Archivio mensile:luglio 2018

Giulio Stocchi–Tutto à perduto fuor che l’onore

Tutto è perduto fuorché l’onore

gridò re Francesco ritto

in mezzo ai cadaveri dei soldati

morti per il suo onore

Ad essi non restò che la pietà dei corvi

che neppure oggi viene negata

ai morti delle guerre

in cui tutto si guadagna fuorché l’ono

Giulio Stocchi – Sei musulmano?

Giulio Stocchi

Sei musulmano?

e senza attendere la risposta dell’albanese

che lavora a giornata nei boschi sui monti

continua: Non importa

per me può essere una matita

per te un portacenere per lui un accendino

Non importa il nome di Dio

Certo qualcosa c’è…

Ma la religione per me vuol dire

non farti del male

anche perché il male ti si è già attaccato addosso

che ti tocca lavorare

Poi tace cava un pacchetto gualcito

e gli offre una sigaretta

 

Giulio Stocchi – La semina del raccolto

Giulio Stocchi

La semina del raccolto

Coloro che furono

vivi

che amarono

che sognarono

che dubitarono

a braccia larghe

giacciono

sulla terra

con gli occhi

fissi al cielo

La voce che grida

pace

si perde nel silenzio

e solo le risponde

un vento

Sulle macerie

delle città di coloro

che furono

vivi

che sognarono

che amarono

che dubitarono

traccia i suoi enigmi

il fumo

E si leggono

nella semina

gli indizi

del raccolto

Mariano Rossi – Disposti a dare tutto

Disposti a dare tutto di Mariano Rossi

Eravamo nel lontano ottobre 1944 ed ormai i partigiani avevano perso la speranza che gli alleati riuscissero a sfondare la linea gotica prima dell’inverno. Le nostre previsioni erano state deluse in tutti i sensi, in quanto, se il freddo, i lanci più diradati, l’assottigliarsi di molte formazioni, potevano influire sul movimento della Resistenza, d’altro canto i nazifascisti, ben al corrente di questa situazione, cominciavano ad uscire con una certa baldanza dalle loro munite tane per commettere indiscriminati arresti (oggi si chiamerebbero «sequestri di persone », effettuati da gente che si autonominava «capo» o «capitano» o « maggiore » – tipo Carità – arruolando avanzi di galera o ragazzi di 14-15 anni, cui tutto era lecito), perquisizioni arbitrarie, furti, maltrattamenti e tutte quelle soperchierie che rasentavano la follia. Fu necessario allora nutrire sospetto su tutti, e quindi necessariamente controllare qualsiasi movimento avversario. In quel periodo la fortuna venne un po’ dalla nostra parte, dandoci la possibilità di entrare nella compagnia dei telefoni, la Telve, sotto le spoglie di telefonisti. Con questo mezzo il nostro servizio di informazioni raggiunse l’acme in quanto, se tutte le telefonate dei cittadini erano sotto il controllo della Questura, noi a nostra volta controllavamo tutte quelle della Questura, della Prefettura, delle Brigate nere, delle SS italiane e tedesche, e delle varie bande fasciste. Fu appunto sotto questa assidua sorveglianza che riuscimmo a captare le insistenti telefonate da Bergantino di un certo «maggiore Carità» al comandante delle Brigate nere di Vicenza, perché venisse trovato un alloggio (possibilmente. una villa) alla periferia della città,

