Archivio mensile:dicembre 2016

Auguri

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“Filastrocca di Capodanno:

fammi gli auguri per tutto l’anno

voglio un gennaio col sole d’aprile;

un luglio fresco, un marzo gentile;

voglio un giorno senza sera;

voglio un mare senza bufera;

voglio un pane sempre fresco;

sul cipresso il fior del pesco;

che siano amici il gatto e il cane;

che diano latte le fontane.

Se voglio troppo, non darmi niente,

dammi una faccia allegra solamente.”

Gianni Rodari

I 7 Fratelli Cervi – 28 dicembre tanti anni dopo

28 dicembre, tanti anni dopo

Paola Varesi

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28 dicembre 1943. Con Quarto Camurri, i sette fratelli Cervi, Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore, figli di Alcide Cervi e di Genoeffa Cocconi, arrestati per il loro impegno antifascista, furono fucilati dai fascisti nel poligono di tiro di Reggio Emilia. Dal loro sacrificio, che rimane uno dei simboli della Resistenza italiana, e dal dolore indicibile della madre e del padre è nata una pagina di storia e di incancellabile memoria, che si incarna oggi nell’Istituto Alcide Cervi di Gattatico (Reggio Emilia).

Sono trascorsi 73 anni.

La loro fucilazione per mano dei fascisti fu il primo grave atto contro i civili del territorio messo in atto dalla appena costituita GNR (Guardia Nazionale Repubblicana). Un attentato che voleva essere intimidatorio e che al contrario contribuirà ad aggregare la Resistenza intorno alla vicenda della famiglia Cervi.

I Cervi rappresentano di fatto una avanguardia contadina attiva nel contrastare il regime fascista e il suo alleato attraverso l’impegno per un nuovo progetto di convivenza civile, dove sono fondamentali l’aspetto ideale e il dotarsi delle armi della cultura, prima ancora che di quelle proprie.

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Quarto Camurri

Insieme a loro viene fucilato anche Quarto Camurri, un disertore della GNR riparato nella loro casa dove entra a fare parte della banda Cervi; insieme ai sette fratelli viene portato in carcere a Reggio Emilia dopo la retata nella casa di Gattatico del 25 novembre 1943. I Cervi capiscono che bisogna guardare anche a chi, come Quarto Camurri, dopo l’8 settembre si è rifiutato di riprendere le armi fasciste.

“La data della fucilazione rappresenta una tappa fondamentale di quel calendario civile che ci consente di fissare gli eventi fondamentali del Novecento, e attraverso le date di quegli eventi, i conflitti, le speranze, le lotte che hanno accompagnato le conquista della democrazia e la costruzione di un senso comune di appartenenza, italiana ed europea. Si tratta di un aspetto di quell’ancoraggio al passato che è stato definito come fondamentale per la costruzione di un senso di condivisione, di cittadinanza e di appartenenza” (De Luna).

La fucilazione dei Cervi ha successivamente contribuito ad alimentare il processo di costruzione del mito, che trova terreno anche nelle commemorazioni annuali che si susseguono già dal dopoguerra, nel coinvolgimento costante agli eventi commemorativi delle istituzioni che avranno un ruolo fondamentale nella trasformazione della casa abitata dalla famiglia Cervi in Museo Nazionale e nella costituzione dell’Istituto Alcide Cervi all’inizio degli anni 70 del secolo scorso.

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I sette fratelli

La fucilazione è anche rappresentata in molta pittura della metà degli anni 50, quando l’arte – e quella figurativa in particolare – si incarica di rappresentare fatti, luoghi, donne e uomini della Resistenza contribuendo a fare così storia e memoria in anticipo sulla ricerca, e contribuendo a individuare nella Resistenza un elemento fondamentale per la costruzione della democrazia.

Quello che colpisce, al di là del dato storico, è l’enormità della tragedia della fucilazione di sette fratelli e di un loro compagno di lotta, che diventa memoria collettiva quasi indipendentemente dal lavoro di ‘codificazione’ portato avanti dalle Istituzioni, dall’Anpi, dal partito Comunista, poi dagli studiosi.

Questi due processi insieme ne determinano i forti contenuti simbolici che hanno caratterizzato nel tempo le commemorazioni delle date centrali della vicenda della famiglia Cervi: la fucilazione del 28 dicembre, prima ancora l’arresto del 25 novembre, la scomparsa della madre Genoeffa Cocconi il 14 novembre del 1944, a cui si aggiunge la data della morte di Alcide il 27 marzo del 1970.

