Ricordi di un combattente Jugoslavo

Il ricordo di un combattente jugoslavo

L’avvocato Erih Kos, che era stato il Commissario politico della III Brigata della Divisione «Garibaldi» quando dal Montenegro fu trasferita, come la II, in Bosnia, nel 1958 pubblicò un romanzo intitolato Il tifo (ed. Matica srpska, Novi Sad), nel quale racconta le vicende da lui vissute durante la guerra combattuta insieme agli italiani della «Garibaldi» per la liberazione della Jugoslavia dall’occupante tedesco.

Non conoscendo questo lavoro nella sua interezza, non sappiamo se sia esatta la classificazione di romanzo. Il titolo in italiano è originale su un testo in lingua serbo-croata. Già di per sé ha un suo significato perché si riferisce direttamente agli italiani che ne subirono particolarmente la virulenza in zone dove il tifo esantematico era endemico. E perché esso fu davvero un terribile nemico che non solo procurò la morte a tanti combattenti, ma influì molto negativamente sulle possibilità operative dei reparti della «Garibaldi», oltretutto in condizioni logistiche gravemente carenti e spesso disastrose.

I brani che seguono sono tratti da un lavoro di Uros Golubovic, che fu Intendente capo della Divisione «Garibaldi» e ad essa dedicato, nel quale egli volle inserire proprio questi brani quale testimonianza diretta. Essi non sono una descrizione precisa e storica di una marcia notturna e di una sosta di un reparto combattente dopo una marcia faticosa, dopo un combattimento o dopo una successione di combattimenti e di fatiche. È come una rivisitazione in sogno, un raccontare episodi di guerra con la memoria non tanto visiva quanto sensitiva, una memoria delle sensazioni incise inconsapevolmente nel profondo e riaffiorate dopo qualche tempo; e proprio per questo esprime una verità «più vera». Quando la fatica fisica e psicologica è al limite, quando proprio non se ne può più e i freni inibitori sono ormai spezzati, la realtà assume aspetti irreali, ma non per questo non veri.

Con questo tono da racconto in stile letterario e poetico, Erih Kos ci fa penetrare e capire quanto grandi siano stati i sacrifici e quale sia statala verità più profonda, appunto oltre la realtà apparente.

Il cielo era più oscuro della terra che non si vedeva sotto ì piedi. Né le stelle, né la luce della luna sul vuoto cavo cielo. Non c’erano né cielo, né terra. Sotto il peso dei propri corpi ci muoviamo nello spazio oscuro e soltanto la nostra fatica, l’odore dell’umidità e l’alito della terra che il vento ghiacciato ci sbatte sul viso, dimostra che ancora ci camminiamo sopra. Temevo che avessimo sbagliato di nuovo. Sarà possibile arrivare da qualche parte in una notte così buia, ventosa e gelida? In questo buio nel quale non esiste sopra e sotto, nè sinistra nè destra, nel quale non si sa cosa c’è avanti e cosa dietro, dove il nord e dove il sud. Mi sembrava che tutto l’essere o il non essere, tutto il male di questa guerra si fosse depositato ed accumulato, in questa notte e che se a sera non fossimo arrivati al posto giusto, sarebbe stata la dispersione e la fine. (pag. 92)

Si accendevano i fuochi, uno dopo l’altro, come le stelle nella notte in un cielo sereno. Sempre più numerose e in un cerchio più grande. Si abbattevano e si trascinavano i recinti; i recinti pesanti del campo. Bruciavano i ceppi e i tronchi, i rami accatastati e gli alberi abbattuti. Come i tagliaboschi, quando abbattono un bosco, bruciavamo piccoli abeti isolati che bruciavano eretti, come grandi candele. Nel buio della notte sembrava come se con cento fiamme bruciasse un villaggio con le case, capanne e stalle.

Tutto il cielo è rosso: la neve intorno, i vestiti e le guance degli uomini che si muovevano tra i fuochi come se vi si stessero cuocendo. Tutta la valle è una ferita incandescente, e la neve alta intorno ai fuochi si scioglie, si deposita, e gli uomini e i fuochi affondano piano sulla terra.

Non si capiva dov’era il tal battaglione, né dov’era la tale compagnia. Ognuno era seduto dove poteva o dove si sentiva comodo, con quelli con i quali si era trovato ad alimentare

fuoco. Gli ufficiali con i soldati, i feriti, gli ammalati e ì conducenti dei quadrupedi con le loro bacchette. Anche quei pochi cavallini e muli rimasti nella Brigata.

Non c’erano sentinelle. Nessuno si preoccupava della sicurezza. A nessuno neanche passava per la mente. Sembrava come quella notte tutto il mondo maledetto dall’altra parte del nostro cerchio di fuoco fosse immerso nella oscurità notturna, affondato nel mare del buio. Non c’erano più le regole e gli obblighi, l’ordine e l’ordinamento. Non c’era oggi e stasera, né domani e domani mattina. Non c’era la guerra né il nemico, neanche il freddo e la fame. Esisteva soltanto il nostro cerchio infernale nel quale non penetrava niente e fuori del quale non si vedeva niente. Tutta la valle ribolliva e tutti noi ci cucinavamo e bollivamo nella sua marmitta di fuoco. Erano accesi i falò come i fuochi delle streghe in cima al colle nella calda notte di giugno, come nel campo degli zingari e nelle loro riunioni, come per le giostre, le fiere e per le feste religiose, nella notte densa come olio. Crepitavano gli abeti come i fucili, uggiolavano e ululavano le legna umide nel fuoco come gli zufoli degli zingari.

Chi aveva qualcosa da mangiare preparava la cena. Furono aperte le borse e ne fu scrollato fuori tutto il cibo conservato per i giorni peggiori, e di nascosto anche dagli amici migliori. Si friggeva il granturco e il grano nella casseruola, si cucinavano le briciole trovate nelle tasche con la neve e gli aghi di pino, sulle canne dei fucili sfrigolavano pezzi della carne di cavallo, nella cenere calda c’erano pezzetti di patate. Si fumavano le ultime briciole di tabacco e le sigarétte fatte con le foglie di granturco. Nel centro del nostro accampamento, sopra due grandi fuochi in due grandi spiedi, tagliati dai pali del recinto si cucinavano e giravano due mule nere, ancora pèlose e non spellate, soltanto bruciacchiate, con le gambe posteriori stese e le gambe anteriori piegate, con il collo sporgente in avanti, con le bocche spalancate in avanti e i denti nudi, come se stessero per fare un selvaggio, magnifico salto come le mule non hanno mai fatto nelle loro vita e non possono fare.

Era gradevole. Piacevolmente soporifera, tranquilla, sicura e calda quella notte. Non si doveva scattare ed ascoltare se le sentinelle dormivano oppure sparavano, non si doveva pensare alla faticosa marcia dì domani, al difficile combattimento nel quale qualcuno morirà. Come se la guerra, i combattimenti, il freddo, la fame e le malattie non ci fossero più. Come se si fosse a bordo dì una nave che piano naviga sulle acque nostralì; come se si fosse a casa e con un bastone si attizzasse il fuoco del proprio focolare. I fuochi diventavano più grandi. Rumoreggiavano gli abeti e nell’aria volavano come stelle sciami di scintille. Qualcuno cominciò a cantare, per conto suo, senza un ordine, una canzone non militare. Gli altri lo seguivano. Lorenzo Rossi del terzo battaglione mise la carta sopra un pettine, suonando come con l’armonica. Gli altri battevano sulle gavette e con le mani (pagg. 198/190).

Partigiani Jugoslavi

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