Da queste telefonate venimmo a conoscenza di molti particolari. Erano con Carità (ex radiotecnico), il capitano Bacoccoli (ex impiegato di banca), il tenente Usai (ex guardia di finanza), il tenente Squilloni (ex detenuto per reati comuni), il tenente Castaldelli (cappellano spretato) e una banda raccogliticcia con molti ex detenuti e ragazzi giovanissimi. Il maggiore Carità asseriva di essere riuscito a «ritirarsi» da Firenze (non a fuggire, perché in questo caso avrebbero passato per le armi lui e tutta la sua gang). Ascoltammo tanti altri particolari raccapriccianti (forse più. o meno veritieri) da far accapponare la pelle. Il dialogo telefonico si svolgeva in genere tra Carità ed il comandante delle Brigate nere di Vicenza o qualche suo fedelissimo. Quando finalmente si riuscì a sapere che l’alloggio era stato trovato (Villa Piccoli a Bertesina) e che era stato fissato il giorno per lo spostamento della banda, ci si mise subito in contatto con Fraccon e con l’ingegner Prandina affinché con la trasmittente di quest’ultimo gli alleati venissero avvisati di prendere i provvedimenti aerei adeguati. A nulla valsero le nostre preghiere e le nostre insistenze: l’ingegner Prandina sosteneva che la notizia poteva non essere sicura, che potevamo aver capito male, che avvisare del fatto gli alleati voleva dire radere al suolo una villa veneta. Noi cercammo di contrapporre che le vite umane che la banda Carità pretendeva potevano ben valere anche una villa patrizia; ma le nostre argomentazioni non approdarono a nulla. Passarono alcuni giorni, forse qualche settimana, e una mattina, mentre stavamo appostati in un seminterrato, vedemmo passare proprio l’ingegner Prandina e Torquato Fraccon arrestati dai militi della SS e condotti verso il comando di via S. Marcello, ove un tempo aveva lo studio un noto avvocato vicentino. In questa sede i due prigionieri non si fermarono molto, in quanto dopo breve tempo furono condotti in via Fratelli Albanese ove aveva sede il distaccamento della banda Carità (Usai, Squilloni e Bacoccoli), e di qui, dopo una ventina di giorni, furono spediti a Mauthausen ove immolarono la loro vita per un’Italia libera e democratica.

Con questi arresti la filiale di Vicenza della banda Carità aveva inferto un duro colpo al movimento partigiano della zona, in quanto a mezzo di Prandina si poteva essere in continuo contatto con le forze alleate; tuttavia l’organizzazione, i comandi militari e il CLN provinciale potevano continuare egualmente la loro attività, sia pure usando maggiori precauzioni. Gli atti di sabotaggio continuavano, specie sui binari della linea Vicenza-Treviso, unico tronco che poteva in qualche modo arrivare in Austria; il Brennero era inutilizzabile come ferrovia e come strada. L’attività in montagna, seppur diminuita di molto, continuava a dar noie e a tener impegnato un certo numero di nazifascisti. A questo punto i comandanti della succursale di Vicenza della banda Carità, Usai, Bacoccoli e Squilloni, organizzarono un’azione in grande stile non priva di una certa astuzia. Fecero arrestare delle mezze figure o prelevarono dalle carceri di S. Biagio degli pseudo-partigiani finiti nelle mani della polizia per traffici illeciti (mercato nero) o per qualche sporadico contatto con i partigiani; promettendo loro la libertà riuscirono ad ottenere qualche notizia che non avevano ricavato da Prandina e da Fraccon. Se poi alcune notizie ottenute erano inventate, Usai e la sua banda non andavano molto a sottilizzare; il loro scopo era di arrestare. Questa operazione condusse all’arresto di parecchie persone, tra le quali i principali personaggi della Resistenza vicentina, sicché uno alla volta ci trovammo quasi tutti nella famigerata Villa Triste di via Fratelli Albanese. Di li riuscimmo a far uscire qualche messaggio per mettere in guardia gli esponenti ancora in libertà, soprattutto quelli della OC; ma essi rimasero al loro posto; in breve tempo ce li vedemmo comparire in stato d’arresto in via Fratelli Albanese o a Palazzo Giusti di Padova.

In un giorno del lontano 1944, all’imbrunire, quando le prime brume di un autunno precoce facevano cadere sulle vie deserte poche foglie morte che ancora indugiavano sugli stecchiti rami, stavo appollaiato quasi di fronte al comando delle SS, in una stanzetta semi interrata, per indagare su ogni piccola mossa dell’avversario.