La componente simbolica rimane forte anche oggi, e rappresenta un elemento fondante della celebrazione del 28 dicembre, che nel suo svolgersi secondo ‘tappe’ consolidate (gli omaggi ai Cimiteri di Guastalla – dove è sepolto Quarto Camurri – e di Campegine; gli interventi istituzionali al Poligono di Tiro, luogo della fucilazione; e poi la conclusione  al Museo con l’intervento della personalità istituzionale invitata), con il coinvolgimento dei vari livelli delle istituzioni e delle associazioni partigiane, ripropone anche quegli aspetti rituali che sono parte della nascita e del consolidarsi del mito (di ogni mito) dei sette Fratelli Cervi.

Semmai, aspetti di novità, per così dire, attengono alla modalità del coinvolgimento popolare, che punta anche sulla componente emozionale: negli ultimi anni viene organizzata una fiaccolata la sera del 27 dicembre dalla sede del Comune di Campegine al Cimitero, mentre un altro corteo si forma davanti al Muro della fucilazione, con la deposizione di otto rose.

Parallelamente, il lavoro in corso, a cura dell’Anpi provinciale e del Liceo Canossa di Reggio Emilia, di valorizzazione del Muro del Poligono di Tiro entro un ‘percorso della storie e della memoria’ fruibile sempre, e non solo nell’occasione della commemorazione come succede ora, suggerisce che bisogna studiare altri modi di trasmissione, dove il lavoro sui ‘luoghi’ (fruizione, valorizzazione, cura, collegamento) diventa un aspetto centrale su cui riflettere con sempre più attenzione.

Paola Varesi, dell’Istituto Alcide Cervi, responsabile del Museo Cervi

Tratto da

Patria Indipendente

John Lennon – War is Over

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John Lennon

War is Over

E così è arrivato il Natale,
e tu cosa hai fatto?
Un altro anno se n’è andato
e uno nuovo è appena iniziato.

E così è Natale,
auguro a tutti di essere felici
alle persone vicine e a quelle care
ai vecchi ed ai giovani.

Buon Natale
e felice anno nuovo.
Speriamo sia un buon anno
senza timori né paure.

E così è Natale,
per i deboli ed i forti,
per i ricchi ed i poveri,
il mondo è così sbagliato.

E così è Natale,
per i neri ed i bianchi,
per i gialli ed i rossi,
smettiamola di combattere.

Buon Natale
e felice anno nuovo.
Speriamo sia un buon anno
senza timori né paure.

E così è Natale,
con tutto quello che è successo.
Un altro anno se n’è andato
e uno nuovo è appena iniziato.

E così è Natale,
auguro a tutti di essere felici
alle persone vicine e a quelle care
ai vecchi ed ai giovani.

Buon Natale
e felice anno nuovo.
Speriamo sia un buon anno
senza timori né paure.

La guerra è finita
Se tu lo vuoi
La guerra è finita
La guerra è finita, adesso.

Eva Picková – La paura

Eva Picková
La paura

Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,
un male crudele che ne scaccia ogni altro.
La morte, demone folle, brandisce una gelida falce
che decapita intorno le sue vittime.
I cuori dei padri battono oggi di paura
e le madri nascondono il viso nel grembo.
La vipera del tifo strangola i bambini
e preleva le sue decime dal branco.
Oggi il mio sangue pulsa ancora,
ma i miei compagni mi muoiono accanto.
Piuttosto di vederli morire
vorrei io stesso trovare la morte.
Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!
Non vogliamo vuoti nelle nostre file.
Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.
Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!

