Archivio mensile:settembre 2017

Pietransieri: il massacro dimenticato Lelio La Porta

Pietransieri: il massacro dimenticato

Lelio La Porta

Nella frazione di Roccaraso, in Abruzzo, 128 fra uomini, donne e bambini trucidati dai nazisti il 21 novembre 1943. Nessun movente se non, forse, il desiderio di eliminare una popolazione che poteva intralciare le operazioni belliche dei tedeschi

Provenendo da Sulmona, la patria di Ovidio (“Sulmo mihi patria est”), del quale proprio quest’anno ricorre il bimillenario della morte, percorrendo tornanti molto addomesticati nella loro impervia percorribilità da un’opera di rifacimento abbastanza recente, si arriva al Piano delle Cinque Miglia. Il paesaggio è ben diverso da quello che il passeggero si è lasciato alle spalle: dal dominio quasi incontrastato di rocce e alberi si passa a un altopiano lussureggiante di splendente grano e appezzamenti di terreno coltivati. Si tratta di quei miracoli che la natura propone quando si impegna fino in fondo a essere se stessa. Questo altopiano è noto – credo ovunque in Italia ma anche fuori dal nostro Paese – in quanto vi si trovano, a poca distanza l’uno dall’altro, tre importanti centri turistici, invernali ma anche estivi, dell’Abruzzo e dell’Appennino centrale: Roccaraso, Rivisondoli, Pescocostanzo. Gente nelle strade, via vai continuo, grande traffico. Ma il passeggero, anzi, i due passeggeri che entrano in Roccaraso non sono alla ricerca di un “ubi consistam” dove riposare le membra stanche del viaggio; non chiedono informazioni su alberghi o ristoranti; chiedono, invece, dove si trovi Pietransieri. Ricevuta una risposta, tornano in macchina e si dirigono verso la piccola frazione di Roccaraso che prende, appunto, il nome di Pietransieri. Di nuovo il paesaggio lascia spazio alle sue rudezze rocciose ma lascia anche intendere la nuova pianura che si stende verso Sud, verso Napoli che sembra quasi intuirsi al di là dei monti.

Si arriva a destinazione: poche case, poca gente nelle strade, diventa quasi difficile chiedere un’informazione. Finalmente i passeggeri trovano il modo di avvicinare un anziano signore intento in un’attività che, in queste zone di grande freddo e grande neve, si esplica proprio in agosto: la raccolta della legna per il fuoco invernale. Chiedono dove è ubicato il posto da loro cercato. L’anziano signore, con aria quasi compiaciuta dal fatto di poter fornire proprio quell’informazione, indica loro la strada e aggiunge: «Lì furono trucidati!». Un sacrario dove sono raccolte le spoglie di 128 fra uomini, donne e bambini trucidati dai nazisti: il massacro dei Limmari di Pietransieri, 21 novembre 1943.

Quest’anno ricorre il 50° anniversario (15 luglio 1967) del conferimento della Medaglia d’Oro al Valor Militare a Pietransieri da parte dell’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.

Questo crimine perpetrato dalle truppe naziste in ritirata, però, non ha mai avuto il giusto spazio nella memoria del biennio 1943-45. Sotto certi aspetti, ha seguito la sorte delle Quattro giornate di Napoli, spesso messe nel dimenticatoio senza ricordare che la città partenopea fu la prima, fra le grandi città europee, a insorgere contro i tedeschi e a cacciarli ancor prima dell’arrivo delle truppe angloamericane. E, ancora sotto certi aspetti, il massacro di Pietransieri può essere collegato alla Liberazione di Napoli; infatti i tedeschi in ritirata si attestarono sulla linea Gustav che attraversava proprio il territorio del piccolo comune abruzzese davanti al quale si stendeva la “terra di nessuno”. Lì arrivano, il 17 ottobre 1943, i genieri tedeschi per iniziare i lavori di fortificazione della zona. Iniziano i rastrellamenti dei civili da impiegare nei lavori mentre, il 7 novembre, viene intimato lo sgombero del paese. Si tratta di andare verso Sulmona; alcuni abitanti obbediscono e molti troveranno la morte per assideramento o sfinimento durante il viaggio; altri, quasi duecento, si rifugiano in località Limmari, nella terra di nessuno, davanti alle linee difensive germaniche. I tedeschi sembra non si oppongano a tale decisione e nel frattempo distruggono il villaggio compresa chiesa e cimitero, bruciando viva nella sua casa una donna settantenne impossibilitata a muoversi.

Intanto continuano le razzie delle persone idonee al lavoro ma, non trovandone a sufficienza, i tedeschi cominciano a sfogare la loro rabbia sulla popolazione civile: il 15 novembre viene uccisa, senza alcun motivo, una donna nella sua casa. Il giorno seguente un reparto d’assalto rastrella 6 uomini che vengono trovati uccisi a colpi d’arma da fuoco. Il 17 novembre una settantenne e un ottantenne accorso in suo aiuto vengono uccisi dai soldati. Il 18 novembre viene uccisa una giovane donna e il giorno dopo un uomo di settant’anni, il figlio e una ragazza che era con loro. Lo stesso giorno un gruppo di paracadutisti aveva fatto nuovamente irruzione in paese devastando tutto quello che ancora era rimasto in piedi e uccidendo alcuni uomini i cui corpi furono rinvenuti nelle vicinanze.