Da una porticciola esterna un timido battito mi fece capire che doveva esserci qualche persona amica. Senza prendere le opportune precauzioni, sussurrai: «Spingi un po’ e vieni pure avanti ». Mi si presentò uno di quegli pseudo-partigiani prelevati dalla banda Carità nelle carceri di S. Biagio: era uno studente. Questo traditore piagnucoloso mi chiese soldi del CLN per poter aiutare la madre di «Lupo)} (un partigiano che io sapevo che si sarebbe fatto uccidere piuttosto che chiedere un aiuto), gravemente ammalata. Sapevo che «Lupo» in quel momento doveva essere sui binati della linea Vicenza-Treviso per un’azione di sabotaggio; compresi d’intuito il tradimento e gli risposi che non sapevo cosa fosse il CLN e tanto meno chi era « Lupo ». Mi rigirai per infilare la porta di sicurezza, che sboccava in un’altra strada, ma non ne ebbi il tempo, perché una masnada di SS e brigate nere entrò con i mitra puntati, strappò al traditore le 100 lire che teneva in mano e che confessò di aver ricevuto da me per aiutate la mamma di un partigiano che egli aveva conosciuto in carcere. Li per li mi preoccupai relativamente, giacché vedevo molte possibilità per difendermi dall’accusa; ciò che invece mi preoccupava era la sede cui ero destinato. Passammo per il ponte Pusterla e capii allora che la sede era il comando delle Brigate nere. Li giunto, mi imbattei in un compagno di scuola; il feroce manigoldo, battendomi sulla spalla, mi assicurò che non c’era nulla a mio riguardo e certamente doveva trattarsi di un errore. In questa sede rimasi un paio di giorni, sottoposto a continui interrogatori da parte del comandante delle Brigate nere e di Berenzi, l’allora direttore del giornale « Popolo vicentino ». Capii benissimo che questi interrogatori non potevano approdare a nulla, in quanto, nonostante i ceffoni e le scatolette di carne che mi giungevano in testa da tutte le parti, « confessai» solo notizie di capi partigiani che ben sapevo al sicuro o con il maquis in Val d’Aosta o sul Pasubio, zona che per i nazifascisti era tabu. Fu deciso allora di mandarmi in Questura; ma strada facendo incontrai nuovamente quel vecchio compagno di scuola che, ripetendo i complimenti di due giorni prima, mi consegnò alle SS della banda Carità. Prelevarono anche la mia fidanzata e la mia futura suocera, portando la prima in via Fratelli Albanese, mentre la seconda fu fatta attendere in un bar assicurandola che dopo breve tempo le avrebbero rimandato la figlia. La figlia ritornò a casa dopo oltre un mese e mezzo. Non fui interrogato subito, ma solo dopo due o tre giorni, quando la compagnia di prigionieri cominciava ad ingrossarsi. Il mio interrogatorio fu tenuto da Usai e Squilloni con l’accompagnamento di qualche ceffone. Interrogarono la mia fidanzata, che fortunatamente poco sapeva dei miei raggiri. Mi rinterrogarono a lungo minacciandomi di morte, di campo di concentramento, ecc. Dal canto mio cercavo di parlare molto, prevenendo ed anticipando le loro domande. Finché per ultimo non dissero: « Penserà il maggiore a farti dire la verità! » Mi cacciarono in una cantina, dove trovai un po’ di caldo, essendoci la caldaia del termo, e quattro amici: il ragionier Rizzati, l’avvocato Gallo, il grande invalido di Russia Renni Da Rio e l’autista Magrin, che più volte mi aveva trasportato armi e munizioni col suo camion. Quest’ultimo, di corporatura molto robusta (oltre due metri d’altezza e 130 kg di peso), non ricevette alcuna « pressione» e dopo una settimana fu rilasciato. Rimanemmo in questa cantina per qualche tempo, finché un bel mattino ci trasferirono in una villa accanto ave trovammo il grosso della compagnia; tra i molti, Faccio, i fratelli Campagnolo, « Cavallo» ed alcune staffette. Fu assegnata una stanza per noi quattro, e di tanto in tanto venivamo chiamati per interrogatori, confronti, chiarimenti di contraddizioni riscontrate durante gli interrogatori, ecc. Il più tormentato per questi confronti, ricordo, era l’avvocato Gallo, in quanto nella perquisizione fatta nella sua casa a Lonigo, per un puro e fortuito caso avevano trovato delle carte compromettenti nascoste in una poltrona. I giorni intanto passavano monotoni e si sentiva avvicinarsi il giorno del trasferimento a Padova. La rete di informazioni era ormai ben stabilita, per cui conoscemmo anche il giorno di partenza per Palazzo Giusti. Ovviamente si pensò subito a Renni Da Rin che, con il torace ed un braccio ingessati, non poteva correre il rischio di una nuova avventura. Si decise cosi di rompergli l’ingessatura per farlo ricoverare in ospedale. Venne il momento dell’operazione. Ci provammo tutti e tre, ma l’ingessatura era ben fatta; alla fine venne occasionalmente toccato un punto più debole degli altri e l’ingessatura in parte si ruppe e in parte s’incrinò: il braccio fratturato rimase penzoloni provocando, con le costole fratturate, dei dolori lancinanti. Chiamammo subito gli sgherri, raccontando loro di una caduta dal tavolo e questi, per non prendersi ulteriori responsabilità soprattutto verso la cittadinanza, portarono il Da Rin all’ospedale, naturalmente piantonandolo. Per noi fu un sollievo, soprattutto quando, dopo pochi giorni, ci fecero salire su alcune macchine e all’imbrunire ci condussero nel famoso Palazzo Giusti, graditi ospiti del radiotecnico Carità.

