Firenze 23 Marzo 1944 Campo di Marte

Antonio Raddi , Guido Targetti,

Leandro Corona, Ottorino Quiti,

Adriano Santoni

Giovanissimi, belli, pieni di vita,

buoni e innocenti, erano senza dubbio

le vittime più degne da immolarsi

per la salvezza della Patria nostra martoriata”

dal resoconto del

Tenente Cappellano Militare e dei Patrioti

Don Angelo Beccherle

Erano cinque semplici e poveri figli del popolo, vissuti sempre fra la

quiete dei loro campi, lassù in Mugello” così don Angelo Beccherle, il cappellano

che fu testimone dei loro ultimi momenti di vita, descrive i ragazzi

di vent’anni fucilati dalla milizia fascista davanti allo Stadio del Campo di

Marte il 22 marzo 1944. Perchè il regime fascista giustiziò questi innocenti?

La risposta ce la da l’allievo ufficiale Luigi Bocci, che quella mattina si trovava

dall’altra parte, tra i fucilatori: “tutti sapevamo che ad ogni comando

provinciale era giunto l’ordine di fucilare un certo numero di renitenti alla

leva per intimorire gli altri e frenare la formazione delle bande partigiane”.

Intimorire. Come tutte le dittature, il regime fascista seguiva la logica di chi

governa con il terrore e non con il consenso: la violenza come strumento di

ricatto nei confronti delle popolazioni civili. Negli ultimi anni della seconda

guerra mondiale questa logica terroristica si dispiegò in tutta la sua drammatica

potenza: un filo preciso lega i fucilati del Campo di Marte alle stragi

di Sant’Anna di Stazzema, di Marzabotto, a tutte le sanguinose rappresaglie

compiute dall’esercito di occupazione nazista con la collaborazione attiva dei

fascisti italiani.

L’ingiustizia più grande che oggi possiamo commettere nei confronti delle

vittime di questi eccidi `e quella di pensare che in fondo tra loro e i loro

carnefici non ci fossero differenze, che in fondo erano tutti bravi italiani che

pensavano in modi diversi di servire la loro patria. Io penso l’esatto contrario.

Proprio le parole coraggiose del milite fascista Luigi Bocci ci spiegano qual ‘è

la differenza incancellabile tra la dittatura e la democrazia: la prima pensa

che si possa fucilare dei ragazzi di vent’anni per dare l’esempio, la seconda

mai a nessun costo.

Le dittature, tutte le dittature, pensano che la vita umana sia un mezzo

sacrificabile per raggiungere un fine superiore. Le democrazie, tutte le democrazie,

si fondano sulla convivenza pacifica delle differenze e per questo sono

così difficili da imparare e vivere. In fondo, la dittatura è semplice e comoda:

si elimina chi non la pensa come noi e il gioco è fatto. Molto più complicato

e scomodo `e accettare la libertà anche di chi non la pensa come noi.

Proprio per questa ragione tra dittatura e democrazia, tra queste idee

così diverse della convivenza civile, non ci potrà mai essere riconciliazione.

Semplicemente perche una è l’opposto dell’altra. Ricordare oggi i martiri del

Campo di Marte significa quindi ricordare questo semplice dato di fatto: che

noi viviamo in democrazia perchè abbiamo sconfitto e cancellato per sempre

il fascismo. Quei cinque poveri e semplici figli del popolo, del nostro popolo,

appartengono così per sempre alle radici storiche più profonde della Firenze

di Dante e Machiavelli: senza di loro oggi non esisteremmo.

Leonardo Domenici Sindaco di Firenze

Palazzo Vecchio, 21 gennaio 2002

Trascrizione

del rapporto originale trasmesso

alla Segreteria di Stato del Vaticano

ed al Comitato di Liberazione Nazionale

dei particolari della fucilazione

dei cinque patrioti

avvenuta al Campo di Marte

il 22 Marzo 1944.

dal resoconto

del Tenente Cappellano Militare e dei Patrioti

Don Angelo Beccherle.

La mattina del 21 Marzo 1944 seppi che erano stati condannati a morte

sette renitenti alla leva repubblicana fascista. Gi`a il giorno prima seguivo

attentamente lo svolgersi del processo ma non ero riuscito ancora a conoscere

la sentenza. Ero assai turbato e mi offrii di assisterli.

Verso la sera del 21 Marzo mi recai a San Gallo e dalla Superiora ebbi

cognac, caff`e, anice e sigarette, carta da scrivere. Alcuni ufficiali che sapevano

del doloroso incarico diedero pure delle sigarette per i condannati.

Arrivati in macchina con l’Altarino da campo al carcere delle Murate, lo

stesso comandante del carcere, maresciallo Mangiacapra, ci introdusse nel suo

ufficio, dove poco dopo venne il direttore delle carceri dott. G.B. Mazzarino;

qui appresi la prima vera storia che non pi`u sette, ma cinque condannati a

morte, essendo due stati graziati.

I nomi dei sei condannati a morte sono i seguenti:

RADDI ANTONIO, di Attilio e Boni Antonia,

nato il 20 Maggio 1923 a Vicchio di Mugello

TARGETTI GUIDO, di Cesare e Roselli Anna,

nato il 3 Settembre 1922 a Vicchio di Mugello

CORONA LEANDRO, di Daniele e di Corona Maria

nato il 4 Maggio 1923 a Maracalagonis (Cagliari)

QUITI OTTORINO, di Pietro e Rondini Luana,

nato l’8 settembre 1921 a Vicchio di Mugello

SANTONI ADRIANO, di Italo e fu Rossi Marianna

Nato l’11 Luglio 1923 a Vicchio di Mugello

I nomi dei graziati sono i seguenti:

RADDI MARINO, di Attilio e di Boni Antonia,

nato il 20 Maggio 1923 a Vicchio di Mugello

BELLESI GUGLIELMO, di Amerigo e di Cecconi Adele,

nato il 15 Luglio 1923 a Vicchio di Mugello

Condannato a 15 anni di reclusione:

CHIRICO DOMENICO, di Saverio e di Benedetto Saverina,

nato il 17 Luglio 1924 a Reggio Calabria

Condannato a 20 anni di reclusione:

CESTINOLI GIUSEPPE, di Vittorio e Landi Attilia

nato il 23 Agosto 1922 a Borgo San Lorenzo

Condannati a 24 anni di reclusione:

BONI ALDO, di Antonio e Mei Giulia,

nato il 20 Febbraio 1923 a S. Piero a Sieve

BAGGIANI DINO, fu Giovanni e di Bangini Maria,

nato il 21 Gennaio 1924 a Vicchio di Mugello

II direttore del carcere era molto costernato e mi raccontava con sdegno

delle ingiuste condanne: aggiungeva di aver tentato quanto era possibile per

salvarli. Conosceva soprattutto uno dei cinque condannati a morte, il Targetti,

del quale si era particolarmente interessato conoscendo le disgraziate

sorti della famiglia.

