La III Brigata Garibaldi – Torello Sardi II° parte

La III Brigata Garibaldi

Torello Sardi

II° parte

La tragedia di Kravica

Kravica è uno degli episodi che, una volta vissuti, non si dimenticano più; costituisce una delle pagine più sconfortanti della nostra lotta in Jugoslavia; una lotta fra la vita e la morte, svoltasi nel silenzio di una vallata fra i muti discorsi di 180 uomini, che assaliti dall’epidemia del tifo petecchiale, tentavano, e non tutti riuscivano, di aggrapparsi alla vita con tutta la forza dei loro cuori; mentre la morte bruciava alle spalle, muta ed assillante.

Il nome della località rimane così legato alla nostra guerra e se non fu centro di lotta armata, pure gli attori di questo episodio furono dei combattenti ardimentosi, che diedero prova di abnegazione senza uguale e soffrirono, morirono e vinsero una bella battaglia nel cuore della Jugoslavia, nulla montuosa Bosnia.

Arrivammo a Kravica da Potaciari ove i pochi superstiti della Brigata avevano avuto l’ordine di sostare per un determinato periodo di tempo in attesa di riprendere le azioni. A Potaciari sì sviluppò palesemente il primo caso di tifo esantematico e l’ospedale di Srebreníca, a meno di 5 chilometri di distanza, ospitò i primi malati. Morirono i garibaldini Cavallucci e Polizzi, mentre l’uno dopo l’altro venivano colpiti Lombardini, Rubera, Giuffrida, Raìmondì, Ruffini ed altri. Ogni giorno i casi aumentavano spaventosamente e le compagnie stentavano a compiere i servizi prescritti a causa del numero degli uomini che si assottigliava con ritmo crescente. Le cure furono solo di buone parole; finché venne l’ordine del Comandante della XXVII Divisione partigiana, alla quale era stata assegnata la nostra Brigata, di spostare tutti, ammalati compresi, a Kravica, 20 chilometri a levante. Il trasferimento avvenne il 10 aprile. Il percorso fu compiuto penosamente sia per le precarie condizioni di salute di tutti gli uomini, sia per la viabilità, che s’era trasformata in carrarecce e mulattiere pantanose al massimo.

L’accenno alle condizioni di salute degli uomini ha il suo motivo di essere fatto per segnalare che il tifo già serpeggiava fra tutti. Gli ammalati furono trasportati con mezzi di fortuna, a cavallo o su carri trainati da buoi e la loro marcia fu un’odissea indescrivibile: a Kravica il reparto trovò in tutto un paio di case, distrutte dal passaggio della guerra e riaccomodate un po’ alla meglio.

Un edificio scolastico si trasformò in un ospedale, un’osteria si mutò in un convalescenziario ed un’altra casetta divenne sede del Comando, mentre per le cucine fu adottato quel che rimaneva di un modesto casolare. Gli uomini validi o quasi furono aggiunti al locale del convalescenziario ed in altre casette malamente riattate.

Giornate uniformi, viveri scarsi, lamenti disperati e febbri altissime, animi agitati dallo scorrere lento delle ore, dai deliri degli ammalati e dallo sconcertante andazzo che non prometteva nulla di buono. Il male scava sempre più nel profondo, si respirava male e si andava di male in peggio; l’atmosfera ne era la caratteristica più evidente e netta, grigia come quel cielo, penosa come quelle anime che si dibattevano nell’angoscia della malattia e dello scarso nutrimento.

A metà aprile si avvertì una fase benevola dell’epidemia tanto che il convalescenziario si riempì di uomini, ma di lì a poco il numero degli ammalati diminuì ed iniziava la tragedia di Kravica.

L’offensiva nemica era imminente e già premeva alle porte. Tutti gli uomini che la malattia aveva risparmiato e gli altri che ormai avevano superato la crisi e si reggevano appena sulle gambe, furono mobilitati nello spazio di una giornata ed il mattino del 27 aprile s’allontanarono tutti, comandante compreso, con vaghe parole di trasferimento in altra località e di viveri che sarebbero pervenuti nella stessa giornata.

Coloro che giacevano ammucchiati sulla paglia, gli ammalati, nudi di spirito e di vesti, furono così, in una sola parola, abbandonati a se stessi, senza medici, senza medicine, senza viveri, senza conforti e senza speranza. Situazione da tragedia che si palesava nervosamente minuto per minuto.

Abbandonati insieme agli altri eravamo cinque ufficiali: Greco, Di Salvo, Ruffini, Sberna ed io. Cominciò lo strazio della fame a cui si aggiunse la disperazione del freddo. Visi emaciati e sconvolti, gli uomini rivelavano l’angoscia nella quale si trovavano, quella strana sensazione di ineluttabilità che pervade l’anima quando, costretta a ripiegare su se stessa, non intravede che il buio e l’incertezza delle ore.

