Francesco Leone

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I Compagni di Firenze

Memorie della Resistenza 1943 / 1944

Istituto Gramsci Toscano

1984

bandierarossa

Francesco Leone

Francesco Leone è nato a San Paolo in Brasile il 13 marzo 1899. Trasferitosi a Vercelli, fin dal 1916 militò nelle file dei giovani socialisti. Aderì al PCd’I al Congresso di Livorno del 1921. Fu Ardito del Popolo e nel 1922 partecipò alla difesa di Novara assalita dalle squadracce fasciste.

Salito il fascismo al potere, emigrò a Parigi. Tornò poi in Italia, a Milano, dove lavorò come operaio edile. Fu quindi inviato in URSS dal PCd’I dove per due anni frequentò l’Accademia militare di Leningrado. Nel 1926, tornato in Italia, fece parte dell’apparato clandestino del PCd’I.

Il 27 luglio 1927 fu arrestato, deferito al Tribunale Speciale e condannato a 7 anni e 6 mesi di reclusione. Liberato in seguito ad amnistia, nel 1933 emigrò in Brasile. Nel 1936 andò a Parigi. Partecipò alla guerra contro i franchisti e durante l’assalto alla Casa Rossa a Madrid, effettuata dal battaglione « Garibaldi », da lui comandato, venne gravemente ferito. Dopo il 25 luglio 1943 tornò in Italia e dal settembre fu tra i dirigenti della lotta partigiana in Toscana.

Dopo la Liberazione divenne segretario della Federazione Comunista di Vercelli. Membro dell’Assemblea Costituente fu senatore nel 1948 e deputato dal 1958 al 1961. È stato membro del CC del PCI e del Consiglio Nazionale dell’ANPI.

Sono nato il 13 marzo del 1899 in Brasile, dove i miei genitori, poveri braccianti del Vercellese, erano emigrati per sfamarsi. Mia madre è morta partorendo me e nel 1900, l’anno dopo, sono tornato in Italia con mio padre e mia sorella. Nel 1917 a Biella ho avuto il mio battesimo del carcere per aver diffuso il manifestino di Zimmerwald, quello famoso contro la guerra. Io, insieme ad altri sei o sette ragazzi, giovani socialisti come me, siamo stati arrestati una domenica, credo di luglio; e il martedì, senza nessuna delibera del sindacato ma solo per le voci che erano corse nelle fabbriche del Biellese sul nostro arresto, tutte le donne che lavoravano ai telai per confezionare il panno grigio-verde dei nostri soldati, hanno scioperato. Intervenne la Magistratura ma queste donne non volevano tornare a lavorare prima che fossimo liberati: venne raggiunto un compromesso e noi uscimmo di galera il giorno dopo che le operaie erano tornate a lavorare.

Per me quel 1917 è stato una data importante, che ricorda questo battesimo e che per me rappresenta un bel ricordo come combattente, come comunista, come democratico e se me lo permettete, come rivoluzionario.

Da allora in Italia, in Francia, in Spagna, in Unione Sovietica e addirittura in Brasile, si può dire che la mia vita è sempre stata al servizio del Partito comunista: ho combattuto, sono stato ferito, sono finito in carcere tante volte e altrettante sono stato liberato.

Ora, verso la fine del 1943, mi trovavo a Milano dove abitavo presso una famiglia. Insieme a Parri partecipavo alle riunioni per l’organizzazione delle Brigate Garibaldi e curavo la pubblicazione, l’uscita e la diffusione de Il Combattente, il nostro giornale di allora. Poi, per ordine del « sergente di ferro » Arturo Colombi, fui mandato a Firenze

era una specie di punizione perché agli Alleati che ci chiedevano che cosa volevamo — armi o collegamenti o altre cose particolari — io avevo risposto che dovevo prima Consultare il partito. E invece il partito ritenne un errore questo mio comportamento: così nel maggio del ’44 arrivai a Firenze.

Lì, appena arrivato, incontrai subito Saccenti e Gaiani e la prima azione cui ho partecipato è stata quella dei 40 milioni rubati alla stazione di Firenze. 40 pacchi con dentro un milione ciascuno che vennero depositati nella casa di un piccolo industriale comunista, di cui non ricordo più il nome.

Abitavo in casa di un compagno che faceva il tipografo e seguivo tutta l’attività del comando militare.

Proprio una quindicina di giorni prima dell’arrivo previsto degli Alleati, abbiamo organizzato insieme a Gaiani e mi pare senza Roasio, una formazione di circa 200 uomini: il commissario politico era Bezzi. Questa formazione aveva il compito di infiltrarsi in città e di combattere per la liberazione della città dietro le linee tedesche.

Così una notte di fine luglio siamo arrivati in quella che doveva essere una scuola, accanto a un gruppo di case diroccate, nella zona di via Masaccio e di via Capodimondo.

All’alba abbiamo sentito il passaggio, nella via prospiciente al grande portone di legno, di carri armati. Poi, passati quelli, io e Berto Bruschi, commissario politico, ci siamo domandati: « ma adesso qui cosa facciamo? Non abbiamo né acqua né un posto dove metterci. Andiamo a vedere un po’ in giro, a ispezionare ».