Ogni cosa era riuscita vana. Fu allora che io suggerii al direttore l’ultima via

da tentare: perch´e non interessare il Cardinale? Non riuscir`a neppure lui a

salvarli ma non omettiamo neppure questo tentativo.

Il Direttore fece subito chiamare il Padre Carlo Naldi dei Filippini di

S.Firenze e assieme a lui and`o immediatamente dal Cardinale. Erano le otto

di sera. Rimasi nel carcere in attesa fino alle 23, senza poter vedere nessuno

e sempre in aspettativa di una telefonata.

Finalmente questa venne: purtroppo, nulla era stato possibile fare. I

responsabili di queste vittime si erano resi volontariamente irreperibili.

Allora il comandante del carcere diede l’ordine di far venire uno alla volta

i condannati a morte in una cella accanto all’ufficio suo. Erano nel centro

delle carceri, rinchiusi in due celle, assieme ad altri non condannati a morte.

Il primo ad arrivare fu il Raddi, con un volto esterrefatto, barcollante,

tutto esasperato, il quale, appena mi vide proruppe in grida esasperate. Sorreggendolo,

lo condussi nell’ufficio del comandante. Cercai di consolarlo, di

parlargli, ma per alcuni minuti dovetti lasciarlo sfogare. Poi vedendo che ogni

mio dire era vano, volli infondergli ancora speranza, dicendogli: “Coraggio,

vedi tuo fratello Marino `e stato graziato, chiss`a che la grazia non venga pure

per te!”

Lui rispose: “Ma `e vero? Me lo assicura? Mi tradir`a?”

Si Antonio, `e graziato, `e salvo!”

Allora si ricompose subito, si asciug`o gli occhi e me lo vidi in ginocchio:

Padre, mi confessi, non ho paura di morire; di due figli la mia mamma ne

ha almeno uno, che grazia mi ha fatto la Madonna!”

Si confess`o, era commosso, era rassegnato. Terminata la confessione mi

prese le mani e fissandomi mi disse: “Padre mi guardi negli occhi, mi fissi

bene; non ho paura di morire: sono innocente e sorrido in faccia alla morte”.

Bravo Antonio, ora scriverai una lettera alla mamma, ai tuoi cari”. “S`ı

padre, e voglio scrivere anche al mio Priore che mi ha sempre voluto bene”.

Cos`ı lo feci passare in altro Ufficio e si mise a scrivere.

Intanto, erano venuti pure gli altri quattro condannati. Erano disperatissimi.

Gridavano, si dimenavano, si buttavano a terra, mi abbracciavano e

a mani giunte invocavano piet`a, quasi che io potessi salvarli. Volevo lasciarli

sfogare, volevo consolarli, volevo aiutarli, volevo pure calmarli. Non sapevo

neppure io che fare. Per pi`u di un’ora dur`o questa estrema esasperazione,

eppoi venne il collasso fisico e morale per tutti.

Santoni svenne e si riebbe pi`u volte, poi rimase svenuto tutta la notte.

Non riuscivo a fargli prendere niente, non volevano fumare, poi aiutato

dai secondini li convinsi a prendere una sigaretta che non fumarono. Targetti

Guido rimase tutta la notte molto serio, ma impavido, senza neppure fare

una lacrima, parlava, ragionava sulla sua ingiusta sorte, ma per nessuno

ebbe parole di recriminazione: mi mostrava delle fotografie; mi parlava e

chiedeva notizie della sua mamma che aveva lasciata moribonda e diceva che

era rimasto a casa per assisterla perch´e era assai grave. Mi parlava di un

suo fratello impiegato al Banco di Roma. “Lui si interesser`a di me, non mi

devono fucilare, non ho fatto nulla di male, ho combattuto ed ho sempre

fatto il mio dovere, ero Guardia alla Frontiera e non sono mai stato punito”.

Allora lo invitai a scrivere. Gli dissi: “Su Guido, da bravo, conforta i tuoi

cari”

Tutt’ora presente, in tutti i suoi atti, forte, seduto con la penna in mano

in un angolo dell’Ufficio Matricola: scrisse la lettera con una tranquillit`a e

serenit`a ammirevoli. Di tanto in tanto mi aiutava ad incoraggiare gli altri.

Dietro una fotografia scrisse una semplice dedica:

Targetti Guido, caduto il 22 Marzo 1944, Primavera”.

Mentre ad un certo momento della notte lo lodavo per la sua calma mi

rispose: “Cappellano, so quello che mi sta per accadere e perci`o non so se

riuscir`o a mantenermi cos`ı”.

Il pi`u disperato era il sardo Corona, gridava continuamente: “Mi fucilano,

ma io non voglio morire, io sono innocente!” E queste due ultime parole le

gridava in tutti i toni, mordendosi le mani. E poi continuava ancora: “Sono

ancora giovane, non devo morire”.

Esasperato, girava per la nuda cella, cercando quasi scampo, poi sostava,

cadeva a terra svenuto, si riaveva presto, mi abbracciava forte dicendomi:

Padre, non voglio morire, mi deve salvare, ho la mamma lontana”. Piangevo

con lui e per tutta la notte continu`o in questa esasperazione. Ad un certo

momento si alza quasi impazzito ed urla “Non voglio che mi fucilino, mi

ammazzo io da solo”. Allora Targetti, sempre calmo disse: “No, Leandro,

noi siamo innocenti, non ci dobbiamo ammazzare, ci ammazzino loro. Scrivi

anche tu ai tuoi cari”.

Pure Quiti non si sapeva rassegnare, volle telefonare a dei parenti, riuscii

a metterlo in comunicazione, ma non appena sent`ı la risposta al suo pronto,

venne interrotta la comunicazione. Allora si mise a piangere disperatamente:

No Padre, non mi confessi, perch´e dopo mi fucilano”. “Confessati – replic`o

il Targetti – perch´e quei delinquenti ti fucilano lo stesso. `E meglio per te

andare alla morte con l’anima a posto!”

Verso le quattro del mattino si celebr`o la Santa Messa, assistevano seduti

tutti, eccetto Targetti che volle stare in piedi. Bella quella Messa in

carcere, supremo conforto a cinque condannati a morte! Vi assistevano pure

alcuni secondini e il Comandante delle carceri. Fecero tutti e cinque la loro

Comunione per viatico: subito dopo il Santoni svenne nuovamente e cos`ı il

Corona. Terminata la Messa e fatte alcune brevi preghiere ci radunammo

tutti in cerchio a sedere.

Le ore non passavano mai; i poveri giovani erano abbastanza sereni: si

ragionava insieme della loro sorte e cercavano parole di speranza. Facevano

a volte discorsi molto ingenui: “Cappellano, ci faranno tanto male quando

ci fucileranno? Per le sette saremo gi`a morti? I giornali parleranno di noi?