Immobilizzati sui giacigli, gli ufficiali in preda al delirio febbrile, nella maggior parte della giornata scoprivano nelle ore di lucidità mentale la realtà delle cose e s’affannavano nella ricerca di una via di uscita.

Oltre un centinaio di uomini languivano a Kravica contendendosi alla febbre della malattia, agli spasimi della fame e agli artigli della morte.

Il S.Ten. Libero Greco, che fu uno dei protagonisti della vicenda, così scrisse: "Dal momento in cui i validi si allontanarono, sorse il problema più angoscioso per coloro che erano rimasti abbandonati: o rassegnarsi alla fine oppure superare se stessi in volontà ed energia".

I primi giorni trascorsero con la speranza nei cuori; ogni rumore che dall’esterno perveniva nel cosiddetto ospedale metteva gli animi in sobbalzo, riapriva una porta che sembrava ermeticamente chiusa, dando modo di fantasticare ancora; , ma non avveniva nulla di concreto. Gli uomini che si reggevano a mala pena girellavano per i campi che circondavano quegli squallidi edifici alla ricerca di ortiche, di radicchi e di tutto ciò che poteva tradursi in modesta alimentazione. Coloro che non potevano andare in giro, vagavano con gli occhi per le pareti delle stanze o si soffermavano su coloro che rientravano in atto di chiedere qualcosa di impossibile; il male opprimeva e soffocava. La gente di passaggio si soffermava, osservava, andava via avvilita, non commossa. Ogni giorno nuove vittime; ogni giorno nuovi affanni tra gli spasimi della fame e le manifestazioni del delirio febbrile che rappresentavano la tragedia e la farsa della situazione.

Si ricorse in quei giorni di abbandono ai tentativi più strani e disperati. Il Ten. Sardi che aveva intuito per primo, con una lucidità snervante, tutta la grave precarietà della nostra situazione, mi andava ragionando (eravamo a fianco l’uno dell’altro, sugli infetti giacigli) di migliaia di lire di cui disponeva, di poche kune che potevano bastare per poter acquistare della carne, del latte, della farina per quei poveri ragazzi che languivano stentando. Riaffiorarono le speranze, si costruirono castelli di carta, ma poi riprendeva il male nei suoi aspetti più duri e la delusione chiudeva il quadro, mentre le giornate si susseguivano con pieno martirio. Qualcuno fu mandato di pattuglia nel centro più vicino con una petizione al Comando locale, firmata a stento dal Ten. Sardi, che delirava più di tutti noi, ma ritornò sconsolato: nulla!

Altri giorni passarono lentamente nell’angoscia più profonda: furono giorni in cui ~L guardarsi ognuno negli occhi dell’altro, sembrava leggere una sentenza irreparabile, definitiva e tristissima. I poveri ragazzi che ci morivano a distanza di una parete soffocavano le Speranze e scoravano nel più profondo: ad uno ad uno veniva sotterrati a fianco dell’ingresso e le buche dicevano ai viandanti il nostro martirio inconsolato ed inconsolabile. Molti sono rimasti per giorni e giorni senza un goccio d’acqua nell’impossibilità di muoversi, date le gravi condizioni in cui versavano, tanto che le loro bocche erano completamente ricoperte di larghi strati di croste. Tutti i tentativi del Ten. Sardi per superare la situazione con l’acquisto dì viveri riuscirono infruttuosi; ma il girovagare di nostri uomini per i villaggi vicini impietosì un capo villaggio che una mattina all’alba ci informò di una elargizione per noi di granturco. Fu una manna! I Sergg. Bedeschi e Cassavi si offrirono per effettuare il trasporto e fra l’impazienza degli uomini che nell’attesa sembravano aver ripreso ossigeno, tornarono con oltre 60 chilogrammi di granturco.

Ma quello che avvenne nel pomeriggio delineò un altro aspetto della situazione che era sfuggito od era passato in secondo ordine: la presenza del nemico che aveva preso in mano la situazione ed ormai dominava attorno a noi per un raggio di un centinaio di chilometri. Piombarono come falchi in quel pomeriggio e portarono via tutti gli uomini che trovarono distesi al sole dinanzi all’ingresso dell’ospedale e lasciarono pochi fra noi che non riuscivano a muovere un piede. Fu la ventata della realtà più amara dell’epidemia, più amara della fame che scrollò le nostre energie ridotte a ben poca cosa.

Sapemmo poi che quei poveri uomini, circa 60, vennero portati via dall’ospedale a colpi di bastone e a calci di moschetto; alcuni di questi rimasero uccisi per la strada, altri, giunti sul posto, morirono in seguito alle ferite ed ai maltrattamenti subiti. Un soldato al quale il tifo aveva paralizzato una gamba, dato che si trascinava a malapena, dopo essere stato duramente percosso, fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Quelli che rimasero furono oggetto di scherno e di tortura da parte di bande musulmane al soldo dei tedeschi, che, con la pistola alla mano, spogliavano tutti senza alcuna pietà.