Nell’ultima domenica di Avvento i protestanti tedeschi commemorano i defunti: per loro è la domenica dei morti e nel 1943 cadeva il 21 novembre. Quella domenica un gruppo di paracadutisti penetra in Limmari distruggendo ogni cosa e uccidendo gran parte degli abitanti; i sopravvissuti vengono riuniti nei pressi di una quercia, intorno a loro viene raccolto dell’esplosivo che viene fatto brillare. Chi non muore viene finito sul posto. Sopravvive una bambina di sette anni, Virginia Macerelli, che si nasconde sotto le gonne della madre e viene rinvenuta dalla nonna, Laura Calabrese, sfuggita al massacro.

Il capitano inglese Stayer, incaricato di indagare sul massacro, raccolse le testimonianze delle due donne il 3 novembre del 1947. Laura Calabrese: «Verso le 9,00 del 21 novembre 1943 un gruppo di 5 tedeschi arrivò al casolare e ci ordinarono di raccoglierci insieme nel cortile della trebbiatura. Immediatamente dopo 4 tedeschi aprirono il fuoco su di noi con i fucili automatici mentre il quinto metteva una mina sotto i cadaveri e la faceva esplodere facendoli saltare in aria. Riuscii a scappare gettandomi in un canale, proprio prima che esplodesse la mina. Io e la mia nipotina di sette anni siamo i soli superstiti di questo massacro. Dichiaro con assoluta certezza che i 5 tedeschi che compirono il massacro vivevano nelle case di Pietransieri e che in precedenza li avevo visti in parecchie occasioni. In quest’eccidio hanno trovato la morte mia figlia, 6 nipoti e altri 7 parenti, per lo più donne e bambini». Virginia Macerelli: «Una mattina i tedeschi vennero alla fattoria e ci fecero raggruppare; oltre a me c’era mia madre, 4 fratelli e mia sorella. I tedeschi cominciarono subito a sparare e io mi nascosi sotto la gonna di mia madre. Sentii tantissime grida, io rimasi ferita al braccio sinistro e ad ambedue le gambe. Mia nonna mi venne a prendere il giorno dopo, io ero ancora sotto le gonne di mia madre, che era morta. Oltre a mia madre i tedeschi uccisero i miei 4 fratelli e mia sorella di 16 anni».

Terribile è la testimonianza resa da Italino Oddis, all’epoca guardia municipale, che descrive nel modo seguente il rinvenimento dei corpi della moglie e dei due figli: «… riconobbi mia moglie e mio figlio Evaldo rimasto in ginocchio e con gli occhi aperti e lo sguardo in su. Gli presi la testa tra le mani, pareva volesse dirmi qualcosa ma una pallottola gli aveva forato la tempia; l’abbracciai, lo baciai e ribaciai e lo stesi poco lontano (…), poi presi mia moglie e la misi accanto a lui. L’altro mio piccolo bambino, Orlando, era sotto la madre in una pozza di sangue; presi anche lui e lo stesi vicino alla madre e al fratello».

Nella zona, come attestato dai documenti dello stesso esercito tedesco, non c’era attività partigiana, almeno in quel periodo. È vero che il 13 novembre furono rinvenuti i cadaveri di due soldati tedeschi, ma furono ritenuti vittime degli Alleati. D’altronde, fra il rinvenimento dei due cadaveri e il massacro era passato troppo tempo e i tedeschi, invece, erano sempre molto immediati nelle rappresaglie. Inoltre, solitamente, rendevano pubbliche le loro azioni per dar maggior valore di monito. Si aggiunga che, dalla testimonianza di Laura Calabrese, risulta che i massacratori erano soldati di Pietransieri: è noto che le rappresaglie, in linea di massima, erano affidate dai tedeschi a truppe non di stanza nei luoghi degli eccidi. Quindi, quale il movente? Ne resta uno solo che, nella sua disarmante e inumana insensatezza, suscita quesiti tremendi circa la natura umana applicata alla guerra e al terrore usato nei confronti dei civili: la popolazione di Pietransieri non aveva obbedito ai proclami con cui i tedeschi chiedevano lo sfollamento verso Sulmona e si era andata a sistemare nella terra di nessuno fungendo da intralcio alle operazioni belliche dell’esercito germanico. Non ci fu da parte nazista nessun tentativo di dissuadere i pietransieresi dal recarsi verso la terra di nessuno (anzi, per molti versi, furono proprio i tedeschi a indurre la popolazione a spostarsi lì dove non avrebbe dovuto essere); da ciò il massacro che, oltre tutto, nella sua dinamica e nella sua realizzazione, entrava in rotta di collisione con le stesse leggi di guerra tedesche in quanto non c’era stata attività partigiana.

Ha scritto Roberto Battaglia: «È (…) l’Abruzzo a pagare il prezzo della sua precoce resistenza e della prossimità della linea del fronte con un ingente e tuttora pressoché ignorato contributo di sacrifici e di sangue. Il 21 novembre 1943 nel villaggio di Pietransieri – che aveva tardato ad eseguire l’ordine di evacuazione impartito dalle autorità germaniche – irrompono le truppe tedesche e fanno strage di 130 civili, in gran parte donne e bambini (così efferato e anche inesplicabile il massacro, che nasce una candida leggenda popolare, secondo la quale, il generale tedesco che ordinò la strage sarebbe tornato nell’immediato dopoguerra sul posto, in veste di ignoto pellegrino, per invocare perdono dall’unica superstite, tale Virginia Macerelli)» [1].

Nel modo seguente il senatore a vita Paolo Emilio Taviani si esprimeva sul massacro nella Prefazione al volume di Paolo Paoletti a esso dedicato: «L’indagine accurata (…) ha accertato che la causa dell’orribile mattanza non fu una rappresaglia, bensì l’intenzione di liberare la “fascia di sicurezza” dalla presenza di estranei, potenziali collaboratori del nemico. (…) Anche per il codice militare di guerra tedesco e per il diritto internazionale (…) la strage di Pietransieri è un crimine di guerra. Il capitano Georg Schulze, supposto mandante della strage, è uno dei tanti criminali di guerra morti nel proprio letto» [2].