Ci diranno traditori, ma noi siamo innocenti! Diranno che avevamo armi,

ma noi eravamo tutti a casa nostra, disarmati. Come si star`a sottoterra,

morti?”.

Questi e cento altri discorsi simili facevano quei poveretti, mentre cercavano

da me parole di speranza.

Non gliene potevo dare. Era imminente l’esecuzione, e illuderli sarebbe

stata empiet`a e delitto: “No, ragazzi, basta con questi discorsi, confidate nel

Signore, che prima di voi sub`ı la pi`u ingiusta morte!”.

A che ora ci fucilano?”, era la domanda pi`u insistente. Ed io, laconicamente

rispondevo: “Non lo so”.

Allora il Targetti disse: “`E meglio che ci prepariamo”.

Erano le cinque: mi consegn`o delle lettere, poi incominci`o a frugare nelle

tasche e mi consegn`o il portafoglio e cos`ı fecero tutti gli altri. Mi consegnarono

tutto quello che avevano nelle tasche e mi diedero alcune sigarette:

Queste, tenetele per voi”, dissi io. “No, Padre, bastano due”. “Ma no,

tenetevi tutto, ancora non vi fucilano”.

I secondini mi aiutarono a convincerli, ma ormai sentivano imminente la

fucilazione: “`E ormai giorno, alle sei ci vengono a prendere!” “Ma chi vi ha

detto questo?” “Padre, le fucilazioni si fanno sempre di mattina”.

Per accontentarli, fui costretto a prendere ogni cosa, assicurandoli che

avrei eseguito tutte le loro volont`a. Seguirono alcuni momenti di silenzio

(come erano lunghi quegli istanti. . . . . . ) poi un suono lungo di campanello

diede l’allarme: “Eccoli, vengono a prenderci”, dissero tutti impauriti e

cominciarono a piangere disperatamente, correndo all’angolo opposto della

porta.

Questa si apr`ı. Si affacci`o un brigadiere dei carabinieri: momento terribile.

. . . . . Con le manette in mano si avvicin`o a Raddi. Questi present`o i polsi

e disse: “So che tu sei comandato e non hai colpa: io ho sempre voluto bene

ai carabinieri, non stringere forte perch´e mi faresti male”. A queste parole il

carabiniere finse di cercare qualcosa, diede le manette ad un altro e usc`ı solo

a piangere. . .

Altri due carabinieri fecero lo stesso. A queste scene mi commossi pure

io, e il Raddi vedendomi piangere disse: “ Padre, non voglio che pianga, ci

deve fare coraggio e starci vicino. Vede che io non piango? Quando sar`o in

Paradiso pregher`o per lei, ma ora non ci deve abbandonare: stia vicino, ho

bisogno di lei”.

Un brigadiere finalmente riusc`ı a mettere le manette al Raddi e poi agli

altri quattro. . . Li aveva legati insieme, ma il Corona svenuto tir`o a terra tutti

gli altri. . . allora vennero separati e, sorretti da me e da alcuni secondini e

carabinieri, tradotti nella macchina del cellulare. Il Corona ed il Santoni

erano privi di sensi. Il Targetti era serio e taceva. Raddi pure era serio e

chiedeva continuamente: dove ci portano? Corona si riebbe quasi subito e

con Quiti cominci`o a piangere e a gridare per tutto il tragitto: “Aiuto, piet`a,

ci fucilano, non avete la mamma, ci fucilano, il nostro sangue vi rester`a

sull’anima, grider`a vendetta!”.

Erano impazziti dal dolore. Ero seduto in mezzo a loro e non facevo

che sorreggerli, accarezzarli e baciarli. Giunti al Campo di Marte, vedr`o le

molte reclute schierate per assistere alla fucilazione: “Guarda – disse il Quiti

– guarda quanta gente alla fucilazione”, e si nascose la faccia in un angolo

della macchina.

Cercavo di nascondere loro tutti quei preparativi, ma da alcune fessure

della macchina potevano vedere tutto!

Guarda le sedie con le bende!” “Guarda il plotone che ci deve fucilare!”,

disse il Raddi e urlando chiamava alcuni del plotone che, schierati in dodici

per parte dalla macchina, udivano tutte quelle grida.

Ci fecero aspettare nel cortiletto dello stadio per ben 24 minuti, che furono

ore di spasimo. Il Quiti disse a uno del plotone: “Colpiscimi giusto e non

farmi tanto soffrire!”

Nel frattempo, una decina di gerarchetti della federazione di Firenze in

treno con la sigaretta in bocca giravano intorno alla macchina, curiosando

e desiderosi di vedere le vittime. Appena il Quiti e il Raddi videro questi

borghesi, si misero nuovamente a gridare: “. . . . . . piet`a, aiuto, ci fucilano,

salvateci!”

Un brutto ceffo da delinquente rispose loro digrignando i denti: “Ah!

Adesso, piet`a. . . ” Balzai allora dalla macchina e pieno di sdegno li cacciai

investendoli di male parole e dissi loro: “Non `e lecito, n´e umano oltraggiare

cos`ı dei condannati a morte!”. “Chi sono?”, mi chiesero il Raddi ed il Quiti.

Ed io risposi: “Sono degli assassini”.

Finalmente, giunse il gerarca ed il papavero atteso.

Don Giulio Roberti sollecit`o affinch`e si portassero le povere vittime sul

luogo dell’esecuzione e cos`ı fosse smessa quella tortura indicibile. Il luogo

scelto fu la parte esterna dello stadio Berta, poco lontano dalla torre.

Venne dato l’ordine di tradurre le vittime sul luogo del supplizio. Si udiva

solo il pianto dei poveri condannati. Diedi loro l’ultima assoluzione. Aiutai,

assieme all’altro Cappellano, a bendare gli occhi degli infelici. Poi Raddi mi

disse: “Cappellano, voglio darle un bacio”. Mi inchinai e mi baci`o in fronte

e per questo gli levai leggermente la benda. Allora tutti gli altri mi vollero

baciare.

Il capitano del Distretto Militare di Firenze, comandante del plotone di

esecuzione, fremeva e con segnali voleva che mi sbrigassi. Quiti allora volle

parlare col comandante del plotone di esecuzione; lo chiamai e gli chiese:

Ma perch´e ci fucilate? Sapete cosa vuol dire morire, mandateci al fronte,

ma noi siamo innocenti, nessuno ci pu`o salvare?”.

Stai buono – rispose il comandante – non ti facciamo niente”. E volle

che si ribendasse subito.

Ancora il Raddi mi vuol parlare e dice: “Cappellano, dica alla mia mamma

che mi sono confessato e che lei mi `e stato sempre vicino”. Anche gli

altri dissero: “S`ı, anche alle nostre famiglie dica che ci ha assistito lei tutta

la notte e faccia coraggio ai nostri cari”.