Ci siamo diretti verso la scuola e lì abbiamo trovato una breccia nel muro, dalla quale noi potevamo vedere il cortile con in mezzo un pozzo. Così abbiamo combinato, io e il commissario, di trasferirci tutti lì, con armi e bagagli: e così abbiamo fatto. Ci siamo spostati nel cortile e lì accanto c’era uno spazio molto grande, c’era anche della paglia e ci siamo sistemati alla meglio. Abbiamo usato in un primo tempo le provviste che avevamo e poi sono cominciati i soccorsi dei compagni.

Io mi ricordo bene che il primo che è venuto lì con un gruppo di compagni, Montelatici, aveva una spolverini bianca e un sacco di roba. Ci ha mantenuti lì, con il vino, l’acqua, addirittura dei quarti di maiale. Dopo di allora i contatti con i compagni che ogni tanto venivano, proseguirono regolarmente.

Un bel giorno, o meglio un brutto giorno che è diventato poi bello, vediamo che si apre un portone dall’altra parte rispetto a quella da dove eravamo entrati e penetra una donna — che poi ho anche incontrato di nuovo, molti anni più tardi, in circostanze migliori — e si trova di fronte nel cortile le nostre mitragliatrici pronte. Questa donna immediatamente alza la mano nel saluto fascista e dice: « ho capito tutto: sono un’amica del segretario del fascio, sono nn’amica del Prefetto, sono un’amica dei tedeschi. Ho capito tutto ». E chiude il portone. « C’è il comandante? » Chiede. Allora io con decisione: « Il comandante sono io! ». Tutti abbiamo capito la delicatezza della situazione. A nessuno è venuto in mente di dire qualcosa quando l’ha visto fiutare alla fascista. A nessuno. E quando hanno visto Che io mi sono avvicinato a lei, sono stati tutti zitti. Allora io le ho detto: « Camerata, se avete capito tutto, da questo momento la sorte vostra è la sorte nostra ». « Ho capito tutto. Però mi dovete lasciare andare perché a casa sanno dove sono venuta ».

In quel momento, quale era la riflessione che io ho fatto subito? « Se non ci fidiamo e insistiamo nel tenerla qui, a casa sanno dov’è andata, perché era venuta per prendere nn po’ d’insalata e sapevano che doveva tornare e forse sapevano anche dov’era. Allora il pericolo era che questi parenti avvertissero i fascisti e ci facessero scoprire. Parlandone poi con il compagno Milan di Torino che è stato un grande comandante partigiano, valoroso, abile, e anche capace scrittore di libri sulla Resistenza, lui era di un’altra -opinione. « Io avrei trattenuto quella lì, non l’avrei fatta tornare a casa… ».

Ma noi eravamo bloccati lì, e ci son voluti dei giorni e delle notti per capire come entrare attraverso le linee tedesche. Ci siamo abbandonati, così, un po’ alla provvidenza,fidando in quello che aveva detto lei.

Io le avevo detto che la sua sorte era legata alla nostra; un po di di timore glielo avevo messo addosso. Allora presi i documenti e salutai la camerata. È andata via e non è successo niente.

dopo tre o quattro giorni si aprì ancora il portone, ed era un uomo. Quello capì tutto, ma sul serio. E ci disse: « sentite, io sono entrato qua, cercavo un pezzo di cuoio, io ci ho la moglie che è incinta e sa che sono venuto qua. Io so chi siete, sono venuto qui perché sono impiegato qua, alla scuola, e ho la chiave. Cercavo un pezzo di cuoio per risuolare le scarpe ».

Io l’ho dovuto lasciare andare. Che cosa fare anche lì? L’abbiamo lasciato andare. Per fortuna in quel frattempo non è mai successo niente. Siccome avevo la mania del giornale — l’ho sempre avuta — io ho organizzato una specie di giornale murale: sarebbe bello che l’avessero conservato. Tutti i giorni usciva questo giornale murale, con gli articoli: lo tenevamo sempre aggiornato.

E una volta chi è venuto? Giuseppe Rossi, che allora era già noto come capo dei comunisti di Firenze. Ma io ho gridato il presentat’arm al capo del partito di Firenze. È stata una cosa commovente: lui con Montelatici e gli altri compagni era venuto a portarci la sua solidarietà. E io quel suo gesto non l’ho mai dimenticato.

Proprio la mattina della Liberazione, infine, appena prima che conoscessimo la notizia — perché è stato nella mattinata che siamo usciti — ci arriva dalla cinta del muro un pacchetto. Apriamo e c’era un biglietto. C’era scritto: « Sono un ragazzo, so chi siete. Se avete bisogno di aiuto, ditelo ». Poi siamo usciti anche noi. Ho dato disposizione di metterci in fila indiana, chi da un lato chi da un altro, perché la precauzione non è mai troppa. C’erano dei tiratori scelti, ma siamo arrivati fino alla sede del Comitato di Liberazione a Palazzo Davanzali. Lì ci hanno destinato una sede, non mi ricordo dove. Di tutti quei compagni, circa 200, solo uno ha fatto il lazzarone. Uno che se ne voleva andare perché era stufo, probabilmente era solo la fifa che lo faceva parlare. Noi l’abbiamo punito semplicemente così: l’abbiamo isolato, l’abbiamo messo in un campo e gli portavamo da mangiare e da bere.

Siamo stati lì un bel po’; poi io sono stato chiamato a Roma e sono andato a Roma portato da un ufficiale.

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