Nell’agosto 2016 l’Anpi di Pescara ha lanciato un grido di allarme intorno allo stato di abbandono in cui versano i luoghi del massacro. Resta il fatto che i due passeggeri che si sono recati sul posto hanno avuto qualche difficoltà a trovare lo stesso sacrario perché la segnaletica è assolutamente insufficiente. Nei loro occhi rimane, però, bene impressa l’immagine del volto dell’anziano che ha fornito l’indicazione sull’ubicazione del luogo: il suo sguardo diceva il dolore ma non la rassegnazione all’abbandono e alla dimenticanza; il suo sguardo diceva il sollievo per la rinascita di una memoria che non può e non deve essere cancellata; il suo sguardo era un invito per quante e quanti volessero recarsi lì dove la montagna degrada verso il fiume Sangro e dove la storia parla ancora la lingua della violenza ma anche, e soprattutto, quella di una rinnovata e sempre più necessaria resistenza.

Lelio La Porta, docente nei licei, membro della International Gramsci Society, collaboratore di Critica marxista, saggista

[1] R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964, p. 145.

[2] P. Paoletti, L’eccidio dei Limmari di Pietransieri (Roccaraso): un’operazione di terrorismo. Analisi comparata delle fonti scritte italiane e straniere, Comune di Roccaraso, 1996; nel presente articolo si cita dalla stampa anastatica del 2003, p. 7.

Tratto da

Patria Indipendente

Nicola Simone – Mezzo quintale di patate

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Nicola Simone

Mezzo quintale di patate

Nicola Simone racconta prigionia, fame, cibo, torture a Samorin, Slovacchia il 29 aprile 1918

Catturato sulla Bainsizza durante la disfatta di Caporetto, Nicola Simone viene condotto al campo di concentramento di Somorja, l’attuale Šamorín in Slovacchia. I controlli sui prigionieri sono blandi e la fuga sembra possibile.

Il 29 aprile mi venne in mente di scappare anche dal campo a rischio d’essere sparato dalle sentinelle, presi per compagnia un giovane romano guardia di finanza per essere compagno di ventura ma questo mi portò poca fortuna, non era tanto esperto come volevo io, ma intanto ci spingemmo e si scappò via di sotto ai fili spinosi.
Di quei tempi uomini per poter lavorare le campagne non c’erano, facevano tutto le donne e qualche vecchio ed il resto si trovavano tutti in guerra, quando si vedeva un giovane come noi che eravamo prigionieri dissutili… Così ci capitò sottocchio un paesello disperso in quelle rupe ci fermammo per cominciare a guadagnare qualcosa da mettere sotto i denti. Infatti dopo poche case ci affacciammo a domandare da mangiare, oppure lavoro, si affacciò subito una signorina sulla ventina aveva i genitori ma erano vecchi decrepiti, faceva tutto lei in quanto ai lavori di campagna, così come ci vide si allegrò tanto che ci fece entrare nella sua abitazione, ci ospitò con tanta accoglienza con mangiare e fuoco da riscaldarci perché faceva ancora freddo; dopo che si finì di mangiare allora ci portò alla sua campagna per farci scavare le patate, noi cacciavamo le patate e lei se li trascinava a casa; in un batter d’occhio si sentì una diceria che erano arrivati i Gent’armi in quel villaggio; la signorina sparì e non si fece più vedere presso di noi; ci vedemmo disorientato in quel momento, non si lavorò più, anzi, quando più si faceva notte, i civili tutti venivano ad avvisarci: scappate viache sono arrivati i gent’armi, ma dove scappare? nelle campagne vicine? Non ci conviene allontanarci dopo aver lavorato tutto il giorno; lasciammo le vanghe e andammo alla casa della signorina, la cercammo in casa sua ma non c’era; stavano soltanto i due vecchi ma loro non sapevano dove era andata la figlia, ci sedemmo dietro la porta aspettando che si ritirasse: niente. Si seppe dagli altri che qualche agricoltore che li bisognasse aiuto di uomini si doveva fare domanda al governo per avere uno o due prigionieri, perché voleva sapere chi e quando ne avesse in consegna con Documenti; questo non c’era e (la Signorina) se la diede a nascondersi non sappiamo dove, così passammo il tempo dietro alla casa quando ad un tratto si vide arrivare un gent’armi di quello: scalzo, senza giacca, senza berretto, che sembrava uno scugnizzo, portava in mano una piccola bacchetta – quello fu mandato da persone che non vogliono farsi i fatti loro –, ci intimò di parlare russo, non sapevamo rispondere, ci parlò ungherese, peggio; il tedesco, niente, alla fine ci dichiarammo italiani e allora c’intimò di seguirlo assieme. Allora mi messi a rapporto dicendo: noi siamo stati a lavorare alla padrona di questa casa e ci spetta la paga. Ci rispose: "Bene, me la vedo io…", si prese il numero di casa e ci portò via in una casa privata che la dovevamo stare tre giorni; in questo frattempo dovevano andare esplorando e raccogliendo di tutti i prigionieri che potevano [tutti i fuggiaschi che erano scappati dal concentramento]. La sera, tanto fece la spia, fin quando la signorina tornò, allora il gendarme venne da me e mi portò da Lei che alla nostra presenza non poteva dire che non ci conosceva, così ci pagò tutto a patate e ci diede più di mezzo quintale da poter mangiare in questi tre giorni che dovevamo stare in quella casa.
In quel stesso giorno il mio compagno, cioè il finanziere, mi lasciò quel po’ di roba che possedeva volle tentare la fuga e male gli venne: se ne andò, ma nell’uscire dal paese fu visto da spie che avevano i gent’armi; questi riferirono subito a questi insegnando anche la strada che lui prese. Non fece in tempo a prendere la macchia del bosco vicino che fu preso. Non parlo di come lo consarono…