Intanto un certo Paolo di Vicchio o forse meglio di Cistio, amico di Antonio

Raddi, venne a salutarlo e salut`o pure gli altri. Passarono perci`o alcuni

secondi. Quiti cominci`o a tremare. Voleva alzarsi e scappare, anche Raddi e

Corona ebbero un momento di esasperazione. Con il Cappellano Don Guido

Roberti riuscii a quietarli, dicendo loro: “Pensate al Paradiso, il Signore vi

aspetta, siete nelle mani di Dio e della Madonna, coraggio!”

Con queste e simili parole, ma specialmente mediante la grazia del Signore,

che in questi momenti tutti sentivano potente ed efficace, si riusc`ı a far

loro tornare un po’ di calma. Allora feci un balzo indietro e subito avvenne

la scarica del plotone.

Targetti, Raddi e Santoni morirono subito. Non cos`ı il Quiti, che ancora

vivo dopo la scarica del plotone, legato alla sedia si dimenava, gridando:

Mamma, mamma!”. Allora si avvicin`o il comandante che gli scaric`o in faccia

a un metro di distanza sei colpi di rivoltella. Il disgraziato non era ancora

morto e continuava a chiamare mamma, buttando continuamente sangue.

Questa scena impression`o assai. Uno che con me assisteva, si appoggi`o

a me dicendo: “che strazio!”. Alcune delle reclute che assistevano svennero.

Si ud`ı pure una voce: “Vigliacchi, perch´e li uccidete”. Alcuni scapparono e

ci volle la forza per trattenere altri che volevano fare lo stesso.

Fu il maggiore Mario Carit`a, il famigerato comandante delle SS, che dopo

alcuni istanti intervenne e diede il colpo di grazia.

Mentre somministravo l’Olio Santo, il Corona ripet`e lui pure: “Mamma!”.

Allora pregai il Carit`a che desse il colpo di grazia a tutti.

Regnava il silenzio: stavano per andarsene, ma li feci fermare tutti e volli

recitare ad alta voce il De Profundis.

Messi con religioso rispetto nelle casse che furono subito portate, li accompagnai

al Cimitero di Trespiano ed assistetti alla loro sepoltura. Ritornai

subito a S. Gallo dove celebrai la S. Messa da Requiem per loro e vi

assistettero tante suore.

Poi mi recai dal Cardinale di Firenze, raccontai ogni particolare; commosso

per la morte cristianamente incontrata, disse solo, dopo aver attentamente

udito ogni cosa: “Queste povere vittime hanno finito di soffrire e sono gi`a in

Paradiso”. Lesse attentamente le lettere che avevano scritto. Queste lettere

furono pure fatte leggere al responsabile principale di questa fucilazione, il

sanguinario Rossi Adami, il quale dopo averle lette si lasci`o sfuggire: “Poveri

ragazzi, non si meritavano queste pene”. E subito, quasi correggendosi

dinanzi al Cappellano che le aveva fatte leggere, aggiungeva: “Bisognava

fucilare tutte le loro famiglie”

L’impressione riportata in tutta Firenze da questo misfatto fu somma e

per l’innocenza di queste giovanissime vittime e per il modo barbaro con il

quale vennero fucilate.

Un ufficiale, uomo senza dignit`a e senza cuore, chiese a dei suoi soldati:

Beh, ragazzi, vi `e piaciuto il cinematografo di stamani?” Alcuni comandanti

radunarono le loro truppe e spiegarono loro che i giustiziati erano stati

giustamente fucilati, essendo degli assassini comuni, colpevoli di molti delitti,

che seminavano o terrore o morte ovunque. Niente di pi`u falso: erano cinque

semplici e poveri figli del popolo, vissuti sempre fra la quiete dei loro campi,

lass`u in Mugello, lontano da tutti; mai avrebbero sognato che gi`u, a valle, nel

marciume della citt`a e del gran mondo, potessero esistere tante ingiustizie

ed iniquit`a.

Troppi drammi simili a questi si sono svolti tra i popoli che si credono

civili; lo scettico, che forse ha ancora qualche sentimento buono e onesto, si

fa pi`u pensoso ed impreca al destino.

L’uomo di fede invece, mentre deplora tanta malvagit`a, alza gli occhi al

Cielo e adora i segni imperscrutabili di Dio che tollera tanto male, ma che

presto o tardi ne sapr`a trarre un bene proporzionato. Ma l’uno e l’altro di

fronte a questa umana tragedia deve concludere: “Giovanissimi, belli, pieni di

vita, buoni e innocenti, erano senza dubbio le vittime pi`u degne da immolarsi

per la salvezza della Patria nostra martoriata.”

Il Tenente Cappellano Militare e dei Patrioti Don Angelo Beccherle

Questa `e la trascrizione della lettera scritta da

Guido Targetti al fratello la notte precedente la fucilazione.

Li, 22 marzo 1944

Carissimo fratello,

`e tardi ormai ma, comunque sia, spero che queste righe che ti scrive il tuo

fratello, che si trova attualmente in un po’ brutte condizioni ti facciano piacere.

Io ti ho voluto sempre bene e se qualche volta con i miei atti ti ho recato

dolore, ti prego volermi perdonare.

Ho avuto tue notizie da parte del Signor Direttore; a casa stanno tutti bene

anche Mamma, che io in ogni momento della mia vita ho sempre tenuta sul

cuore come donna unica al mondo, e per la quale pregher`o finch´e sto in vita.

Un’altra volta Vi prego tutti quanti di perdonare se qualche volta, senza saperlo,

vi ho recato qualche dolore; credetemi che ci`o non dimeno non ho mai

mancato di volervi bene e vi chiedo un’altra volta perdono se in una maniera

o in un’altra vi avrei offeso.

Se il Padre Eterno e la nostra Madonna adorata non ci permettessero di

rivederci e salutarci ancora in questa valle di lacrime, state pure tranquilli

che ci vedremo presto in un altro mondo migliore e pi`u bello tutti riuniti in

Famiglia.

Tanti baci e tanti cari abbracci, e un’altra volta perdono di tutto

Tuo fratello

Targetti Guido

Qui si trova insieme anche Aleandro. Moriamo insieme. Anche lui tenetelo

per fratello.

Da: “Ricordi di un allievo ufficiale”,

di Luigi Bocci

pubblicato in: “Societa’ ” 1945, n. 1 – 2

Grande era la disorganizzazione dell’esercito repubblicano e nessuno sapeva,

in attesa della risposta del Comando regionale a cui ci si era rivolti,

quale grado darmi. Poich´e ero stato allievo ufficiale mi si dette infine la qualifica

di Caporale allievo ufficiale e questa mi rimase per circa tre mesi, cio`e

fino a quando giunse la risposta del Comando che ordinava di rimuovermi da

ogni grado e cos`ı tornai ad essere semplice autiere.

In caserma ritrovai molti miei compagni del vecchio corso di Massa che

ricoprivano il grado di sergenti allievi ufficiali. Alloggiai nella loro camerata

e potei cos`ı conoscere da vicino quasi tutti gli ufficiali che si erano presentati

volontari. Quando in questo triste racconto mi capiter`a di far menzione di

loro, aggiunger`o qualche parola per mostrare il loro carattere e le loro azioni.