Quanti dei pochi superstiti portano ancora i segni delle torture subite!

Uomini dai volti barbuti, malfermi che si reggevano a malapena appoggiati ad un bastone, erravano dai campi alle case dei villaggi vicini che spesso costavano ore ed ore di doloroso ed infruttuoso cammino, alla ricerca di erbe e di un tozzo di pane di granturco. Spesso tornavano a mani vuote e con gli -occhi imploravano quello che non potevi dare. Uomini armati del luogo entravano prepotentemente nel nostro povero rifugio, derubandoci di coperte, di vestiario, di qualche utensile ancora rimasto, di zaini e di quant’altro loro conveniva. Io ero rimasto con la sola camicia ed un paio di pantaloni; lo stesso il Ten. Di Salvo ed altri, si che, oltre la fame bisognava lottare col freddo. Vane, e come potevano essere diversamente le nostre proteste, vano quello spettacolo di indigenza che pur si palesava chiaramente a tutti coloro che capitavano in quella specie dì ospedale senza medici e medicine, vano tutto.

Ricordo che un garibaldino, tutto rattrappito per il freddo, derivante dalla febbre per il tifo, veniva a forza spogliato e rigettato poi sul giaciglio; ma dopo poche ore spirava. Il S.Ten. Sberna, colpito pure lui dal tifo, era vicino a me (anch’io ridotto in condizioni pietosissime in quanto facevo tutto ciò di cui sentivo il bisogno sul quel poco di paglia che mi serviva da giaciglio).

Egli domandava con urla strazianti del cibo, ma invano. Non c’era nulla e non si poteva avere nulla. Durante la notte mangiò parte di quella paglia fetente ed infine giunse alle proprie mani. Con la bava alla bocca spirava fra gli spasimi più atroci.

In questa lotta continua e snervante trovarono la fine del loro martirio, spegnendosi fra lo strazio e lo scoramento di tutti, il Cap. Corsivi, ìl S.Ten. Sberna, il Serg. Medoni, il Serg. Bruni, il Cap. Magg. Falvo, i garibaldini Ruggeri e Sciandrone ed altri 30 già dell’84° Ftr., che da aprile a maggio esalarono l’ultimo respiro per l’aggravarsi del male, l’assoluta mancanza di nutrimento e di assistenza medica. Gli altri si salvarono, ma a quale prezzo e dopo quanti patimenti! Soltanto la Divina Provvidenza può annoverare tanto miracolo a suo ennesimo titolo di bene, perché soltanto Essa volle salvare tutti noi, scendendo benefica sulle nostre teste.

Prigionieri

Il 24 maggio una pattuglia tedesca, benchè non ci si reggesse in piedi e fossimo ridotti ad un ammasso di ossa, ci portò via a forza.

Caduti prigionieri, cominciò un altro genere di guerra, con la minaccia continua di fucilazione perché «banditi badogliani», perché traditori, perché «franchi tiratori». Gli interrogatori si susseguivano ininterrottamente per avere notizie del nostro Generale, che tanto temevano e sul quale, si seppe più tardi, avevano messo forti taglie. Cacciati nelle più squallide carceri a calci ed a bastonate. Ricordo ancora con orrore la scena triste di quando entrammo (eravamo venti uomini) nella città di Bielina (Croazia), accompagnati da un plotone di SS. Mentre ci additavano alla popolazione, che era accorsa al nostro passaggio, essi ci oltraggiavano e schernivano con lancio di sassi e colpi di moschetto; in mezzo a queste torture ed umiliazioni si udiva il grido incessante della folla: "A morte i banditi di Badoglio!"

Giunti al momento dell’ingresso nella sede del Comando tedesco fummo duramente percossi alla testa, alle spalle e in viso con un nerbo che teneva sempre il caporale delle carceri. Il S.Ten. Greco, a causa di questi colpi, più tardi, ebbe la perdita di alcuni denti. Questo fu il trattamento usato ad uomini che non si reggevano in piedi, perché ancora ammalati di tifo, deboli, affamati.

Nessuna distinzione fu posta fra ufficiali e soldati. Rinchiusi nella stessa cella: ad un fischio si doveva uscire tutti di corsa ed inquadrarsi. Anche quando tutto era nel più perfetto ordine, era necessaria, per non perdere forse l’abitudine, una ripassata di nerbate. Ricordo di uno che non teneva le dita unite nella posizione di attenti, fu percosso tanto malamente che cadde svenuto a terra. Ad un cenno del caporale tedesco, dovevamo gettarci tutti a terra e carponi dovevamo rientrare nella cella; gli ultimi, naturalmente, erano accompagnati a suon di nerbate.