Arrivammo alla sera. Entrammo in un bell’androne, ci fecero scendere dalle macchine, e quindi salimmo un signorile scalone fino ad un’anticamera ove trovammo altri prigionieri. Nessuno parlava, nessuno riconosceva i compagni. Bisognava solo attendere in piedi non si sa cosa. Finalmente, saranno state forse le ventidue, vedemmo arrivare altri due prigionieri che portavano un pentolone, seguiti da un losco individuo che a sua volta portava a tracolla una catena cui erano appese molte chiavi. Ci distribuirono una razione piuttosto scarsa di pasta (i « tubi.). Verso le due di notte ci fu aperto uno studio che dava su questa anticamera, e ci fu concesso di entrare per passarvi la notte. Accovacciati l’uno vicino all’altro accanto a una stufetta elettrica, riuscimmo ad addormentarci alla meno peggio. Dopo quattro o cinque ore ci svegliarono e ci passarono tutti indistintamente nel salone. Qui rimanemmo per qualche settimana. Di questo periodo non voglio qui ricordare i momenti tragici e feroci degli interrogatori. Preferisco annotare qualche allegro episodio. In precedenza eravamo riusciti ad avvisare i due esponenti della DC, il professar Nicoletti e l’avvocato Rumor, che la banda Carità era sulle loro tracce. Senonché, una sera vedemmo arrivare sorridente, in pelliccia e con la borsa d’avvocato piena di ogni ben di dio (salami, pane abbrustolito, formaggio ed altre cibarie), l’avv. Rumor. Non si era ancora acclimatato, quando ci chiese se avevamo già desinato.