La vita di caserma, appena io giunsi, non era molto dura: al precedente

corso allievi ufficiali avevo dovuto lavorare molto di pi`u.

Tuttavia una continua minaccia ci turbava e questa minaccia era racchiusa

nel nome di una citt`a: Vercelli. Vercelli era sulla strada che portava in

Germania. Ogni momento gli ufficiali ci dicevano.

Rigate diritti o vi si manda a Vercelli”.

Certamente l’andamento delle caserme non era regolare come prima dell’8
settembre. Ogni sera dal rapporto che il sergente di giornata faceva all’ufficiale
di picchetto apprendevamo che decine e decine di giovani non si presentavano
alla chiamata o erano irreperibili. La repubblica dava loro l’appellativo
di “assenti arbitrari”.
Le prigioni erano sempre piene di autieri ricondotti in caserma dalla
benemerita arma dei carabinieri; e molti di essi venivano spediti a Vercelli.
Intanto in caserma si facevano grandi spese: i muratori erano sempre sul
posto e si pu`o dire che abbiano lavorato pi`u in periodo repubblicano di quanto
lo abbiano fatto in tutti gli anni precedenti. I lavatoi, i locali dello spaccio,
i gabinetti, la sala del barbiere, tutto venne ricostruito di sana pianta. Il
maggiore Maffioli, che doveva avere qualcosa di poco pulito sulla coscienza e
che non usciva mai di caserma, aveva impiantato, accanto alla sua camera,
un bagno personale con tinozza e bid`e.
Dopo una decina di giorni che io ero a Firenze avvenne la chiamata alle
armi della classe 1922 e 1923. Bench´e non si presentassero molti giovani,
la piccola caserma del Poggio fu presto gremita di richiamati vestiti di abiti
borghesi. Ve ne saranno stati oltre duecento. All’improvviso una sera essi
furono caricati sui camion ed inviati a Vercelli. Partirono cantando “Bandiera
Rossa” e “Marcia Reale” e tutte quelle canzoni che venivano loro in mente
contrarie alla repubblica. Insultavano il colonnello Mazzari e il maggiore
Maffioli, che assistevano alla partenza dall’ingresso della caserma, gridando
loro “porci e venduti”. I giovani erano accompagnati da moltissimi ufficiali
e sergenti, perch´e si temeva che volessero fuggire durante il viaggio.
C’erano in caserma una ventina di ragazzi che nel dicembre del 1943 erano
fuggiti dall’esercito e che nel Marzo successivo, dopo il bando del duce, si
erano ripresentati per paura della fucilazione. Appena presentatisi, per punizione
essi furono consegnati per trenta giorni in caserma e privati del soldo
giornaliero. Erano molto preoccupati per la loro sorte e temevano sempre
di essere mandati a Vercelli. Io, che a quel tempo sbrigavo le mansioni di
sergente, ebbi agio di conoscerli e di stringere amicizia con uno di loro, un
bravo ragazzo spezzino che prima dell’8 Settembre era stato caporale e che
ora era semplicemente autiere. Mi diceva che non vedeva l’ora che arrivassero
gli inglesi e che aveva paura di finire in Germania. Io stesso, a dir la verit`a,
non ero troppo tranquillo per questo mio amico e per i suoi compagni. Un
giorno decisi perci`o di chiedere spiegazione ad un ufficiale, un certo F.N., che
avevo conosciuto nella camerata dei sergenti. Egli `e un fiorentino, piccolo e
insignificante, sottotenente effettivo sotto qualsiasi bandiera, ha infatti giurato
alla monarchia e alla repubblica e sono sicuro che apparterr`a al nuovo
esercito essendosi dato alla macchia pochi giorni prima dell’arrivo degli alleati
e essendo stato ferito dai tedeschi, secondo quanto mi ha raccontato un
amico. Egli mi rispose che i giovani consegnati erano disertori, e le punizioni
che si fossero inflitte loro sarebbero sempre giuste. Non chiesi altro, dopo
questa risposta. In seguito io lo conobbi sempre meglio e il mio disprezzo
verso di lui crebbe ancora. Una volta trovandosi in brutte acque per una
sciocchezza commessa chiese di essere inviato in zona d’impiego per paura di
perdere il grado e il relativo stipendio.
Nella nostra camerata oltre i sergenti allievi ufficiali c’era alloggiato anche
il figlio del colonnello comandante il reggimento. Si chiamava Ugo Mazzeri,
ed era fascista e tedescofilo. Alla sera egli usciva spesso di caserma con i
suoi amici, armati fino ai denti, per tentar di acciuffare i patrioti che si pensava
si trovassero a Firenze. Essi tornavano sempre a mani vuote e per la
rabbia facevano nutrite sparatorie contro gli alberi. Ugo aveva un bel fucile
mitragliatore Thompson che suo padre aveva portato dall’Africa. Lo puliva
ogni due o tre giorni e diceva che lo avrebbe volentieri adoperato. Aveva per
intimo amico un certo Ugo Grazzini, detto il “Pupo”, fiorentino, giovane effeminato.
Essi erano entrambi iscritti al fascio repubblicano e discutevano tra
di loro sempre di fascismo. Il “Pupo”, del quale avr`o occasione di riparlare,
era malvisto e i soldati durante la notte gliene facevano di tutti i colori.
Una mattina mentre ci trovavamo dinanzi alla Villa del Poggio Imperiale
a fare esercitazioni coi fucili mitragliatori giunse un ordine per cui dovevano
essere scelti quindici autieri abili tiratori ed un sergente ed inviati immediatamente
al comando di Presidio. Bench´e l’ordine non facesse parola dell’incarico
che sarebbe stato affidato ai prescelti, si venne subito a sapere che
cosa essi avrebbero dovuto fare. Il sottotenente Taviani, che ha un negozio
all’inizio di via Martelli, presa la tabella dei tiri, scelse i primi quindici classificati
e, dando loro per capo il sergente allievo ufficiale Ciappi, li mand`o al
comando di presidio.
Mi ricordo bene di avere avuto quel giorno un permesso fino alle ore
22, di essere andato a cena da un mio zio che abita in via Fra Bartolomeo.
A mio zio, che `e comunista e che era a conoscenza del bestiale delitto che
si sarebbe commesso, chiesi se non ci fosse stato alcun mezzo per salvare
le povere vittime. Egli mi rispose che i comunisti avrebbero organizzato
manifestazioni popolari. Le sigaraie sarebbero uscite compatte nelle strade.
Ma quelle manifestazioni non potettero avvenire per non ricordo bene quale
incidente.
Quella sera mi avviai verso la caserma assai tardi. In Piazza Santa Maria
Novella dovetti attendere lungamente il tram; infatti poco tempo prima i
gappisti avevano attaccato con bombe a mano una macchina tedesca che
usciva dal comando di Via Romana e la macchina era andata a sbattere
nel muro impedendo il passaggio del tram e la linea non era stata ancora
sgombrata. Mentre aspettavo, pass`o il “Pupo”: era solo, tornava da casa
e andava al Presidio dove avrebbe passato la notte. Egli mi conferm`o con
voce tremante che i nostri quindici compagni prescelti la mattina avrebbero
formato il plotone di esecuzione di cinque giovani renitenti, esecuzione che
avrebbe avuto luogo la mattina dopo. Mi disse che i nostri compagni si
erano rifiutati, ma erano stati minacciati dagli ufficiali. Era stato loro detto
bruscamente: “O fate il vostro dovere, o metteremo al muro anche voi”.
Poi per convincerli a compiere la loro opera senza tanti scrupoli avevano
cercato di gettare il fango sui cinque giovani condannati, dicendo che erano
banditi, che in una vicina campagna avevano strangolato una signora per
derubarla, che avevano inoltre assassinato alcuni carabinieri. Il “Pupo”, per
quanti difetti avesse, non era un cattivo ragazzo e credeva a tutto ci`o che
gli avevano detto. Perci`o la mattina dopo si rec`o, con l’ampio consenso del
padre a fare il fucilatore.
Quella mattina anzich´e alle 6,30 la sveglia suon`o alle 3. Fu distribuito il
caff`e, venne rastrellata la caserma in modo che neppure un solo soldato potesse
sottrarsi alla adunata e partimmo inquadrati. Eravamo divisi per sezioni
e in testa e in coda a ciascuna sezione erano stati posti due o tre sergenti che
dovevano vigilare che nessuno abbandonasse le file approfittando dell’oscurit`a
della notte. Il vialone del Poggio Imperiale era buio, neppure leggermente