Salvatore Quasimodo – Giorno dopo giorno

Salvatore Quasimodo

Giorno dopo giorno

Giorno dopo giorno: parole maledette e il sangue
e l’oro. Vi riconosco, miei simili, mostri
della terra. Al vostro morso è caduta la pietà
e la croce gentile ci ha lasciati.
E piu’ non posso tornare nel mio eliso.
Alzeremo tombe in riva al mare, sui campi dilaniati,
ma non uno dei sarcofaghi che segnano gli eroi.
Con noi la morte ha più volte giocato:
s’udiva nell’aria un battere monotono di foglie
come nella brughiera se al vento di scirocco
la folaga palustre sale sulla nube.

Salvatore Quasimodo – Ancora dell’inferno

Salvatore Quasimodo

Ancora dell’inferno

Non ci direte una notte gridando
dai megafoni, una notte
di zagare, di nascite, d’amori
appena cominciati, che l’idrogeno
in nome del diritto brucia
la terra. Gli animali i boschi fondono
nell’Arca della distruzione, il fuoco
e’ un vischio sui crani dei cavalli,
negli occhi umani. Poi a noi morti
voi morti direte nuove tavole
della legge. Nell’antico linguaggio
altri segni, profili di pugnali.
Balbetterà qualcuno sulle scorie,
inventerà tutto ancora
o nulla nella sorte uniforme,
il mormorio delle correnti, il crepitare
della luce. Non la speranza
direte voi morti alla nostra morte
negli imbuti di fanghiglia bollente,
qui nell’inferno.

Quattro Giornate di Napoli – Luigi Mastrodonato

Napoli 27 Settembre 1943

Storia

Quattro Giornate, la storia dimenticata dei femminielli che fecero la Resistenza

Quando Napoli insorse contro i nazifascisti, il 27 settembre 1943, furono in prima linea e costruirono le barricate per fermare i rastrellamenti. Ora si cerca di ricostruire le storie di coraggio di una comunità che ha precorso le lotte LGBT

di Luigi Mastrodonato

27 settembre 2017

Quattro Giornate, la storia dimenticata dei femminielli che fecero la Resistenza

“Quando scoppiarono le insurrezioni, i femminielli scesero in strada sparando al fianco di noialtri. Si trattava di maschi omosessuali travestiti da donna, presenti a decine nel quartiere dove erano soliti riunirsi in un terreno nella zona di Piazza Carlo III”.

Antonio Amoretti è probabilmente l’ultimo partigiano ancora in vita ad aver combattuto durante le Quattro Giornate di Napoli. Quel lontano 27 settembre del 1943 scoppiò una delle insurrezioni più dure e gloriose della storia recente della città, che andò avanti per quattro lunghi giorni e portò alla liberazione di Napoli dai nazifascisti un giorno prima dell’arrivo degli Alleati. Il campo d’azione di Amoretti era proprio l’area di Piazza Carlo III, nel quartiere San Giovanniello, oggi un susseguirsi di maestosi ed eleganti palazzi dove spiccano bar, alberghi e negozietti. La strada è quella che dall’Aeroporto di Capodichino conduce al centro città, il che rende il quartiere un punto di transito per migliaia di pullmann, taxi e auto. Quello che oggi è un crocevia nevralgico nella viabilità cittadina nel 1943 è stato però un luogo simbolo per la sopravvivenza della Napoli come la conosciamo ora.

La rivolta fu l’ultimo capitolo di settimane di esasperazione per le esecuzioni, i saccheggi e i rastrellamenti portati avanti dagli occupanti nazisti. Una misura straordinaria del Prefetto intimava la chiamata al servizio di lavoro obbligatorio per tutti i maschi di età compresa fra i 18 e i 33 anni. Su 30mila napoletani rispondenti ai criteri stabiliti, si presentarono solo in 150 e le forze tedesche iniziarono i rastrellamenti per scovare gli ammutinati. Madri e mogli scesero in strada fronteggiando gli occupanti così da ostacolare i nazifascisti e proteggere i loro figli, mariti e amanti. Ci furono però altri protagonisti nelle barricate di alcuni rioni, San Giovanniello in particolare. I femminielli, figure tradizionali della cultura urbana napoletana e in qualche modo gli ‘antenati’ del futuro movimento LGBT.

Una definizione esaustiva di femminiello viene data nel 1983 da Pino Simonelli e Giorgio Carrano in Masques, Revue des Homosexualités. “I femminielli sono uomini che vivono e sentono da donna: abbigliati e truccati da donna. Spesso prostitute ma non necessariamente: ogni vicolo ha il suo femminiello accettato dalla comunità”. Definiti gli antenati dei transgender, i femminielli erano una comunità che non rispondeva alle logiche della moderna transessualità, che non faceva uso di ormoni e chirurgia estetica e non rivendicava particolari diritti politici e civili, e che possedeva un’identità di genere che si discostava dalle aspettative sociali dettate dal genere maschile.