Joyce Salvadori Lussu – Il primo sole

Joyce Salvadori Lussu
Il primo sole

Questo primo sole, tra i rami esili
dei faggi spogli,
ha già un tepore di primavera, un odore
vivo, di foglie cadute che diventan terriccio,
di radici avide, di germogli.
Figlio, come diversa, per me, questa da tutte le altre primavere.
Mai avevo saputo il profumo del primo raggio fecondo.
Il mondo, per me, era la nostra casa
e l’odore del focolare e del bucato
e del lardo appeso sotto la cappa del camino
e del fiore reciso che langue nell’acqua torbida
e del lumino
davanti al Sacro Cuore di Gesù.
E tu, figlio, coi tuoi capelli odorosi di vita,
serravi le finestre
perché il profumo angusto e dolce del focolare non si sperdesse.
E quando quella sera vennero a prenderti, rimasi smarrita
per lo stupore: “Che cosa ha fatto?”.
E tu esitavi, e mi guardavi, distratto
dal mio dolore.
“Non è nulla, mamma. È un errore.
Torno subito”.
Allora, perché indugiavi, il tedesco ti percosse. Ed io piansi.
“Ma ha sedici anni, signore!
Che può aver fatto?”
Oh quante cose avevi fatto, figlio,
oltre le finestre chiuse!
È tiepido, questo sole. Asciuga le foglie di faggio, che crepitano
sotto il passo guardingo dei compagni:
le armi sono cariche.
Scenderanno tra poco.
E quando più tardi (io attizzavo il fuoco
e cuocevo la “uppa per te, figlio; non era possibile
che tu non tornassi, subito)
quando più tardi vennero a dirmi: è Tuo figlio è tra i morti
sulla piazza, in paese”, io non capivo ancora.
E aggiunsi legna nel focolare
come se tu dovessi tornare,
figlio. E misi il mantello e i guanti di lana
e presi la borsa, per scendere nel paese;
e mi avviai fuori dell’uscio, nella tramontana
fredda, col mio stupore senza fine.
Quando appoggiai il tuo capo pesante sul mio braccio
i tuoi capelli sapevano di sangue e di terra.
Come queste foglie morte di faggio
molli ai germogli nuovi di primavera.

Note
Questa struggente lirica di Joyce Salvadori Lussu, partigiana e poetessa italiana, medaglia d’argento al valor militare, capitano nelle brigate Giustizia e Libertà, è stata scelta da Primo de Lazzari per introdurre il suo volume
Ragazzi della Resistenza
, Teti Editore – Milano, 2008

Cini – I Garibaldini a Buranello

Cini
I Garibaldini a Buranello

Garibaldini con tempra d’acciaio
si legge nel viso il nostro ideal
la Stella Rossa portiamo sul cuore
e ad essa unita c’è il tricolor.
*
Siam sempre pronti
scender dai monti
pur di cacciare l’invasore
di far perire tutti i fascisti
e dell’Italia salvar l’onor.
*
La Buranello è la nostra Brigata
e questo nome non negherà,
noi ricordiamo l’eroe ch’è caduto
e le sue tracce si seguiran.
*
Siamo ribelli a tutte le leggi
con cui il fascismo oppressi ci tien
invano nell’ombra esso ci tenta
ma noi ribelli sempre sarem.
*
Repubblicani, fascisti e tedeschi
la vostra sorte non cambierà
invano più tardi vi pentirete
però più nulla vi salverà.
*
O Italiani insorgete ch’è l’ora
i vostri diritti a vendicar
la schiavitù che ci ha oppresso sin’ora
noi tutti uniti, farem cessar.
*
Garibaldini, seguite l’esempio
che Buranello già v’additò
inesorabili contro il nemico
e verso i compagni nessun rancor.
*
L’alba radiosa d’Italia si leva
ed un bel sole risplenderà
nelle officine e sui campi dorati
Bandiera Rossa sventolerà.
(Sul motivo della canzone Armata Rossa). Cino

Anonimo – Domani sarà triste

 

.
Anonimo
Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi sarò contento,
a che serve essere tristi, a che serve.
Perché soffia un vento cattivo.
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani.
Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento,
e ad ogni amaro giorno dirò,
da domani, sarà triste,
Oggi no.

 

Poesia di un ragazzo trovata in un Ghetto nel 1941

 

Ivano Artioli – « LA BUCA

Ivano Artioli  -  « LA BUCA

Renzo Orvieto:

Ho dei disertori, li metto da voi?… Gli inglesi sono già a Ravenna e allora si tratta di poco, cosa dite?», ci aveva chiesto Eugenio che era arrivato di notte in bicicletta dal Casso del Reno, ed era un partigiano comunista. Diceva che veniva da noi perché eravamo solo in due, dei fidati, e poi abitavamo lontano da tutti (località Passetto nel comune di (Alfonsine). «Va bene, se pensate che ce la facciamo», avevamo risposto e la mattina dopo eravamo andati tra i filari di viti, lontano da casa anche trecento metri. Avevamo scavato una buca che alla fine assomigliava a una fossa, e allora ci siamo chiesti se ci dovevamo mettere dei vivi o dei morti, così abbiamo ripreso la vanga e l’abbiamo fatta di due per due per due, come un basso comodo. Un lavoro per bene ma con la paura e la fretta, tanto che alla sera mio marito l’avevo messo a letto alle sei per la fatica e la sudata. «Quello è Felix e l’altro si chiama Uwe, il primo è un tedesco sul serio ma il secondo è un austriaco, un ingegnere e un bracciante insieme, pensate…», Eugenio ce li presentava mentre ci passavano davanti, io stavo attenta perché dei soldati da tanto vicino non li avevo visti mai. Diceva che Felix era un ragazzo ancora, uno di quelli cresciuto nelle scuole che fanno fare anche lo sport, uno di città, mentre che Uwe fosse di campagna si vedeva dal fatto che era rotondo e basso, non aveva meno di quarant’anni di sicuro. Dopo che si erano calati dentro, e dopo che si erano sistemati sui materassi, avevamo ricoperto con tavole di legno e terra mossa, non pestata, nessuno se ne doveva accorgere. Il primo giorno passò bene, ogni tanto guardavo e mettevo orecchio, ma niente.

La notte quando tornò Eugenio li aiutò a uscire e camminarono, mangiarono di asciutto, restarono là nell’umidità di novembre. Ma alla seconda notte gli favorii di entrare in casa a scaldarsi, si poteva far diversamente? E poi anche la notte dopo, e la notte dopo ancora. Io stavo lì, attizzavo il fuoco, davo una minestra. Addirittura a volte Eugenio non arrivava perché c’erano dei pericoli, e mio marito non ce la faceva a stare su, noi due eravamo vecchi oramai e lui ne risentiva più di me perché ha sempre lavorato pesante, così restavo io da sola Felix non parlava, ringraziava a ogni cosa: «Danke», «Danke». Uwe invece diceva che della terra come la nostra mai l’aveva vista, piatta, liscia e comoda, invece la sua era tutta ondulata e si faceva più fatica. Io restavo così così, non è che non ci credessi, se uno dice una cosa vorrà pur dire che è vero però… però io non sapevo cosa volesse dire fare i contadini in montagna, nelle giornate limpide dalle mie finestre di sopra si vedevano le colline da dove viene il Reno, ma non sapevo cosa significasse lavorarle; conoscevo invece cos’era raccogliere il granoturco in agosto e anche trebbiare, tagliare l’erba spagna con la falce no, quello l’ha sempre fatto mio marito. A essere sincera Uwe mi piaceva poco, pareva non avesse anima, era uno che se la sarebbe cavata sempre. Invece non riuscivo a staccare il pensiero da quel giovane che stava là sotto dalle sei del mattino alle otto di sera, sicuramente un poco dormiva e un poco no; poveretto. Sarà anche perché non ho avuto figli; li volevo, eh! Ma Nostro Signore ha deciso per me.

Buio e freddo, freddo e buio, e la terra che gli entrava nel naso e che m’impressionava. Noi, io e mio marito, avevamo messo delle assi tutt’intorno, ma contavano poco e quando quei poveri cristi uscivano più di tutto avevano il naso nero, proprio dove passava il respiro, e non era la barba, perché se la facevano e pure con l’acqua calda.

Cercavamo di aiutarli con dei calzettoni di lana, delle maglie, anche un fiaschetto di vino al giorno; si poteva forse vivere senza il sangue caldo sotto terra? Felix era ansioso: ogni volta che usciva le parole erano poche e sempre le stesse: gli alleati arrivano?

Eugenio una notte si fermò apposta per parlargli: «Preparatevi, gli inglesi non hanno fretta, preferiscono stare al caldo, forse in aprile, speriamo marzo, mi dispiace, però ho una proposta…», e gli offrì di andare con lui dai partigiani, era più sicuro e più comodo. Uwe disse subito di sì perché conveniva, ma Felix fu risoluto: No! E se fosse capitato un conflitto a fuoco? E se avesse dovuto sparare ad altri tedeschi? No! Una cosa così, no! Per me aveva ragione, non dissi nulla però la pensavo come lui. Così restarono tutti e due e gli passai l’imbottita matrimoniale.

La situazione peggiorò con l’anno nuovo. Il tre gennaio proprio tra i filari delle viti, non tanto lontano dalla buca, i tedeschi piazzarono una batteria antiaerea e presero a venire in casa a scaldarsi e a sedersi per mangiare un poco. Che facce! Gente disperata. Cattiva. Ci volevano male. E di notte arrivava anche Pippo (un aereo da ricognizione alleato) che buttava dei bengala che si vedeva fino a Madonna del Bosco. E delle volte qualche tedesco ci comandava di dormire in cucina perché il nostro letto se lo prendeva lui. Insomma, per Felix e Uwe la vita peggiorò di molto, li tiravamo fuori quando si poteva. Era pericoloso. Troppo pericoloso. In più quell’inverno se non fu come quello del Ventuno gli andò vicino. La campagna era bianca di una neve che si era incrostata e tutte le notti faceva il ghiaccio.