Con Giordano Campagnolo, seduto vicino a noi, gli rispondemmo di si, consigliandolo di fare uno spuntino con le sue provviste. Rinfrancato, apri la borsa nella penombra e poté rifocillarsi. Poi si addormentò, avvolto per bene nella calda pelliccia, avendo come cuscino la famosa borsa. Ma verso le due di notte venne il solito sgherro e portò Rumor all’interrogatorio. Naturalmente ci svegliammo anche noi (Campagnolo, Gallo ed io), ci guardammo in faccia, osservammo la porta che inghiottiva l’avvocato Rumor e senza tanti indugi ci buttammo sulla borsa della provvidenza: non rimasero briciole. Verso le cinque, quando Rumor uscì barcollando dallo studio di Carità con un occhio tumefatto e attivò al suo posto, noi apparentemente dormienti, si sdraiò come un morto rimettendo la borsa a far da cuscino. Vedemmo che per un po’ non riusciva a trovar pace, ma poi si addormentò. Quando finalmente si accorse che le provviste erano scomparse, si girò di scatto verso l’avvocato Gallo e disse imprecando che credeva di trovarsi solo tra prigionieri politici e non anche tra ladri. Gallo stette al giuoco allontanando da noi ogni sospetto. Rumor imprecò ancora un poco e poi cominciò a raccontare la sua avventura con Carita.

Passarono dei giorni e alcuni prigionieri, i più pericolosi, furono gentilmente buttati nella ( nave ) con il professor Meneghetti – e tra questi Gallo, Follieri, Giordano Campagnolo e me – nella più infame cella di tutto il palazzo, lunga quattro metri, larga due, divisa in due parti da una parete di legno dove c’era un microfono che registrava le nostre conversazioni. lo credo che la parola più decente registrata dal nastro fosse quella di Cambronne. Ovviamente, la cella divisa in due aveva murata la finestra che dava sul cortile. La respirazione quindi, col passare delle ore, si faceva sempre pili difficoltosa.

Gonelli, il famoso carceriere che avevamo visto la prima sera accompagnare i distributori del rancio, altro non era se non un volgare borseggiatore uscito dalle carceri toscane. Al posto del professar Geremia, per la distribuzione del rancio, un bel giorno scelse me e l’amico Giordano Campagnolo.

Quella fu una vera pacchia, perché ci fu possibile comunicare con tutti i prigionieri, sia con quelli rinchiusi nelle celle adiacenti alle stalle, come eravamo noi, sia con quelli rinchiusi nelle soffitte, i meno pericolosi, sia con quelli dell’infermeria, dove erano ricoverati spesso i prigionieri dopo l’interrogatorio. Il nostro sistema di distribuzione del rancio piacque a Gonelli e gli ispirò fiducia, tanto che un bel giorno ci diede l’incarico assieme a Boscardin di vuotare le cantine di Palazzo Giusti, dove il carbone era stato quasi sommerso da acqua di fogna. Ma anche questo lavoro fini e Gonelli escogitò altri modi per farci lavorare. Cominciò col farci scavare nel giardino una buca larga l x 1 m e profonda due metri. Ci chiedevamo cosa potesse servire e lo capimmo ben presto: Gonelli ci mostrò che le buche dove tutti i prigionieri facevano le proprie necessità fisiologiche erano colme e quindi bisognava vuotarle mettendo il contenuto nella buca scavata in giardino. Cominciammo cos( il nostro puzzolente lavoro che aveva l’unico vantaggio di lasciare più aria per respirare ai due prigionieri che rimanevano in cella. Un giorno, il freddo intenso impediva il diffondersi del fetore; gli amici delle soffitte i « meno pericolosi », vennero nel giardino a prendere aria, e protestarono perché a noi, a Campagnolo e a me, era concesso· lavorare all’aria aperta. Uno dei più accesi era l’avvocato Rumor. Il nostro guardiano pensò bene allora di invitare l’avvocato ad aiutarci; egli di corsa si staccò dal gruppo e corse verso di me, mi strappò quasi la secchia per far vedere la sua buona volontà. Ma, e fu un attimo, una frazione di secondo, guardò le mie braccia, la secchia, emise un suono imprecisato, e disse: «E no, osti! sta qua la xe merda!» E annusandosi le mani, rientrò nella schiera dei « meno pericolosi ». Questo lavoro, cioè calarsi in qualche modo nella fogna, riempire le secchie e vuotarle nella buca scavata in giardino, durava da qualche settimana; un bel giorno, essendo arrivati quasi all’orlo della buca, chiedemmo a Gonelli: «E come la chiudiamo? » Al che ci rispose in perfetto toscanaccio: ., E la terra perché l’avete scavata? Quella serve appunto per coprire tutto, imbecilli! – e dopo una pausa – … e avete anche studiato! ».