“Ricordo molto bene questo gruppo di persone che si distinse al nostro fianco nella lotta per liberare Napoli dal nazifascismo” mi spiega Antonio Amoretti, oggi Presidente dell’Anpi di Napoli. L’associazione è da alcuni anni impegnata nel lavoro di ricostruzione storica del ruolo dei femminielli nei combattimenti di quei giorni.

Accanto a lei, l’Arcigay di Napoli, attraverso il Presidente Antonello Sannino: “Quando ci fu la barricata a San Giovanniello i femminielli erano in prima linea, secondo la logica che non avevano niente da perdere: non avevano figli, la famiglia li aveva ripudiati e la società li rispettava culturalmente ma comunque entro certi limiti” mi spiega. “Abituati a fronteggiare la polizia e il potere, i femminielli non si tirarono indietro davanti all’occupazione nazista”.

Il coraggio dei femminielli è ben rappresentato dalla storia di Vincenzo. Ai tempi quarantenne, vendeva sigarette, cibo e fazzoletti mentre la sera si prostituiva in strada. “Lo chiamavano Vincenzo ‘o femminiello ed era un vero e proprio boss del rione San Giovanniello, nel senso buono del termine” mi racconta Rosa Rubino, transessuale oggi ultrasettantenne molto amica di Vincenzo e cresciuta sotto la sua ala protettiva.

“Ci ha raccontato più volte della sua partecipazione alle Quattro Giornate, del suo contributo nell’ergere le barricate per non far entrare i tedeschi nel quartiere”. Rubino ricollega il protagonismo del suo amico nell’insurrezione al ruolo che Vincenzo aveva nel quartiere. “Era una presenza fissa in strada, un punto di riferimento e questo spiega perché durante un momento così forte come le Quattro Giornate fosse in prima linea nei combattimenti”. Vincenzo fu anche tra i protagonisti, 40 anni dopo, delle proteste rionali contro l’abusivismo edilizio post-terremoto dell’Irpinia.

Questa presenza costante dei femminielli nelle dinamiche storiche urbane napoletane li ha resi tra i protagonisti della realtà antropologica locale. A confermarlo è Paolo Valerio, professore di Psicologia Clinica all’Università Federico II di Napoli, Presidente‎ della Fondazione Genere Identità Cultura e studioso dei femminielli. “Il fatto che nella lingua napoletana sia stato inventato un termine, femminiello, che altrove non esiste è sintomatico dell’importanza di questa figura nella cultura urbana e nell’antropologia locale” mi spiega. “E’ un po’ il corrispettivo dei Ladyboys in Thailandia o dei Muxè del Messico. Napoli si è contraddistinta come una città che ha consentito a queste persone di potersi manifestare più liberamente e di ritagliarsi persino un ruolo sociale – curare anziani e bambini oltre alla più classica prostituzione”.

Durante le Quattro Giornate, la presenza di decine di femminielli nelle strade impegnati a combattere gli occupanti nazisti va ricondotta a diverse cause, tra cui la prostituzione. Molti femminielli intrattenevano relazioni clandestine con gli uomini dei rispettivi rioni, dunque il loro interventismo va letto in parte nella stessa accezione delle donne che scesero in piazza per ostacolare le deportazioni forzate dei loro mariti nei campi di lavoro tedeschi.

Il protagonismo dei femminielli viaggiava poi di pari passo con il mero spirito di sopravvivenza. “Rifiutati dalla famiglia, difendevano sè stessi e il loro terraneo” continua Sannino, che sottolinea come l’occupazione nazista della città, con i coprifuochi che ne derivavano, si scontrava con la quotidianità rionale dei femminielli, soffocandone abitudini e costumi e dunque l’esistenza stessa.

Il contributo in termini numerici che i femminielli diedero in quelle quattro giornate di insurrezione urbana fu modesto, ma non irrisorio. “Erano qualche decina quelli che hanno combattuto con noi nel quartiere” ricorda ancora Amoretti. “Certo, a riunirsi nel loro terraneo di fronte all’ex cinema Gloria erano molti di più, ma comunque c’era una buona rappresentanza della loro comunità a combattere al nostro fianco”.

Tutti questi elementi sono rimasti nascosti per lungo tempo. Il protagonismo dei femminielli nelle Quattro Giornate sta però emergendo oggi tanto attraverso i racconti orali delle persone più anziane, comprese quelle appartenenti alla comunità LGBT napoletana del dopoguerra, quanto attraverso le fonti scritte provenienti dai diversi archivi nazionali e locali – l’archivio dell’associazione nazionale partigiani e quello dell’istituto campano della resistenza in particolare. Gli esponenti della comunità femminiella napoletana di quei tempi sono peraltro tutti deceduti oggi, il che complica il lavoro di ricerca. “E’ rimasta solo una persona” mi spiega Sannino, “nel 1943 aveva una decina di anni, ma fino a ora è stato impossibile parlare con lui”. Andrea – nome di fantasia – crebbe nel rione San Giovanniello e fin da piccolo frequentò la comunità omosessuale divenendo poi lui stesso un femminiello. Oggi, ormai ultraottantenne, percepisce ancora quello stato di assedio frutto di decenni di discriminazioni e non vuole condividere i suoi ricordi sul ruolo che la sua comunità ebbe in quei quattro giorni di insurrezione popolare.

Il contributo dei femminielli alla liberazione della città non venne minimamente celebrato, nemmeno a guerra finita. Solo l’anno scorso l’ex assessora per le pari opportunità di Napoli, Simona Marino, ha citato tra i protagonisti della rivolta “donne, omosessuali e femminielli” – in una lettera inviata al Presidente della Repubblica per l’anniversario dell’insurrezione.