Felix cominciò a rifiutare il cibo: «Guarda che devi mangiare sai, mangia, è buono», gli dicevo. Pallido era pallido, ma non era la cosa che m’impressionava di più, tutti quelli di città sono pallidi, era che proprio si era lasciato andare.

Anche Uwe cercava di tenerlo su, gli faceva lunghi discorsi in tedesco sugli inglesi che in primavera sarebbero arrivati di sicuro, chiedeva che io confermassi persino.

Non ce la fece. Morì. Sì!

Felix morì. Da un giorno all’altro. Di notte. Nessuno pensava arrivasse a tanto. Io però il pericolo lo sentivo, noi donne certe cose le sentiamo. Era il quattro di febbraio.

La mattina aprimmo la buca e trovammo Uwe che sembrava impazzito: disse che se ne era accorto solo quando non l’aveva più sentito respirare. Neanche un colpo di tosse. Neanche una parola. Era diventato freddo, solo quello. Ah, non ci dovevamo nemmeno pensare, lui in quella buca mai più! Piuttosto si buttava nel Reno.

Fu un colpo. Per i figli il destino ha deciso per me, però mi sarebbe piaciuto un ragazzo gentile e anche un po’ timido, di quelli con gli occhi che si abbassano, che pensano, insomma uno come Felix.

Per Uwe fece Eugenio. Lo accompagnò subito ad Alfonsine e diventò Terzo Squarotti di anni trentotto, sordomuto, inserviente all’ospedale civile, tutto in regola con carta di identità e grembiule blu.

Quando gli inglesi arrivarono in aprile lui si diede prigioniero e si salvò.

Invece a Felix ci pensammo noi.

Mio marito corse un gran rischio: forse mi aveva capita o si era affezionato anche lui, o forse era solo per un fatto di cristiani. Dicevo, mio marito fece una specie di cassa e poi scavò un’altra buca, meno profonda e più stretta, lontana dalla postazione tedesca, sotto l’argine del Reno, quasi.

Per seppellirlo venne anche Eugenio. Tutto di nascosto e con il magone. È dal quel giorno lì che ho preso a considerare tantissimo quelli che seppelliscono i morti: che mestiere! Più dell’avvocato.

Lager Tedeschi – Neuengamme

Neuengamme

 

Costituzione: 19 dicembre 1938
Ubicazione: 30 km a sud-est di Amburgo

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Il Lager di Neuengamme, situato nella Germania settentrionale nei pressi della città di Amburgo, venne aperto con il 13 dicembre 1938 con l’arrivo di un trasporto di 100 deportati provenienti da Sachsenhausen di cui Neuengamme inizialmente fu un comando esterno.

Dopo l’occupazione della Polonia, Himmler voleva avere a disposizione un Lager capace di accogliere 40.000 polacchi e così nella vecchia fabbrica di mattoni cominciarono affluire trasporti di piccola entità, 200 – 250 persone, tutte destinate a produrre mattoni. La materia prima, l’argilla veniva estratta da una cava che si trovava già dentro il recinto del Lager.

Nel marzo del 1940, quello che inizialmente era essenzialmente un Lager dove si producevano mattoni e si costruivano i Blocchi in mattoni destinati ad ospitare nuovi e numerosi deportati, si trasformò in un Lager terrificante dove il terrore divenne di casa.

Prima di proseguire la storia di questo Lager occorre ricordare che la produzione di mattoni, come quella di pietrame vario che avveniva nelle cave Mauthausen, Flossenbürg, Natzweiler e Gross Rosen, tutte gestite dalla DESt , società delle SS, che acquistò la mattonaia di Neuengamme con i suoi 50 ettari di terreno, venne incrementata non appena Himmler ebbe sentore dei grandi progetti in discussione tra Speer e Hitler il quale voleva meravigliare il mondo con il rifacimento in termini colossali delle due città tedesche Norimberga e Berlino per poi espandere tale rifacimento ad altre città.

