agli appuntamenti, nella stessa casa dove abitavano, dopo che erano stati arrestati compagni che conoscevano queste abitudini. Così è avvenuto che sono stati arrestati loro stessi e sono stati uccisi, oggi hanno la medaglia d’oro magari, ma sono stati uccisi. E poi non soltanto si sacrificava la vita del compagno ma si rischiava la stessa organizzazione del movimento.Intanto si cominciava a pensare, già 15 giorni prima che i tedeschi arrivassero, di proclamare lo sciopero generale. Gli ultimi giorni della presenza tedesca qui a Firenze, è stata vissuta una situazione di sciopero totale. Non c’era più nemmeno un tranvai, e quindi anche gli spostamenti nostri erano più difficili, più complicati. Questo ci indusse a lunghe discussioni: come fare a mobilitare le fabbriche dei rioni, come fare a fiancheggiare l’azione degli operai in sciopero da parte delle squadre d’azione dei GAP, come fare a far confluire i partigiani verso Firenze.

La mia sede al comando militare era al Palazzo Davanzati e il Comitato di Liberazione invece sedeva in permanenza in via della Condotta. Io tutti i giorni andavo come rappresentante del comando militare alla delegazione del Comitato di Liberazione per seguire gli sviluppi della situazione. Fino al giorno in cui i tedeschi si ritirarono e quindi cominciò la nostra battaglia. Tenemmo il fronte fino al 7 settembre con circa 3.000 uomini armati e avemmo anche gravi perdite: 165 morti e centinaia di feriti.

Al momento della liberazione, andammo di là d’Arno da un generale, comandante di una Brigata inglese; si fecero tutti gli accordi per il passaggio delle loro truppe in città di Firenze. Ci chiesero anche una protezione dalla tal ora alla tal ora lungo certe strade per consentire loro di entrare in città. Solo che ci annunciarono l’entrata in città verso le 6 di mattina, e invece arrivarono alle undici. Non solo, quando feci il piano per cacciare i tedeschi via dalla zona al di là del Mugnone, dalla zona di Campo di Marte, si tenne una grandissima riunione. Andammo io e il comandante Niccoli e lì era riunito tutto lo stato maggiore della Brigata inglese che era a Firenze. Ci presentarono tutti gli ufficiali, con un grande cerimoniale. Ci si mise a fianco un interprete ufficiale. Poi tutte le carte, le mappe, si decise tutto quanto e, alla mattina dopo, alle sei della mattina, doveva avvenire la nostra azione. Le nostre brigate vennero fornite di armi, di munizioni, soprattutto munizioni, armi poche. Quelle che avevamo erano già scarsamente efficaci ma eravamo in molti, circa 3.000. Noi ci mettemmo in movimento all’ora giusta; erano le sei della mattina. Ma il primo carro armato alleato che doveva arrivare — ne avevano promessi venti — arrivò alle 9 di mattina, e per questo nel primo scontro noi abbiamo avuto sette-otto morti. Comunque fu tale l’azione generale del movimento partigiano che i tedeschi cominciarono a ritirarsi.Io e un altro del comando partimmo con una macchina per seguire il movimento e andammo al di là del Ponte del Pino. Era la mattina prestissimo. La gente era rinchiusa in casa da sette giorni, aprì le finestre e le porte e usci, e fu per i partigiani una cosa commovente che ricorderò per tutta la vita. Scesi per strada, ci correvano dietro, ma noi eravamo in macchina e arrivammo parecchio su, fin verso San Domenico, dove i tedeschi ci cominciarono a bersagliare la macchina con dei mortai. Comunque facemmo una questione agli Inglesi per la storia dei carri armati, ma loro dissero che avevano avuto un contrattempo.

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