schiarito dalle lampadine tascabili e dalle fioche lampade a consumo ridotto
molto distanti l’una dall’altra. Marciavamo in silenzio e assai fievoli giungevano
a noi i comandi degli ufficiali e il rumore del passo sonnolento del
reparto. Pensavamo ai cinque giovani che venivano uccisi per obbedire ad
un delinquente; tutti sapevamo infatti che ad ogni comando provinciale era
giunto l’ordine di fucilare un certo numero di renitenti per intimorire gli altri
e frenare la formazione delle bande Partigiane.
Allorch´e giungemmo quasi alla fine del viale, l’Ufficiale che comandava la
prima sezione ordin`o l’alt e il suo grido turb`o a lungo il silenzio. La prima
compagnia fu allora presentata al suo comandante. Era il capitano Enrico
Cirri, uomo ripugnante, ladro di coperte, di sigarette, in una parola di tutto
ci`o che era possibile sottrarre alla dotazione dei suoi soldati. Rubava, con
la complicit`a di magazzinieri suoi compaesani, pane, scarpe, indumenti di
ogni genere ed anche rivoltelle. Una volta egli sottrasse alla sua compagnia
tutta la dotazione di sigarette che doveva essere distribuita in una settimana,
facendo distribuire per due settimane di seguito met`a razione.
Il capitano era venuto a prendere il comando dei suoi uomini per portarli
ad assistere al lugubre spettacolo. Stava impalato in mezzo al viale con la
bustina un po’ piegata da una parte, con la sua aria di conquistatore come
quando veniva nella camerata dei sergenti a raccontarci le sue avventure
amorose. In quei giorni si era fatto crescere barba e baffetti. Egli non sapeva
discorrere e parlando emetteva talvolta suoni cos`ı strani che nessuno riusciva
a comprendere. Aveva, quella mattina, una bella macchina fotografica a
tracolla per riprendere i particolari della esecuzione.
Fatta la presentazione iniziammo di nuovo la marcia e percorremmo lentamente
le strade che dalla fine del viale portano vicino al Campo di Marte.
La notte si era fatta chiara e stellata, di tanto in tanto lampi illuminavano il
cielo, quei lampi ci richiamavano dinanzi alla nostra immaginazione i lampi
dei bengala e ci auguravamo un allarme aereo, un bombardamento, qualcosa
che allontanasse il momento della strage.
Giungemmo al Campo di Marte che gi`a albeggiava, attraversammo le
strade bombardate, sperando sempre in un altro bombardamento, ma ci trovammo
ben presto di fianco allo stadio. Alcuni reparti di fanteria ci avevano
preceduto e facevano istruzioni sul posto. A brevi intervalli cominciarono a
giungere formazioni di altri corpi, insomma tutti i militari di stanza a Firenze
dovevano accertarsi coi propri occhi che si faceva sul serio. Nulla per`o si
era detto agli altri soldati sull’avvenimento a cui avrebbero assistito; si era
loro comunicato che si sarebbero tenute esercitazioni collettive, movimenti di
truppa e niente altro. Soltanto noi della caserma del Poggio Imperiale eravamo
a conoscenza di quanto sarebbe accaduto. Arrivarono anche uno dopo
l’altro su automobili lussuose, gli ufficiali superiori e le autorit`a repubblicane.
Quando furono giunti tutti i reparti dei vari corpi fu assegnato ad ogni
compagnia uno spazio di terreno in cui gli ufficiali dovevano far compiere
delle conversioni, correggere errori, insegnare come ci si presenta ad un superiore
quando si `e chiamati, e come si saluta romanamente. Queste manovre
grottesche durarono circa un’ora. Guardavo quei soldati. Parecchi non avevano
neppure la divisa, ma indossavano ancora gli abiti con cui erano partiti
da casa, sudici e laceri, e calzavano scarpacce rotte.
Altri avevano di militare la giacca e la camicia, altri soltanto la bustina e
con aria scanzonata la portavano sulle ventitr´e. Sulle facce di quei giovani si
leggeva chiaramente che cosa essi pensavano. Vi erano i remissivi che ormai
si erano messi l’animo in pace e avevano assunto un atteggiamento di passivit`
a e di assenteismo. Altri irrequieti, che parlottavano fra loro accennando
con disprezzo gli ufficiali, facevano intendere che alla prima occasione se la
sarebbero svignata a costo di rimetterci la pelle. Nel frattempo arriv`o il picchetto
armato: erano venticinque militari ed un capitano: avevano l’elmetto,
la bandoliera ed il moschetto; si fermarono un po’ lontani da noi e ad un
tratto sparirono. Udimmo sparare. Io ed i miei compagni, ci guardammo
sorpresi. Avevano forse gi`a compiuto il misfatto lontano da noi? Ma purtroppo
non era cos`ı. Poco dopo il picchetto armato ricomparve e non ho mai
saputo perch´e si fosse allontanato di l`ı e perch´e avesse sparato.
Intanto ci avevano fatto riunire e stavano disponendoci in quadrato proprio
davanti all’alto muro delle gradinate dello Stadio. Furono portate cinque
sedie. L’esecuzione era ormai certa e prossima. Mi voltai indietro e scorsi un
orto, forse un orto di guerra, in cui un uomo e una donna stavano lavorando
senza curarsi di nulla. Mi parve che seminassero. Ad un tratto giunsero molti
uomini vestiti di scuro che fecero allontanare tutte le persone che si erano
avvicinate a noi e l’uomo e la donna che lavoravano nell’orto e che non ci
avevano degnato neppure di uno sguardo. Arrivarono infine camion carichi
di militi fascisti, armati di mitra e moschetto, e ci circondarono. Parecchi
altri militi furono disposti molto pi`u lontano, forse perch´e ci sorvegliassero
meglio. Sghignazzavano, bestemmiavano, e lanciavano insulti contro le vittime;
schernivano noi che stavamo dinanzi a loro minacciandoci di continuo
coi mitra.
Improvvisamente apparve sulla nostra sinistra il furgone della polizia ai
cui sportelli erano attaccati alcuni militi della guardia repubblicana coi mitra
a tracolla. Dal di dentro venivano urla che poco avevano di umano e fra le
urla gridi di “mamma, mamma”.
Un fremito di orrore e di ribellione corse tra la truppa. Da ogni parte si
levarono voci di rivolta; e gli ufficiali non furono capaci di far tacere i soldati.
Infine quando torn`o un po’ di silenzio un ufficiale che si era portato in mezzo
al quadrato lesse la sentenza del tribunale militare di guerra che dichiarava
i cinque giovani Antonio Raddi, Guido Targetti, Leandro Corona, Ottorino
Quiti e Adriano Santoni renitenti alla leva e in conseguenza li condannava
alla pena di morte mediante fucilazione al petto.
Qui i miei ricordi sono un po’ confusi. Io ero in una delle ultime file e poi
non volli vedere la preparazione di s`ı orrendo delitto; udivo soltanto le grida
di quei ragazzi che non volevano morire. Intorno a me c’era molta confusione,
le file si erano rotte: chi urlava chi piangeva. Le file furono riordinate, ma
ancora una volta si ruppero. In quell’istante scorsi accanto a me il capitano
Cirri che stava cinicamente caricando la sua macchina fotografica e guardava
ogni tanto il cielo, forse per poter dare al diaframma una giusta apertura.
Mi parl`o anche, ma di tutte le sue parole non ricordo che queste: “Tra poco
giustizia sar`a fatta”, e accennando alla macchina fotografica: “Speriamo che
vengano chiare”.
In questo momento rison`o la scarica del plotone di esecuzione, udii qualche
urlo, alzai gli occhi e vidi che due dei giovani erano caduti in terra insieme
con la seggiola su cui stavano seduti; gli altri tre erano invece sempre seduti
e gridavano “mamma”. I soldati del plotone di esecuzione, presi con la forza,
piangevano fino da quando erano stati condotti in mezzo al quadrato e quasi
nessuno di loro aveva sparato sulle vittime.
Ora i cinque giovani dovevano attendere il colpo di grazia del capitano di
picchetto. Cominci`o il lavoro della rivoltella ed io udii numerosi colpi. Mi
fu detto poi che per finire uno dei condannati si era dovuto sparargli nella
testa un caricatore intero. Anche quel capitano era commosso e tremava, e
mentre sparava volgeva la testa dell’altra parte, cos`ı che i suoi colpi non erano