Himmler si propose così come fornitore di pietre e mattoni (non solo) con la DESt che avendo la possibilità di sfruttare il lavoro gratuito dei deportati, avrebbe anche contribuito a rimpinguare le casse delle SS.

Per Amburgo si prospettava dal progetto dell’architetto Gutschow la sistemazione della città e delle sue sponde sull’Elba in chiave moderna. Quindi, non solo il Lager era funzionale a questo progetto che prevedeva la produzione di milioni e milioni di pezzi di mattoni all’anno, ma serviva anche con il lavoro dei suoi deportati per la costruzione di un canale che dall’Elba consentisse di trasportare il materiale ad Amburgo che dista circa quaranta chilometri da Neuengamme.

Inizialmente i trasporti verso questo Lager contavano poche centinaia di persone e, se non erro, la custodia del Lager era affidata alla polizia. Successivamente, nel 1940, cominciarono ad affluire trasporti consistenti. Esempio: 3000 persone da Sachsenhausen, 500 da Buchenwald, ecc. Si trattava per lo più di polacchi e, con l’arrivo di questi deportati ebbero inizio i lavori per la costruzione della grande mattonaia (Klinkerwerke).

Ormai nel Lager il terrore era instaurato e radicato ed il Lager continuò senza sosta ad accogliere deportati che i trasporti dagli altri Lager e laGestapo di Amburgo e delle città vicine inviavano.

Alla fine del 1940 contava già 5.000 deportati (430 erano morti negli ultimi mesi); a fine 1941 i deportati erano saliti a quasi seimila, esclusi i 1000 prigionieri sovietici ed i 43 loro ufficiali arrivati in ottobre; a fine 1942 il numero era salito a 13.400( ed i morti furono quasi 4.000). A fine 1943 la forza del Lager arrivò a 25.700 deportati e a fine 1944 il Lager conta 48.800 deportati, di cui circa 10.000 donne ed i morti quell’anno superarono le 8.000 unità.

Alla fine di marzo del 1945 i numeri di matricola raggiunsero il numero 87.000 per gli uomini e 13.000 per le donne, ma i trasporti continuarono ad arrivare ed arrivarono pure i gruppi inviati dalla Gestapo di Amburgo per essere impiccati o fucilati dentro il Lager.

E’ stato stimato che nel Lager vennero portate durante la sua storia (1938-1945) anche 2.000 persone fra uomini e donne, per lo più membri della Resistenza attiva che furono impiccati, come i 71 membri del gruppo Baestlein- Absagen- Jacob, del quale facevano parte l’attrice Hanna Mertens e Magaret Zinke, ed anche il ramo amburghese della "Rosa Bianca" che furono impiccati dentro al Lager il 23 aprile ’45.

Il Lager di Neuengamme con i suoi 80 sottocampi divenne così il più grande Lager della Germania settentrionale: passarono dentro i suoi reticolati circa 104.000 deportati e si stima che fra i 45.000 ed i 55.000 non sopravissero.

Per tre mesi, fra il ’41 ed il ’42 tutto il Lager venne messo in quarantena perchè le impossibili condizioni igieniche avevano provocato un’epidemia di tifo petecchiale. Vennero bloccate le uscite e tutti i trasporti, da e per Neuengamme; pochissime SS partecipavano agli appelli. L’epidemia, oltre le centinaia di vittime tra i deportati, causò la morte di 477 soldati sovietici.

Sempre nei primi tempi, da Neuengamme venivano inviati continuamente deportati a Bernburg, uno dei sei centri dove si praticava l’eutanasia, per venire colà gasati.

Per chi si avvicina alla storia della deportazione ed è indotto a confrontare le situazioni dei vari Lager, Neuengamme presenta alcune particolarità che lo differenziano dagli altri Lager.

Ad esempio: si notano dei veri e propri scambi di deportati tra i vari Lager Auschwitz, Dachau, carceri della Gestapo, Stalag ed Offlag di militari russi. Neuengamme invia più volte deportati indeboliti, incapaci di lavorare (nicht mehr arbeitsfaehigen), ad esempio a Dachau scambiandoli con lo stesso numero di deportati sani ed abili al lavoro che Dachau invia, restituisce, a Neuengamme. Troviamo che fra i suoi campi "satelliti" vi sono anche Lager di 8- 2-20- 7- 15 persone solamente.

Ho voluto succintamente dare un’idea del Lager. Adesso parliamo degli italiani a Neuengamme.