Ossequienti, tappammo con un po’ di terra, quella poca che poteva essere assorbita dal liquame, lo strato mancante. A questo punto speravo di avere la rivincita con Gonelli e gli chiesi con un sorriso mezzo idiota e mezzo burlesco: «E della terra rimasta cosa ne facciamo? )lo Mi aspettavo una risposta imbarazzante. Invece lui: «Povero cretino, si fa un’altra buca e si rimette dentro! » Questo giochetto durò fino alla fine di gennaio; poi finalmente si accorsero che la fogna era ripulita per bene e la terra era una grande massa. Perciò ci fecero costruire una specie di rifugio antiaereo e con questo utilizzammo tutta la terra.

A metà marzo fui chiamato da Carità nel suo studio. Pensavo di dover affrontare un interrogatorio, in quanto dal mio arrivo non ero ancora mai stato chiamato. Carità mi mise davanti quattro fogli di carta uso bollo dattiloscritti e mi ingiunse di firmare. Ovviamente presi i fogli in mano e cominciai a leggere. Credo di non aver finito la prima riga, che mi sentii arrivare un calcio nel sedere e finii con la testa sulla pancia di Carità. Il calcio era di Trentanove, un ragazzo che si faceva chiamare tenente. Questi mi impose di firmare, in quanto, se non lo avessi fatto, non ci sarebbe stata nessuna speranza di salvezza per me. Firmai senza discutere. Da quel giorno passai in una cella con Gallo, Follied, Cerchio e Faccio, e non mi fu più possibile uscire. Spero un giorno di poter raccontare con maggiori particolari, ricordando le ansie e il coraggio di tutti, per ricostruire quel grande periodo trascorso da veri partigiani, disposti a dare tutto, anche la vita, per un ideale di patria libera e democratica.