L’attivismo bellico dei femminielli contribuì comunque ad affermarli ancor di più come protagonisti antropologici di certi quartieri napoletani. “Dopo l’insurrezione i femminielli continuarono a essere presenti nel rione San Giovanniello, come e più di prima, con le loro cerimonie nel terraneo” mi racconta Amoretti. Con le loro usanze, i loro costumi e i loro punti d’incontro, il ruolo dei femminielli nella quotidianità rionale napoletana è rimasta forte fino agli anni ’70-’80. Poi le trasformazioni urbanistiche e sociali, le conseguenze micro-locali della globalizzazione e lo sviluppo di nuove forme espressive e culturali legate al mondo LGBT hanno messo in ombra un gruppo protagonista della realtà sociale napoletana. Questo non ha però intaccato l’eredità che i femminielli hanno lasciato alla città.

Oggi sono circa 3mila i transessuali che abitano a Napoli, e sebbene si ripetano episodi di transfobia e discriminazione, la predisposizione di servizi sociali ad hoc come consultori, punti di ascolto e case di accoglienza, così come l’attivismo politico di alcuni di loro, raccontano bene quella che è una città che ha imparato nel corso dei secoli a essere più open-minded. La rivolta contro i nazisti del 1943, con eterosessuali e femminielli che combatterono fianco a fianco, fu in effetti una delle principali lezioni di integrazione nella storia contemporanea italiana. Questo, peraltro, in un momento storico caratterizzato da confino, violenze e eccidi contro omosessuali e transessuali.

“Il fatto che oggi Napoli abbia una delle più ampie comunità transessuali d’Europa e sia una delle città più gay friendly d’Italia è soprattutto il frutto della storia dei femminielli” spiega orgoglioso Sannino. L’eredità femminella lasciata alla storia della città non si ferma però qui e il Presidente dell’Arcigay Napoli ci tiene a sottolinearlo: “Senza il contributo delle donne e dei femminielli, alcune zone di Napoli come le conosciamo oggi non ci sarebbero più” conclude. “Sarebbero state rase al suolo nel 1943”.

Tratto da

L’Espresso

27/9/2017

Dai monti di Sarzana

Patria Indipendente

 

Cantavano i partigiani

Chiara Ferrari

Breve rassegna (e breve storia) di alcune famose canzoni della Resistenza,

dei loro testi e dei luoghi dove sono nate

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Dai monti di Sarzana, canzone dei partigiani anarchici del Battaglione Gino Lucetti, attivo nel Carrarese e attorno a Sarzana. Il canto è stato riferito nel 1962 a Roberto Leydi da due partigiani di Carrara. Di Gino Lucetti si sa che fu l’anarchico che nel 1926 fece un attentato a Mussolini lanciandogli una bomba nei pressi di Porta Pia a Roma. Arrestato, venne condannato l’anno successivo dal Tribunale Speciale a 30 anni. Nel 1943, mandato al confino ad Ischia, morì sotto un bombardamento alleato

Per ascoltare

La Canzone

https://youtu.be/jpzxPLKcDv8

Da i monti di Sarzana

Momenti di dolore,

/giornate di passione,

/ti scrivo cara mamma,

/domani c’è l’azione

/e la brigata nera,

/noi la farem morire.

*

Dai monti di Sarzana

/un dì discenderemo

/all’erta partigiani/

del battaglion Lucetti.

*

Il battaglion Lucetti/

son libertari e nulla più/

coraggio e sempre avanti/

la morte e nulla più.

*

/Coraggio e sempre avanti

/la morte e nulla più.

*

Bombardano i cannoni/

dai monti sarzanesi/

all’erta partigiani

/del battaglion Lucetti

/più forte sarà il grido/

che salirà lassù/

*

fedeli a Pietro Gori

/noi scenderemo giù.

/Fedeli a Pietro Gori

/noi scenderemo giù.

A. Vannucci – I Martiri della Libertà

A. Vannucci

I Martiri della Libertà
I frutti della libertà, di cui ora godiamo,
furono coltivati sul nostro suolo con lunghi e mortali dolori.
Non vi è un paese straniero che non fosse pieno dei nostri esuli,
che non sedesse Italiani accorrenti a combattere per i diritti dei popoli
In Italia non vi è carcere non santificato
dei patimenti degli uomini più generosi;
non vi è palmo di terreno non bagnato dal sangue
dei martiri della libertà.
I nostri in ogni tempo protestarono morendo,
contro la tirannide che opprimeva la Patria
e spirarono fermamente convinti
che il loro sangue sarebbe stato fecondo
di libera vita ai futuri