Dalla tabella che classifica i deportati per nazionalità, gli italiani passati per questo Lager figurano essere 850. Mi sembra necessario dire che la tabella ci indica soltanto quelli che all’entrata nel Lager dichiarano di essere italiani e ricevono la I. Parecchi tra gli italiani dell’Istria, del Carso triestino, di Fiume, spesso partigiani nelle formazioni slovene o italo-slovene, dichiarano di essere di madrelingua slava e ricevono la J.

I primi italiani a Neuengamme, secondo i dati in possesso di un compagno francese che fa parte dell’AIN (Amicale Internationale Neuengamme), arrivarono con un trasporto proveniente da Vienna nell’ottobre 1943. Il trasporto inviato dalla Gestapo era formato da 400 deportati e comprendeva- oltre alcune decine di italiani- anche dei cecoslovacchi e degli Jugoslavi. I loro numeri di matricola erano inferiori al 25.000.

Nel luglio 1944 arrivò un altro trasporto da Vienna di 160 persone con parecchi italiani. Un altro trasporto ancora, comprendente deportati italiani, arrivò il 1° settembre 1944 da Belfort (Francia). Dei 900 deportati, 100 circa erano italiani e gli altri erano belgi e francesi. I loro numeri di matricola superavano il 42.000.

Dopo questi trasporti gli italiani arrivarono direttamente da Dachau con i trasporti del mese di ottobre e successivi.

Mentre i deportati dei primi trasporti (dei quali alla liberazione si conteranno alcuni sopravvissuti) sono decisamente dei politici che hanno partecipato alla Resistenza in Italia, in Francia e con i partigiani jugoslavi, gran parte di quelli arrivati da Dachau sono persone rastrellate dai tedeschi e dai loro alleati (brigate nere, cosacchi, spagnoli della Legione Azzura) nei paesi dell’alto Friuli e della Carnia. Dopo aver installato il terrore con fucilazioni (solo a Torlano vennero trucidate 33 persone di cui parecchi bambini), venne razziato tutto quello che era d’interesse degli invasori, poi i paesi vennero dati alle fiamme e decine e decine di persone vennero deportate.

Mi è stato fatto notare che a Neuengamme tra gli italiani mancava un gruppo politico il quale si proponesse di tenerli uniti, assisterli e confortarli. Erano isolati, ed accanto a ciò la polverizzazione di questi poveri deportati negli 80 Lager "satelliti" provocò la demoralizzazione e li rese facilmente preda della morte.

Un’altra considerazione voglio fare: esaminando i nominativi riportati nella Gazzetta ufficiale per l’indennizzo, ho notato una stretta similitudine tra i deportati di Laura e quelli di Neuengamme. Quelli di Laura dichiarano come campo di deportazione Buchenwald, molti di quelli di Neuengamme dichiarano solo Dachau. Queste dichiarazioni rendono difficile la costruzione di una storia della presenza italiana a Neuengamme, come del resto mi era stato difficilissimo ricostruire la storia degli italiani deportati a Laura.

Durante la visita che ebbi occasione di fare in rappresentanza dell’Aned per il Congresso dell’AIN (Amicale Internationale Neuengamme) visitai il Lager che è forse l’unico ad essere rimasto com’era alla fine della guerra, eccetto alcune demolizioni effettuate dal Senato della città di Amburgo che entro il perimetro del Lager nel 1948 costruì un correzionale per minorenni che col tempo divenne un penitenziario per adulti in funzione ancor oggi.

* * *

Mi sembra infine interessante accennare al congresso dell’AIN al quale ho partecipato in rappresentanza dell’Aned.

Il tema base del congresso era la preparazione del futuro congresso del 2000 che coinciderà con il 55° anniversario della liberazione dei Lager.

I due problemi più importanti che sono stati dibattuti riguardavano da una parte la necessità di riappropriazione di tutto il Lager da parte della Gedenkstaette (Memoriale) e l’altro come fare per poter finanziare l’arrivo, per il congresso del 2000, di gruppi di sopravvissuti o loro parenti dai paesi dell’Est. Occorre a questo proposito ricordare che dei 106.000 deportati di Neuengamme 35.000 era costituito da russi e 16.000 si contavano tra i polacchi.

Per quanto riguarda la riappropriazione dell’intero comprensorio del Lager il grosso problema è costituito dal penitenziario inserito sul territorio, al centro di quello che era il Lager dividendolo così in due metà separate, ci sono state delle promesse sia del Sindaco di Amburgo che della signora Marquardt, Ministro della Cultura, che hanno promesso lo spostamento del penitenziario in altra sede ed hanno evidenziato come siano già stati stanziati i fondi allo scopo (120 miliardi!) la cui delibera dovrà venire votata tra breve dagli appositi organi consiliari.