Enrico Parnigotto – Il sacrificio per una saggia Libertà

Il sacrificio per una saggia libertà di Enrico Parnigotto

Perseguitato in quel tempo per le mie idee antifasciste, ero allora pedinato dai nazifascisti. Dapprima non me ne ero accorto, ma in seguito me ne resi purtroppo conto. Ero alla macchia anche perché non avevo obbedito al reclutamento di lavoro dell’allora impresa Todt. Avevo abbandonato i miei impegni di lavoro con la scuola e saltuariamente andavo a trovare la mamma, spostandomi in bicicletta dalla zona di Bassano che era il mio nuovo rifugio. Una notte dei primi d’aprile del ’45 una squadra di militi suonò alla mia abitazione. Apri mia madre, dopo aver a lungo tergiversato con loro sul cancello, mentre io scappavo dalla parte del giardino retrostante. Sapevano che ero in casa, i dinieghi di mia madre minacciata con il mitra a nulla valsero. Alla fine ella mi chiamò e mio malgrado dovetti arrendermi. Mi malmenarono e perquisirono la casa, poi con il mitra puntato alla schiena mi condussero a Palazzo Giusti. Erano passati pochi giorni dall’uccisione del professar Todesco, mio carissimo amico e compagno di lotta; pensavo di star facendo la sua stessa fine. Giunto a Palazzo Giusti, attesi mezz’ora nel salone. L’arresto era stato effettuato da Lotto, Cecchi e altri tre di cui non conobbi il nome; erano tutti armati di mitra e pistole. Nella sala dov’ero in attesa sentii nel frattempo alcune grida che più tardi seppi essere di un povero giovane sottoposto alla tortura della macchinetta elettrica. L’interrogatorio, iniziato da Lotto, fu poi continuato da Squilloni, un pezzo d’uomo grande, villano e sempre ubriaco, dal tenente Tecca e altri. Lotto cominciò a picchiarmi quando mi senti negare le accuse fattemi; Squilloni continuò l’opera e alla fine intervenne anche Tecca: l’interrogatorio prosegui fino alle sei e mezzo del mattino e mi venne pure applicata la macchinetta. Due fili molto lunghi mi vennero avvolti attorno ai polsi, dopo alcuni secondi Lotto ordinò di aprire, ne segui un urlo lancinante. Ancora prima immaginavo che la scossa sarebbe stata tremenda e mi ero proposto di non gridare. Ma il dolore era talmente repentino e agiva in modo tale sui nervi da rendere impossibile il controllo e l’urlo sgorgava istintivo e feroce dagli angoli più profondi della nostra sensibilità, come per una liberazione dal tormento. Nel frattempo continuavano le domande insistenti ei pugni. Volevano sapere i nomi dei miei amici, la relazione che avevo con gli esponenti del Comitato di Liberazione e con noti antifascisti della città; volevano la confessione di aver picchiato uno squadrista l’8 settembre, di aver fatto disegni di propaganda e di aver svolto attività antifascista nella scuola. Dopo questo lungo e brutale interrogatorio, durante il quale non un’ammissione o un nome usci dalla mia bocca, mi buttarono nella cameretta del secondo piano con gli occhi tumefatti e ridotto uno straccio. Benevoli e affettuosi, i compagni della soffitta mi si fecero incontro cercando di alleviare il mio dolore; mi lavarono la faccia e mi diedero dei corroboranti. Ricordo come ora il buon don Luigi Panarotto, l’Avossa, il compagno Faccio, don Giovanni Apolloni e altri. U rimasi sino alla fine della guerra e ne uscimmo tutti nei giorni della Liberazione. Ricordi tristi, ma il sacrificio rimarrà per noi e per i nostri figli come espressione di speranza in una saggia libertà e in una maggiore comprensione tra le genti.

 

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Il lardo di Rumor – Giordano Campagnolo

Il lardo di Rumor di Giordano Campagnolo

. Gennaio 1945. Gli arresti e le deportazioni con il rigore invernale erano aumentati. I partigiani, specie coloro che svolgevano il pericoloso lavoro di città, erano esposti più di ogni altro a tale evenienza. Il 9 gennaio fece l’ingresso nel salone di Palazzo Giusti l’avvocato Giacomo Rumor, equipaggiato come noi non avevamo mai visto nessuno. Egli infatti, saggiamente, prevedendo il suo arresto, si era preparato scarponi, paltò pesante, sciarpa e un bel sacchetto di cibarie, tra cui un bel pezzo di lardo. Nel gran salone una trentina di affamati occhieggiarono il sacchetto, ma solo uno (una canaglia!) ebbe il coraggio o la sfrontatezza di avvicinarsi e trafugare il pezzo di lardo, che poi spartì con i colleghi vicentini. Nel frattempo Rumor veniva interrogato e regolarmente bastonato dagli sgherri di Carità. Rientrando nel salone pesto e dolorante, con gli occhi che gli uscivano dalle orbite, riuscì chiaro a tutti che la pestata era stata molto severa, e l’autore del furto ne fu profondamente scosso. Dopo un certo tempo, Rumor, per lenire un po’ il dolore, apri Il sacchetto e, scoperto il furto, se ne lamentò con Faccio e Gallo che stavano ancora pulendosi la bocca dal lardo mangiato. E Gallo, con quel suo inimitabile sorriso mefistofe1ico, forbendosi accuratamente le labbra e i baffetti alla Menjou, gli espresse la propria indignazione con le parole acconce che solo lui in quel momento sapeva adoperare: «Cosa vuole, avvocato, questi comunisti! ~ Inutile aggiungere che l’autore del furto, col tempo, si confessò tale all’avvocato Rumor, che appunto per questo diventò uno dei suoi più cari amici

 