mortali. Soltanto allora mi accorsi che il furgone della polizia era seguito da
un carro funebre dal quale erano state scaricate cinque casse da morto che
erano state disposte poco lontano dai cinque giovani.
Le file si ruppero ancora una volta, i miei compagni fuggivano e qualcuno
era caduto svenuto per terra. Io fui travolto da quella confusione. Pi`u tardi
mi raccontarono che dal gruppo degli ufficiali si era ad un tratto staccato
Carit`a e aveva sparato su uno dei moribondi. Subito dopo il delitto le cinque
bare furono avvicinate al luogo dell’esecuzione e le salme vi furono composte.
Sennonch´e qualcuno si accorse che uno dei fucilati non era ancora morto e
fu necessario tirarlo di nuovo fuori e sparargli un colpo nella testa e poi
ricollocarlo nella bara.
Ricomposti di nuovo i quadri ci avviammo verso la Caserma e passammo
accanto ai militi fascisti che sghignazzavano a causa del nostro contegno e ci
dicevano che avrebbero volentieri fucilato anche noi. Rientrammo in caserma
passando per la Costa San Giorgio. Verso le undici tornarono in caserma i
nostri quindici compagni che avevano fatto parte del plotone di esecuzione.
Erano disfatti, si gettarono sui loro castelli e piansero. Per premiarli fu
concesso loro una licenza di quattro o cinque giorni. Il “Pupo” si vergognava
ora di appartenere al fascio repubblicano e non portava pi`u il distintivo che
teneva nel borsellino.
Per completare questo racconto mi sono rivolto al mio amico A.V., ser-
gente allievo ufficiale, che assistette alla fucilazione da una delle prime file.
Egli mi ha inviato questi particolari:
Il furgoncino si ferm`o vicino a me e subito udii le urla strazianti di quei
poveretti. Tre di loro avevano proprio l’aspetto di bambini. Consci ormai
della fine a cui andavano incontro urlavano disperatamente, invocavano la
mamma, chiedevano come forsennati: “Perch´e ci fucilate?” e pregavano Dio
di salvarli. Pi`u volte gli sgherri dovettero sorreggerli perch´e non si abbattessero
a terra. Gli altri due di aspetto pi`u virile dei compagni e pi`u forti, erano
abbastanza calmi, tanto che cercarono di confortarli. Anche il cappellano militare
cercava di rendere sopportabili a quei poveretti i loro ultimi momenti
di sofferenza.
Intorno si facevano gli ultimi preparativi per il supplizio. I carnefici in
camicia nera allinearono cinque seggiole davanti al muro con una lentezza ed
un manifesto malanimo come se proprio volessero prolungare il pi`u possibile
la straziante agonia di quei poveretti che continuavano disperatamente ad
invocare la grazia e la loro mamma. Giunse il plotone di esecuzione che si
schier`o a pochi passi dalle vittime. Li conoscevo quasi tutti perch´e erano stati
presi nella mia caserma. Essi, al mattino, si erano rifiutati di commettere
l’assassinio, ma il maggiore Carit`a aveva detto: “Per coloro che si rifiutano
di obbedire ho nella mia pistola tante pallottole da spedirli all’inferno insieme
con quei fuorilegge”. Essi mi facevano quasi pi`u compassione degli stessi
condannati. Questi non avevano che da passare pochi momenti di martirio,
mentre i primi avrebbero avuto, forse per tutta la vita, davanti agli occhi la
strage di cui si sarebbero purtroppo sentiti gli esecutori materiali.
Mi guardai intorno. Le ultime file erano in subbuglio. I soldati delle prime
file, quelli vicini a me, fissavano cupi e atterriti quanto stava accadendo a
pochi passi da loro. Moltissimi si coprivano, con le mani o con tutte le
braccia, gli orecchi e gli occhi.
Le cinque vittime furono prese e con sforzi sovrumani furono messe sulle
seggiole. Si leg`o loro le braccia dietro le spalliere e si bend`o loro gli occhi.
Continuavano ad urlare come forsennati. Uno di essi cominci`o a chiamare il
fratello che era stato graziato, chiedendo ripetutamente e con parole supplichevoli
che gli consentissero di vederlo e di riabbracciarlo ancora una volta.
Ci`o gli fu violentemente negato forse anche per non prolungare quella tragica
scena che minacciava di far esplodere quel qualcosa di grave, ossessionante e
imprecisabile che tutti presentivamo compresi i responsabili dell’eccidio. Essi
mi apparivano in preda ad un malcelato terrore. Uno dei condannati disse
dolcemente a colui che invocava il fratello di avere pazienza e che un giorno
si sarebbero riabbracciati in cielo.
Un Ufficiale con la pistola in pugno impartiva nel frattempo gli ultimi
ordini agli uomini del plotone. “Mirate giusto e con risolutezza al cuore”
egli diceva, mentre un tenente colonnello di cui non ricordo il nome, lesse ad
alta voce i nomi delle vittime con la relativa motivazione della condanna di
morte emessa dal Tribunale Militare. Tutto fu pronto per l’esecuzione; allora
scorsi parecchie persone ritirarsi in disparte, fra le quali anche il cappellano
che fino a quel momento era restato vicino ai cinque giovani che vedevano
in lui l’unico amico e dal quale non volevano distaccarsi a nessun costo. Un
Ufficiale, con comandi secchi e decisi, ordin`o il caricate e il puntate. Le sue
parole risuonarono lugubri nel silenzio che si era fatto intorno a me, silenzio
che agghiacciava il cuore, rotto soltanto dalle urla incessanti dei condannati.
Vidi le braccia tremanti degli uomini del plotone puntare i fucili in direzione
delle seggiole. Certamente essi non scorgevano nulla dinanzi a loro; infatti,
all’ordine di far fuoco, udii distintamente i colpi partire uno dopo l’altro in
un crepitare lento e funesto. Ben pochi raggiunsero il bersaglio.
Soltanto due giovani morirono: gli altri squarciati dalle ferite caddero
per terra contorcendosi e urlando di dolore come bestie. Il giovane che pochi
minuti prima aveva chiesto di poter riabbracciare il fratello, tent`o, con un
ultimo sforzo, di rialzarsi quasi volesse sfuggire alla morte. Allora vidi l’ufficiale
avvicinarsi a lui e sparargli a bruciapelo alla testa, una revolverata. Il
giovane rotol`o di nuovo per terra e di nuovo torn`o ad alzarsi. Mi sembr`o in
quel momento che fosse dotato di una strana forza e che volesse sfidare il suo
carnefice con accorti movimenti di lotta, ma questi gli spar`o addosso altri tre
colpi di rivoltella e lo fin`ı. Gli altri due non erano ancora morti, continuavano
a lamentarsi con un filo di voce, mentre alcuni militi si avvicinarono a
loro per prenderli e gettarli nelle bare. L’ufficiale, poich´e la sua rivoltella era
scarica se ne fece dare un ’altra da un premuroso collega e dette loro il colpo
di grazia. Ad uno spar`o mentre si trovava nella bara. Anche un Ufficiale
delle SS italiane spar`o qualche colpo contro i giovani, e mi dissero che era
Carit`a. Mi voltai indietro e vidi le file scomposte, molti soldati piangere e
inveire.
Qualche giorno dopo parlai col Pupo. Egli mi disse che la notte precedente
l’esecuzione era stata terribile e che egli era stato un po’ di tempo vicino
alla stanza in cui erano i cinque giovani. Mi raccont`o che il fratello di uno
di loro, anch’egli condannato a morte e all’ultimo momento graziato, pianse
tutta la notte, e la sua disperazione scosse ancor pi`u i soldati che facevano
parte del plotone di esecuzione. Mi disse anche che poco prima che i cinque
giovani fossero portati via dalla caserma e condotti sul luogo del loro assassinio
un ragazzetto, arruolato nelle SS italiane, ballonzolava dinanzi a loro
ridendo e schernendoli. La disperazione dei quindici soldati crebbe ancora nei
giorni successivi. Essi talvolta si ritenevano autori volontari di quella strage,
tal’altra vittime della prepotenza degli ufficiali. Urlavano, piangevano, e
spesso la notte si svegliavano all’improvviso gridando: no, no o ripetendo gli
stessi gridi dei fucilati. Invocavano la mamma, dicevano di non voler morire,
emettevano urla di spavento e invocazioni di aiuto. Noi li consolavamo
meglio che ci era possibile.
LUIGI BOCCI