Un giorno si fu chiamati fuori e passati in rivista da un soldato delle SS. Mise da una parte due nostri uomini: uno di questi era un alpino al quale il tifo aveva paralizzato la gamba sinistra, l’altro un fante la cui malattia era molto grave. Nel ‘pomeriggio furono chiamati con la scusa di essere inviati all’ospedale; giunti fuori li fecero salire su un camion, ove già si trovavano sei partigiani slavi e tutti furono fucilati. Questo fatto mi fu riferito dal soldato Susini, addetto alla cucina tedesca, che aveva visto al ritorno del camion i vestiti impregnati di sangue dei nostri compagni.

Il 10 giugno fummo condotti a Belgrado ed il 24 dello stesso mesi ci trasferirono in Germania al campo denominato «III C», situato a Kustrin nella regione di Berlino. Ivi fummo messi insieme ad altri prigionieri di guerra e fra questi trovammo alcuni ufficiali della «Garibaldi», fatti prigionieri nei mesi precedenti. Questo gruppo di ufficiali fu sempre, a differenza di tutti gli altri italiani, tenuto separato e sorvegliato da apposite sentinelle, perché non avesse alcun contatto con gli altri. Facilitazioni che erano concesse agli italiani, per noi non valevano. Il trattamento era duro; il vitto era indegno. Il nostro menù giornaliero, senza eccezione di sorta, era il seguente: acqua calda con rape e poche patate, 200 grammi di pane, 20 grammi di margarina e un po’ di tiglio al mattino ed alla sera. Una volta alla settimana ci venivano passati 50 grammi di marmellata o formaggio. Quando ci lamentavamo del trattamento, ci rispondevano sempre con la stessa frase: "Ringraziate che non vi abbiamo fucilati’

Dal campo «X B» situato nelle vicinanze di Brema, fummo trasferiti al campo «IX C» presso Erfurt. Il 4 aprile 1945 avveniva, per l’approssimarsi delle armate alleate, l’ultimo trasferimento a piedi verso la Baviera, condotto in condizioni pietosissime, sottoposti ad insulti, minacce, maltrattamenti, privi di un’alimentazione degna di questo nome ad onta delle lunghissime marce che si compivano giornalmente. Il disegno dei tedeschi non riuscì perché il 16 aprile a Tischerdorf (Sassonia) le artiglierie americane li costrinsero a tagliare velocemente la corda.

Il nostro periodo di prigionia è stato maggiormente duro perché, a differenza di tutti gli altri ufficiali, noi fummo presi spogli e così rimanemmo. È doloroso dirlo, ma nessuno degli italiani ci venne incontro e pensare che molti ufficiali avevano seco cassette d’ordinanza piene di roba che vendevano per mangiare e fumare, piuttosto che venire in aiuto ai proprio fratelli che avevano combattuto e si erano tanto sacrificati per la patria. La gran parte di questi ufficiali, presi senza combattere, ricevevano pacchi, ma nessuno ebbe pietà di noi che, scheletri ambulanti, pallidi, sfiniti, affamati, dovevamo vivere solo con quel po’ di rancio-acqua che ci veniva passato una volta al giorno. Li abbiamo veduti e giudicati; questi erano nostri fratelli e colleghi! Questo terribile quadro di egoismo, il più spinto, non lo potremo mai dimenticare!

Riconoscimento nemico

Un giorno fecero l’appello di noi della «Garibaldi» per essere cambiati di campo ed un ufficiale tedesco, dopo aver controllato tutte le matricole, ci disse queste parole: «Voi soli a differenza della gran massa di ufficiali, siete degni della vostra patria! Noi vi ammiriamo». Questa fu la più grande gioia che provammo in prigionia.

I superstiti

I superstiti del tifo e dell’offensiva dei barbari alemanni, continuarono indomiti la lotta. Uniti ai partigiani di Tito poterono formare un reparto di assaltatori che fece tanto parlare di sé, raccogliendo ovunque elogi. È da ricordare l’eroica morte del Serg. Magg. Ciarchi, rimasto comandante della compagnia AA, che dopo essersi superbamente distinto in tutti i combattimenti per sprezzo del pericolo, all’assalto di una importante posizione avversaria, cadeva indicando ai propri garibaldini l’obiettivo da raggiungere con voce calma e serena. Il supremo sforzo volgeva alla fine.

Con Belgrado era riconquistata la libertà. Proprio la capitale della Jugoslavia doveva vedere per primi gli italiani lottare nelle case e per le strade contro i residui dell’ormai vinto esercito di Hitler.

I morti furono vendicati; i prigionieri, tradotti in Germania col nomignolo di «banditi di Badoglio», ebbero la consolazione di vedere coronato il sovrumano sforzo compiuto, pieno di sacrifici e di sofferenze inaudite. `

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