Pietro Cini – Sante Caserio

Pietro Cini
Sante Caserio

Il sedici di agosto

sul far della mattina
il boia avea disposto
l’orrenda ghigliottina
mentre Caserio dormiva ancor
senza pensare* al triste orror.
Entran nella prigione
direttore e prefetto
con voce d’emozione
svegliano il giovinetto
disse svegliandosi**: "Che cosa c’è?"
"E’ giunta l’ora: alzati in piè."
Udita la notizia
ei si vestì all’istante
veduta la giustizia
cambiò tutto il sembiante.
Gli chieser prima di andare a morir
dite se avete qualcosa da dir. [1]
Così disse al prefetto:***
"Allor ch’io morto sia
prego questo biglietto
datelo a mamma mia.
Posso fidarmi che lei lo avrà
mi raccomando, per carità.
Altro non ho da dire
schiudetemi le porte
finito è il mio soffrire
via**** datemi la morte.
E tu, mia madre, dai fine al duol
e datti pace del tuo figliol."
Poi***** con precauzione
dal boia fu legato
e in piazza di Lione
fu dunque****** trasportato
e spinto a forza, il capo entrò
nella mannaia che lo troncò.
Spettacolo di gioia
la Francia manifesta*******
gridando "Viva il boia
che gli tagliò la testa"
gente tiranna e senza cuor
che sprezza e ride l’altrui dolor.

Chiara Ferrari – Quei briganti neri

Patria Indipendente
Cantavano i partigiani
Chiara Ferrari
Breve rassegna (e breve storia) di alcune famose canzoni della Resistenza,
dei loro testi e dei luoghi dove sono nate
Quei briganti neri (1944) è un canto partigiano molto popolare nell’Ossola, con alcuni elementi testuali tratti da L’interrogatorio di Caserio
Per ascoltare
La Canzone
https://youtu.be/jj63hYP0tW8
Briganti Neri
E quei briganti neri mi hanno arrestato,
/In una cella scura mi han portato.
/Mamma, non devi piangere per la mia triste sorte:
/Piuttosto di parlare vado alla morte.E quando mi han portato alla tortura,
/Legandomi le mani alla catena:/
Tirate pure forte le mani alla catena,
/Piuttosto che parlare torno in galera.E quando mi portarono al tribunale
/Dicendo se conosco il mio pugnale:
/Sì sì che lo conosco, ha il manico rotondo,
/Nel cuore dei fascisti lo cacciai a fondo.E quando l’esecuzione fu preparata,/
Fucile e mitraglie eran puntati,/
Non si sentiva i colpi, i colpi di mitraglia,/
Ma si sentiva un grido: Viva l’Italia!Non si sentiva i colpi della fucilazione,/
Ma si sentiva un grido: Rivoluzione!

Chiara Ferrari – I partigiani di Castellino

Patria Indipendente

Cantavano i partigiani
Chiara Ferrari
Breve rassegna (e breve storia) di alcune famose canzoni della Resistenza,
dei loro testi e dei luoghi dove sono nate

I partigiani di Castellino è una canzone cantata sull’aria dell’Inno degli studenti universitari fascisti. Si sa che le parole furono scritte nel 1944 durante una marcia di trasferimento da Castellino (Cuneo) a Marsaglia,
Per ascoltare
La Canzone
https://youtu.be/o8YtbUozm-g

Al comando di Granzino,
dalle Langhe noi veniam
partigiani di Castellino
che la patria difendiam.

Barbe lunghe e scarpe rotte
un fucile nella man
noi pugniamo sempre giorno e notte
e l’onor ti vendichiam.

Quando il cammin si fa più duro
noi resistiam e non ci arrestiam
quando il ciel si fa più scuro
allora noi cantiam!

Tra boschi e macchie nelle tane
come lupi noi viviam
aspra guerriglia
che da giorni e da mesi conduciam!

La nostra fede
sarà quella che sui vili vincerà
c’è una voce che dirà: «Viva i baldi, viva i veci
partigian di   Castellin!»

C’è una voce che dirà:
«Viva i baldi, viva i veci
partigian di Castellin!»