Sacrario del Campo di Marte

  1. SERGIO DORETTI CLASSE 1925 SI PRESENTO’ AL SERVIZIO MILITARE A FIREN ZE 104 BATT. GENIO FORTIFICAZ. CAMPALI.
    LA MIA PRESENTAZIONE FU DOV UTA AL RILSCIO DELLA MAMMA CIAMPI IDA PERCHE’ ERA ARRESTATA DAI CARABINIRI DEL COMUNE DI COLLESALVETTI PERCHE IO ERO RENITENTE ALLA LEVA.
    QUEL GIORNO CI SVEGLIARONO PRESTO E CI PORTARONO FUORI LA CASERMA DI VIA TRIPOLI. E PURTROPPO CI FECERO ASSISTERE PRESSO LO STADIO DI FIRENZE ALLA FUCILAZIONE DEI CINQUE RAGAZZI DEL MUGELLO.
    FU UNA COSA TERRIBILE IO MI SVENNI COME ALTRI .
    UN RICORDO CHE LO PORTERO’ TUTTA LA V ITA .
    IL GIORNO DOPO CON ALTRI RAGAZZI DELLA ZONA PISA LIVORNO SI FUGGI IO ANDAI CON UNA PICCLA BRIGATA DI PARTIGIANI N ELLA ZONA DI M ONTEBERO LIVORNO.
    ORA AB ITO A FIREN ZE VI FUI TRASFERITO PER LAVORO NEGLI ANNI SETTANTA.
    ORA SONO IN PENSIONE DL 1985 ED ABITO A FIRENZE.
    QUASI TUTTI GLI ANNI IL 22 MARZO VADO ALLO STADIO DI FIRENZE PER ASSISTERE ALLA COMMEMORAZIONE SPERO I ANDARE ANCHE QUEST’ANNO.
    AFF. SERGIO DORETTI

  2. maledetti li assassini, maledetta la guerra e chi la fece fare, pace a quei poveri ragazzi e tutti li innocenti di quella maledetta guerra

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