Forza e tremore – Lucia Peruffo Campagnolo

Forza e tremore di Lucia Peruffo Campagnolo

Raccontare fatti di lotta partigiana? Ma è tutta una sequenza di fatti, un caleidoscopio: ogni giorno ci si alzava con la prospettiva di qualcosa di nuovo. Cresciuta da genitori antifascisti e sposata ad un antifascista, mi ero buttata anima e corpo tra le file partigiane che operavano a Vicenza. Credevo di non dover mai conoscere la paura; le raccomandazioni stesse di mio marito – pur essendo della mia stessa idea, era per temperamento più. calmo – non facevano che accrescere il mio coraggio. Ci fu un periodo in cui tenevamo in casa un partigiano che era rimasto per vent’anni prigioniero nell’isola di Ventotene. Era stato liberato e noi l’avevamo accolto con lo stesso entusiasmo col quale avremmo accolto un fratello. Da allora però cominciai a dubitare del mio coraggio, specialmente quando, nel silenzio delle lunghe notti invernali, sentivo rallentare o fermarsi una macchina. Nel contempo udivo lui rigirarsi nel letto, e mi prendeva un nodo alla gola pensando alle conseguenze che ne sarebbero derivate se avessero trovato in casa mia tale ricercato. Altre volte mi vidi perduta, come durante una perquisizione. Ma tutto andò sempre bene. Tuttavia l’episodio per il quale mi sentii sminuita ai miei stessi occhi, mi successe a Padova. Ero andata a trovare i miei fratelli Bruno e Giordano prigionieri della famigerata banda Carità a Palazzo Giusti. Entrata nel portone, mentre ero in attesa del permesso per il colloquio, ad un tratto vidi venirmi incontro uno della banda, lo stesso che a Vicenza, pochi giorni prima, mi aveva fermato nell’ufficio di Luigi Faccioi eludendo le sue domande, dopo aver, dato, false generalità, l’avevo preso in giro dicendo con aria dimessa, che mi trovavo li perché facevo del mercato nero. Rivedendolo, mi sentii subito tremare le gambe; cercai di abbassare il fazzoletto che avevo in testa fino agli occhi, abbassando lo sguardo a terra e ci riuscii tanto bene da non essere riconosciuta: Potei cosi ottenere il colloquio tanto desiderato con l miei fratelli. Fu allora che vidi una giovane, quasi una bambina, prigioniera anch’essa, a colloquio con sua madre. Questa giovane aveva una tale serenità e forza d’animo, come se essere rinchiusa in carcere fosse stata la cosa più normale di questo mondo. Io, donna di una certa età, mi sentivo piccola di fronte a questa ragazzina, e questa scena mi .infuse un novello vigore, una maggiore fiducia, cosicché tornai a lottare con maggiore impegno.

Dylan Thomas – Non andartene docile in quella buona notte

Dylan Thomas

Non andartene docile in quella buona notte
Non andartene docile in quella buona notte,

vecchiaia dovrebbe ardere e infierire
quando cade il giorno;
infuria, infuria contro il morire della luce.

Benchè i saggi infine conoscano che il buio è giusto,

poichè dalle parole loro non diramò alcun conforto,
non se ne vanno docili in quella buona notte.

I buoni che in preda all’ultima onda

splendide proclamarono le loro fioche imprese,
avrebbero potuto danzare in una verde baia,
e infuriano, infuriano contro il morire della luce.

I selvaggi, che il sole a volo presero e cantarono,

tardi apprendono come lo afflissero nella sua via,
non se ne vanno docili in quella buona notte.

Gli austeri, vicini a morte, con cieca vista scorgono

che i ciechi occhi quali meteore potrebbero brillare
ed esser gai; e infuriano
infuriano contro il morire della luce.

E te, padre mio, là sulla triste altura io prego,

maledicimi, feriscimi con le tue fiere lacrime,
non andartene docile in quella buona notte.
Infuria, infuria contro il morire della luce.

Giovan Battista Garattini – Torturati e uccisi dagli austriaci

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Giovan Battista Garattini

Torturati e uccisi dagli austriaci

Giovan Battista Garattini racconta prigionia, fame, freddo, cibo, pidocchi, morti, nemici, odio, torture a Marchtrenk, Austria il novembre 1917

Giovan Battista Garattini è prigioniero a Marchtrenk, in Austria. Dopo un primo periodo trascorso come attendente di un ufficiale nel campo di concentramento riservato ai graduati, viene trasferito in quello destinato alla truppa, nel quale le condizioni di vita risultano ancor peggiori. Garattini descrive le violenze e le privazioni che subiscono i soldati italiani. 

Ricoverati in luride baracche, parecchie delle quali sconnesse, tanto che dalle fessure vi entrava il gelido vento di quei  luoghi e la pioggia, su quella paglia polverizzata e completamente infettata da parassiti, parecchi infelici dai volti emaciati, con corpo scheletrito od enfio, colle stimmate proprie e terribili della fame, privi ormai di quella poca forza che sarebbe bastata loro per rizzarsi, stavano sdraiati coll’abbandono proprio dei morituri, volgendo attorno lo sguardo ebete, cogli occhi socchiusi ai quali la vita sembrava ormai mancare.
Di quei disgraziati, (ridotti in tali condizioni, dopo solo un mese di prigionia) ve n’era già una forte percentuale. Gli altri, quelli a cui ancora bastava la forza di camminare, la più parte cogli abiti a brandelli, colla mantellina e col cappotto bucati, o semplicemente con un pezzo di coperta sulle spalle, colle scarpe rotte, oppure privi di scarpe e coi piedi fasciati da cenci, luridi, intirizziti dal freddo, cogli occhi infossati, gironzolavano tra quei ricoveri, dai quali usciva un fetore insopportabile, dando l’impressione triste di scorgere in ognuno  di loro l’allegoria della miseria più squallida e della fame più terribile! Era, né più né meno, che una caterva di infelici condannati a languire e morire di stenti!
E quella scena sommamente triste, sotto un cielo plumbeo, fra il soffiare del vento che intirizziva, su di un terreno coperto di ghiaccio.
A quegli infelici, la fame, indubbiamente, aveva tolto il senno, e lo si poteva arguire dalle azioni inconsulte che commettevano. Era uno spettacolo straziante vedere uomini sui vent’anni , camminare curvi alla ricerca di erba e di radici, sulle quali si precipitavano per arrivare prima di un compagno vicino, estirparle e portarsele alla bocca, senza nemmeno curarsi di una sommaria lavatura, ed ingoiarle!
Questa lugubre scena si ripeteva ormai con tale frequenza, che, cosa indescrivibile  ma purtroppo vera, il Comando del Campo, per evitare che si rovinasse oltre il terreno, già tutto a buche e fossette, ordinò ai sorveglianti di impedire che continuasse?! E così  quei selvaggi colla soddisfazione di aver trovato un pretesto nuovo per sfogare liberamente il loro odio, giravano col nervo in mano in cerca di qualche prigioniero, intento ad estirpare  erbe per percuoterlo senza pietà e godere nel vederlo contorcersi!
In qualunque ora, poi, si potevano vedere dei prigionieri intenti a levare dalla cassa delle immondizie, posta fuori della cucina, le bucce delle rape e qualsiasi altro rifiuto che, dopo aver semplicemente strofinato sui pantaloni, masticavano con voluttà pazza. Alcuni, più arditi attendevano il carrello della spesa (che correva su binari a scartamento ridotto) in località adatta all’assalto, ed appena giungeva, carico di rape fradicie e di qualche kilogramma di patate annerite, il tutto in ragione di qualche decina di grammi per convivente, si lanciavano su di esso, non curandosi della scorta di austriaci, armati dell’indivisibile nervo, che menavano a destra e a sinistra come forsennati.
Questi nervi, della lunghezza di circa un metro, grossi all’impugnatura come un bastone comune e terminanti a punta, saranno per i reduci della prigionia, il simbolo e lo sprone dell’odio eterno contro i loro aguzzini, che senza ombra di umanità, usavano per un nonnulla, anzi a solo scopo di vendetta e per sfogare il loro odio selvaggio.
Vidi un sergente austriaco nel bagno del campo. Al quale era addetto, percuotere incredibilmente, dei disgraziati nudi e per quella canaglia, il contorcersi di quegli infelici, sotto quelle percosse, mentre avrebbe fatto sudar freddo per lo sdegno contro quell’aguzzino, ogni animo appena sensibile, era motivo di gioia. E’ incredibile, ma vero, il fatto che svegliandoci al mattino ci accadeva di trovarci vicino ad un cadavere, mentre a pochi passi, magari un altro agonizzante!
Quanti miseri al mattino si sollevavano dal giaciglio per chiedere visita medica, facendosi segnare sulla lista degli ammalati e morivano più lentamente, senza un lamento, quietamente come se si addormentassero, prima dell’ora di recarsi a subirla! E poi, a che giovava essere ricoverati all’ospedale, quando non esistevano medicine ed il vitto era uguale a quello che veniva distribuito in baracca?
Chi crederebbe che agli ammalati si dava da mangiare, come a noi, i rifiuti delle barbabietole Da zucchero, oppure rape a pezzi colle bucce ancora infangate e bollite semplicemente nell’acqua senza condimento e spesse volte senza neppure il sale? Chi crederebbe che gli ammalati stessi, recinto dell’ospedale gironzolavano in carca di radici d’erba? Chi crederebbe che i falegnami, addetti al campo, non facevano in tempo a costruire le casse da morto? Chi crederebbe che dalle baracche, tutte le mattine uscivano dei cadaveri? E chi mai potrebbe lontanamente immaginarsi il nostro stato d’animo, nell’assistere a tutte quelle scene, mentre si soffriva un languore impressionante allo stomaco, mentre si sentivano venir meno le forze e si prevedeva la nostra fine simile a quella, più o meno vicina, a colla sicurezza terribile compendiata nell’adagio implacabile: ”Oggi a me, domani a te!”? una notte, un infelice ridotto agli estremi, coi piedi congelati e ravvolti in cenci, dovendo necessariamente uscire dalla baracca, faceva sforzi inauditi per trascinarsi, ma fu costretto ad abbandonarsi al suolo a pochi passi dalla porta, rimanendo esausto nella neve, battendo i denti dal freddo intenso e gemendo continuamente con voce fioca. Ma i suoi lamenti non vennero uditi e chi li intese non vi fece caso, poiché in quelle tane, l’udire dei lamenti, non era cosa nuova , e poi, chi più, chi meno, erano tutti in condizioni pietose. Dopo qualche ora, due militari austriaci, piuttosto anziani, adibiti quali pompieri del concentramento e comandati quella notte, di vigilare nell’eventualità di incendi, ispezionando il campo, passarono davanti alla baracca e scorsero il disgraziato che, ormai assiderato, non aveva più nemmeno la forza di lamentarsi. In men che non si dica, i due bruti, dopo aver ingiunto bruscamente al poverino di alzarsi e ritornare in baracca, non ottenendo risposta si scagliarono su di lui malmenandolo e percuotendolo finché  trascendendo sempre più, imbestialiti come iene, finirono coll’ammazzarlo con un colpo di picconcino alla testa…!! Non aggiungo commenti, perché guasterebbero!….L’indomani venne inscenata dal Comando di Concentramento, una specie di inchiesta; gli assassini subirono una specie di interrogatorio… e tutto finì in breve, com’era da prevedersi…! Purtroppo è storia, e cito nomi di compagni che potranno testimoniare: Sergente di Artiglieria da Fortezza Perosa Guglielmo, da Latisana, caduto prigioniero sul Forte di Monte Festa – Caporale Varisco Andrea, del 35° Fanteria, da Milano (credo abiti in via Paolo Sarpi. Il numero non lo ricordo)- Sergenti dei Bersaglieri Fiordigiglio Vincenzo, da Roma-Sergente Manservigi Francesco del 35° Fanteria, da Bologna-;degli altri non rammento i nomi, ma tutti i prigionieri presenti al Concentramento in quell’epoca (credo sui primi di Febbraio)  si ricorderanno indubbiamente quel triste fatto.