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Tratto da

ANED – Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti

Alberto Berti

I Lager Tedeschi – Ravensbrùck

Ravensbrück

Costituzione: 15 maggio 1939
Ubicazione: nelle vicinanze di Fürstenberg

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Già nel novembre 1938 una colonna di 500 uomini fu distaccata da Sachsenhausen, per erigere, nella piana di Macklenburg, circa 80 chilometri a nord di Berlino, un campo per ospitare i detenuti del disciolto campo di Lichtenburg. Doveva essere, nei primi tempi, un campo di «rieducazione» dei prigionieri politici tedeschi. Poi divenne un campo prevalentemente femminile.
Il primo contingente di 867 donne arriva a Ravensbrück già nel maggio 1939. Si tratta in gran parte di comuniste, socialdemocratiche e testimoni di Geova tedesche. Nel settembre dello stesso anno si aggiunge alla popolazione presente un trasporto di zingare con i rispettivi bambini. Poi altri trasporti di donne provengono dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Francia, dall’Italia: insomma da tutti i paesi invasi ed occupati dalle truppe hitleriane. In breve il campo ospita 2.500 deportate il cui numero è destinato ad aumentare a 7.500, fino a raggiungere, sul finire della guerra, la mostruosa cifra di 45.000 presenze. Nel complesso, tenuto conto dei decessi e dei trasferimenti, sembra accertato che a Ravensbrück furono immatricolate 125.000 donne delle quali circa 95.000 persero la vita. Circa 1.000 furono le italiane (di cui 919 identificate). A Ravensbrück nacquero 870 bambini, ma solo pochissimi ebbero la ventura di sopravvivere. Altri bambini, entrati nel Lager con le loro madri, non resistettero agli stenti, alla denutrizione, al clima.
Il personale di sorveglianza di Ravensbrück era formato da speciali reparti femminili delle SS che si sono prodigati per rendere impossibile la vita delle deportate. La ferocia di queste aguzzine ha superato ogni immaginazione e reso ancora più penosa ed insopportabile la già grama esistenza delle loro vittime.
La vita del campo era regolata dalle esigenze del lavoro nelle fabbriche contigue al campo o addirittura inserite nel suo recinto. Si trattava di industrie produttrici di materiale bellico o comunque di prodotti destinati all’esercito. La fatica, dovuta ai ritmi di lavoro inumani, la denutrizione e i rigori del clima, contribuirono in larga misura a stroncare la vita delle più anziane, delle più deboli, delle più debilitate. Per contro un movimento di solidarietà e di resistenza clandestino si sviluppò presto fra le deportate, e cercò di aiutare in tutti i modi possibili le più esposte. Da quel movimento clandestino partivano anche istruzioni per il sabotaggio della produzione, per le azioni necessarie per proteggere i bambini, per sottrarre alla violenza delle Kapo e delle ausiliarie SS le compagne prese di mira o comunque in pericolo. Questa solidarietà, che non conobbe distinzioni di nazionalità, di religione, militanza politica o condizione di origine sociale, fu la sola ancora di salvezza alla quale fu possibile attaccarsi, per non naufragare in quel mare di violenza e di terrore nel quale i nazisti hanno tentato di far affogare le proprie vittime.
Anche a Ravensbrück furono condotti su vasta scala – data la disponibilità di materiale umano – esperimenti pseudoscientifici d’ogni genere. Sterilizzazioni, aborti, infezioni e altre malvagità furono all’ordine del giorno. Di questa infame attività, esplicata con zelo e sadismo, esiste un’ampia documentazione, basata non solo su testimonianze agghiaccianti, ma su prove inconfutabili.
La 49.a unità della 2.a armata sovietica del fronte bielorusso ha liberato Ravensbrück il 30 aprile 1945. Il campo era stato in gran parte evacuato alcuni giorni prima. Rimasero ad attendere i liberatori circa 3.000 donne, alcuni bambini e pochi uomini ammalati, intrasportabili, tutti in condizioni pietose.

Per saperne di più sulla storia del Lager e per ottenere informazioni sul Memorial (orari di visita, percorsi di accesso ecc.) consultare il sito della Fondazione Ravensbrück (testi in Italiano, inglese, francese, tedesco e anche polacco).

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Tratto da

ANED – Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti