Tarzan

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Tarzan

(12 aprile 1945)

Besate è un piccolo comune della provincia di Pavia. I duchi Visconti di Modrone in quella zona sono proprietari di tutto: terre, castelli, case e grandi riserve di caccia e pesca. Nelle grandi riserve dei duchi arrivavano ogni tanto gerarchi fascisti o membri della famiglia reale per le battute di caccia. Qui a Be­sate, in questo clima tradizionale di vassallaggio, nacque Serafino Puricelli il 17 dicembre 1924 da una famiglia di piccoli agricol­tori; il padre, Carlo, era un socialista che con l’avvento del fa­scismo si era del tutto disinteressato di politica e aveva avuto cura soprattutto della famiglia. Un giorno Serafino trovò in una scatola di bottoni un vecchio distintivo, socialista o comunista, e se lo mise all’occhiello prima di andare in piazza: se ne ac­corsero in tempo il padre e un suo amico farmacista, che gli tolsero il distintivo e gli diedero tanti solenni scapaccioni da fargli passare la voglia di riprovarci. Serafino da ragazzo amava la natura e passava gran parte del suo tempo nei boschi: per questo, e per la sua taglia atletica, lo soprannominarono Tarzan.

Il 25 luglio 1943, quando cadde il fascismo e i lavoratori assaltarono il palazzo dei Visconti di Modrone, dove aveva sede il fascio, Serafino, che allora era un militare in congedo, guidò l’assalto al palazzo e costrinse il fiduciario Foreste ad arrendersi. Finiti i cinque giorni di licenza, Serafino tornò al reggimento, a Cesena, e qui visse quel periodo di incertezza che si concluse il giorno 8 settembre. Il 9 settembre Serafino cercò di tornare a casa.

A Forlimpopoli si rifocillò in una casa, dove poi lo aiutarono ad andare a prendere il treno. Salí su un treno carico di soldati in fuga; nelle stazioni e lungo i binari imperava un’animazione frenetica. Quando il treno, carico di soldati perfino sui tetti dei vagoni, arrivò a Reggio Emilia, trovò i tedeschi che, con le mi­tragliatrici puntate, internarono gli uomini nella caserma del 27° artiglieria. Pochi giorni dopo gli italiani vennero deportati in Germania con un treno lunghissimo nel quale si alternavano vagoni per viaggiatori e vagoni adibiti al trasporto del carbone, entrambi carichi di soldati sbandati.

Fra i giovani deportati i piú non erano rassegnati a lasciare l’Italia e cominciarono a maturare progetti di fuga, magari gettandosi dal treno in corsa. Ma se per quei giovani quel genere di viaggio costituiva un’espe­rienza senza precedenti, ben piú esperti erano gli ac­compagnatori. Il treno era comandato dai tedeschi, ma ogni due vagoni c’erano, per la vigilanza, gruppetti di fascisti. Ogni volta che qualcuno si gettava dal treno per fuggire, i fascisti gli sparavano addosso, coi moschet­ti o coi mitra.

Il convoglio attraversò la frontiera. Ogni tanto si ripeteva la scena: gruppetti di due o tre si gettavano dal treno e sempre i fascisti sparavano al volo. Era un’impresa disperata, eppure molti ci provarono. Deci­ne e decine di ragazzi furono impiombati dalle raffiche di mitra.

Anche Serafino fu preso da questa tentazione quan­do attraversò il Piave. Era un abile nuotatore e voleva gettarsi in acqua, ma quando fu sul punto di lanciar­si un suo compaesano, piú anziano di lui, del 1912, lo trattenne e gli impedí di compiere il disperato gesto. Durante il viaggio le privazioni e i disagi furono infiniti: sete, fame, disturbi intestinali. In Austria Serafino ven­dette gli scarponi in cambio di un filone di pane. Rimase con un paio di scarpe da tennis che gli dette un com­pagno, e il pane fu diviso fra tutti.

"Dopo un estenuante viaggio," racconta Serafino Pu­ricelli, "arrivammo a destinazione e fummo internati nel lager di Meppen. Ci dettero una brodaglia di foglie di tiglio e un po’ di farina. Eravamo tanti, quasi tutti italiani. I giorni trascorrevano lentamente, consumati in un duro lavoro protratto fino al limite della resistenza, a cui corrispondeva un’alimentazione che appena ci permetteva di stare in piedi.

"Un giorno al campo arrivarono dei gerarchi fascisti: volcvano indurci ad arruolarci per combattere in Italia, nel Monterosa, a fianco della Germania.

" Un gerarca di Novara, coi pantaloni bianchi ben stirati e la camicia nera, montò su di un baldacchino e incominciò la concione. Promise benessere e onori. Qualcuno accettò, forse per tornare a casa. Quelli che accettavano erano subito rifocillati e vestiti a nuovo, e li fa­cevano girare intorno ai reticolati del campo per convin­cere gli altri. Ogni giorno qualcuno aderiva.

"Io resistei alla tentazione, ma poi fui attratto da quell’invito, perché volevo uscire dal campo. Pensavo che poi in Italia avrei potuto fuggire, ma nel momento decisivo le parole di un compagno mi scossero. ‘Cosa penserà tuo padre, vedendoti tornare vestito da fascista? Forse preferirebbe saperti pezzente con le scarpe da ten­nis, oppure morto, piuttosto che vederti coi nazisti,’ mi disse.

"Questo richiamo bastò per indurmi a respingere l’in­vito.

"Passato un certo tempo vi fu un altro trasferimento. Dopo giorni di faticoso viaggio, fummo internati a Le­verkusen, nella fabbrica Bayer. Era la famosa fabbrica di prodotti chimici e medicinali, dove si producevano anche materie per armi tossiche. Circa trentamila si diceva fossero gli internati, tutti prigionieri deportati (in maggioranza serbi, russi, polacchi, francesi). Italiani eravamo quasi tremila. Eravamo divisi in baracche di legno. Il grosso complesso era oggetto di frequenti bom­bardamenti americani e quindi la nostra vita era dop­piamente in pericolo; la fame e le sofferenze e le bombe.

"Ricordo, fra i tanti, uno dei compagni di prigionia, Repetto, un giovane alpino ligure che aveva sempre con sé una corona di rosario. Una volta Repetto, preso dalla fame, mangiò un pezzo di carne marcia, forse un rifiuto della mensa dei tedeschi. In poco tempo divenne tutto gonfio. A toccarla la sua carne si abbassava come una pasta lievitata. Tentai di portarlo in infermeria, ma i tedeschi non vollero. Piú tardi fu fatto l’appello, ma Repetto non rispondeva. Andai a cercarlo e lo tro­vai al gabinetto, con la testa infilata nell’orinatoio, morto.

" Dal lager di Leverkusen passammo a quello di Shebus, a Colonia, il lager N. 1384, dove produceva­no dinamite e altre materie esplosive.

"Il traffico dei treni merci era intenso e ci rendemmo conto che i vagoni venivano anche dall’Italia. Qualcuno ingegnosamente in Italia aveva capito che i treni ar­rivavano in Germania e, chissà per quale via, inviava pagnotte di pane che giungevano fino a noi. Gli italiani che le spedivano le confezionavano introducendovi, prima della cottura, tubetti di formítrol entro i quali vi erano biglietti con notizie sull’andamento della guerra in Europa e in Italia. Nel mio campo, ad esempio, su cinquecento prigionieri, soltanto quattro o cinque rice­vevano questa roba. Quello che piú ne riceveva mi pare fosse Foroni, un emiliano. Da lui, ricordo, attraverso questi biglietti apprendemmo che gli americani erano in Calabria e poi a Cassino, nel 1944.

"Ma la vigilanza e la repressione erano spietate. Una volta mentre il prigioniero Marcucci, attraverso il reti­colato, scambiava una manciata di fave con delle costole di tabacco con un russo, i tedeschi gli spararono. Il proiettile, probabilmente di un’arma speciale, trapassò la spalla a Marcucci, forò una tavoletta di legno e si conficcò nella testa del russo, Nicola] Malnikov.

"Il caporale tedesco di servizio mi obbligò a firmare un rapporto nel quale si sosteneva che il russo era de­ceduto per morte naturale.

"Da Shebus fummo ancora trasferiti. Mentre marcia­vamo incolonnati, a piedi, per portarci a Wuppertal, per 95 chilometri, molti cadevano: i deboli e i malati non ce la facevano. Durante il tragitto fummo oggetto anche di un mitragliamento a bassa quota.

"Un apparecchio piombò su di noi e dopo avere sparato una raffica si alzò e non fece piú fuoco. Avemmo l’impressione che il pilota si fosse reso conto che eravano civili. Purtroppo, però, quella raffica fu fatale per Voroni, che fu preso in pieno.

"Presi dal panico c’infilammo tutti nella fabbrica, pigiati fitti fitti, insieme ai russi. Era stata ferita anche una donna russa, rimasta abbandonata. Andai a pren­derla e per trasportarla la presi in braccio: era come uno scheletro, leggera leggera. La medicammo con i re­sti di un pacchetto sanitario che qualcuno conservava ancora dall’Italia.

"Durante queste vicende, pur partecipando alla vita e ai problemi dei miei compagni, mai mi rassegnai alla prigionia. Pensavo sempre alla fuga. Una volta scap­pai e rimasi latitante per quasi sei mesi. Fu una vita terribile. Cercavo la strada per tornare a casa, ma era difficile orientarsi in un paese cosí lontano, senza cono­scere la lingua, braccato continuamente. Facevo una vita terribile. Durante il giorno stavo rintanato come un selvaggio, come una bestia; la notte sembravo un gufo: uscivo per cercare cibo. Fui ripreso e sottoposto alla tortura. I tedeschi furono feroci. Le loro facce non avevano nulla di umano. Erano stanchi, rabbiosi, tor­vi. Fui ricondotto nel lager e mi rassegnai ad attende­re la fine della guerra.

"La nostra speranza era la liberazione da parte degli americani. Tutti i giorni c’erano bombardamenti e il fronte era vicino, sul Reno.

"Durante un altro bombardamento si era creata una confusione indescrivibile. Anche i tedeschi erano pre­si dalla paura. Tutti si buttarono a terra. Capii che quella era un’altra occasione per fuggire e non seppi re­sistere alla tentazione. Con tutto il fiato che avevo, certamente non tanto, mi misi a correre. Mi accorsi che altri prigionieri mi avevano seguito. Erano con me l’in­gegner Villani di Taranto, il mio amico Stazzi, Conso­lini di Napoli, e due donne russe, deportate civili che lavoravano nella stessa fabbrica.

"Non era facile sottrarsi alla vigilanza. È vero che negli ultimi tempi molti tedeschi presentivano la fine del loro dominio e del regime nazista, ma tutto intorno a noi ci sembrava ostile. Strisciavamo spaventati ade­rendo al terreno, appostandoci nelle anfrattuosità e fra i ruderi. Ci rifugiammo in uno scantinato per passare la notte e tentare di portarci fino alla riva del Reno, con la speranza di riuscire ad attraversare il fiume, a nuoto, poiché dall’altra parte c’erano gli americani. Ma i continui bombardamenti c’impedivano di muoverci. Tutto era rovina, terra bruciata. Era un inferno. Nel corso di due notti riuscimmo a percorrere un paio di chi­lometri, verso il fiume. Trovammo una casa abbando­nata e ci venne la speranza di trovare del cibo. Una bomba ci cadde quasi addosso facendo crollare parte del muro che restava in piedi. Scendemmo nella canti­na ove c’erano già delle tedesche. Quelle donne si spa­ventarono alla nostra vista e ci gridarono di andar via subito.

"Io cercai di spiegar loro che eravamo soldati italia­ni, che non volevamo far loro nessun male. Aggiunsi che ci saremmo allontanati subito se ci avessero detto dove potevamo trovare una barca per attraversare il fiume.

"Si fece avanti una donna anziana e ci fece capire che a duecento metri c’era una villetta abbandonata, sul fiu­me e lí c’era una barca. Evidentemente pratica del luo­go, ci diede indicazioni precise sul posto ove si doveva trovare la barca.

"Appena i bombardamenti diradarono ci precipitam­mo verso il luogo indicato. Era proprio vero: c’era la villetta, con annesso un giardino. Mentre tutti gli altri restarono nascosti io e Stazzi andammo avanti per cercare la barca, che era occultata, come la donna ci aveva fatto capire. Mi precipitai su di essa e incomin­ciai a rimuovere il telo che la copriva e a slegarla. In pochi minuti avremmo attraversato, finalmente, il Reno.

"’Mani in alto,’ sentii gridare alle mie spalle.

"Le nostre speranze finirono lí.

"Nella villetta, ho capito dopo, c’era l’unico comando delle SS di tutta la zona. E la donna che ci aveva mandati lí lo sapeva.

"Ci catturarono tutti e ci portarono indietro per oltre una decina di chilometri al comando principale delle SS. Interrogatori stringenti, minacce e botte si alter­navano. Di quei nazisti ricordo nitidamente il coman­dante, un fanatico allucinante. Aveva al petto la decora­zione della campagna di Russia, che conoscevo bene. Era un grande ovale di metallo argento-ferro, con tutto intorno la scritta della campagna. Il comandante era mutilato; gli mancava una gamba e quella buona la teneva distesa su una sedia.

"Cercai di giuocare d’astuzia. Dissi che volevo ritornare a casa per combattere insieme coi miei fratelli, tut­ti fascisti. Ma i tedeschi non mi credettero.

"Alla sera venne un prete tedesco, un giovane bion­do, e ci disse che saremmo stati fucilati. Le parole le pronunciò con semplicità, come per compiere un atto burocratico.

"Rimanemmo chiusi in una stanza, al buio, per al­cune ore della sera. Nell’animo di ciascuno di noi si agitavano sentimenti e pensieri convulsi. Eppure ci chiudemmo tutti in un mutismo quasi assoluto. Mi sembrava assurdo dover morire. Non avevamo fatto nulla di male, non avevamo ucciso nessuno. ‘Dunque — meditai— questa è la conclusione, questo è il fa­scismo.’

"Ripensai agli anni trascorsi a Besate, ai fascistelli locali, al fiduciario, ai duchi di Modrone, all’olio di ri­cino, al circolo incendiato e alle bastonature date da quelli che dicevano di difendere la patria, l’ordine, l’o­nore, contro quelli, come mio padre, che volevano il socialismo, il riscatto dei braccianti e degli operai, e che per questo erano accusati di sovversivismo. Pensai anche agli antifascisti, e soprattutto a quelli che troppo presto si erano arresi alle violenze, alle spedi­zioni punitive dei fascisti; pensai ai bempensanti che credettero di risolvere ogni problema affidandosi alle promesse e agli slogan dei fascisti.

"Pensai anche a mio padre e a quelli come lui che pur credendo nella giustizia, pur essendo ostili al fa­scismo, a un certo punto accettarono una realtà brutale, scelsero di adagiarsi nel quieto vivere, nel pacifismo e nell’attesismo; si illusero di chiudere il mondo nell’am­bito della famiglia, rinunciarono perfino ad educare i propri figli lasciando il campo libero ai fascisti; capii anche che gli scapaccioni che il farmacista e mio padre mi dettero per essermi messo il distintivo erano sí do­vuti al desiderio di dissuadermi da gesti pericolosi, ma implicavano anche la rinuncia a tener desta la resi­stenza al fascismo.

"Ora noi eravamo in quella stanza, senza scampo, in attesa di essere protagonisti passivi di uno degli ul­timi sussulti dell’alleanza nazifascista, dell’alleanza dei Modrone e dei capitalisti con la monarchia e il fa­scismo.

"Verso le 11 o le 12 di notte vengono a prenderci. È una dolce serata di aprile. I numerosi tigli intorno ema­nano un profumo inebriante che evoca in me quello delle camere ardenti. La luna è splendente in un cielo nero. Ci legano le mani dietro la schiena e ci bendano gli occhi. Penso con amarezza che il 12 aprile 1945 è il giorno della mia morte.

"Ci portano fuori e ci legano a dei tigli.

"Tutto è pronto per l’esecuzione. Sento i comandi, sento il rumore del caricamento delle armi. Eppure ancora penso che è impossibile che ci ammazzino, tan­to mi sembra ingiusta e assurda la pena.

"Calcolo che siano una decina i soldati. Sento il co­mando. Un movimento di braccia contemporaneo mi fa capire che i soldati spianano i fucili.

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Fuoco.

"Spari e grida si mescolano. Mi sento colpito in va­rie parti del corpo e cado di botto. Dove ed in quante parti sono colpito non mi rendo conto. Sento bruciare, sento scorrere il sangue. Non vedo, ma mi sento a con­tatto con altri corpi umani, esanimi.

"Malgrado i dolori non perdo la coscienza. Una di­sperata volontà di vivere mi sorregge ancora e mi dà la forza di sopportare il dolore senza lamentarmi. Penso di non essere colpito in parti vitali. Capisco però cosa sta per succedere: i tedeschi ci daranno il colpo di grazia. Fingo tuttavia di essere morto.

"Sono riverso e, poiché mi trovo in una parte del terreno leggermente piú basso, il sangue dei miei com­pagni mi scorre dietro la schiena e mi inzuppa vestiti e carne.

"Ecco. I tedeschi parlottano fra loro e sento che uno si fa avanti. Qualche sparo vicino, quasi a brucia­pelo, per il colpo di grazia ai miei compagni. Ora tocca a me, penso. Sento sopra di me un movimento, ma non vedo, perché sono bendato. Un terribile violento colpo m’investe la faccia. Col calcio del fucile un te­desco tenta di spaccarmi la testa; mi fracassa il naso, la fronte, le labbra e tutti i denti. Sono stordito, una confusione totale mi avvolge, ma non emetto un cenno di dolore, non mi muovo.

"In poco tempo la faccia mi si gonfia mostruosa­mente. Dalle gengive per lo scardinamento dei denti mi esce copioso il sangue e mi cola nel collo. Il dolore è atroce, ma non mi abbandona la volontà di vivere. Per questo resisto senza fare il minimo gesto che possa indicare che sono vivo. I tedeschi si allontanano e intorno c’è un silenzio assoluto.

"Trascorrono alcuni minuti e sento di nuovo gente. `Poveri ragazzi che fine orribile hanno fatto,’ sen­to dire vicino.

‘Mi faccio coraggio, pensando che siano prigionieri italiani.

"’Sono italiano; sono vivo, slegatemi,’ dico.

"Una persona, come un’ombra, mi slega e mi toglie la benda. Non so chi sia.

"Cerco di alzarmi, ma non ce la faccio. Striscio sul terreno per allontanarmi dal luogo. Mi tengo chiuse le ferite con le mani. Brucio dalla sete. Vedo una pozza d’acqua tremolare al chiarore della luna e bevo. Non so se è acqua, ma bevo e mi bagno la faccia. Striscian­do faticosamente nella notte, all’alba mi trovo su un ciglio della strada asfaltata."

Serafino Puricelli non aveva perduto del tutto i sensi, ma era esausto e stordito. Lo raccolsero due pri­gionieri italiani e lo condussero ad un ospedale tede­sco dicendo che era stato ferito dai bombardamenti ame­ricani. Difatti nella notte gli americani avevano scate­nato un bombardamento infernale.

Era la fine.

Nell’ospedale Serafino fu considerato spacciato. Il professore non voleva operarlo. S’intromise una pro­fessoressa e sostenne che era loro dovere tentare. Lo portarono in sala operatoria e lo sottoposero all’ane­stesia.

Si svegliò la mattina dopo. Accanto al suo letto c’era un soldato, americano.

I soldati degli eserciti alleati erano avanzati ed ave­vano occupato tutta la zona di Colonia.

Dopo ventotto giorni di cure Serafino Puricelli esce dall’ospedale. Non si sente in forze, ma un incon­tenibile desiderio di vendetta lo sostiene. Si procura una rivoltella da un tedesco, in cambio di caffè e zucchero avuto dagli americani, e si dirige verso il luogo della fucilazione. Vuol ritrovare la donna che li ha ingannati. Serafino arriva sul posto e riconosce il luogo, l’abitazione dove si erano rifugiati durante il bombar­damento. Ma di quella casa non c’è piú niente. I bom­bardamenti avevano raso tutto al suolo. Serafino resta qualche minuto silenzioso e meditabondo.

Il 12 aprile, lo stesso giorno della fucilazione di Sera­fino Puricelli, muore il presidente degli Stati Uniti Roo­sevelt e gli eserciti alleati si congiungono nel cuore del‑

la germania. Dopo la garnde offensiva sovietica e la conquista di Berlino, il 2 Maggio le truppe tedesche si arrendono all’Armata Rossa. L’8 maggio la Germania nazista si arrende ed è la fine della guerra in Europa.

In Italia e nel mondo nasce una grande speranza

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